domenica 13 settembre 2020

Carrelli del Supermercato in Plastica Colorata. Malvagità allo Stato Puro o Tecnologia Avanzata?

 

Quando mi sono trovato davanti questo aggeggio, l'ultima volta che sono stato a fare la spesa al supermercato, la prima impressione è stata di trovarmi di fronte a una manifestazione di malvagità allo stato puro - Sauron l'oscuro davanti a me nella sua livrea colorata di arancione. 

Cosa ci sarà mai stato di male nei vecchi carrelli d'acciaio, mi sono detto? L'acciaio si ricicla bene, anche se viene disperso nell'ambiente non causa grossi danni, poi, comunque ha un certo valore di scarto per cui c'è una certa convenienza a recuperarlo da parte di quelli che lavorano con i rottami di ferro. Perché sostituirlo con la plastica, anche se più bella e colorata?

Certo, sicuro, la parola magica è "riciclare" -- la plastica si ricicla. Si, in teoria, ma mentre l'acciaio ha un certo valore di scarto, la plastica no. Il riciclo della plastica è un costo che qualcuno si deve accollare. Ora, sicuramente il supermercato che ha acquistato questi carrelli non credo che li voglia buttare nei cassonetti. Questa roba dovrebbe andare normalmente al circuito dei rifiuti speciali, dove può darsi che venga riciclata oppure che venga avviata agli inceneritori. In ogni caso, nessun processo di riciclo della plastica è efficiente al 100%. Qualcosa va sempre perso e mi posso immaginare certamente di trovare qualcuno di questi bei carrelli arancioni in qualche bosco dove nessun ferrivecchi andra mai a recuperarlo. 

Poi, cosa vuol dire riciclare? Vuol dire che dalla plastica dei vecchi carrelli si fa granulato di plastica dal quale si possono fare altri oggetti di plastica. Di solito, la plastica riciclata ha un colore grigiastro molto brutto ed è di cattiva qualità per tante ragioni. Per questo, la si usa per oggetti di scarso valore, tipo cassette della frutta o vasi da fiori. Bene. Ma di questi oggetti, poi, cosa se ne fa? Ben che vada, finiscono in un inceneritore a produrre gas serra. Più probabilmente, finiscono dispersi nell'ambiente e ce li ritroviamo nelle cose che mangiamo. 

Questo vuol dire che fare dei carrelli di plastica è davvero il lavoro di Sauron l'oscuro? Forse no, c'è una logica nei carrelli di plastica. Potete ritenerla perversa ma è una logica -- o perlomeno ci potrebbe essere. 

Uno dei punti critici dei supermercati attuali è il "collo di bottiglia" delle casse, dove i clienti devono perdere un sacco di tempo a tirar fuori gli oggetti dai carrelli per poi rimetterceli. Avrete notato che hanno provato un sacco di metodi per evitare di dover fare questo "giro di cassa" (letteralmente) e poter finalmente licenziare le cassiere: scanner individuali, scontrino fai-da-te, e altre cose. Ma nessuno ha mai veramente funzionato. 

Allora, ecco l'ideona: la trovate scritta qui: https://www.polycartgroup.com/old/it/rfid.htm - nel futuro, tutti i prodotti venduti al supermercato avranno etichette RFID (Radio-frequency identification). L'etichetta RFID è un trasmettitore passivo: sottoposto a un segnale radio, ritorna un segnale che si può decodificare con un numero che corrisponde alla merce etichettata. A differenza del "bar code" l'RFID non deve necessariamente essere visto dal raggio laser maneggiato dalla cassiera. Il problema è che i carrelli di acciaio danno interferenze con le schede RFID, ed ecco la ragione del carrello in plastica. E' in preparazione all'etichettatura RFID. 

Ora, però c'è un problemino: da quello che ho letto su questo argomento, anche con le schede RFID non è che puoi semplicemente buttare tutta la spesa dentro il carrello e passare dal sensore. Le varie schedine interferiscono fra di loro e quindi devi comunque mettere ogni prodotto separatamente su un nastro che passa dal sensore. Se è così, tanto valeva utilizzare il carrello di acciaio.

A questo punto, è difficile dire se il carrello arancione in plastica sia un'idea intelligente verso un miglioramento tecnologico, oppure un'idea di marketing da quattro soldi ispirata da Sauron, il signore dell'oscuro. Quello che è certo è che il progresso tecnologico non va necessariamente verso un miglioramento dell'ambiente. 

Un'altra cosa certa è che si prospettano tempi duri per chi fa la cassiera/il cassiere al supermercato. Ma così va la vita: chissà se i robot-cassiere saranno di plastica o di acciaio?

