mercoledì 27 gennaio 2021

Contra philosophos, ovvero i filosofi e la superiorità della razza umana

 

Di Bruno Sebastiani

Lo scopo finale dell’uomo è di sottomettere a sé tutto ciò che è privo di ragione e di padroneggiarlo liberamente secondo la propria legge.”

Questa frase, tanto lapidaria quanto terrificante, riassume perfettamente il senso della perversa evoluzione subìta dal nostro cervello. Sembra pronunciata da un sadico aguzzino in preda a una crisi di delirio di onnipotenza.

Il suo autore è invece lo stimato e apprezzato filosofo Johann Gottlieb Fichte (immagine centrale), che l’ha inserita in uno dei suoi “capolavori”, “La missione del dotto” (Fabbri, Milano 2004, p. 17).

Questa affermazione è la più esplicita di una infinita serie di asserzioni che nel corso dei secoli i più celebri filosofi, scienziati ed ecclesiastici hanno profuso a piene mani nei propri scritti.

Senza risalire al famoso invito rivolto da Dio ad Adamo ed Eva (“soggiogate la terra e dominate sopra ogni essere vivente”) e a tutti i conseguenti precetti di natura religiosa, possiamo osservare che analoghi princìpi germogliarono anche in Grecia, la “laica” patria della filosofia.

Il mito di Prometeo e di Epimeteo, rievocato da Socrate nel Protagora di Platone, narra che “l’uomo divenne partecipe di una sorte divina […] unico tra gli esseri viventi, cominciò a credere negli dèi […]”.

Pochi anni più tardi Aristotele scrisse: “Tutti gli uomini sono protesi per natura alla conoscenza […] Nella vita degli animali […] sono presenti soltanto immagini e ricordi, mentre l’esperienza vi ha solo una limitatissima parte; nella vita del genere umano, invece, sono presenti attività artistiche e razionali. […] l’esperienza è per gli uomini solo il punto di partenza da cui derivano scienza e arte […] (Metafisica, 980a – 981a)

Plotino nel III secolo puntualizzava che: “[…] l’uomo possiede la vita completa, allorché ha non solo quella sensibile, ma anche la facoltà di ragionare e l’Intelligenza vera […]” (Enneade I 4, 5)

Nel 1260 Tommaso d’Aquino, in pieno Medio Evo cristiano, sancì la superiorità degli esseri dotati di pensiero razionale su quelli che ne sono privi: “[…] mostreremo che per divina disposizione, nel determinare la perfezione delle cose create secondo il migliore dei modi, era giusto che venissero prodotte delle creature dotate di intelligenza, poste nel grado supremo degli esseri.” (Somma contro i gentili, Libro II, Cap. XLVI)

Tutta la storia della chiesa è costellata di documenti che, sulla scia di quanto affermato dall’aquinate, hanno periodicamente ribadito la superiorità dell’uomo su ogni altro vivente.

Nel 1870 Pio IX, nella Costituzione Dogmatica “Dei Filius” ribadì che “[…] Dio destinò l’uomo ad un fine soprannaturale, cioè alla partecipazione dei beni divini, che superano totalmente l’intelligenza della mente umana […] sebbene la fede sia superiore alla ragione, pure non vi può essere nessun vero dissenso fra la fede e la ragione, poiché il Dio che rivela i misteri della fede e la infonde in noi è lo stesso che ha infuso il lume della ragione nell’animo umano […]”.

Dunque anche per la chiesa di Roma è il “lume della ragione” a stabilire la nostra superiorità in questo mondo.

I precetti della religione peraltro sono sempre ammantati da una patina di “sovra naturalezza” che ne attenua il rigore.

Spetta ai filosofi laici il primato della brutalità, e non vi è dubbio che, prima di Fichte, il pensatore più malvagiamente esplicito in tema di superiorità umana sia stato Cartesio, per il quale gli animali sono equiparabili a dei congegni meccanici.

“[…] non esistono uomini così ebeti e stupidi e magari anche pazzi che non siano capaci di combinare insieme diverse parole e di comporre un discorso con il quale far capire i loro pensieri, mentre, al contrario, non vi è nessun animale tanto perfetto e tanto felicemente nato che faccia lo stesso. […] Questo fatto testimonia non soltanto che le bestie hanno meno ragione degli uomini ma che non ne hanno affatto; […] è la natura ad agire in loro secondo la disposizione dei loro organi, così come si vede che un orologio, composto unicamente di ruote e di molle, può contare le ore e misurare il tempo più esattamente di noi con tutta la nostra prudenza.” (Discorso sul metodo, parte quinta)

Un po' meno brutale fu Leibniz, ma la sostanza del discorso è sempre la medesima: “[…] la conoscenza delle verità necessarie ed eterne è quella che ci distingue dagli animali bruti e ci fa avere la ragione e le scienze, elevandoci alla conoscenza di noi stessi e di Dio. Questo è ciò che in noi si chiama anima ragionevole o spirito.” (Monadologia, parte II, cap. VI

Credo che le citazioni sopra riportate forniscano un quadro sufficientemente chiaro di come i maggiori pensatori di tutti i tempi abbiano costantemente e concordemente incensato la superiorità della razza umana in contrapposizione all’inferiorità del mondo della natura.

