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mercoledì 27 gennaio 2021

Contra philosophos, ovvero i filosofi e la superiorità della razza umana

 

Di Bruno Sebastiani

Lo scopo finale dell’uomo è di sottomettere a sé tutto ciò che è privo di ragione e di padroneggiarlo liberamente secondo la propria legge.”

Questa frase, tanto lapidaria quanto terrificante, riassume perfettamente il senso della perversa evoluzione subìta dal nostro cervello. Sembra pronunciata da un sadico aguzzino in preda a una crisi di delirio di onnipotenza.

Il suo autore è invece lo stimato e apprezzato filosofo Johann Gottlieb Fichte (immagine centrale), che l’ha inserita in uno dei suoi “capolavori”, “La missione del dotto” (Fabbri, Milano 2004, p. 17).

Questa affermazione è la più esplicita di una infinita serie di asserzioni che nel corso dei secoli i più celebri filosofi, scienziati ed ecclesiastici hanno profuso a piene mani nei propri scritti.

Senza risalire al famoso invito rivolto da Dio ad Adamo ed Eva (“soggiogate la terra e dominate sopra ogni essere vivente”) e a tutti i conseguenti precetti di natura religiosa, possiamo osservare che analoghi princìpi germogliarono anche in Grecia, la “laica” patria della filosofia.

Il mito di Prometeo e di Epimeteo, rievocato da Socrate nel Protagora di Platone, narra che “l’uomo divenne partecipe di una sorte divina […] unico tra gli esseri viventi, cominciò a credere negli dèi […]”.

Pochi anni più tardi Aristotele scrisse: “Tutti gli uomini sono protesi per natura alla conoscenza […] Nella vita degli animali […] sono presenti soltanto immagini e ricordi, mentre l’esperienza vi ha solo una limitatissima parte; nella vita del genere umano, invece, sono presenti attività artistiche e razionali. […] l’esperienza è per gli uomini solo il punto di partenza da cui derivano scienza e arte […] (Metafisica, 980a – 981a)

Plotino nel III secolo puntualizzava che: “[…] l’uomo possiede la vita completa, allorché ha non solo quella sensibile, ma anche la facoltà di ragionare e l’Intelligenza vera […]” (Enneade I 4, 5)

Nel 1260 Tommaso d’Aquino, in pieno Medio Evo cristiano, sancì la superiorità degli esseri dotati di pensiero razionale su quelli che ne sono privi: “[…] mostreremo che per divina disposizione, nel determinare la perfezione delle cose create secondo il migliore dei modi, era giusto che venissero prodotte delle creature dotate di intelligenza, poste nel grado supremo degli esseri.” (Somma contro i gentili, Libro II, Cap. XLVI)

Tutta la storia della chiesa è costellata di documenti che, sulla scia di quanto affermato dall’aquinate, hanno periodicamente ribadito la superiorità dell’uomo su ogni altro vivente.

Nel 1870 Pio IX, nella Costituzione Dogmatica “Dei Filius” ribadì che “[…] Dio destinò l’uomo ad un fine soprannaturale, cioè alla partecipazione dei beni divini, che superano totalmente l’intelligenza della mente umana […] sebbene la fede sia superiore alla ragione, pure non vi può essere nessun vero dissenso fra la fede e la ragione, poiché il Dio che rivela i misteri della fede e la infonde in noi è lo stesso che ha infuso il lume della ragione nell’animo umano […]”.

Dunque anche per la chiesa di Roma è il “lume della ragione” a stabilire la nostra superiorità in questo mondo.

I precetti della religione peraltro sono sempre ammantati da una patina di “sovra naturalezza” che ne attenua il rigore.

Spetta ai filosofi laici il primato della brutalità, e non vi è dubbio che, prima di Fichte, il pensatore più malvagiamente esplicito in tema di superiorità umana sia stato Cartesio, per il quale gli animali sono equiparabili a dei congegni meccanici.