_________________________________________________

Nota aggiunta dopo la pubblicazione:
 
Non è che io voglio fare l'orco mangia-plastica. Ho telefonato alla Conad per sentire che politica di riciclo hanno con questi carrelli. La persona che mi ha risposto non ne aveva la minima idea. Le ho chiesto se c'è un ufficio relazioni con il pubblico, ma mi ha detto che non esiste. Le ho chiesto se potevo domandare a qualcuno, e mi ha detto "guardi sul nostro sito" -- le ho detto che avevo guardato, ma non avevo trovato niente. Al che mi ha detto, "provi a domandare al negozio dove ha visto quei carrelli" -- saluti e arrivederci. Beh, così vanno le cose.



lunedì 7 settembre 2020

Perché no all'estinzionismo


Nuovo mondo, dopo l'estinzione umana, di Cristina de Biasio

Uno dei “cancristi della prima ora”, il mio amico Antonio Zaffaroni, mi scrive: “Ciao Bruno, a corollario della tua eccezionale opera pongo l'estinzione della specie umana come unica e moralmente doverosa cura al cancro che ha quasi ucciso la biosfera. A questa conseguente e a mio avviso logica conclusione vi arrivai prima che ci conoscessimo. C'è un motivo particolare per il quale non tratti mai di estinzionismo? Con molta stima, Antonio
Non potendo riassumere la risposta a questo importante quesito in un breve messaggio di “whatsapp”, ho promesso ad Antonio che avrei dedicato alla questione uno specifico intervento, ed è ciò che mi accingo a fare.
Iniziamo col dire che non è proprio vero che non ho mai trattato l’argomento.
Nel mio ultimo libro, “L’impero del cancro del pianeta”, nella appendice dedicata ai precursori del Cancrismo, vi è un paragrafo intitolato “Natalismo e antinatalismo”, dove, in estrema sintesi, definisco l’antinatalismo un “atto contro natura”, come effettivamente è.
Nel primo libro (“Il cancro del pianeta”) vi è il capitolo “Le improponibili soluzioni al problema della sovrappopolazione” con una curiosa tabella in cui si mostra come in meno di mille anni ci si estinguerebbe se solo ogni coppia generasse un solo figlio.
In un caso e nell’altro definisco le soluzioni difficilmente praticabili e del tutto innaturali, implicanti cioè situazioni lesive delle condizioni di vita a cui saremmo stati destinati se fossimo rimasti cellule sane del pianeta.
La politica del figlio unico condurrebbe a una società di vecchi, decadente per definizione. Inoltre verrebbe realizzata non già per restituire alle altre specie ciò che è stato loro tolto, bensì per consentire all’essere umano di continuare a sfruttare le risorse scemanti.
Ma non è questo il punto che interessa ad Antonio. Egli è più drastico, parla di estinzionismo tout court. Sa bene che finché rimarrà anche un solo uomo con il suo cervello ipersviluppato sulla terra, costui cercherà di continuare a sfruttare le altre specie.
Come non ricordare a questo proposito i bei versi di Giorgio Caproni, che terminano così: “Come / potrebbe tornare a essere bella, / scomparso l’uomo, la terra.” (in “Versicoli quasi ecologici”).
Sulla stessa lunghezza d’onda si trova il “Movimento per l'estinzione umana volontaria” (in inglese VHEMT).
Il ragionamento sottinteso da tutti coloro che predicano l’estinzionismo (in verità assai pochi) si può riassumere nei seguenti punti:
·        sul pianeta Terra, per una serie di combinazioni del tutto fortuita, è nata la vita
·        pur nel continuo cambiamento, la natura ha sempre provveduto a mantenere l’equilibrio tra le varie specie viventi
·        a causa di un’alterazione, anch’essa fortuita, nel DNA di un determinato primate, è nato il mondo artificiale, che ha eroso spazi al mondo naturale in quantità via via crescente
·        l’unico modo per restituire al mondo naturale la sua integrità è eliminare la causa del mondo artificiale, e cioè l’uomo.
Non si può negare che il filo di questo ragionamento si dipani in modo inappuntabile.
Tuttavia c’è da tener conto di un particolare non del tutto trascurabile, e cioè che i soggetti della auspicata estinzione siamo noi, io, tu, i miei figli, i tuoi figli e così via!
Come pensare di trovare consenso intorno a una teoria che auspica l’annientamento tuo, dei tuoi figli e dei tuoi nipoti?
E senza consenso come potrebbe avvenire l’autoestinzione della specie?
Gli “estinzionisti” sono rigorosi all’estremo, ma proprio a causa di questo loro estremismo non potranno mai contare sul consenso della maggioranza della popolazione, anzi sono inesorabilmente destinati a rimanere infima minoranza.
Il Cancrismo invece si propone di fornire una ideologia coerente alla gran massa di giovani che si è mobilitata di recente in tutto il mondo a difesa dell’ambiente.
Questi ragazzi non vogliono estinguersi, vogliono che la loro generazione possa vivere su questo pianeta e che possibilmente lo possano fare anche altre generazioni. Perché ciò accada occorre modificare stili di vita e di consumi, rinunciare agli sprechi e a tante altre cose inutili che ci hanno condotto sull’orlo del baratro.
In una parola dobbiamo “decrescere”. Sotto questo profilo il Cancrismo è allineato con i movimenti di Serge Latouche e di Maurizio Pallante.
Stiamo parlando delle cure palliative da somministrare all’ammalato terminale di cancro? Con ogni probabilità sì, ma comunque ben vengano.
La cosa importante è che ci sia la spinta a decrescere, e perché ciò accada la motivazione deve essere forte, molto forte, più forte dell’egoismo di specie che ci contraddistingue.
Occorre, in breve, ribaltare l’intera considerazione che Homo sapiens ha della sua intelligenza, dimostrandogli che anziché essere una scintilla divina o una mirabile opera della natura essa è stata un tragico errore del processo evolutivo della vita, una via “svantaggiosa” imboccata casualmente da madre natura.
Così iniziava il mio primo articolo di presentazione della teoria (“Il cancro del pianeta: una teoria inquietante per scuoterci dal fatalismo progressista che ci attanaglia”) e questa è ancora la via da seguire: dimostrare, dati alla mano, che la situazione è sempre più tragica (e questo lo fanno in molti, compresi il Papa, tanti Capi di Stato e tanti scienziati), che ha potuto verificarsi in conseguenza delle accresciute capacità elaborative del cervello umano (e questo lo fanno in pochi) e che quindi questo accrescimento è da considerare negativamente (e questo non lo fa nessuno).
Se molti, moltissimi, capissero questa triste realtà, sarebbe relativamente semplice tirare un po’ i freni di questa macchina che sta andando a folle velocità verso il dirupo.
Tirare i freni significa prendere tempo. Anche se la macchina non può fare inversione di marcia, andare più lentamente può dare alla biosfera un po’ di respiro e può consentire a tutti gli esseri viventi di prolungare un poco la loro permanenza su questo pianeta.
In breve dovremmo fare nostro il motto di Alexander Langer: “Lentius, profundius, suavius” ("più lento, più profondo, più dolce"), in contrapposizione a quello olimpico “Citius, altius, fortius” ("più veloce, più alto, più forte") che ben rappresenta lo spirito tipico del progressismo economico e materiale del cancro del pianeta.