Ad avvalorare questa affermazione aggiungo le citazioni di un filosofo che la vulgata comune definisce contiguo al romanticismo, al vitalismo e all’irrazionalismo, nonché connotato da una forte dose di pessimismo, Arthur Schopenhauer.

È opinione concorde di tutti i tempi e di tutti i popoli che tutte queste così svariate ed estese asserzioni hanno origine da un principio comune, da quel particolare potere dello spirito che rende l’uomo superiore all’animale e che è stato chiamato RAGIONE [in maiuscolo nel testo …]”

Il grande privilegio dell’uomo, la ragione, […] mediante una condotta regolata e ciò che ne consegue, gli allevia tanto la vita ed il suo peso […]

Quantunque nell’uomo, come idea (platonica), la volontà trovi la sua più chiara e perfetta oggettivazione, questa soltanto tuttavia non poteva esprimere la sua essenza. L’idea dell’uomo, per apparire nel suo debito significato non poteva manifestarsi sola e sconnessa, ma doveva essere accompagnata dal processo graduale discendente, attraverso tutte le forme animali, il regno vegetale, fino al mondo inorganico. Soltanto tutti questi si integrano in una completa oggettivazione della volontà; essi sono presupposti dall’idea dell’uomo, così come i fiori dell’albero presuppongono le foglie, i rami, il tronco e le radici: essi formano una piramide, il cui vertice è costituito dall’uomo.”

Come se a Schopenhauer non bastasse aver collocato l’uomo al vertice della piramide della natura, il desiderio di umiliare gli altri esseri viventi si esprime in lui nella constatazione che solo l’uomo cammina volgendo lo sguardo in alto, mentre tutti gli altri hanno il muso rivolto a terra!

Questa differenza fra uomo ed animale è espressa all’esterno mediante la diversità di rapporto della testa con il corpo. Negli animali inferiori, entrambi sono ancora del tutto attaccati; in tutti, la testa è inclinata verso terra […] Perfino negli animali superiori testa e tronco sono un tutt’uno, ancor più che nell’uomo, il cui capo appare collocato libero sul corpo, da questo solamente portato, non già al suo servizio. L’Apollo del Belvedere rappresenta a livello sublime questo vantaggio per l’uomo: la testa del dio delle muse, la quale volge ampiamente lo sguardo tutto intorno, poggia così libera sulle spalle, che si svincola completamente dal corpo e sembra non darsene più pensiero.” (Il mondo come volontà e rappresentazione, parr. 8, 16, 28 e 33)

Qui il cerchio si chiude e il moderno Schopenhauer si ricollega all’antico Aristotele, il quale si compiaceva di come l’uomo fosse “il solo degli animali ad avere posizione eretta […] con la sua parte superiore […] orientata verso la parte superiore dell’universo […]” (Parti degli animali, 656a)

Né a Schopenhauer né ad alcun altro illustre filosofo è mai venuto in mente che se lo sguardo dell’uomo, anziché verso lontani e irraggiungibili orizzonti, fosse stato rivolto verso la terra, le piante e gli esseri a noi più vicini, oggi non ci troveremmo a dover risolvere i terribili problemi che affliggono la biosfera e con essa anche le nostre stesse vite?

L’ora della fine del nostro mondo si avvicina velocemente e i grandi pensatori ne sono in buona parte responsabili.

Non vi è dubbio che il cervello dell’uomo sia più potente di quello degli altri animali, ma ben diverso è attribuire a questa peculiarità valore positivo, come hanno fatto sin qui tutti i filosofi, o valore negativo, come ho iniziato a ipotizzare ne “Il Cancro del Pianeta” sulla base degli esiti di ciò che la potenza del nostro organo di comando ha causato alla biosfera.

Se vogliamo cercare di rallentare l’ecocidio, iniziamo dunque a riflettere sul reale valore dell’abnorme sviluppo evolutivo subìto dal nostro encefalo, che ci ha consentito di stravolgere l’armonia della natura ma che non ci permette di ricrearne un’altra altrettanto stabile e duratura.


venerdì 22 gennaio 2021

Olobionte: L'Evoluzione per Selezione Naturale non è più Quella di una Volta


 

Una presentazione del concetto di "Olobionte" -- un'idea diffusa da Lynn Margulis negli anni 1990 che rivoluziona molte cose nel campo della biologia evolutiva. L'idea darwiniana di "evoluzione per selezione naturale" rimane valida. Ma non è la sopravvivenza del più forte che muove l'evoluzione, è piuttosto la collaborazione che è il motore principale che tiene in movimento l'ecosistema. 

L'olobionte è l'entità centrale di questa nuova sintesi evolutiva: non più singoli organismi che si combattono per riprodursi, ma insiemi di organismi che si aiutano a vicenda. L'Olobionte umano è formato da un organismo principale, il mammifero che chiamiamo "homo sapiens," aiutato da un grandissimo numero di microorganismi che vivono in simbiosi tutti insieme. 

