Peter Wenzel - Adamo ed Eva nel paradiso terrestre
Guest post di Bruno Sebastiani
Un “amico” di Facebook, commentando il mio articolo su “Antivaccinismo e dintorni”, conclude dicendo: “Sarebbe davvero interessante una lettura dell'antispecismo dal punto di vista “cancrista”.
Un “amico” di Facebook, commentando il mio articolo su “Antivaccinismo e dintorni”, conclude dicendo: “Sarebbe davvero interessante una lettura dell'antispecismo dal punto di vista “cancrista”.
Detto fatto. Lo accontento
subito, anche perché l’argomento è ben ricco di stimoli, tutti da approfondire.
Egli dice: “Obiettivo
dell'antispecismo è superare le gerarchie delle specie. Non è un'ideologia, ma
un dato scientifico, perché è la stessa scienza a dimostrare che non esiste una
specie animale più importante di un'altra.”
Poi soggiunge: “Non è
il caso di addentrarsi nelle motivazioni filosofiche ed etiche che stanno
dentro al pensiero antispecista […] metterlo accanto ai no vax mi sembra
qualcosa di molto azzardato se non addirittura molto superficiale”.
Effettivamente io avevo
immaginato un unico ampio schieramento che raggruppasse tutti gli “anti” che si
contrappongono alla società edonista – consumista, al fine di proporre la
teoria cancrista come elemento “ideologico” unificante.
Ero consapevole della
differenza che intercorre tra le varie anime di questo mondo, che definivo “variegato
e combattivo”, ma in quella sede mi premeva concentrarmi più sulla proposta
che non sull’analisi delle varie componenti.
Affrontare ora il discorso
dell’antispecismo è l’occasione per fare un ulteriore passo avanti nell’opera
di chiarificazione e di unificazione degli sforzi di tutte le cellule-uomo
consapevoli della propria nocività per la biosfera.
I termini “specismo” e “antispecismo”
risalgono al 1970 e da allora hanno trovato diffusione nel mondo ambientalista
e, più specificamente, in quello vegano - animalista.
Ma i concetti che sottintendono
sono vecchi come il mondo. In occidente è stato Aristotele il primo a teorizzare
la superiorità della nostra specie su tutte le altre, come ebbi a ricordare nel
mio primo libro: “Tutti gli uomini sono protesi per natura alla conoscenza”,
questo l’incipit della Metafisica, e subito dopo viene confermata, come cosa
ovvia e scontata, la superiorità dell’essere umano su tutti gli altri animali,
alcuni dei quali sarebbero privi di memoria, e quindi non possono far tesoro
dell’esperienza, altri non avrebbero capacità di imparare in quanto privi di
udito. Quelli dotati di memoria e udito sarebbero capaci di imparare, ma nella
loro vita “sono presenti soltanto immagini e ricordi, mentre l’esperienza vi ha
solo una limitatissima parte; nella vita del genere umano, invece, sono
presenti attività artistiche e razionali” (da “Il Cancro del Pianeta”, cap.
12)
Da lì in avanti ogni
filosofo, ogni corrente di pensiero, indipendentemente dall’appartenenza
ideologica, religiosa o culturale, ha sempre confermato la superiorità della
specie Homo sapiens su ogni altra.
Prima di occuparmi di
questa visione del mondo indifferenziata e totalizzante, vorrei soffermarmi sul
fatto che la stessa era ovunque diffusa ben prima dei ragionamenti di
Aristotele.
Questa considerazione non
è affatto scontata. Infatti molti, in accordo con il mito rousseauiano del buon
selvaggio, pensano che gli uomini primitivi vivessero in armonia con la natura,
nel rispetto di ogni essere vivente.
Purtroppo non era così. O
meglio: forse lo era prima che il nostro cervello subisse l’abnorme evoluzione
che ci trasformò in quello che siamo, quando cioè eravamo dei semplici primati,
come i gorilla e gli scimpanzè.
Da quando diventammo “homo”,
prima “habilis”, poi “erectus” e infine “sapiens”, il
nostro rapporto con flora e fauna è sempre stato conflittuale.
Le nostre accresciute
capacità cerebrali ci servirono per organizzare battute di caccia più proficue
e per ricavare dalla terra prodotti più abbondanti di quelli che potevamo raccogliere
a mani nude nei boschi.
Ma questo riferimento alla
caccia e all’agricoltura non rende bene l’idea delle estinzioni e delle
devastazioni che abbiamo perpetrato ai danni della biosfera sin dai primordi.
In America distruggemmo la
mega fauna, in Europa gli orsi, i lupi e ogni altro animale in competizione con
noi per il cibo e in Nuova Zelanda i giganteschi moa.
Il tema è assai ampio.
Rinvio chi volesse approfondirlo al mio articolo su “La
distruzione della natura nell’antichità” o al sesto capitolo del libro
di Stefano Mancuso “L’incredibile viaggio delle piante” (Editori
Laterza).
Occupiamoci ora del “post
Aristotele” e dell’idea, ovunque diffusa e pressoché unanimemente condivisa nei
secoli, della superiorità della nostra specie su ogni altro essere vivente.
È vero, come afferma il
mio amico di Facebook, che “è la stessa scienza a dimostrare che non esiste
una specie animale più importante di un'altra”?
No, caro amico, purtroppo
non è vero. Certo, la scienza non rileva differenze tipologiche, non dice, ad
esempio, che l’uomo è dotato di un’anima immortale e gli animali no, che gli
uomini provano sentimenti e gli animali no. Ma certifica qualcosa di ben più importante
al fine di sancire la differenza tra noi e loro, per stabilire
inequivocabilmente la nostra superiorità nei loro confronti: conta il numero
dei neuroni e delle sinapsi all’interno del cervello, sia del nostro sia di
quelli di ogni altra specie animale. Così facendo appura in modo matematico,
inequivocabile e incontrovertibile, l’immensa superiorità quantitativa del
nostro connettoma, ovvero della nostra intelligenza, rispetto a quella di ogni
altra specie vivente.