lunedì 31 agosto 2020

Recensione de "Il Mare Svuotato"

                                                       


Di Walter Mola

 

 Diciamolo subito: è un bel libro, probabilmente il  migliore scritto da Ugo Bardi, questa volta in compagnia di una ricercatrice Ilaria Perissi, ma lo stile, il modo, con cui  ti presenta un problema grave come l'esaurimento della disponibilità  ittica a livello planetario è coinvolgente e ben documentato, il suo.

Il titolo riprende un altro bel testo scritto nel 2011 sempre per Editori Riuniti, “La Terra Svuotata” in cui si parla dell'esaurimento dei minerali. Ne “Il Mare Svuotato” si affronta il tema del superamento della capacità di rigenerazione dei pesci con una pesca industriale che non tiene conto minimamente dei cicli biologici con l'idea tipicamente estrattivista con cui si va avanti fino all'ultimo. Lo dimostra molto bene facendo notare che ormai oltre la metà del pesce consumato proviene da allevamenti con tutte le problematiche connesse. Gli allevamenti intensivi  sono già fonte di guai sulla terra ferma figuriamoci in mare.

Il libro non si limita all'elenco di disastri causati dall'uomo in mare ma dimostra come di fronte ad un limite evidente (la diminuzione del pescato) invece di comprendere i cicli naturali,  la risposta  sia stata da un lato con l'incremento della capacità dei pescherecci e dall'altro dalla ricerca di nuove aree. 

Utili i riferimenti alla storia dell'esaurimento, quasi estinzione, dei più grandi abitanti dei mari: le balene. Soggette ad una caccia spietata nell'800 erano quasi sparite ma secondo i balenieri non si trattava di estinzione ma di timidezza, si proprio così, dicevano che le balene erano diventate timide e non si facevano più vedere.

Mi è piaciuto molto il riferimento ad equazioni come quella di Lotka-Volterra che spiegano molto bene l'equilibrio tra predatori e prede che in realtà in mare si è rotto da tempo il super  predatore è l'uomo . 

Interessanti tutte le esperienze citate (da cui non si impara mai) in cui si supera la capacità riproduttiva e la “risorsa” sparisce. L'estinzione dello storione e la scomparsa del caviale sono emblematiche come il Merluzzo e il Salmone in certe aree del Nord Atlantico.

Non si parla solo  di pesca ma ci sono continui richiami all'inquinamento, all'esaurimento delle risorse, alle risposte sempre inadeguate e in ritardo alle evidenze di sovrasfruttamento. Si parla pure di idee strampalate come l'estrazione di minerali dall'acqua di mare.  

Mi viene in mente un vecchio Topolino in cui Pippo correva come un matto con la macchina per arrivare prima che la benzina finisse, ecco sembra che l'uomo stia facendo questo, consumare tutto, sempre ed eventualmente rallentare un poco per consumare comunque tutto più a lungo. In mare si sta facendo  questo, addirittura sottraendo il cibo direttamente ad altri legittimi pescatori: gli altri pesci, gli uccelli, balene.