Ma il concetto di olobionte va oltre quello della simbiosi fra mammiferi e micro-organismi. Gli olobionti esistono a tutte le scale: un albero è un'olobionte, ma lo è anche un'intera foresta. E l'olobionte principale, quello che tiene insieme tutto l'ecosistema terrestre, è quella creatura variegata e complessa che chiamiamo "Gaia."


 

venerdì 15 gennaio 2021

Una, nessuna o centomila? L'evanescente illusione dell'anima

 


Louis Janmot, Il volo dell'anima, 1854

Tranquilli. Pirandello non c’entra. La parafrasi del titolo del suo famoso romanzo serve solo a introdurre il tema dell’anima, questa evanescente illusione che ci siamo inventati per tentare di dare un senso all’inspiegabile.

Forse, a ben guardare, qualche attinenza con l’argomento del romanzo la si può trovare. Ma lascio volentieri ad altri questo esercizio.

Io preferisco concentrarmi su come e perché i nostri lontanissimi progenitori abbiano pensato che dietro a tutto ciò che nasce, si sviluppa e muore potesse sussistere una entità immateriale destinata ad affiancare il fenomeno vita e poi, presso talune fattispecie, a immortalarlo.

L’argomento è vastissimo e richiederebbe, per essere svolto in modo appropriato, lo spazio di un intero trattato e non quello di un semplice articolo.

Mi limiterò pertanto a enucleare i capitoli di questo tema e a svolgere qualche considerazione al riguardo.

Iniziamo col dire che all’insorgere dell’autocoscienza nel cervello di Homo sapiens, l’esistenza di qualcosa dietro ad ogni fenomeno naturale apparve la spiegazione più ovvia della realtà.

Nacque così l’animismo o religione della natura. L’etimologia stessa del termine “anima” ci rinvia a quel “soffio vitale” che “qualcuno” avrebbe insufflato nel corpo di ogni vivente, il quale, per l’appunto, in virtù di tale azione sarebbe divenuto “animato”.

In realtà inizialmente si ritenne che ogni realtà fosse dotata di tale spirito, fiumi, laghi e montagne compresi.

Poi, poco alla volta, il lume della ragione restrinse il campo. Solo ai viventi fu attribuita questa particolarità e l’animismo cedette il passo ai miti e alle religioni.

Ma il concetto di anima continuò a perpetuarsi (qualche sua sporadica espressione sopravvive ancora ai giorni nostri!) e fu rielaborato opportunamente da filosofi e uomini di chiesa.

La prima brutale operazione compiuta da costoro ai danni del mondo vegetale e di quello animale consistette proprio nel privare alberi e belve di questa sostanza immateriale, che da un certo punto in poi fu ritenuta appannaggio esclusivo della razza umana.

Ma come? Se la sua funzione primaria era di affiancare e sostenere ogni essere vivente, perché riservarla solo all’uomo?

L’unica spiegazione plausibile è che l’uomo, rispetto a ogni altro vegetale e animale, ha un cervello molto più fitto di neuroni e sinapsi, condizione questa che lo pone in grado di dominare tutti gli altri esseri dotati di vita e di decidere cosa compete a costoro, anche in termini di presunta vita ultraterrena.

Perché di questo si tratta. Avere l’anima è la condizione indispensabile, secondo miti e religioni, per poter “sopravvivere alla morte” e accedere all’“al di là”, sia che si chiami “ade” o “campi elisi” o “paradiso” (con la variante punitiva dell’“inferno”).

Il fitto intrico di neuroni e sinapsi ha infatti svelato all’uomo che a ogni nascita conseguono l’invecchiamento e la morte, destino tanto inesorabile quanto oscuro e angosciante.

Per tale motivo sorse l’esigenza di aggrapparsi a un “salvagente ideologico”, ed ecco l’utilità di quel concetto di anima che sopravvive alla morte.

Il fatto di non attribuirla agli animali ha una sua logica. Essi conoscono l’angoscia della morte solo nel momento del pericolo. Non ne sono afflitti costantemente nel corso della vita e non hanno quindi necessità di particolari supporti “psicologici” durante la loro esistenza.

Osservazione a margine. Ma questa condizione “animalesca” non è preferibile a quella umana? E, se sì, non ne consegue che il maggior intrico di neuroni e sinapsi formatosi nel cervello dell’uomo sia da ritenere un attributo infausto anziché super-favorevole?

Ma torniamo a occuparci della fantomatica anima e vediamo quali forme abbia assunto la sua presunta esistenza nel corso dei secoli.

Anche in questo caso, come in molti altri, il più eminente organizzatore dell’idea “anima” nell’antichità è stato Aristotele.

A questo argomento ha dedicato uno specifico trattato (per l’appunto il De Anima), in cui stabilisce (bontà sua) che all’anima competano varie facoltà, le quali “si trovano in alcuni viventi tutte […] in altri alcune, in taluni, infine, una sola.” (II, 3, 414a) Sia detto per inciso, le povere creature con una sola facoltà (quella nutritiva) sarebbero le piante, mentre gli animali sarebbero in possesso di anime con più facoltà, seppure in forma ben ridotta rispetto all’uomo.

Quest’ultimo, il dominatore dell’Universo, è l’unico fornito di intelletto (seppure passivo, essendo quello attivo di competenza della divinità). Questa attribuzione gli dà comunque diritto a un’anima di tipo superiore, provvista di ogni facoltà, compresa quella di ricevere la luce riflessa dell’intelletto attivo e quindi di proseguire la sua vita oltre la morte.