“[…] non esistono uomini così ebeti e stupidi e magari anche pazzi che non siano capaci di combinare insieme diverse parole e di comporre un discorso con il quale far capire i loro pensieri, mentre, al contrario, non vi è nessun animale tanto perfetto e tanto felicemente nato che faccia lo stesso. […] Questo fatto testimonia non soltanto che le bestie hanno meno ragione degli uomini ma che non ne hanno affatto; […] è la natura ad agire in loro secondo la disposizione dei loro organi, così come si vede che un orologio, composto unicamente di ruote e di molle, può contare le ore e misurare il tempo più esattamente di noi con tutta la nostra prudenza.” (Discorso sul metodo, parte quinta)

Un po' meno brutale fu Leibniz, ma la sostanza del discorso è sempre la medesima: “[…] la conoscenza delle verità necessarie ed eterne è quella che ci distingue dagli animali bruti e ci fa avere la ragione e le scienze, elevandoci alla conoscenza di noi stessi e di Dio. Questo è ciò che in noi si chiama anima ragionevole o spirito.” (Monadologia, parte II, cap. VI

Credo che le citazioni sopra riportate forniscano un quadro sufficientemente chiaro di come i maggiori pensatori di tutti i tempi abbiano costantemente e concordemente incensato la superiorità della razza umana in contrapposizione all’inferiorità del mondo della natura.

Ad avvalorare questa affermazione aggiungo le citazioni di un filosofo che la vulgata comune definisce contiguo al romanticismo, al vitalismo e all’irrazionalismo, nonché connotato da una forte dose di pessimismo, Arthur Schopenhauer.

È opinione concorde di tutti i tempi e di tutti i popoli che tutte queste così svariate ed estese asserzioni hanno origine da un principio comune, da quel particolare potere dello spirito che rende l’uomo superiore all’animale e che è stato chiamato RAGIONE [in maiuscolo nel testo …]”

Il grande privilegio dell’uomo, la ragione, […] mediante una condotta regolata e ciò che ne consegue, gli allevia tanto la vita ed il suo peso […]

Quantunque nell’uomo, come idea (platonica), la volontà trovi la sua più chiara e perfetta oggettivazione, questa soltanto tuttavia non poteva esprimere la sua essenza. L’idea dell’uomo, per apparire nel suo debito significato non poteva manifestarsi sola e sconnessa, ma doveva essere accompagnata dal processo graduale discendente, attraverso tutte le forme animali, il regno vegetale, fino al mondo inorganico. Soltanto tutti questi si integrano in una completa oggettivazione della volontà; essi sono presupposti dall’idea dell’uomo, così come i fiori dell’albero presuppongono le foglie, i rami, il tronco e le radici: essi formano una piramide, il cui vertice è costituito dall’uomo.”

Come se a Schopenhauer non bastasse aver collocato l’uomo al vertice della piramide della natura, il desiderio di umiliare gli altri esseri viventi si esprime in lui nella constatazione che solo l’uomo cammina volgendo lo sguardo in alto, mentre tutti gli altri hanno il muso rivolto a terra!

Questa differenza fra uomo ed animale è espressa all’esterno mediante la diversità di rapporto della testa con il corpo. Negli animali inferiori, entrambi sono ancora del tutto attaccati; in tutti, la testa è inclinata verso terra […] Perfino negli animali superiori testa e tronco sono un tutt’uno, ancor più che nell’uomo, il cui capo appare collocato libero sul corpo, da questo solamente portato, non già al suo servizio. L’Apollo del Belvedere rappresenta a livello sublime questo vantaggio per l’uomo: la testa del dio delle muse, la quale volge ampiamente lo sguardo tutto intorno, poggia così libera sulle spalle, che si svincola completamente dal corpo e sembra non darsene più pensiero.” (Il mondo come volontà e rappresentazione, parr. 8, 16, 28 e 33)

Qui il cerchio si chiude e il moderno Schopenhauer si ricollega all’antico Aristotele, il quale si compiaceva di come l’uomo fosse “il solo degli animali ad avere posizione eretta […] con la sua parte superiore […] orientata verso la parte superiore dell’universo […]” (Parti degli animali, 656a)

Né a Schopenhauer né ad alcun altro illustre filosofo è mai venuto in mente che se lo sguardo dell’uomo, anziché verso lontani e irraggiungibili orizzonti, fosse stato rivolto verso la terra, le piante e gli esseri a noi più vicini, oggi non ci troveremmo a dover risolvere i terribili problemi che affliggono la biosfera e con essa anche le nostre stesse vite?