Non mancano i consigli: mangiare pesce o no? Se non si è vegani o vegetariani meglio il pesce piccolo, meno inquinato e ancora disponibile, per quanto non si sa.

wm



                                                          Il Mare Svuotato

                                                 di Ugo Bardi e Ilaria Perissi

                                                           Editori Riuniti

                                                            303 pagine

                                                             18 Euro

mercoledì 26 agosto 2020

Il Principio di Precauzione: Dal Cambiamento Climatico al Coronavirus

Nota: questo post non nega l'esistenza del coronavirus né il fatto che abbia fatto delle vittime. Commenti che fanno uso del termine "negazionismo" saranno automaticamente cassati

Qui di seguito, un commento di Olga Milanese sulla questione del "Principio di Precauzione." Queste considerazioni sono importanti per tutto quello che ha a che vedere con i vari disastri che ci stanno arrivando addosso, dal coronavirus al cambiamento climatico. In effetti, sembrerebbe che stiamo facendo decisamente troppo poco per certe cose che potrebbero distruggerci tutti quanti (tipo il cambiamento climatico), e troppo per certe cose delle quali si poteva fare benissimo a meno (tipo, per esempio i "dispositivi anti-abbandono" nei sedili per bambini). Qui Olga Milanese fa correttamente notare che con il principio di precauzione si può esagerare e soprattutto che farlo diventare "principio di massima precauzione," come si è fatto recentemente per il coronavirus,  è un aberrazione che porta a ogni sorta di esagerazioni e quindi rischia di fare più danni di quelli che si proponeva di prevenire.

 

Di Olga Milanese

Il PRINCIPIO DI MASSIMA PRECAUZIONE non è ciò che sembra!

Innanzitutto non esiste un principio di "massima" precauzione,
ma di precauzione... e basta!

La differenza è fondamentale.

Questo principio contempla la necessità di adottare misure di tutela e di prevenzione anche quando non sia assolutamente certo che un determinato fenomeno sia nocivo, ma sussista un dubbio SCIENTIFICAMENTE ATTENDIBILE che possa esserlo. Il che significa che legislatore e la P.A., nell' esercizio dei propri poteri discrezionali, debbono agire cautelativamente allorquando si è in presenza di un rischio potenziale. In questi casi, si parla di "discrezionalità tecnica", poiché le scelte vengono operate all'esito di una valutazione basata sulle cognizioni e sui mezzi forniti dalle varie scienze. Anche nella concezione comunitaria l'azione precauzionale è "giustificata solo quando vi sia stata l’identificazione degli effetti potenzialmente negativi (rischio) sulla base di dati scientifici, seri, oggettivi e disponibili, nonché di un ragionamento rigorosamente logico e, tuttavia, permanga un’ampia incertezza scientifica sulla “portata” del suddetto rischio".

È, quindi, vero che il principio di precauzione opera laddove manchi una sicurezza scientifica sul danno e allorquando il ritardo di interventi potrebbe comportare un aggravamento del potenziale danno, ma è altrettando vero che la sua affermazione NON può tradursi nella possibilità di dar ascolto e seguito ad ogni tipo di timore o paura, e ciò per molteplici motivi. In primis, proprio perché va considerato che le misure precauzionali NON vengono adottate, per loro natura, sul presupposto di certezze assolute, ma in ragione di ipotesi e probabilità (benché studiate). In secundis, per la non meno rilevante considerazione che le menzionate misure sono destinate a comportare un sacrificio certo, attuale o futuro, spesso elevato, di altri valori, diritti o principi.

Per ovviare a questo conflitto immanente si deve ricorrere ad un bilanciamento di interessi che si traduce nella necessità (id est obbligo) di PROPORZIONE tra il grado di probabilità e di gravità dei rischi ed il grado di incisività delle precauzioni che si intendono adottare sulle libertà o diritti antagonisti. Già questo dovrebbe far comprendere perché un piano precauzionale che contempli l'annullamento di una qualsisi attività (scuola, lavoro, salute nel senso ampio del termine, ecc.) in ragione di un pericolo non immediato e non fondato su una radicata CERTEZZA scientifica, è destinato a violare i presupposti applicativi della stessa precauzionalità.

Ma non è tutto! Il mancato rispetto della proporzione e del bilanciamento di interessi determina una lesione del principio di RAGIONEVOLEZZA, per il quale l'azione pubblica DEVE osservare dei canoni di RAZIONALITÀ OPERATIVA ed EVITARE DECISIONI ARBITRARIE ED IRRAZIONALI.
 
Tale ultimo principio è di primaria rilevanza nella gestione democratica di un Paese, poiché in esso confluiscono i valori di eguaglianza, imparzialità e buon andamento dell'attività amministrativa, tanto che la sua violazione configura il vizio di ECCESSO DI POTERE!

