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martedì 13 ottobre 2020

Cosa è "contro natura"? Di Chimere e Cavalli Alati

 

Pegaso, il cavallo alato

Questa volta cercherò di toccare il cuore della Questione (quella con la Q maiuscola).

Tante volte abbiamo sentito condannare i comportamenti “contro natura” dai più disparati pulpiti.

Per lo più a usare questa espressione sono esponenti ecclesiastici. Ma non solo.

Cosa intende dire chi utilizza questa locuzione? Intende dire che in natura per ogni specie, per ogni fenomeno, per ogni evento, esiste un determinato ventaglio di possibilità di accadimenti, e i comportamenti che rientrano all’interno di questo ventaglio sarebbero “secondo natura”, gli altri “contro natura”.

Ma, se tutto è natura, come è possibile che esistano comportamenti non solo al di fuori della natura, ma addirittura contro la natura stessa?

Qui, come si vede, il discorso si ingarbuglia. Ma è un discorso estremamente importante, per cui è opportuno approfondirlo e cercare di sgarbugliarlo.

Iniziamo col dire che effettivamente tutto ciò che conosciamo è natura. Abbiamo un determinato numero di sensi e attraverso loro ci giungono le immagini, i suoni, gli odori, i sapori e le sensazioni che il mondo esterno ci trasmette.

Poi tutti questi “input” vengono elaborati dal nostro organo di comando, il quale è in grado di abbinarli anche in modo da immaginare cose, oggetti ed esseri non esistenti in natura.

Il primo esempio che mi viene in mente per illustrare questo concetto è il centauro, metà uomo e metà cavallo, ma la mitologia ci tramanda molte altre creature inventate di sana pianta, dalla chimera al minotauro, dall’unicorno alla sfinge e così via.

Ecco dunque che troviamo un primo elemento interessante sul percorso che ci dovrebbe condurre a stabilire se esiste qualcosa “contro natura” e, in caso affermativo, in cosa consisterebbe: il cervello umano è in grado di concepire, partendo da elementi della natura, cose che in natura non esistono.

Possono farlo anche i cervelli di altre specie animali? Probabilmente sì, ma solo a livello di rappresentazione onirica. Tutti gli animali dormono e, per analogia con quanto accade a noi, non abbiamo motivo di dubitare che anche essi sognino. In questa fase le cose o gli esseri visti, sentiti, percepiti da svegli probabilmente possono trasformarsi in cose o esseri non esistenti realmente ovvero in rappresentazioni mentali storpiate dal meccanismo del sonno. Ma sono illusioni che terminano al momento del risveglio.

Solo encefali con un grandissimo numero di neuroni possono far credere a chi li possiede che in natura esistano cose o esseri partoriti unicamente dalla fantasia di chi li ha concepiti.

Con questo giro di parole ci imbattiamo nel cosiddetto “pensiero astratto”, ovvero in quella facoltà tipica del cervello umano di dedurre da alcune caratteristiche reali altre caratteristiche non più reali (ovvero non esistenti in natura) ma in grado di raggruppare idealmente un insieme di soggetti all’interno di determinate categorie.

Dal mondo delle idee di platonica memoria in avanti, una infinita schiera di pensatori si è avventurata in questo tipo di esercizio mentale.

L’intera disciplina che si è autodefinita “amante del sapere” (la filosofia), nasce e si basa sulle fantasticherie del pensiero astratto.

Senonché questo tipo di pensiero, che partorisce costruzioni mentali non esistenti nel mondo reale, è in grado poi di trasformare queste creazioni intellettuali in oggetti concreti frutto dell’assemblaggio di “pezzi” di natura (pietre, legni, ossa …) realizzato “ad arte”.

Con questo nuovo giro di parole passiamo dal “pensiero astratto” al “mondo artificiale”, il primo in contrapposizione al “pensiero concreto” e il secondo al “mondo naturale”.

Se questi ultimi due esistono da milioni e milioni di anni, i primi due sono molto recenti (datano poche decine di secoli), e in questo breve volgere di tempo hanno stravolto un equilibrio che era andato consolidandosi con estrema gradualità.

Dalla clava e dall’arco si è passati alla polvere da sparo e alla bomba atomica. Dal cibarsi raccogliendo frutti e andando a caccia si è passati alle monocolture agricole e agli allevamenti intensivi. Con tutte le conseguenze nocive e destabilizzanti che ormai ben conosciamo.

Ma lasciamo per un attimo da parte i concetti fin qui acquisiti e divaghiamo verso un altro tipo di ragionamento, all’interno del quale troveremo elementi utili allo scopo che ci siamo prefissi.

Il fenomeno che ci interessa più da vicino, la vita, ha un andamento lineare? Ovvero: sappiamo che tutto evolve e che la continuità della vita è garantita dalla capacità di riproduzione delle singole specie. Ma questo “meccanismo” non incontra mai intoppi?

La domanda è di tipo retorico, perché in realtà sappiamo che in natura non vi è nulla di lineare, bensì la vita nasce dal caos, dallo scontro infinito e casuale degli elementi.