L’ora della fine del nostro mondo si avvicina velocemente e i grandi pensatori ne sono in buona parte responsabili.

Non vi è dubbio che il cervello dell’uomo sia più potente di quello degli altri animali, ma ben diverso è attribuire a questa peculiarità valore positivo, come hanno fatto sin qui tutti i filosofi, o valore negativo, come ho iniziato a ipotizzare ne “Il Cancro del Pianeta” sulla base degli esiti di ciò che la potenza del nostro organo di comando ha causato alla biosfera.

Se vogliamo cercare di rallentare l’ecocidio, iniziamo dunque a riflettere sul reale valore dell’abnorme sviluppo evolutivo subìto dal nostro encefalo, che ci ha consentito di stravolgere l’armonia della natura ma che non ci permette di ricrearne un’altra altrettanto stabile e duratura.


mercoledì 21 ottobre 2020

"Sapere di non sapere" o "Sapere di non poter sapere"?


Raffaello Sanzio, La Scuola di Atene, 1509 - 1511

 

Post di Bruno Sebastiani

 

Il titolo di questo articolo può sembrare un gioco di parole o uno scioglilingua. L’antinomia che sottintende ha invece l’ambizione di far emergere una verità fondamentale per la nostra storia passata e futura.

Vediamo dunque di esaminare partitamente le due frasi e cosa si cela dietro ad ognuna di esse.

Il “sapere di non sapere”, come noto, è l’insegnamento base del metodo socratico. Il filosofo ateniese, secondo la testimonianza che ci ha lasciato Platone, dichiarò davanti ai suoi accusatori:

“[…] di cotest’uomo [un tale che aveva fama di sapiente, NdA] ero più sapiente io: in questo senso, che l’uno e l’altro di noi due poteva pur darsi non sapesse niente né di buono né di bello; ma costui credeva sapere e non sapeva, io invece, come non sapevo, neanche credevo sapere; e mi parve insomma che almeno per una piccola cosa io fossi più sapiente di lui, per questa che io, quel che non so, neanche credo saperlo.” (Apologia, 21c, in Platone, Opere, vol. I, Laterza, Bari 1967)

Questa consapevolezza di sapere di non sapere è stata storicamente all’origine della sete di sapere, che Socrate seppe coltivare tanto abilmente mediante la “maieutica”, il metodo che conduceva i suoi interlocutori ad accorgersi della propria ignoranza e a riconoscere la verità, di contro alle proprie precedenti false presunzioni.

A buon diritto si può ritenere che questo metodo sia stato il primo pilastro del sapere scientifico. Se uno sa di non sapere cerca di accrescere le sue conoscenze cautamente, dando credito solo a prove provate. Da qui trasse origine l’abiura dei miti fantasiosi ai quali tutti i popoli primitivi si erano sempre affidati per dare un significato alle realtà che il loro intelletto non era in grado di spiegare.

Il nuovo modo “razionale” di osservare i fenomeni della natura diede concretamente avvio allo sviluppo di scienza e tecnica, il cui percorso di crescita era stato fino ad allora di tipo prevalentemente empirico.

Il “sapere di non sapere” accelerò dunque in modo decisivo il cammino dell’uomo verso quel progresso materiale di cui oggi stiamo vivendo lo stadio terminale, pre-agonico per il mondo della natura.

In questo momento, tanto tragico quanto decisivo per la prosecuzione della nostra avventura sulla Terra (e per quella di tanti altri esseri viventi da noi assurdamente compromessi), è quanto mai opportuno a mio avviso ripensare a quella locuzione e vedere come avrebbe dovuto essere formulata per limitare i danni che il nostro intelletto ha causato alla biosfera (e per ridurne i futuri).