Volendo essere meno tecnici potremmo dire che un conto è stabilire la necessità di adottare una serie di precauzioni nel maneggiare un ordigno sconosciuto di cui, scientificamente, ignoriamo la potenza e la nocività, tutt'altro conto è decidere di non voler neanche provare a disinnescare l'ordigno o metterlo in sicurezza, scegliendo di paralizzare la vita di una intera comunità per evitare il rischio che qualcuno vi si possa, per avventura, avvicinare.

La prima condotta costiuisce la corretta applicazione del principio di precauzione, per come inteso dal nostro ordinamento e nel diritto dell'UE; la seconda è un'arbitraria distorsione di quel principio, originata da un solo maledetto insidioso aggettivo ("massima") buttato lì accanto alla parola precauzione, ad inizio pandemia, per legittimare la negazione del diritto all'istruzione, del diritto al lavoro, del diritto ad una giusta retribuzione, del diritto all'eguaglianza sociale, del diritto ad una sanità fatta di cure ed assistenza a 360°, in sintesi, del diritto alla tutela della dignità dell'uomo, in ogni ambito in cui si svolge la sua personalità.

Una sola parola, tirata fuori dal cassetto della politica, ha operato la "mutazione" di un principio sorto per garantire i cittadini in un pretesto per liberare gli amministratori dello Stato dall'onere di studiare soluzioni ponderate, ma soprattutto dal peso delle responsabilità di una qualsivoglia decisione o scelta.


Olga Milanese è avvocato civilista. Si occupa principalmente di aspetti legati alla tutela dei diritti in ambito imprenditoriale, familiare e in relazione alla responsabilità medica e professionale, come pure il tema della tutela dei diritti umani

domenica 23 agosto 2020

Il Grande Disastro dei Modelli Predittivi della Pandemia: Come hanno sballato di oltre un fattore 1000!

 

Siamo in momento particolarmente adatto a dare un giudizio un tantino vitriolico -- come si meritano -- ai modelli epidemiologici che hanno guidato le scelte del governo fino ad oggi. 

Guardate la tabella qui sopra. E' presa da un rapporto del famigerato CTS (comitato tecnico-scientifico) che si basava su modelli sviluppati dall'altrettanto famigerato Imperial College.

Il documento non viene da una fonte ufficiale, ma gira da un pezzo e la sua autenticità non è mai stata smentita. Non ha data, ma risale probabilmente ad Aprile-Maggio e descrive quello che ci si potrebbe aspettare alla riapertura dopo il lockdown di primavera. Il primo scenario, "A" corrisponde alla riapertura completa, nessuna restrizione. Gli altri due subito dopo, "B" e "C" corrispondono a una riapertura con alcune restrizioni, per esempio scuole chiuse. Gli altri scenari, dall' "1" in poi, corrispondono a ipotesi poco realistiche, tipo che nessuno va a lavorare e cose del genere. 

Diciamo che dei tre scenari principali, quello più simile alla situazione attuale (scuole chiuse, ma il resto più o meno riaperto) corrisponde allo scenario "B". Bene, ora guardate la previsione. Secondo questi qua, al 20 Agosto (cioè qualche giorno fa) dovevamo avere circa 120mila persone in terapia intensiva. Quanti ne abbiamo realmente? L'ultimo dato è di 64 in totale. La previsione ha sballato di un fattore 2.000!

C'è chi ha giocato con questi numeri per cercare di giustificarre i modelli, dicendo, "ma altri scenari davano numeri più bassi" -- si, ma viene voglia di ringraziare l'organo riproduttivo dei mammiferi. Se uno presenta un totale di 92 scenari (come fanno questi qui) uno che più o meno l'azzecca lo trovi per forza. Anch'io vi posso fare un modello che prevede con assoluta certezza i numeri del lotto: uscirà sicuramente un numero da 1 a 90 -- andate tranquilli: è un modello che non sbaglia mai.

Cosa hanno sbagliato i modellisti? Molte cose ma, come spesso succede, ognuno tende a credere che il mondo che lui ha in testa sia quello reale e a comportarsi di conseguenza. I modellisti hanno veramente pensato che i loro modelli descrivessero il mondo reale e non si sono resi conto che hanno peccato principalmente di mancanza di umiltà -- quello che a volte chiamiamo "hubris." Su questo punto c'è un bell'articolo di Saltelli e altri su "Nature" che descrive cosa NON si deve fare con i modelli.

Il risultato è stato un gran bel disastro. Su come la faccenda si sia evoluta politicamente diventando ingestibile, potete leggervi un bell'articolo di Thaddeus Michael, intitolato "Perchè il mondo ha perso la bussola? E' in inglese e parla della Gran Bretagna ma, 1) è di una chiarezza cristallina e 2) google translate fa miracoli e 3) descrive benissimo anche la situazione italiana.