Non uso il termine di lotta, perché questo implica concetti partoriti dal pensiero astratto, (bene e male, giusto e ingiusto ecc.). Anche l’idea di linea retta e di andamento lineare, nascono da questo tipo di pensiero. In natura esiste un numero infinito di linee e di forme, bidimensionali e tridimensionali. Tra queste vi sono anche la linea retta, il quadrato e il cubo, ma mischiati a infinite altre linee e forme. Solo il pensiero astratto isola le categorie “perfette”, quelle che rispondono a determinati criteri da esso stabiliti.

Nello scontro infinito e casuale degli elementi si verificano situazioni “costruttive” e altre “distruttive”. Con le prime intendo il verificarsi di aggregazioni accrescitive di determinate realtà, con le seconde il verificarsi di fenomeni disgregativi delle medesime.

Se prevalgono le prime la vita prospera, se prendono il sopravvento le seconde la vita soffre e arretra.

L’esempio della malattia ci aiuta a comprendere meglio questo concetto. I virus che ci fanno ammalare o le cellule che da sane si trasformano in tumorali, fanno entrambi parte della natura, ma non per questo favoriscono la diffusione della vita, né la sua conservazione. Anzi la ostacolano in quel continuo accavallarsi di elementi da cui poi fuoriesce l’evolversi di tutti i fenomeni naturali.

Ma allora cosa è “contro natura”, se anche questi elementi ostili alla vita fanno parte della natura?

Praticamente nulla, visto che tutto è natura.

Ma se proprio vogliamo trovare un elemento che contrasta più degli altri con l’ordinato svolgimento della vita sul pianeta, dobbiamo tornare a quel concetto di pensiero astratto cui facevo cenno più sopra.

È lui, solo lui, in grado di contravvenire alle cosiddette leggi di natura. Non a tutte, ovviamente. La legge di gravità, ad esempio, è ineludibile. Ma anche in questo caso, che pare uno dei più inoppugnabili, l’uomo, tramite il pensiero astratto, è riuscito a realizzare dispositivi con cui volare e solcare i cieli.

In un altro articolo recentemente apparso su Effetto Cassandra ho menzionato come anche le consuetudini sessuali e le stagioni degli amori siano stati modificati dall’uomo a seguito delle sue accresciute capacità cerebrali (vedi “La ripugnanza del sesso, perché ci vergogniamo di certe cose”).

Molti altri esempi di questa capacità di plasmare i nostri comportamenti in modo diverso da quanto previsto dall’evoluzione naturale della vita sono rintracciabili negli ultimi millenni e, fatto ancor più rilevante, questi comportamenti “artificiali” sono andati crescendo con un ritmo sempre più accelerato di secolo in secolo, sino all’andamento parossistico dei nostri giorni.

L’avanzamento di questo modus vivendi artificiale si è verificato ai danni di un’infinità di altre specie animali e vegetali, la cui sparizione è andata crescendo in parallelo alla crescita del primo.

Ecco dunque che abbiamo individuato qualcosa che osteggia lo statu quo esistente in natura e il suo lento, pigro modificarsi millennio dopo millennio!

Questo qualcosa, che agisce “contro natura” pur se originato all’interno del mondo della natura, è il cervello dell’uomo dopo il superamento di una imprecisata soglia di crescita.

Il limite è determinato dal formarsi della neocorteccia? Dal numero di neuroni superiore a una determinata quantità? Dalla ragnatela dei collegamenti inter-sinaptici sempre più fitta?

Non è dato saperlo e non è neppure particolarmente importante conoscerlo.

Ciò che conta è che l’intelligenza è cresciuta e ha iniziato a modificare il mondo circostante con criteri diversi da quelli sino a quel momento utilizzati dal caso, il vero motore dell’evoluzione.

Non è stata una colpa (concetto figlio del pensiero astratto), ma un caso (si veda in proposito il mio articolo “Il caso e la colpa” scritto in risposta a un articolo di Igor Giussani dedicato al Cancrismo).

Se dunque esistono atti definibili come “contro natura” (nel senso che contrastano con quanto sarebbe accaduto nel mondo della natura in assenza di interventi determinati dal pensiero astratto) questi sono tutti riconducibili a quell’unico grande evento cui ho fatto cenno più volte, e cioè a quella abnorme evoluzione patìta dal nostro encefalo che ci ha resi più intelligenti di ogni altro essere vivente e proprio per tale motivo ci ha trasformati in cellule tumorali della biosfera.


giovedì 24 settembre 2020

Il Cancrismo e l'amore per la vita

 


Accusare l’uomo di essere il cancro del pianeta secondo alcuni può sottintendere una forma smisurata di misantropia se non addirittura di odio verso la vita in generale.