L’indagine di Aristotele non ha peraltro scopi religiosi e non sconfina nella vita ultraterrena. Per lui l’anima è il principio che sostiene ogni essere vivente e il suo studio si incentra eminentemente sul funzionamento del fenomeno “vita”, relativamente al quale l’anima è l’artificio che consente di dare una spiegazione a ciò che il sapere scientifico dell’epoca non era in grado di giustificare.

Platone nel Timeo espone la sua cosmogonia, secondo la quale “questo mondo è veramente un animale animato e intelligente generato dalla provvidenza di dio.” (VI, 30b) Ebbene questo “animale” vive sul pianeta Terra e dispone di un’anima unica e multiforme. Ecco come si sarebbe formata: “[…] il dio […] fece un corpo liscio e uniforme ed eguale dal centro in ogni direzione […] E messa l’anima nel mezzo di esso, la distese per tutte le sue parti, e con questa stessa l’involse tutt’intorno di fuori […]” (VIII, 34b)

È un approccio un po' più poetico e meno filosofico di quello di Aristotele, ma entrambi lasciano aperta la possibilità che, in aggiunta alle singole anime individuali, ve ne sia una “planetaria”, o piuttosto che le prime derivino da quest’ultima, preesistente.

In particolare, una interpretazione degli scritti di Aristotele operata da Averroè ipotizzò l’esistenza di due tipi di anime, una personale e mortale e un’altra immortale ma impersonale, cioè unica per tutto il genere umano.

Come si può ben capire, se questa fosse stata l’ipotesi prevalente sarebbe venuto meno tutto il potere persuasivo e dissuasivo nelle mani della chiesa: nell’aldilà non vi sarebbero premi per i buoni e castigo per i cattivi. E allora perché operare il bene disinteressato anziché ricercare il vantaggio egoistico?

Per stroncare questa teoria e altre eterodosse che si stavano diffondendo, papa Leone X nel 1513 emanò la Bolla Apostolici Regiminis in cui veniva proclamata solennemente l’immortalità di ogni singola anima umana, che così da “una” diveniva “centomila”.

E quando l’anima svanì, divenne “nessuna”?

Si deve arrivare al 1789, al trionfo rivoluzionario della Dea Ragione, e poi al XIX secolo, con l’avvento dello scientismo. Come credere ancora all’esistenza di una entità incorporea, che nessuno hai mai visto e toccato, destinata a vivificare i corpi degli uomini nel corso della loro vita e a sopravvivere dopo la morte?

Oltretutto Charles Darwin dimostrò verso la fine dell’800 la nostra discendenza da una famiglia di primati, i quali per Aristotele avevano una forma di anima “ridotta” e per la chiesa nessuna. L’anima nell’uomo si sarebbe dunque formata a un certo punto del suo percorso evolutivo. Ma quando? L’ipotesi più plausibile è che ciò sia accaduto in concomitanza con l’insorgere dell’autocoscienza. Dunque l’anima sarebbe un riflesso della ragione. Ma poi la ragione “cresce”, si sviluppa e ci mette in grado di conoscere il reale funzionamento dei corpi, dove non troviamo traccia di alcuna entità immateriale nonostante l’uso degli strumenti più sofisticati.

L’anima è svanita, è diventata “nessuna”. Il rischio di questa sparizione è che con essa sia sparito ogni freno all’egoismo umano. Se non vi sono premi o castighi ultraterreni, perché non cercare di ottenere i massimi vantaggi nel corso di questa vita terrena?

È ciò che stiamo facendo, depredando brutalmente tutte le risorse del pianeta! Dunque la sparizione dell’anima segna il raggiungimento di un nuovo stadio della malattia che rappresentiamo per la biosfera? Pare proprio di sì, con l’aggravante che l’anima scacciata non potrà mai tornare in auge, a conferma che il cammino sin qui fatto della razza umana non può essere percorso a ritroso.

Per approfondimenti https://ilcancrodelpianeta.wordpress.com/.


sabato 9 gennaio 2021

Superare il capitalismo? Conversione Ecologica e Conflitto



Terza puntata dedicata alla conversione ecologica ed al conflitto.


Articolo già apparso su Apocalottimismo il 30/10/2020

 

Di Iacopo Simonetta


Settimane fa, a seguito di un interessante incontro nell’ambito del progetto “Ecoesione” dell’Università di Pisa su conversione ecologica e conflitto, mi posi tre domande: 1 – Crescita o non crescita? 2 – Quanta decrescita e per chi? 3 – Bisogna superare il capitalismo?


Delle prima due abbiamo parlato nei precedenti post, qui vorrei accennare ad alcune questioni relative al un punto fondamentale: il capitalismo è compatibile con l’auspicata conversione ecologica?
La questione è cruciale perché coloro che si adoperano per tale conversione devono far pressione sul sistema attuale per modificarne la rotta, oppure cercare di sostituirlo con un’altro sistema? E se questa fosse l’opzione, con quale sistema?
Mercato o non mercato? 