 

Ringrazio Sergio Zanatta e Sara Gandini per i loro commenti





sabato 15 agosto 2020

Ma perché ci vergogniamo di certe cose? Le strane usanze di una scimmia nuda


Antonio Canova, Amore e Psiche, 1787 - 1793

 
Post di Bruno Sebastiani
 
Una delle caratteristiche che differenzia la nostra specie da ogni altra (animale e vegetale) è il sentimento di repulsione verso l’esibizione dell’atto sessuale e di tutto ciò che gli ruota attorno.
Non è certo la caratteristica principale, che rimane la superiorità intellettuale, ma approfondirne le motivazioni e i singoli aspetti ci può aiutare in quell’opera di conoscenza autentica di noi stessi che a mio avviso è ancora ben lontana dall’essere realizzata.
Secondo il racconto biblico ci saremmo vergognati della nostra nudità dopo il peccato originale, nel momento in cui il creatore ci rimproverò l’atto di disobbedienza compiuto.
Ma, pur dando credito a tale racconto, quale sarebbe la logica sottostante al medesimo? Va bene il faticare per coltivare la terra, va bene il soffrire per mettere al mondo i figli, ma perché vergognarsi della propria nudità?
O forse ci coprimmo per ripararci dal freddo e l’occultamento degli attributi sessuali fu solo una conseguenza di tale pratica?
Improbabile, dal momento che anche nei climi caldi l’essere umano è solito nascondere pene e vagina, e questo comportamento sembra essere correlato più al livello di “civiltà” raggiunto che non alle condizioni climatiche di un determinato luogo.
A ognuno di voi sarà capitato di vedere qualche documentario su popolazioni primitive che ostentano con noncuranza la propria nudità.
Poi, con l’arrivo della cosiddetta “civiltà”, insorge il pudore, il senso di vergogna della propria nudità, o, meglio, della nudità dei propri apparati genitali.
Altra osservazione di un certo rilievo. Gli organi sessuali sono intimamente congiunti a quelli preposti all’evacuazione dei residui organici ingeriti per alimentarci. Guarda caso, anche le funzioni di svuotamento della vescica e dell’intestino suscitano repulsione, sono da eseguire di nascosto, chiusi a chiave in un apposito locale. Persino il nome di tale locale e delle sue pertinenze provoca disgusto (cesso, latrina, cloaca, fogna, e così via).
Che ci sia qualche connessione tra i due tipi di ritegno (quello dell’esibizione dell’atto sessuale e quello del mostrarsi durante la defecazione)? Da dove nasce realmente questa negazione nei confronti di alcune parti del nostro corpo e delle loro funzioni?
Prendo tempo e aggiungo altra carne al fuoco.
Un aspetto del comportamento sociale di Homo sapiens che mi ha sempre lasciato perplesso è che l’operazione inversa di quella di cui tanto ci vergogniamo è invece lodata e glorificata.
Parlo dell’atto del cibarsi, della convivialità, del mangiare e bere in compagnia. Le belle tavolate numerose e rumorose sono sempre ben viste e danno un senso di allegria.
Ma l’ingurgitare cibo e tracannare liquidi non sono atti altrettanto funzionali alle nostre attività organiche quanto quelli di evacuarne i residui o di accoppiarsi?
Altra osservazione. Ognuna di queste attività ha subìto da parte dell’essere umano ampie modificazioni rispetto alle originali modalità di esecuzione.
Mangiamo seduti, tocchiamo il cibo con forchetta e coltello ed è buona educazione non poggiare i gomiti sulla tavola.
Evacuiamo pure seduti, su apposita “tazza”, non più accovacciati sulla nuda terra.
Ma soprattutto facciamo l’amore tutto l’anno e non più solo in determinate stagioni. Nascondiamo le nudità ma siamo sempre in calore. Curiamo il nostro aspetto come non mai, facciamo intravedere le nostre forme nascoste al fine di eccitare i potenziali partners. E poiché queste pratiche inducono piacere e preludono al piacere, abbiamo pensato bene di estendere le pratiche di corteggiamento / seduzione a tutti i mesi dell’anno. È anche questa una delle cause della sovrappopolazione del pianeta?
Come si vede le modifiche “culturali” da noi apportate alle funzioni espletate dal nostro organismo sono varie e tra loro contraddittorie. Intere scienze sono nate per spiegarne le motivazioni, prima tra tutte la psicanalisi, e io non intendo aggiungere nuove interpretazioni alle tante già formulate per spiegare queste modifiche artificiose.
Mi limiterò a una considerazione assai più semplice, basata unicamente sul buon senso e per tale motivo forse più attendibile di altre.
Faccio infatti sommessamente presente che tutte queste modifiche comportamentali sono gradualmente intervenute via via che l’essere umano ha accresciuto le dimensioni del suo encefalo (numero di neuroni, sinapsi, interconnessioni ecc.), da quando cioè è stato in grado di contravvenire ai comportamenti istintuali per lui previsti ed elaborati da madre natura.
Questo a livello di specie.
Stessa considerazione vale a livello di individuo. Nessuna vergogna nel bambino nei primi mesi / anni di vita a mostrarsi nudo o a farsi vedere mentre fa pipì o pupù. L’avversione a esibire certe funzioni insorge più avanti nell’età, quando il cervello si sviluppa e acquisisce il raziocinio.
Dunque ancora una volta dobbiamo prendere atto che tutti questi comportamenti “contro natura” sono intimamente connessi alla crescita abnorme subìta dal nostro cervello, la quale ci ha consentito di contravvenire agli istinti e di tenere atteggiamenti non previsti dall’iter evolutivo della vita.
Sicuramente la biosfera non subirà danni a causa del nostro andar vestiti o del fatto che ci accoppiamo di nascosto in camera da letto o che espletiamo i bisogni corporali in gabinetto. Il vero danno deriva dalle industrie che confezionano i nostri vestiti e da quelle che edificano le nostre case.
Ma anche il “comune senso del pudore” testimonia che siamo “animali anomali”. E poiché questo essere anomali si sta traducendo in essere devastatori del pianeta, ogni tassello della nostra anomalia va attentamente studiato.
Probabilmente si tratta di particolari privi di spiegazione logica, ma l’insieme di tante trasgressioni (in poche migliaia di anni) a regole maturate nel corso di un’evoluzione dipanatasi nel corso di centinaia di milioni di anni, non può lasciare indifferenti.
Dobbiamo prendere consapevolezza della nostra reale natura, che non è certo quella propostaci dagli spot pubblicitari o dai programmi televisivi che ammorbano le nostre case.
Sarebbe stato più auspicabile vivere nudi in sintonia con la natura o è meglio vivere vestiti in quello che diventerà un deserto senza alberi, tutto pietre e cemento?