Nulla di più sbagliato per quanto riguarda il Cancrismo, la teoria che da anni mi sforzo di sostenere e di divulgare, che esprime invece la posizione opposta: l’odio per la forma deviata di vita che l’evoluzione abnorme del cervello ha indotto nella nostra specie nasce dall’amore più profondo e sviscerato per la vita, così come sul nostro pianeta si è sviluppata in milioni e milioni di anni.

Il secondo capitolo del mio libro “L’impero del cancro del pianeta” si intitola “La sinfonia della vita” e cerca di stabilire un parallelismo tra l’armonia regnante in natura e la maestosità delle composizioni dei più grandi musicisti. L’alterazione genica che ha provocato la nostra disgraziata crescita cerebrale è assimilata alle stonature che possono intervenire a seguito di errori interpretativi.

“[…] pensiamo cosa accadrebbe ad una sinfonia di Beethoven se qualche presuntuoso orchestrale decidesse da un certo punto in poi di sostituire ogni “la” con un “sol”, o ogni “do” con un “si”, o di effettuare modifiche ancor più cervellotiche.

L’armonia si spezzerebbe e il risultato sarebbe disastroso.

Ebbene è ciò che noi abbiamo fatto con la natura della biosfera. E la sinfonia della vita rischia ora di trasformarsi in un tragico concerto per la fine del mondo.”

Perché l’amore per la vita?

Essenzialmente per tre ordini di motivi.

Il primo motivo è di natura estetica. La contemplazione della natura, animata e inanimata, è fonte di godimento per la vista e per ogni altro senso che ne sia coinvolto. Non potrebbe essere diversamente, poiché anche noi siamo natura e i nostri canali “percettivi” si sono co-evoluti insieme a ogni altra componente del mondo naturale: sentiamo di farne parte e ne siamo attratti. Restiamo immobili e sbalorditi di fronte alla maestosità della foresta, al fascino del bosco, all’imponenza delle catene montuose, del mare e dinanzi a ogni altro fenomeno che accade al di fuori delle distese di cemento che ormai purtroppo ci circondano. La riprova di questo godimento estetico si ha proprio in relazione alla triste visione delle periferie urbane. Ma, attenzione! Anche da questo impietoso contrasto si può trarre qualche elemento a sostegno della tesi sin qui sostenuta. Taluni ammirano le forme ardite di alcuni edifici ultra-moderni e molti sono affascinati da antiche costruzioni (pensiamo alle cattedrali gotiche): ebbene, queste realizzazioni dell’ingegno umano appaiono tanto più godibili alla vista quanto più richiamano forme, spazi e armonie proprie del mondo della natura. Non profili squadrati e linee rette, ma curve sinuose e un’infinità di decorazioni che riportano alla mente la vegetazione rigogliosa della selva primordiale. Emblematiche al riguardo le opere di Gaudì e, ancor più vicino a noi, i palazzi del cosiddetto “bosco verticale” recentemente edificati a Milano. Qui la superiorità estetica del mondo della natura rispetto a quella del nostro mondo artificiale è addirittura sancita dal tentativo di inserire la prima nella seconda.

Il secondo motivo è di natura intellettiva. Ogni fenomeno della natura è per noi fonte di immenso stupore. Abbiamo le capacità cerebrali più elevate tra gli esseri viventi e osserviamo l’accadimento di fatti che non saremmo mai stati in grado di progettare e men che meno di realizzare. La più intima riprova di questa affermazione sta proprio nella nostra stessa esistenza. Siamo venuti al mondo inconsapevolmente e poi, quando è stato il nostro turno di dare la vita ad altri esseri, lo abbiamo fatto altrettanto inconsapevolmente. Siamo l’anello di una catena, il tramite per la concretizzazione di organismi ultra-complessi che accudiamo amorevolmente ma della cui realizzazione non siamo minimamente responsabili. E così pure osserviamo ogni altra manifestazione della natura, dallo sbocciare di un fiore all’opera delle api sino ai più complessi rituali amorosi delle varie specie viventi, il tutto finalizzato unicamente alla perpetuazione di quella stupefacente realtà che chiamiamo vita. Ciò per noi è fonte di incredula ammirazione e di affascinata contemplazione che non può fare a meno di tradursi in amore per tale realtà.

Il terzo motivo è di natura psicologica. Oltre ad essere soggetti “osservanti” noi siamo anche e soprattutto soggetti “senzienti”. Il che significa che riceviamo sensazioni di ogni tipo dal mondo esterno, le immagazziniamo nel nostro cervello e le traduciamo in emozioni, sentimenti, stati d’animo e così via, come accade per ogni specie animale. La gioia, il dolore, il piacere sono solo alcune tra le infinite manifestazioni che si possono produrre in noi dall’incontro – scontro tra il mondo della natura e la nostra psiche. Alcune di queste manifestazioni inducono dolore e sofferenza, ma si tratta di una parte minoritaria. Non possiedo dati statistici al riguardo e credo che nessuno ne abbia, ma facendo affidamento sul semplice buon senso ritengo che l’esistenza della maggior parte degli esseri umani (e assai di più di quelli non umani!) sia prevalentemente contraddistinta da condizioni di buona salute e quindi di benessere esistenziale. È una delle leggi dell’evoluzione: ciò che apporta vantaggi procede, ciò che apporta svantaggi retrocede. Una sensazione che rende bene l’idea di come la nostra vita (e quindi anche quella degli altri viventi) sia da amare è l’euforia che ci pervade a primavera, al risveglio di tutte le componenti del mondo della natura. Quello è il momento in cui la vita rinasce dopo il letargo invernale e mostra con maggior vigore la potenza che la pervade. Siamo trascinati da tale spettacolo, ne restiamo affascinati e queste sensazioni si traducono nel profondo amore che proviamo nei confronti della vita.