Tutte le proposte inerenti una qualche variante di “green Economy” danno per scontato di operare all’interno di un’economia di mercato. Sia pure con qualche aggiustamento, si pensa comunque di restare saldamente in un sistema capitalista, con tutto il relativo apparato legale, istituzionale e di costume. Siamo sicuri che sia possibile una vera transizione ecologica senza sbarazzarsi del capitalismo o, magari, trasformarlo in qualcosa di molto diverso?

Struttura del capitalismo.  

Il capitalismo è un sistema economico unico nella storia e, alla resa dei conti, si è dimostrato di gran lunga il più efficiente nello sfruttare le opportunità di crescita che offriva un “mondo vuoto” (sensu H. Daly). Non solo ha infatti permesso la creazione di immense fortune private (anche altri sistemi lo hanno fatto), ma ha anche distribuito il massimo storico di benessere materiale e di libertà personale ai cittadini degli stati che lo hanno adottato per primi. Si è anche dimostrato inattaccabile grazie alla sua capacità camaleontica di adattarsi ai più diversi contesti, pur restando saldamente sé stesso. Anzi, assorbendo ed utilizzando a proprio vantaggio anche le idee, i concetti e le invenzioni nate per contrastarlo.
Proprio questo lo rende così terribilmente distruttivo. Qui non possiamo scendere in dettagli su cui mi riprometto di tornare in futuro, ma è un fatto che il sistema capitalista è strutturato su una ridondanza di retroazioni positive senza freni interni. Al contrario ha molti strumenti (ad es. la tecnologia e la finanza) per contrastare gli effetti frenanti derivanti dagli impatti negativi sulle risorse, l’ambiente ecc.
Ne consegue che un sistema capitalista può fare solo due cose: crescere o collassare, senza possibili vie di mezzo.

Ovvio che se quella che si cerca è una “crescita verde” il capitalismo è quello che ci vuole, ma è lecito dubitare che in tal modo si possa davvero ridurre l’impatto umano sul Pianeta. Del resto, i deleteri effetti del “green washing” sono sotto gli occhi di tutti. Oramai, in nome e per conto della “economia verde” e dello “sviluppo sostenibile” si promulgano leggi ai limiti del criminale, come il “Testo Unico Forestale” del governo Gentiloni, e si finanziamo speculazioni a dir poco spregiudicate.


Effetti macroeconomici del superfluo. 

Il consumismo è alla base del disastro ecologico globale e si basa sulla vendita di oggetti perlopiù inutili, talvolta perfino dannosi, spesso progettati per rompersi presto e non essere riparabili. Verissimo, ma la maggior parte delle persone oggi lavorano proprio alla produzione e commercializzazione di beni e servizi inutili. L’esperienza dei blocchi dovuti alla pandemia di Covid-19 ci ha dato una dimostrazione plateale di come sia stato sufficiente rallentare per alcuni mesi la commercializzazione mondiale di generi non indispensabili per scatenare una crisi economica ancora più grave di quella, catastrofica, del 2008, lasciando disoccupate centinaia di milioni di persone nel mondo. Circa trenta milioni solo in Europa. Alla fine, nel mondo, il Covid avrà ammazzato più gente di miseria che di polmonite. 

Insomma, è verissimo che una vita sobria e laboriosa può essere di molta più soddisfazione di una vita passata a strascicare i piedi nei centri commerciali, ma le conseguenze per coloro che lavorano per far arrivare quella roba in quelle vetrine sarebbero devastanti. Certo, una vera transizione ecologica aprirebbe altri sbocchi professionali, magari più interessanti, ma rimane da stabilire quale sarebbe il saldo finale e come gestire la fase di passaggio che facilmente provocherebbe gravi conseguenze per molta gente e, di conseguenza, una netta opposizione, se non una vera insurrezione.

Effetti finanziari. I più seri tra i fautori del Green New Deal indicano anche quali sarebbero le fonti di finanziamento. In buona sostanza, sarebbero tre: – aumento delle tasse per i redditi più elevati, – diversa destinazione di spese già in atto, – varie tipologie di debito pubblico e privato.

La tassazione requisitoria dei super-redditi avrebbe indubbi vantaggi non tanto in termini di gettito fiscale, quanto in termini di recupero di credibilità e di autorevolezza della classe dirigente, oggi totalmente delegittimata. Resta da vedere se sia possibile attuare questa misura.

La ridistribuzione di spese e contributi potrebbe fare molto per sostenere la transizione, ma presenta dei rischi a seconda di quali finanziamenti si andassero a ridurre/eliminare. In particolare, le due categorie più gettonate sono le spese militari e le sovvenzioni alle industrie petrolchimiche. Delle prime si è già fatto cenno nella puntata precedente. Quanto alle sovvenzioni alle fossili, sono effettivamente un assurdo, ma il loro taglio potrebbe provocare il collasso di un comparto industriale che è già in affanno e che rimarrà comunque essenziale ancora a lungo. Fra l’altro, anche per realizzare la transizione energetica, visto che quasi tutto ciò che serve per essa viene direttamente o indirettamente dalle fossili.