Il “non sapere” cui si fa cenno è infatti privo di condizioni. Possiamo non sapere come si costruisce una casa, come si progetta una centrale nucleare, come si assembla una bomba atomica. Ma il non saperlo implica che possiamo anche impararlo, e quindi poi saperlo fare, come di fatto si è verificato. E se abbiamo imparato a costruire case, centrali nucleari e bombe atomiche, perché non dovremmo essere in grado di impiantare microchip nel cervello, colonizzare Marte o divenire immortali?

Sennonchè c’è anche il risvolto della medaglia, e cioè l’insieme dei problemi che la nostra dissennata opera di devastazione del pianeta pone oggi sotto gli occhi di tutti.

Sapevamo di non sapere, abbiamo immaginato che il sapere ci avrebbe resi onnipotenti, l’abbiamo in parte raggiunto e messo in pratica senza tener conto dei limiti delle nostre capacità cognitive.

Il nostro cervello ha subìto una evoluzione tanto abnorme quanto eccezionale rispetto a ogni altro essere vivente, ma le sue capacità elaborative sono rimaste infime rispetto alla complessità del mondo della natura.

Vi è anche un elemento dimensionale da prendere in considerazione: siamo minuscoli organismi abbarbicati su una briciola di materia che vaga nell’immensità dello spazio. Anche senza far ricorso a elaborati concetti filosofici, come possiamo immaginare che nella nostra scatola cranica risieda un sistema informatico in grado di padroneggiare l’intero universo?

La riprova dell’impossibilità di un siffatto padroneggiamento ci deriva proprio dai danni irreparabili che abbiamo causato all’ambiente e che ci stanno conducendo all’ecocatastrofe. Ogni avanzamento della nostra condizione materiale ha sempre generato squilibri nel mondo della natura, dapprima minimi, poi via via sempre maggiori fino ai livelli di guardia ora raggiunti. Tutto ciò a causa delle limitate capacità del nostro intelletto, non in grado di intervenire positivamente sugli ingranaggi ultra sofisticati della biosfera.

Quale avrebbe dovuto essere quindi la corretta locuzione che, in alternativa al “sapere di non sapere”, avrebbe potuto limitare i danni che stiamo procurando al pianeta?

Avremmo dovuto essere consapevoli della limitatezza delle nostre possibilità intellettive e avremmo dovuto coltivare il “sapere di non poter sapere”.

Ciò ci avrebbe indotto a minimizzare i nostri interventi nel corpo vivo della natura consigliandoci di accontentarci di quel poco (in realtà molto!) che la natura dispensa equamente a tutti i suoi figli.

Non avremmo dovuto desiderare di accaparrarci la fetta più grossa delle risorse della Terra, schiavizzando o portando all’estinzione le altre specie viventi, non fosse altro per non innescare quel processo distruttivo che alla lunga condurrà anche alla nostra autodistruzione.

Tutto questo ragionamento prescinde dall’altro elemento che ci ha sospinti su questa strada, e cioè quella “volontà di potenza” di nietzschiana memoria, che a mio avviso altro non è che la sublimazione dell’istinto di conservazione prodotta dall’abnorme evoluzione del cervello verificatasi nell’uomo.

Ma di questo elemento avremo occasione di parlare in altra sede.

Avendo citato Nietzsche mi sembra invece opportuno riportare il pensiero introduttivo di “Su Verità e Menzogna in senso extramorale” che il filosofo tedesco scrisse nel 1873, a soli 29 anni:

In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della “storia del mondo”: ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire.”

Un’ultima notazione di tipo personale.

Dal 2018 all’inizio del 2020 ho tenuto su Neuroscienze.net una rubrica dal titolo “I limiti dell’intelligenza”, il cui obiettivo era di argomentare come il nostro cervello, per quanto abnormemente evoluto e superiore in potenza elaborativa a quello di ogni altro essere vivente, non potesse oltrepassare una determinata soglia cognitiva, relativamente elevata ma in assoluto infima.

Terminata la collaborazione con quel sito, ho provveduto a inserire i quattordici articoli pubblicati nel mio blog personale, in modo da renderli liberamente disponibili a chiunque.