Questi motivi sussistono a prescindere dalla disgraziata opera di devastazione della natura che stiamo compiendo. Per un evento tanto fortuito quanto sfortunato la crescita abnorme del nostro encefalo ci ha trasformati in cellule tumorali della biosfera. Ma questa triste realtà non deve indurci a odiare ciò che stiamo distruggendo, come pare facciano gli adoratori della modernità. Città non è meglio di campagna. Cemento non è meglio di terra. Rumore non è meglio di silenzio. Solo un profondo amore per la vita e per la natura è alla base della teoria cancrista: se si sostiene il diritto dell’uomo a dominare e devastare la natura si è dalla parte del cancro; se si nega questo diritto si è dalla parte della vita.


sabato 15 agosto 2020

Ma perché ci vergogniamo di certe cose? Le strane usanze di una scimmia nuda


Antonio Canova, Amore e Psiche, 1787 - 1793

 
Post di Bruno Sebastiani
 
Una delle caratteristiche che differenzia la nostra specie da ogni altra (animale e vegetale) è il sentimento di repulsione verso l’esibizione dell’atto sessuale e di tutto ciò che gli ruota attorno.
Non è certo la caratteristica principale, che rimane la superiorità intellettuale, ma approfondirne le motivazioni e i singoli aspetti ci può aiutare in quell’opera di conoscenza autentica di noi stessi che a mio avviso è ancora ben lontana dall’essere realizzata.
Secondo il racconto biblico ci saremmo vergognati della nostra nudità dopo il peccato originale, nel momento in cui il creatore ci rimproverò l’atto di disobbedienza compiuto.
Ma, pur dando credito a tale racconto, quale sarebbe la logica sottostante al medesimo? Va bene il faticare per coltivare la terra, va bene il soffrire per mettere al mondo i figli, ma perché vergognarsi della propria nudità?
O forse ci coprimmo per ripararci dal freddo e l’occultamento degli attributi sessuali fu solo una conseguenza di tale pratica?
Improbabile, dal momento che anche nei climi caldi l’essere umano è solito nascondere pene e vagina, e questo comportamento sembra essere correlato più al livello di “civiltà” raggiunto che non alle condizioni climatiche di un determinato luogo.
A ognuno di voi sarà capitato di vedere qualche documentario su popolazioni primitive che ostentano con noncuranza la propria nudità.
Poi, con l’arrivo della cosiddetta “civiltà”, insorge il pudore, il senso di vergogna della propria nudità, o, meglio, della nudità dei propri apparati genitali.
Altra osservazione di un certo rilievo. Gli organi sessuali sono intimamente congiunti a quelli preposti all’evacuazione dei residui organici ingeriti per alimentarci. Guarda caso, anche le funzioni di svuotamento della vescica e dell’intestino suscitano repulsione, sono da eseguire di nascosto, chiusi a chiave in un apposito locale. Persino il nome di tale locale e delle sue pertinenze provoca disgusto (cesso, latrina, cloaca, fogna, e così via).
Che ci sia qualche connessione tra i due tipi di ritegno (quello dell’esibizione dell’atto sessuale e quello del mostrarsi durante la defecazione)? Da dove nasce realmente questa negazione nei confronti di alcune parti del nostro corpo e delle loro funzioni?
Prendo tempo e aggiungo altra carne al fuoco.
Un aspetto del comportamento sociale di Homo sapiens che mi ha sempre lasciato perplesso è che l’operazione inversa di quella di cui tanto ci vergogniamo è invece lodata e glorificata.
Parlo dell’atto del cibarsi, della convivialità, del mangiare e bere in compagnia. Le belle tavolate numerose e rumorose sono sempre ben viste e danno un senso di allegria.