Per quanto riguarda il debito comunque confezionato, la speranza è che i vantaggi derivanti dalla transizione consentano di ripagarlo. Il punto è che ciò sarebbe teoricamente possibile in un contesto di crescita economica, mentre in un contesto di decrescita ciò sarebbe comunque impossibile, con grave rischio di collasso del sistema finanziario e monetario. Inoltre, aumentare la massa monetaria in un contesto di contrazione od anche di stagnazione economica finirebbe con lo scatenare fenomeni inflattivi devastanti come si è già visto tante volte.

Insomma, se la transizione avvenisse in un contesto di decrescita sufficientemente rapida da salvare la Biosfera, bisognerebbe pianificare l’annullamento di gran parte del debito, il che significa la scomparsa del denaro e dalla finanza attuali e, quindi, la loro sostituzione. Con che? Non mi risulta che questo sia un punto in discussione.

Al contrario, se il GND fosse capace di rilanciare la crescita economica, come molti affermano, l’intera operazione fallirebbe con ogni probabilità lo scopo. Sappiamo bene da oltre 50 anni che per evitare il collasso globale occorre contrarre e non accrescere l’economia e la popolazione.

Tensioni e conflitti internazionali. Un altro punto fondamentale che si tende a trascurare è che non esistono solo le tensioni sociali interne ai vari stati (di cui le versioni migliori del GND almeno in parte si occupano), ma anche tensioni internazionali, spesso complicate, talvolta violente, quasi ovunque in peggioramento. Gli stati che decidessero di fare da battistrada per una transizione del tipo di quella prospettata ridurrebbero il loro peso economico e politico nel mondo, specie se tagliassero drasticamente le spese militari, come generalmente auspicato dai sostenitori del GND. Una cosa estremamente pericolosa, visto che la maggior parte dei paesi vanta almeno un vicino ostile, ma anche considerata la necessità di mantenere aperti canali commerciali globali ancora per un lungo periodo di tempo. La probabilità che altri paesi approfittino del ridimensionamento di alcuni, optando per una politica di accaparramento degli spazi economici e politici lasciati da altri, sarebbero molto elevate. Per non dire una certezza.
Non dimentichiamo poi che moltissimi paesi anche molto vicini a noi andranno quasi sicuramente incontro a ulteriori crisi politiche e sociali, tipo “primavere”. Finora queste ondate di violenza collettiva si sono sfogate all’interno dei confini nazionali, anche se con un forte impatto su altri paesi a causa della fuga di massa dalle zone più colpite. Ma non è detto che in futuro continui ad essere così e, se anche fosse, dovremo fronteggiare flussi di gente in fuga di ordini di grandezza superiori a quelli visti finora. 

Comunque, le prospettive sono abbastanza tetre per tutti. Per i paesi che vivono di esportazione di energia fossile (OPEC e Russia prima di tutti), una vera e diffusa conversione energetica sarebbe un disastro totale e non è detto che, potendo, non ricorrerebbero alle armi per salvarsi. Per le economie fortemente industrializzate, come Cina, USA e UE, una crisi dei trasporti internazionali, anche parziale, potrebbe facilmente innescare un completo collasso economico. Le devastanti conseguenze dei vari “lockdown” da Covid sono state un piccolo assaggio di quello che potrebbe facilmente accadere. Infine, molti dei paesi più poveri tirano avanti in buona parte grazie a programmi internazionali e rimesse di emigrati che diventerebbero molto più aleatori in un modo in cui le economie si contraggono. Molti fra questi paesi sono anche quelli demograficamente più instabili e maggiormente a rischio di violenza anche estrema.


Rientro nei limiti. 

La crescita economica comporta sempre un aumento dei consumi e, generalmente, anche della popolazione (contrariamente alla vulgata). In altre parole, aumenta l’impatto umano sul pianeta, mentre è imperativo ridurlo il più rapidamente possibile perché la situazione è già ora disperata.

Tanto per farsi un’idea, buona parte delle calotte glaciali è già in collasso e si stanno consolidando una serie di retroazioni che aumenteranno il tenore di CO2 e di metano in atmosfera, qualunque cosa faremo noi con le nostre tecnologie. Ancora peggio, i biomi non esistono più ed oggi si parla di Antromi. Dei 21 identificati, soltanto 3 sono considerati “wildlands”: deserti, tundra e resti di foreste primarie equatoriali, per un totale di poco più del 20% delle terre emerse (Antartide esclusa). Comunque, anche questi territori sono soggetti a gravissimi fenomeni di degrado come incendi, scioglimento del permafrost, ecc.

Tutto il resto, circa l’80% delle terre emerse, è occupato da ecosistemi totalmente artificiali, come città e campagne, o pesantemente modificati, come la quasi totalità delle foreste e delle praterie superstiti. In mare va pure peggio. 

Il risultato è che in appena 50 anni abbiamo perso oltre il 70% della fauna del mondo, mentre nello stesso periodo la popolazione umana è raddoppiata, raggiungendo una densità media mondiale di 55 persone per Kmq (sempre Antartide esclusa). Vale a dire che abbiamo un quadrato di poco più di cento passi per lato a testa. Se consideriamo però la sola superficie agricola, il quadrato diventa di soli 40 passi per lato (meno di 2000 mq). Oramai, il poco che resta di vita selvatica sopravvive stentatamente negli interstizi del nostro “formicaio umano globale”.