È non è questo il tipo di
superiorità, di importanza, che ci pone “di diritto” ai vertici della piramide
gerarchica della biosfera?
Per chi volesse prendere visione di uno
dei tanti articoli scientifici che attestano questa realtà, suggerisco di
consultare quello che ho inserito tra
i documenti del sito de Il Cancro del Pianeta, originalmente pubblicato su
Frontiers in Neuroanatomy.
Sento già sollevarsi le proteste
di chi dice: “Ma essere più intelligenti non significa avere maggiori
diritti e poter disporre a piacimento della vita altrui! Anzi, significa avere
più responsabilità nella salvaguardia dei diritti dei più deboli!”
Santa innocenza! Ma se non
è bastata la predicazione di Gesù Cristo, del Buddha e di Maometto per dare a
questo mondo la giustizia, se non sono bastate la Rivoluzione americana, quella
francese e quella comunista per tutelare i diritti dei più bisognosi (e parliamo
di uomini…), come ci si può illudere che i nostri contemporanei, sempre più
sotto pressione a causa di sovrappopolazione, esaurimento delle risorse, inquinamento
e riscaldamento globale, si prodighino per alleviare le sofferenze degli
animali?
Sarà un caso, ma queste
sofferenze sono proprio aumentate a dismisura da quel 1970 in cui si cominciò a
parlare di “antispecismo” (più probabilmente si cominciò a parlarne proprio perché
qualcuno si avvide delle sofferenze che avevamo iniziato a infliggere agli
animali su vasta scala).
Gli allevamenti intensivi
si sono moltiplicati e si sono estesi anche al mondo acquatico. Certo, nel
frattempo sono stati chiusi un po’ di zoo e forse è diminuita qualche esibizione
ferina nei circhi. Ma queste operazioni di facciata nascondono un mondo di
sofferenze animalesche che si è enormemente dilatato.
Come affrontare dunque il
problema da un punto di vista concettuale per dare all’antispecismo delle basi
ideologiche più solide di quelle velleitarie che lo hanno sin qui
contraddistinto?
La mia proposta è la
seguente:
1) abbandonare l’idea che
tutte le specie siano uguali e abbiano pertanto diritto ad occupare il medesimo
posto nella scala gerarchica della biosfera. Non lo sono, come abbiamo visto,
per intelletto (punto principale), ma non lo sono neppure per dimensioni né per
capacità di accesso al cibo (è la cosiddetta catena alimentare a stabilire chi
sta alla base e chi ai vertici del processo nutritivo);
2) riconoscere che l’essere
umano, a seguito di fortuite alterazioni intervenute nel suo patrimonio
genetico, ha conseguito capacità cerebrali maggiori di ogni altro essere
vivente (vedasi -tra i vari riferimenti- l’articolo
a suo tempo pubblicato su Wired da Viola Rita con i link da me aggiunti alla
relativa documentazione scientifica);
3) prendere atto che queste
capacità cerebrali hanno creato gravissimi danni all’ambiente, dimostrando che
l’essere umano è in grado di sbilanciare a proprio vantaggio gli ultra-delicati
equilibri della biosfera, ma non è assolutamente capace di ricreare un
equilibrio complessivo altrettanto stabile come quello distrutto, indispensabile
al mantenimento della vita sul pianeta;
4) ammettere che una
siffatta attività è del tutto analoga a quella svolta dalle cellule del nostro
organismo quando da sane si trasformano in tumorali a seguito di fortuite mutazioni
nel loro materiale genetico. Ciò comporta l’alterazione irreversibile dell’equilibrio
tra la proliferazione e la morte cellulare programmata (omeostasi) e dà luogo a
una divisione cellulare incontrollata, con la conseguente distruzione dei
tessuti sani adiacenti e poi di quelli più remoti attraverso le metastasi;
5) dedurre da quanto
precede che le capacità cerebrali maggiori di cui al punto 2), lungi dal costituire
la causa della superiorità della specie Homo, sono l’elemento che ne
determina la nocività, avendolo trasformato in agente distruttore della
biosfera.
A questo punto specismo e antispecismo
assumono un significato diverso da quello che siamo soliti attribuire a queste
due categorie. Non dobbiamo combattere il primo in nome della parità delle
specie, ma dobbiamo riconoscere che le differenze tra le specie esistono.
Dobbiamo però prendere atto che solo una (la nostra) ha rotto il patto di
alleanza con la natura, mentre tutte le altre, pur nella loro diversità, hanno
sempre vissuto rispettando l’equilibrio interspecifico inscritto nel loro DNA (non
considero qui i comportamenti abnormi degli animali addomesticati o destinati
alla macellazione, in quanto indotti dalla specie umana).
Definirsi cancristi anziché
antispecisti significa dunque aver fatto un passo in più sulla via della
consapevolezza (si veda in proposito la
presentazione del mio libro “Il cancro del pianeta consapevole”).
Siamo specisti perché riconosciamo
che le differenze tra le specie esistono e siamo cancristi perché riconosciamo
che l’unica nociva per la biosfera è quella umana.
Dopodiché chi è sensibile
al benessere del mondo animale continuerà ad adoperarsi per alleviarne le
sofferenze e chi non lo è (la stragrande maggioranza della popolazione) continuerà
a comportarsi come prima.
Ma per cercare di
convincere questi ultimi a modificare i propri comportamenti non dobbiamo sostenere
che tutte le specie sono uguali.
Dobbiamo dimostrare che la
nostra è dannosa, che siamo il cancro del pianeta!