Ma l’ingurgitare cibo e tracannare liquidi non sono atti altrettanto funzionali alle nostre attività organiche quanto quelli di evacuarne i residui o di accoppiarsi?
Altra osservazione. Ognuna di queste attività ha subìto da parte dell’essere umano ampie modificazioni rispetto alle originali modalità di esecuzione.
Mangiamo seduti, tocchiamo il cibo con forchetta e coltello ed è buona educazione non poggiare i gomiti sulla tavola.
Evacuiamo pure seduti, su apposita “tazza”, non più accovacciati sulla nuda terra.
Ma soprattutto facciamo l’amore tutto l’anno e non più solo in determinate stagioni. Nascondiamo le nudità ma siamo sempre in calore. Curiamo il nostro aspetto come non mai, facciamo intravedere le nostre forme nascoste al fine di eccitare i potenziali partners. E poiché queste pratiche inducono piacere e preludono al piacere, abbiamo pensato bene di estendere le pratiche di corteggiamento / seduzione a tutti i mesi dell’anno. È anche questa una delle cause della sovrappopolazione del pianeta?
Come si vede le modifiche “culturali” da noi apportate alle funzioni espletate dal nostro organismo sono varie e tra loro contraddittorie. Intere scienze sono nate per spiegarne le motivazioni, prima tra tutte la psicanalisi, e io non intendo aggiungere nuove interpretazioni alle tante già formulate per spiegare queste modifiche artificiose.
Mi limiterò a una considerazione assai più semplice, basata unicamente sul buon senso e per tale motivo forse più attendibile di altre.
Faccio infatti sommessamente presente che tutte queste modifiche comportamentali sono gradualmente intervenute via via che l’essere umano ha accresciuto le dimensioni del suo encefalo (numero di neuroni, sinapsi, interconnessioni ecc.), da quando cioè è stato in grado di contravvenire ai comportamenti istintuali per lui previsti ed elaborati da madre natura.
Questo a livello di specie.
Stessa considerazione vale a livello di individuo. Nessuna vergogna nel bambino nei primi mesi / anni di vita a mostrarsi nudo o a farsi vedere mentre fa pipì o pupù. L’avversione a esibire certe funzioni insorge più avanti nell’età, quando il cervello si sviluppa e acquisisce il raziocinio.
Dunque ancora una volta dobbiamo prendere atto che tutti questi comportamenti “contro natura” sono intimamente connessi alla crescita abnorme subìta dal nostro cervello, la quale ci ha consentito di contravvenire agli istinti e di tenere atteggiamenti non previsti dall’iter evolutivo della vita.
Sicuramente la biosfera non subirà danni a causa del nostro andar vestiti o del fatto che ci accoppiamo di nascosto in camera da letto o che espletiamo i bisogni corporali in gabinetto. Il vero danno deriva dalle industrie che confezionano i nostri vestiti e da quelle che edificano le nostre case.
Ma anche il “comune senso del pudore” testimonia che siamo “animali anomali”. E poiché questo essere anomali si sta traducendo in essere devastatori del pianeta, ogni tassello della nostra anomalia va attentamente studiato.
Probabilmente si tratta di particolari privi di spiegazione logica, ma l’insieme di tante trasgressioni (in poche migliaia di anni) a regole maturate nel corso di un’evoluzione dipanatasi nel corso di centinaia di milioni di anni, non può lasciare indifferenti.
Dobbiamo prendere consapevolezza della nostra reale natura, che non è certo quella propostaci dagli spot pubblicitari o dai programmi televisivi che ammorbano le nostre case.
Sarebbe stato più auspicabile vivere nudi in sintonia con la natura o è meglio vivere vestiti in quello che diventerà un deserto senza alberi, tutto pietre e cemento?