Questo l’indirizzo dove reperirli: https://ilcancrodelpianeta.wordpress.com/2019/10/06/i-limiti-dellintelligenza/.

Con il presente scritto ho tentato di riassumere il senso di ciò che ho inteso dire nei vari articoli di quella rubrica, tanto breve quanto a durata, ma tanto densa quanto a significato.

mercoledì 2 settembre 2015

Cartesio o Campanella? Una riflessione sul significato delle cose

di Jacopo Simonetta


In un precedente post ho ipotizzato che la civiltà occidentale abbia sbagliato strada da qualche parte fra Spinoza ed Archimede Pitagorico.    Ma forse anche prima.

Cartesio (1596 – 1650) e Campanella (1568 – 1639) furono contemporanei ed entrambi furono importanti ai loro tempi, Ma il loro destino in vita ed in morte fu quanto di più diverso si possa immaginare.   Si prestano quindi bene ad essere presi come simboli di due diversi modi di pensare, entrambi caratteristici dell’Europa, all'alba dell’evo moderno.

Ovviamente, non tenterò qui una sintesi del loro pensiero per mancanza sia di competenza che di spazio, ma vorrei suggerire alcune riflessioni del tutto personali, sempre alla ricerca di quel divorzio fra scienza, filosofia e teologia che caratterizza la nostra civiltà; caso unico nella storia.

Quanto è importante René Descartes?   Basti pensare al “piano cartesiano”: uno degli strumenti di base tanto per la ricerca, quanto per la didattica scientifica.  Ad oggi, il metodo e gli strumenti logici cartesiani strutturano il nostro modo di pensare; nel bene e nel male.

Cartesio pone alla base della sua riflessione il dubbio: cosa mi garantisce che gli oggetti, le persone, il mondo intero esistano?   Cercando un punto d’appoggio, lo trova nel celeberrimo: “Cogito ergo sum”.       Generalmente viene tradotto con. “Penso, quindi sono”, ma una traduzione più pignola sarebbe “Io penso, dunque io sono”.

Grammaticalmente non cambia nulla, ma filosoficamente cambia molto.   A cominciare perlomeno da Parmenide, sono stati parecchi a basare la propria speculazione sulla capacità di pensiero della nostra specie.   Ma Cartesio fu, a quel che ne so, il primo ad usare come fondamento del suo sistema la propria capacità individuale di pensare e, dunque, la propria individuale esistenza.   Vale a dire che non sono gli uomini che, pensando, esistono; bensì sono IO che sto pensando e ciò significa che IO esisto, perlomeno come unità pensante.   In altre parole, Cartesio fu l’inventore dell’ “Io”: chiave di volta della psicologia e delle psicopatie contemporanee, se ci fidiamo di Erich Fromm (fra gli altri).

Beninteso, non fu nel XVII secolo che furono inventati l’egoismo e l’individualismo!   E neppure si può sapere se Cartesio avesse o giustificasse tali difetti.   Tuttavia, questo grande filosofo mise a sistema una mentalità (in inglese si direbbe un “feeling”) del suo tempo, ponendo al centro del suo sistema il singolo individuo.   Una faccenda che a noi pare scontata perché siamo nati e cresciuti in questo modo di pensare, ma che all'epoca fu autenticamente rivoluzionaria.    Fu infatti in quel periodo che questi antichi vizi cominciarono la carriera che li porterà gradualmente ed inesorabilmente a diventare il fondamento delle società contemporanee, per il tramite di Adam Smith, circa un secolo e mezzo dopo.

L’epoca in cui visse Cartesio fu infatti un tornante decisivo nella storia del mondo.   Fu quella l’epoca in cui quasi un secolo di guerre e persecuzioni religiose culminavano con la guerra dei Trent’anni.   Bisognerà attendere Adolf Hitler per vivere un orrore analogo e non stupisce dunque il declino delle scuole di pensiero che avevano portato a tanto.   Nel frattempo, il sistematico saccheggio delle Americhe aveva portato in Europa un flusso di capitale immenso; coloro che erano stati più capaci ad appropriarsene e più avveduti nell'investirlo cominciavano a vederne i frutti, con una crescita economica e demografica senza precedenti.   Era nato il capitalismo moderno, non più basato sulla città, la dinastia o sulla ghilda come il mercantilismo tardo medioevale, bensì sulle capacità e la fortuna del singolo imprenditore.    Non per nulla, in quelli gli anni nacquero la borsa e le bolle speculative, guarda caso proprio in Olanda, patria d’adozione di Descartes.