venerdì 7 agosto 2020

Ritirata su tutti i fronti: epicedio per i ghiacciai (e non solo)

 

L'epicedio (in greco antico: ἐπικήδειον μέλος, epikédion mélos) è un tipo di componimento poetico scritto in morte di qualcuno, tipico della letteratura latina

Di Luciano Celi

Krzysztof Kieślowski – regista, sceneggiatore, scrittore e documentarista polacco, considerato uno dei più grandi registi della storia del cinema – diresse e produsse, tra il 1988 e il 1989, 10 brevi film (mediometraggi) di circa 55 minuti, indipendenti per trama l’uno dall’altro: il Decalogo. 

Il Decalogo mette in scena, attraverso storie di vita comuni, l’adesione e soprattutto l’infrangere i dieci comandamenti. Tema antico, anzi antichissimo, già specificatamente individuato da una breve parolina greca – hýbris – ed esemplificato piuttosto dettagliatamente anche nella sua letteratura e tragedia.
Il termine hýbris è spesso tradotto con “orgogliosa tracotanza” e davvero è antico quanto l’uomo: la cacciata dall’Eden ne è solo uno degli esempi perché il frutto proibito è quello della conoscenza. 

Kieślowski nel primo episodio – «Io sono il Signore tuo Dio. Non avrai altro dio all'infuori di me» – narra le vicende del protagonista, suo omonimo perché si chiama Krzysztof, che, fisico e professore universitario separato dalla moglie, deve crescere il figlio Paweł da solo. L’uomo è un grande appassionato di computer e pensa che tutta la vita possa essere descritta matematicamente attraverso l'uso dei calcolatori. Secondo lui non esiste una dimensione trascendente della realtà: non esiste nessun Dio e quando si muore il cervello smette semplicemente di funzionare. Credo che ormai molti siano di questa idea, ma non è qui il caso di divagare sulle credenze di ognuno e atteniamoci alla trama: un giorno il lago vicino a casa ghiaccia e Paweł esprime il desiderio di pattinare.

Il padre, allora, da bravo scienziato esegue una serie di calcoli al computer, che gli permettono di stabilire che il ghiaccio è in grado di reggere il suo peso. Per maggiore sicurezza esegue nuovamente i calcoli e va a verificarne l'esattezza con una prova empirica. Accade però che il ghiaccio si rompe. Il padre non lo sorvegliava (sicuro come era che il ghiaccio non si sarebbe rotto) e non sospetta di nulla nemmeno quando nota dei segnali premonitori (un camion dei pompieri che si dirige verso il lago, gli amici che non lo trovano, la lezione a cui è mancato, le persone che lo cercano per avvisarlo dell'accaduto e dell'inchiostro che si versa in un libro). Comincerà a capire che non tutto è prevedibile quando il calamaio con cui stava scrivendo si rompe senza essere stato toccato. Decide quindi di andare a vedere cosa stava succedendo al lago, vede il buco nel ghiaccio ed i soccorritori ma stenta ancora a crederci (apprende che alcuni ragazzi stavano giocando nelle vicinanze e va a cercare suo figlio). Il padre si arrende all'evidenza solo quando i soccorritori estraggono il corpo senza vita del bambino.1
Questo episodio, visto molti anni fa, mi è tornato alla mente leggendo un bel libro di Enrico Camanni, Il grande libro del ghiaccio, Laterza, Bari, 2020. Descrivendo le sorti dei ghiacci nel mondo – da quelli alpini a quelli polari – l’attenzione dell’autore si ferma sulla Siberia dove, notizia più volte descritta e riportata, il riscaldamento climatico procede a velocità più che doppia rispetto al resto del mondo. Questa regione è oggetto dell’attenzione di un documentarista russo, Viktor Kossakovsky, che nel suo Aquarela filma, tra le altre cose, il lago Baikal, la riserva (chiusa) d’acqua dolce più grande del mondo:
Le conseguenze del riscaldamento climatico sono espresse da trombe d’aria improvvise e allagamenti disastrosi, ma è la sequenza girata sulle acque scongelate del Lago Baikal in Siberia a togliere il fiato allo spettatore. Il Baikal è la nuova icona del clima terrestre. Campo largo: un’automobile avanza nell’imperturbabile silenzio della landa siberiana, puntando leggera verso un orizzonte di montagne; di colpo la superficie del lago si spacca e l’auto sprofonda. Campo stretto (invisibile): i passeggeri si dibattono dentro la loro trappola e i soccorritori si sporgono sull’acqua cercando di tirarli in salvo. Campo largo: la sequenza si ripete senza pietà, nuova automobile, nuovo sfondamento, nuovo bagno gelato; uno dopo l’altro i veicoli e i guidatori s’inabissano nelle crepe del disgelo. Auto viene, auto scompare: è la roulette russa.2 