sabato 18 luglio 2020

Liti eccellenti. Gli esseri umani sono sempre degli attaccabrighe


Rubens, "La testa di Medusa", 1617

di Bruno Sebastiani

Recenti fatti di cronaca … religiosa mi offrono lo spunto per fare qualche riflessione sulla miseria della natura umana.
Non mi riferisco a beghe parrocchiali di basso livello o a bisticci tra confraternite per il posto da occupare in processione.
No, qui mi riferisco alla contesa che ha visto recentemente coinvolti nientemeno che il fondatore ed ex-priore della Comunità di Bose, Fratel Enzo Bianchi (e suoi seguaci), e l’attuale priore, Fratel Luciano Manicardi (e suoi seguaci).
A chi abbia un minimo di dimestichezza con il dibattito politico, culturale, religioso italiano il fatto non sarà passato inosservato, non fosse altro per la posizione pubblica di alto livello di Enzo Bianchi, definito dal Messaggeroeditorialista di punta del quotidiano La Repubblica, amico personale di Eugenio Scalfari e di tantissimi intellettuali, autore super gettonato di libri di teologia e storia del cristianesimo, uomo di punta dell'ecumenismo mondiale”.
E che la contesa fosse ai massimi livelli è testimoniato anche dal fatto che il Vaticano ha inviato per un mese intero tre “visitatori apostolici” nel monastero a indagare sulla vicenda.
C’è da immaginare che le giornate dei tre “super–ispettori” siano trascorse tra interrogatori più o meno amichevoli ed esame di ogni documento utile a far luce sulla querelle.
La sentenza è stata a dir poco eclatante: Fr. Bianchi dovrà abbandonare il monastero da lui fondato e con lui tre dei suoi più stretti collaboratori. Ancor più eclatante se si tiene conto che è stata avallata da Papa Francesco in persona e che porta la dicitura di “definitiva” e “inappellabile”.
Non entro nel merito della sentenza nè di tutta la vicenda, i cui i reali termini non sono neppure di pubblico dominio, ma risultano ben occultati dietro a frasi del tipo “sempre obbediente, nella giustizia e nella verità” o “invochiamo una rinnovata effusione dello spirito”.
Lo scopo del mio interessamento non concerne la vicenda in sé ma ciò che rivela dell’animo umano, delle sue miserie e meschinerie, al di là delle parole altisonanti, degli sguardi alteri, penetranti, della fama e dell’odore di santità.
È ben noto che situazioni conflittuali esistono a ogni livello nel mondo degli affari, della politica, dello sport ecc. Ci si poteva illudere che il mondo dello “spirito” fosse immune da questa tara. Ora questa illusione è venuta meno.
Non sarà per caso che ciò è accaduto perché in Occidente siamo intrisi di competitività, di materialismo e di utilitarismo?
Per rispondere a questa domanda provo a volgere lo sguardo altrove, ma ritrovo casi di conflittualità esasperata anche in movimenti che si ispirano alla religiosità orientale, la più pacifica del mondo.
Il movimento creato da Paramhansa Yogananda, la Self-Realization Fellowship, alcuni anni dopo la morte del fondatore si spaccò in due tronconi a causa dell’insanabile contrasto tra le “madri” che dirigevano il movimento e Swami Kriyananda, nato James Donald Walters. Quest’ultimo si separò per fondare una nuova comunità denominata Ananda, presente in vari paesi tra cui Stati Uniti, Italia, e India. La vicenda sfociò anche in spiacevoli vicende giudiziarie. Nonostante che Kriyananda sia morto nel 2013, esiste ancora un sito con tutta la documentazione delle malefatte del santone, probabilmente gestito dalla fazione avversa (vedi http://www.anandauncovered.com/IndexITA.htm), anche perché il movimento fondato da Kriyananda è tuttora vivo e vegeto, presente in varie parti del mondo con il nome di Ananda (in Italia ad Assisi).
Altre liti eccellenti che agitarono l’ambiente dei guru si verificarono tra i seguaci di Osho. Su queste vicende è stato realizzato un docufilm con interviste ai diretti protagonisti. Si intitola “Wild Wild Country” ed è reperibile anche su Netflix.
Potrei trovare molti altri esempi di questo tipo di contrasti tra personaggi “insospettabili”, cioè uomini o donne che predicano amore e fratellanza e che poi si dividono su questioni di potere o, peggio, di interessi personali.
Che morale trarre da queste vicende?
Una e una sola. Nessuno di noi, vivente o vissuto, può ritenersi “diverso” da ogni altro contemporaneo. Questo perché il cervello di ogni uomo ha struttura analoga a quello di ogni altro. Qualche neurone in più, qualcuno in meno, qualche connessione inter-sinaptica in più, qualcuna in meno. Tutto ciò influisce sul livello di intelligenza, di capacità di analisi, di sintesi, di abilità oratoria, ma poi il cervello limbico e quello rettiliano, al di sopra dei quali si è sviluppata la neocorteccia, reclamano la loro parte di influsso, che si estrinseca in prepotenti istinti di autoconservazione, di predominio, di sopravvivenza. Tutto ciò può forse essere tradotto con la locuzione “volontà di potenza” di nietzschiana memoria?
Come si inserisce questa riflessione nella teoria cancrista che da anni vado elaborando?
È un tassello in più che dimostra come, pur con tutta la buona volontà possibile, non avremmo potuto esimerci dal devastare il pianeta.
Se neppure tra le ovattate mura di un chiostro conventuale è possibile sfuggire al demone della prepotenza e della sopraffazione, come si può immaginare che Homo sapiens, una volta in possesso dell’arma suprema della ragione, avrebbe potuto astenersi dall’usarla contro ogni altra realtà per trarne i massimi benefici a proprio vantaggio?