La società si andava insomma strutturando intorno all'individuo, anziché ad un gruppo comunque definito, oppure alla cristianità nel suo complesso.   Un processo molto graduale, ma che da allora si è sviluppato di pari passo con il progredire della tecnica e con il crescere dell’economia, caratterizzando il mondo moderno.   In altre parole, Cartesio diede il battesimo filosofico a quell'individualismo moderno che il turbo-capitalismo contemporaneo ha portato alle sue estreme conseguenze.

Un secondo punto del pensiero cartesiano che ha avuto conseguenze enormi e nefaste fu la Teoria meccanicistica della vita.   Anche in questo caso, il nostro non fu certo il primo ad essere affascinato dagli automi.   La possibilità di costruire macchine capaci di simulare i movimenti di animali o uomini risale a quando furono perfezionati gli orologi meccanici, nel XV secolo.   Da allora, in molti hanno fantasticato di poter costruire degli automi (oggi li chiamiamo robot) capaci di simulare perfettamente la vita.   Un sogno tuttora ben vivo, ma il filosofo francese andò molto al di la di questo e formulò l’ipotesi (che per lui era una certezza assoluta) che gli animali altro non fossero che macchine.   Semplicemente molto più sofisticate di quelle che, al momento, venivano realizzate dagli artigiani.

La cosa non era priva di conseguenze.   Dal momento che gli animali erano macchine, erano necessariamente privi di sentimenti, così come della capacità stessa di provare dolore.   Come intese dimostrare un estimatore del filosofo, uccidendo pubblicamente a calci la propria cagna incinta.
Non risulta che Cartesio abbia personalmente mai fatto cose simili, ma indubbiamente ha fornito un alibi a coloro che amano sfogare le proprie frustrazioni tramite la crudeltà sugli animali.   Inoltre, da allora e fino al XIX secolo inoltrato, il fatto che vari popoli non fossero considerati del tutto umani servì a giustificarne scientificamente lo sterminio o la schiavitù.   Oggi consideriamo questo un’aberrazione, ma l’idea che ciò che non è umano non sia senziente rimane diffusa.    È infatti una regola legalmente accettata che si possano utilizzare esseri viventi come se fossero oggetti e sono pochissimi a capire che differenza vi sia fra un albero ed un palo telegrafico.   Un’occhiata alle piazze ed ai viali di qualunque città confermerà questa affermazione.

Se gli animali non sono senzienti, a maggior ragione non lo sono infatti le piante e niente può quindi giustificare un qualsivoglia limite all'azione dominatrice dell’Uomo sulla Natura.   Su questo punto Cartesio è esplicito: la conoscenza coincide con la saggezza ed è tale solo se fornisce agli uomini i mezzi per sempre meglio sfruttare e dominare il mondo “bruto”.   A ciò gli uomini sono destinati ed autorizzati dal fatto che, unici esseri al mondo, sono sia intelligenti che senzienti.   Capaci, cioè, sia di pensiero, sia di sentimento per il fatto di possedere un’anima immortale.   Anima che egli pensava incardinata al corpo tramite la ghiandola pineale.

E Dio in tutto ciò?   Cartesio fu un uomo prudente ed attento a non incorrere in grane teologiche, così come ad evitare ogni coinvolgimento politico.    Riprendendo una solida tradizione medioevale, cercò quindi di dimostrare che Dio esiste,  dal momento che ne esiste l’idea.   Un idea di infinita perfezione che, secondo il filosofo, non può sorgere spontaneamente in una mente imperfetta e limitata.   Dunque, se esiste l’idea di Dio, deve esistere anche Dio stesso, origine di tale idea.  