Verrebbe da dire che mentre il Dio di Kieślowski è veterotestamentario e non perdona la umana hýbris, quello nella realtà è almeno un poco più misericordioso e fa trovare, almeno nelle scene descritte, qualche aiuto ai malcapitati.

Questo libro, in generale, è molto bello: ricco di riferimenti che vanno dalla scienza alla letteratura, passando per un po’ di antropologia e storia, mi ha stupito perché in primo luogo ci ho letto una specie di “inconscia” descrizione di me stesso.

Il 20 agosto 2009 Chamonix era una città rovente. […] Era un mondo capovolto. Nella capitale dell’alpinismo i turisti cercavano refrigerio nei negozi con l’aria condizionata, dove maneggiavano ramponi e maglioni con le mani sudate, oppure sfogliavano i libri che raccontavano di neve, gelo e seracchi. Alle Aiguilles e ai ghiacciai preferivano le vecchie fotografie. Si era rotta la relazione logica tra i panorami delle pagine illustrate e gli stessi panorami inquadrati dalle finestre […]. Fuori il sole era talmente bollente che i turisti preferivano rifugiarsi tra gli scaffali del grande magazzino, e alla fine, sfogliando e sfogliando, trovavano più attraenti gli scenari patinati dei libri e delle cartoline dei fondali svaporati della montagna vera.3 

Non ero a Chamonix ma al bookshop del Forte di Bard, nella “bassa” valdostana; non era il 20 agosto 2009, ma il 29 luglio 2020 e questo libro, per il titolo e la bella confezione, mi è sembrata subito un’ottima evasione dal caldo e forse il suo acquisto è stato anche inconsciamente dettato dal percorso psicologico che l’autore stesso racconta in queste righe.

Certo in Val d’Ayas, poco sotto Brusson, la casa era fresca e abbiamo dormito con un piumino leggero la sera; in almeno una escursione nella quale ci siamo avventurati, abbiamo potuto godere della vista del massico del Monte Rosa, ancora innevato, ma tutto questo non è consolatorio perché le vicende e i fatti descritti nel libro sono, purtroppo, terribili e reali.

Lo è (stato) il “canto funebre” (epicedio) del ghiacciaio islandese lo scorso anno (qui si trova ancora la notizia), “replicato”, in Italia, da due iniziative simili: lo scioglimento del ghiacciaio dei Forni in alta Valtellina, che ha avuto, come dice Camanni, «un riverbero mediatico più da evento folcloristico che da allarme epocale» e ha portato in quota, alla capanna Branca, un’intera orchestra di “musicisti-montanari” devoti alla causa il 20 luglio 2019 e, due mesi dopo, alle sorgenti del Lys, davanti ai seracchi del Monte Rosa.

La targa per la scomparsa del ghiacciaio Ok.

Fino ad arrivare alla notizia, sempre riportata da Camanni, che il parroco di Fiesch, in Svizzera, non pregava più che il ghiacciaio lasciasse in pace i suoi fedeli. I montanari della Fieschertal – racconta Camanni – si erano rivolti formalmente a papa Benedetto XVI per avere il permesso di modificare il rito di Sant’Ignazio, perché la preghiera storica non aveva più senso. Una volta la processione invocava la ritirata del fiume gelato, adesso volevano pregare Dio che gli restituisse il loro ghiacciaio.
Sembrano notizie di folklore, ma è lo zeitgeist, lo spirito di un tempo che, pretendendo di fare a meno del rispetto dell’ecosistema in cui vive – senza scomodare Dio… – non può che intonare canti funebri.

1 Wikipedia, alla voce: «Decalogo 1».
2 Camanni, Il grande libro del ghiaccio, Laterza, Bari, 2020, p. 294.
3 Op. cit., p. 302.