domenica 3 maggio 2020

Per una rilettura dell'antispecismo


Peter Wenzel - Adamo ed Eva nel paradiso terrestre

Guest post di Bruno Sebastiani

Un “amico” di Facebook, commentando il mio articolo su “Antivaccinismo e dintorni”, conclude dicendo: “Sarebbe davvero interessante una lettura dell'antispecismo dal punto di vista “cancrista”.
Detto fatto. Lo accontento subito, anche perché l’argomento è ben ricco di stimoli, tutti da approfondire.
Egli dice: “Obiettivo dell'antispecismo è superare le gerarchie delle specie. Non è un'ideologia, ma un dato scientifico, perché è la stessa scienza a dimostrare che non esiste una specie animale più importante di un'altra.”
Poi soggiunge: “Non è il caso di addentrarsi nelle motivazioni filosofiche ed etiche che stanno dentro al pensiero antispecista […] metterlo accanto ai no vax mi sembra qualcosa di molto azzardato se non addirittura molto superficiale”.
Effettivamente io avevo immaginato un unico ampio schieramento che raggruppasse tutti gli “anti” che si contrappongono alla società edonista – consumista, al fine di proporre la teoria cancrista come elemento “ideologico” unificante.
Ero consapevole della differenza che intercorre tra le varie anime di questo mondo, che definivo “variegato e combattivo”, ma in quella sede mi premeva concentrarmi più sulla proposta che non sull’analisi delle varie componenti.
Affrontare ora il discorso dell’antispecismo è l’occasione per fare un ulteriore passo avanti nell’opera di chiarificazione e di unificazione degli sforzi di tutte le cellule-uomo consapevoli della propria nocività per la biosfera.
I termini “specismo” e “antispecismo” risalgono al 1970 e da allora hanno trovato diffusione nel mondo ambientalista e, più specificamente, in quello vegano - animalista.
Ma i concetti che sottintendono sono vecchi come il mondo. In occidente è stato Aristotele il primo a teorizzare la superiorità della nostra specie su tutte le altre, come ebbi a ricordare nel mio primo libro: “Tutti gli uomini sono protesi per natura alla conoscenza”, questo l’incipit della Metafisica, e subito dopo viene confermata, come cosa ovvia e scontata, la superiorità dell’essere umano su tutti gli altri animali, alcuni dei quali sarebbero privi di memoria, e quindi non possono far tesoro dell’esperienza, altri non avrebbero capacità di imparare in quanto privi di udito. Quelli dotati di memoria e udito sarebbero capaci di imparare, ma nella loro vita “sono presenti soltanto immagini e ricordi, mentre l’esperienza vi ha solo una limitatissima parte; nella vita del genere umano, invece, sono presenti attività artistiche e razionali” (da “Il Cancro del Pianeta”, cap. 12)
Da lì in avanti ogni filosofo, ogni corrente di pensiero, indipendentemente dall’appartenenza ideologica, religiosa o culturale, ha sempre confermato la superiorità della specie Homo sapiens su ogni altra.
Prima di occuparmi di questa visione del mondo indifferenziata e totalizzante, vorrei soffermarmi sul fatto che la stessa era ovunque diffusa ben prima dei ragionamenti di Aristotele.
Questa considerazione non è affatto scontata. Infatti molti, in accordo con il mito rousseauiano del buon selvaggio, pensano che gli uomini primitivi vivessero in armonia con la natura, nel rispetto di ogni essere vivente.
Purtroppo non era così. O meglio: forse lo era prima che il nostro cervello subisse l’abnorme evoluzione che ci trasformò in quello che siamo, quando cioè eravamo dei semplici primati, come i gorilla e gli scimpanzè.
Da quando diventammo “homo”, prima “habilis”, poi “erectus” e infine “sapiens”, il nostro rapporto con flora e fauna è sempre stato conflittuale.
Le nostre accresciute capacità cerebrali ci servirono per organizzare battute di caccia più proficue e per ricavare dalla terra prodotti più abbondanti di quelli che potevamo raccogliere a mani nude nei boschi.
Ma questo riferimento alla caccia e all’agricoltura non rende bene l’idea delle estinzioni e delle devastazioni che abbiamo perpetrato ai danni della biosfera sin dai primordi.
In America distruggemmo la mega fauna, in Europa gli orsi, i lupi e ogni altro animale in competizione con noi per il cibo e in Nuova Zelanda i giganteschi moa.
Il tema è assai ampio. Rinvio chi volesse approfondirlo al mio articolo su “La distruzione della natura nell’antichità” o al sesto capitolo del libro di Stefano Mancuso “L’incredibile viaggio delle piante” (Editori Laterza).
Occupiamoci ora del “post Aristotele” e dell’idea, ovunque diffusa e pressoché unanimemente condivisa nei secoli, della superiorità della nostra specie su ogni altro essere vivente.
È vero, come afferma il mio amico di Facebook, che “è la stessa scienza a dimostrare che non esiste una specie animale più importante di un'altra”?
No, caro amico, purtroppo non è vero. Certo, la scienza non rileva differenze tipologiche, non dice, ad esempio, che l’uomo è dotato di un’anima immortale e gli animali no, che gli uomini provano sentimenti e gli animali no. Ma certifica qualcosa di ben più importante al fine di sancire la differenza tra noi e loro, per stabilire inequivocabilmente la nostra superiorità nei loro confronti: conta il numero dei neuroni e delle sinapsi all’interno del cervello, sia del nostro sia di quelli di ogni altra specie animale. Così facendo appura in modo matematico, inequivocabile e incontrovertibile, l’immensa superiorità quantitativa del nostro connettoma, ovvero della nostra intelligenza, rispetto a quella di ogni altra specie vivente.