Considerazioni finali

Il petrolio abbondante, a buon mercato e di eccellente qualità è stato ciò che ha consentito al capitalismo di realizzare la più fantastica crescita economica di sempre e quella crescita è ciò che ha reso compatibili, anzi sinergici, il capitalismo e la democrazia.

La crescita è finita e non tornerà. E con la fine della crescita è finita questa sinergia: di qui il risorgere ed il diffondersi di partiti e movimenti estremisti, mentre il capitalismo in agonia cerca di sopravvivere adottando, gradualmente, metodi di manipolazione, controllo e repressione sempre più simili a quelli cari ai regimi totalitari. Tutto ciò che la crescita ha creato, senza di essa non potrà funzionare.

D’altronde, la decrescita non è una scelta, è una conseguenza di leggi fisiche e biologiche ineludibili. Questo significa che non solo le nostre abitudini ed il nostro benessere, ma anche buona parte di ciò che pensiamo, delle nostre certezze identitarie, fino ai nostri bastioni etici cadrà in rovina e da quelle rovine dovremo ricostruire un sistema di pensiero che ci possa sostenere in una realtà che già ci terrorizza, anche se ancora non la riusciamo ad immaginare.

D’altronde, per quanto duro, il declino è anche la strada migliore perché qualunque ulteriore crescita economica comporterebbe un ancor maggiore incremento dell’ingiustizia e della distruzione di ciò che resta della Biosfera.

In una qualche misura, possiamo però scegliere come declinare. Un vecchio detto afferma che per avere le buone risposte occorre porre le buone domande. Per esempio: “Come possiamo mantenere il nostro standard di vita?” è una domanda stupida perché sappiamo bene che la risposta è: “non possiamo”.

Però ci sono altre domande su qui vale la pena di riflettere. Per esempio: “Come possiamo contribuire a salvare la biosfera?” Oppure: “Possiamo seppellire il capitalismo salvando le libertà individuali?” O ancora: “E’ possibile una società decentemente giusta, anche se terribilmente povera?”
Ce ne sono molte altre, il punto è decidere quali sono le questioni che ci interessano davvero.

A chiosa, ricordo che tutte queste sono considerazioni strettamente personali che molti, specie fra coloro che sono importanti, non condividono, anzi negano o deridono. Sono il primo ad augurarmi di avere torto, ma avessi anche solo in parte ragione?




lunedì 4 gennaio 2021

Spunti per una nuova rivoluzione culturale

 

Di Bruno Sebastiani

Non mi era nota fino a qualche tempo fa (e me ne rammarico) l’instancabile ed encomiabile attività di Maurizio Di Gregorio, sia come articolista sia come libraio on line.

Il 15 giugno di quest’anno ha pubblicato nel suo sito Fiorigialli.it un articolo dal titolo “Auspicio e urgenza di una internazionale ecologista”.

L’articolo è lungo e complesso. Gli elementi di maggior interesse, a mio avviso, sono contenuti negli ultimi tre paragrafi (“Auspicio di una Internazionale Ecologista”, “Un Movimento Planetario di Liberazione” e “Trasformazione interiore e Cambiamento esteriore”), dove viene prefigurata l’unificazione di tutti gli sforzi dei vari movimenti ecologisti in un grande movimento culturale per la salvezza della biosfera.

L’altra attività di Di Gregorio, quella libraria, è complementare a quella “ideologica”. Si sa che i libri sono i veicoli su cui viaggiano le idee e il sito Il Libraio delle Stelle offre uno dei cataloghi più ricchi “sulla cultura del naturale, le arti del benessere, l’impegno sociale e la ricerca spirituale”, come recita la didascalia del sito.

Molti altri siti e movimenti sono impegnati in modo altrettanto encomiabile nel promuovere idee e comportamenti virtuosi contro il nostro dilagante egoismo di specie. Basti citare i movimenti per la decrescita, per la difesa dei diritti degli animali, contro l’inquinamento e il riscaldamento globale ecc.

Nonostante tutte queste lodevoli iniziative, la vera Rivoluzione culturale è di là da venire. Elettoralmente i vari movimenti ecologisti hanno un peso irrilevante e sotto il profilo ideologico non riescono ancora ad imporsi all’attenzione della pubblica opinione. O meglio. Moltissimi hanno compreso che stiamo distruggendo l’ecosfera, ma ben pochi modificano concretamente i propri comportamenti.

Si tratta di un problema comune a livello mondiale. Alcuni popoli / nazioni devastano più di altri, ma tutti contribuiscono, chi più chi meno, all’opera di distruzione della natura.

Nel mio ultimo libro, “L’Impero del Cancro del Pianeta”, ho cercato di illustrare come questa opera nefasta sia conseguenza di un tipo di crescita tecnico – scientifico – industriale necessaria al mantenimento di quasi otto miliardi di esseri umani e di innumerevoli apparecchiature costruite per rendere più comoda la loro vita.