È non è questo il tipo di superiorità, di importanza, che ci pone “di diritto” ai vertici della piramide gerarchica della biosfera?
Per chi volesse prendere visione di uno dei tanti articoli scientifici che attestano questa realtà, suggerisco di consultare quello che ho inserito tra i documenti del sito de Il Cancro del Pianeta, originalmente pubblicato su Frontiers in Neuroanatomy.
Sento già sollevarsi le proteste di chi dice: “Ma essere più intelligenti non significa avere maggiori diritti e poter disporre a piacimento della vita altrui! Anzi, significa avere più responsabilità nella salvaguardia dei diritti dei più deboli!
Santa innocenza! Ma se non è bastata la predicazione di Gesù Cristo, del Buddha e di Maometto per dare a questo mondo la giustizia, se non sono bastate la Rivoluzione americana, quella francese e quella comunista per tutelare i diritti dei più bisognosi (e parliamo di uomini…), come ci si può illudere che i nostri contemporanei, sempre più sotto pressione a causa di sovrappopolazione, esaurimento delle risorse, inquinamento e riscaldamento globale, si prodighino per alleviare le sofferenze degli animali?
Sarà un caso, ma queste sofferenze sono proprio aumentate a dismisura da quel 1970 in cui si cominciò a parlare di “antispecismo” (più probabilmente si cominciò a parlarne proprio perché qualcuno si avvide delle sofferenze che avevamo iniziato a infliggere agli animali su vasta scala).
Gli allevamenti intensivi si sono moltiplicati e si sono estesi anche al mondo acquatico. Certo, nel frattempo sono stati chiusi un po’ di zoo e forse è diminuita qualche esibizione ferina nei circhi. Ma queste operazioni di facciata nascondono un mondo di sofferenze animalesche che si è enormemente dilatato.
Come affrontare dunque il problema da un punto di vista concettuale per dare all’antispecismo delle basi ideologiche più solide di quelle velleitarie che lo hanno sin qui contraddistinto?
La mia proposta è la seguente:
1) abbandonare l’idea che tutte le specie siano uguali e abbiano pertanto diritto ad occupare il medesimo posto nella scala gerarchica della biosfera. Non lo sono, come abbiamo visto, per intelletto (punto principale), ma non lo sono neppure per dimensioni né per capacità di accesso al cibo (è la cosiddetta catena alimentare a stabilire chi sta alla base e chi ai vertici del processo nutritivo);
2) riconoscere che l’essere umano, a seguito di fortuite alterazioni intervenute nel suo patrimonio genetico, ha conseguito capacità cerebrali maggiori di ogni altro essere vivente (vedasi -tra i vari riferimenti- l’articolo a suo tempo pubblicato su Wired da Viola Rita con i link da me aggiunti alla relativa documentazione scientifica);
3) prendere atto che queste capacità cerebrali hanno creato gravissimi danni all’ambiente, dimostrando che l’essere umano è in grado di sbilanciare a proprio vantaggio gli ultra-delicati equilibri della biosfera, ma non è assolutamente capace di ricreare un equilibrio complessivo altrettanto stabile come quello distrutto, indispensabile al mantenimento della vita sul pianeta;
4) ammettere che una siffatta attività è del tutto analoga a quella svolta dalle cellule del nostro organismo quando da sane si trasformano in tumorali a seguito di fortuite mutazioni nel loro materiale genetico. Ciò comporta l’alterazione irreversibile dell’equilibrio tra la proliferazione e la morte cellulare programmata (omeostasi) e dà luogo a una divisione cellulare incontrollata, con la conseguente distruzione dei tessuti sani adiacenti e poi di quelli più remoti attraverso le metastasi;
5) dedurre da quanto precede che le capacità cerebrali maggiori di cui al punto 2), lungi dal costituire la causa della superiorità della specie Homo, sono l’elemento che ne determina la nocività, avendolo trasformato in agente distruttore della biosfera.
A questo punto specismo e antispecismo assumono un significato diverso da quello che siamo soliti attribuire a queste due categorie. Non dobbiamo combattere il primo in nome della parità delle specie, ma dobbiamo riconoscere che le differenze tra le specie esistono. Dobbiamo però prendere atto che solo una (la nostra) ha rotto il patto di alleanza con la natura, mentre tutte le altre, pur nella loro diversità, hanno sempre vissuto rispettando l’equilibrio interspecifico inscritto nel loro DNA (non considero qui i comportamenti abnormi degli animali addomesticati o destinati alla macellazione, in quanto indotti dalla specie umana).
Definirsi cancristi anziché antispecisti significa dunque aver fatto un passo in più sulla via della consapevolezza (si veda in proposito la presentazione del mio libro “Il cancro del pianeta consapevole).
Siamo specisti perché riconosciamo che le differenze tra le specie esistono e siamo cancristi perché riconosciamo che l’unica nociva per la biosfera è quella umana.
Dopodiché chi è sensibile al benessere del mondo animale continuerà ad adoperarsi per alleviarne le sofferenze e chi non lo è (la stragrande maggioranza della popolazione) continuerà a comportarsi come prima.
Ma per cercare di convincere questi ultimi a modificare i propri comportamenti non dobbiamo sostenere che tutte le specie sono uguali.
Dobbiamo dimostrare che la nostra è dannosa, che siamo il cancro del pianeta!