Questo è un punto molto importante per la comprensione della reale situazione in cui ci troviamo. Il livello raggiunto di deterioramento della biosfera non è addebitabile all’egoismo o alla cattiva volontà di una determinata categoria di persone (politici, industriali, finanzieri o altri rappresentanti delle élite dominanti). Su questo argomento si veda il mio articolo “Il vero responsabile”, nel quale ho cercato di chiarire come tutti noi, esponenti della specie umana, generazione dopo generazione, abbiamo contribuito con ritmi crescenti a determinare quello squilibrio ambientale che mette oggi a rischio la vita sul pianeta.

Credo che da qui si debba partire per cercare di costruire una ideologia credibile e largamente condivisa. Ogni altra ipotesi non può che scivolare inevitabilmente nel tanto deprecabile “complottismo”.

La barriera che si è frapposta tra la grande maggioranza della popolazione e un ridotto numero di “antagonisti ideologici” deriva dal fatto che questi ultimi non accettano la realtà per quella che è, ma si ostinano a vedere nemici da combattere ad ogni angolo di strada.

Così non si va da nessuna parte, si rimane imprigionati in un recinto ideologico ben delimitato, una sorta di riserva indiana dove un minuscolo manipolo di contestatori non disturba più di tanto i visi pallidi che costruiscono ferrovie e scavano miniere.

Vediamo dunque su quali basi si dovrebbe invece fondare il movimento unitario preconizzato da Di Gregorio, quella Internazionale Ecologista in grado di incidere realmente sui destini dell’umanità.

Per una nuova grande rivoluzione culturale” è il titolo della Conclusione del mio già citato libro, che riprende concetti espressi in un articolo pubblicato nel 2018 su Effetto Cassandra.

Qui la rivoluzione da attuare è vista come terza dopo altre due che hanno scosso dalle fondamenta i convincimenti su cui poggiavano le società del passato.

L’individuazione di queste due rivoluzioni è di per sé assai significativa rispetto a come si debba prospettare la terza in fase di gestazione.

Perché le prime due non sono né il pensiero socratico, né l’avvento dei monoteismi, né il Rinascimento o l’Umanesimo, e neppure le grandi rivoluzioni del XVIII secolo (quella industriale e quella francese). Men che meno il formarsi degli stati nazionali o le ideologie che hanno agitato il XX secolo. Tutti questi sommovimenti hanno semplicemente costituito altrettante tappe del cammino umano verso il baratro.

La prima vera grande rivoluzione culturale si avverò nel 1543, quando Niccolò Copernico pubblicò il suo trattato “Sulle rivoluzioni delle sfere celesti”.

D’un tratto la centralità cosmica della Terra, conseguente alla superiorità universale dell’essere umano, fu spazzata via a favore della corretta visione planetaria, secondo la quale il nostro corpo celeste è uno degli infiniti esistenti, e certamente non tra i maggiori.

La seconda grande rivoluzione culturale si produsse nel 1859 e fu anch’essa conseguenza della pubblicazione di un libro, “L’origine delle specie” di Charles Darwin.

Il mito dell’essere umano creato direttamente da Dio (e forgiato a sua immagine e somiglianza) crollò di colpo lasciando il posto alla più realistica e verificabile teoria evoluzionista.

Da notare che entrambi questi due ribaltamenti epocali avvennero silenziosamente, senza il clamore delle folle che di norma accompagna le pseudo-rivoluzioni che ribaltano le classi al potere senza modificare il corso della storia.

Questa constatazione deve farci capire come i veri cambiamenti non avvengano a furor di popolo e in vista di nuovi assetti politici, bensì siano conseguenza di idee destinate ad aprire gli occhi della gente (a iniziare dalle élite culturali) sulla nostra reale dimensione di piccoli abitanti di un piccolo pianeta.

Ma da questo punto di vista la seconda rivoluzione, quella darwiniana, è da considerarsi incompleta. Ha desacralizzato l’essere umano, svelando la sua discendenza da una famiglia di primati anziché da Dio onnipotente, ma lo ha mantenuto al vertice del regno animale in virtù della sua superiorità intellettuale.

Compito della nuova rivoluzione culturale deve quindi essere quello di rivelare all’uomo la nocività di questa sua indiscussa superiorità intellettuale al fine del mantenimento dell’equilibrio globale della biosfera.

Personalmente affido il Cancrismo all’attenzione di tutti coloro che intendono promuovere questo “terremoto” culturale e chiedo ai miei lettori di immaginare come si trasformerebbe la nostra società se tutti, classi dirigenti e non, si convincessero di essere cellule tumorali maligne di quell’ “[…] animale animato e intelligente […]” che, secondo Platone (Timeo, 30b), è il nostro mondo (e questo ben 2.500 anni prima dell’ipotesi Gaia di James Lovelock!).

Si tratta di semplici spunti per un progetto da approfondire collegialmente da parte di tutti coloro che hanno a cuore la sopravvivenza della vita sul pianeta. La rivelazione di realtà occulte ha consentito in passato di sfatare convincimenti erronei forieri di tanti danni alla biosfera (i nefasti miti sulla superiorità della razza umana). Una nuova decisiva rivelazione sulla limitatezza e nocività di tale superiorità potrà forse convincere una platea ancor più vasta di uditori a modificare i propri atteggiamenti predatori nei confronti della natura.