Agli antipodi di Cartesio troviamo il suo contemporaneo Tommaso Campanella.   Molto meno dotato di lui per il pensiero astratto e la matematica, ma assai più accorto osservatore dei fenomeni naturali, sia pur con tutti i limiti del suo tempo.

Oggi il monaco di Stilo non figura nel pantheon dei padri della modernità, bensì fra i personaggi pittoreschi e marginali della storia.   Battagliero e politicamente coinvolto, pagò con molti anni di carcere e torture la sua militanza e riuscì ad evitare il rogo per un soffio.
Letti con gli occhi cartesiani di cui ci ha forniti la scuola, i suoi scritti sembrano oggi delle fantasiose e prolisse divagazioni.    Una stravaganza, retaggio dell’oscuro medioevo, con la sua fede nella magia, ben più che nella matematica.

Ma la magia di cui ci si occupava allora non aveva niente a che vedere con Harry Potter.   Nessuno pensava infatti di poter sovvertire le forze della Natura.   Al contrario, i maghi si ponevano il problema di capire quali fossero le più intime leggi naturali per potersene servire.   La sperimentazione, la deduzione, ma soprattutto l’osservazione dei fenomeni naturali erano gli strumenti di una tale ricerca.    E lo scopo ultimo era scoprire quale fosse il “principio primo” da cui derivavano tutti gli altri.   Esattamente quella “legge del tutto” alla cui ricerca oggigiorno si affannano gli scienziati migliori.

Secondo Campanella, il principio fondamentale che anima l’universo è che tutte le cose hanno sensibilità e tendono alla propria conservazione.   Esattamente al contrario di Cartesio, Campanella riconosce quindi  agli animali non solo una sensibilità analoga a quella umana, ma anche un’intelligenza dello stesso tipo, sia pure molto più debole.   Le piante non hanno capacità mentali e non possono muoversi, ma secondo il nostro monaco hanno ugualmente la capacità di percepire stimoli dal mondo esterno e di reagire ad essi in modo da garantire la propria sopravvivenza e la propria riproduzione.   Oggigiorno, eserciti di botanici e biochimici gli stanno dando quotidianamente ragione.

Ma per Campanella perfino gli oggetti inanimati e gli elementi minerali hanno una qualche forma di “sensibilità” ed un “comportamento” caratteristici.   Con ciò non intendeva, ovviamente, attribuire alle pietre capacità sensoriali ed intellettive di tipo umano, bensì un’innata tendenza a spostarsi nella posizione più bassa e stabile possibile, compatibilmente con le condizioni esterne.   Ci penserà un altro mago ed alchimista importante, Isaac Newton, a spiegare il perché di questo comportamento, appena una generazione più tardi.    Ma l’importanza dell’osservazione campanelliana è che assolutamente niente in natura avviene per caso e che ogni singolo atomo di materia tende a fare qualcosa, nonappena ve ne è la possibilità.

Oggi parliamo di orbitali e di pesi atomici, di temperature e pressioni, di entalpia ed entropia, ma ciò non fa che confermare che ogni elemento ed ogni aggregato di materia ha effettivamente la tendenza a comportarsi in un determinato modo.   E’ infatti manipolando le condizioni ambientali che si controllano le cose: dai reagenti in una provetta, fino alle folle in una piazza.    Non dubito che Campanella avrebbe considerato “Mein Kampf” un eccellente manuale di magia pratica.   Magia demoniaca, per la precisione (distingueva tre tipi di magia: divina, naturale e demoniaca).

Insomma, Cartesio basò la sua speculazione sull'introspezione, la logica e l’individuo, mentre Campanella si basò sull'osservazione della Natura.   Il primo considerò la propria mente l’unica realtà accertata.   Il secondo considerava la propria mente un povero strumento per tentare di capire la Creazione: una realtà infinitamente complessa, ma armonica ed unitaria nel rispondere ad un unico sistema di leggi divine.

Nel corso dei 100 anni seguenti la loro morte, l’Europa scelse progressivamente l’approccio del primo  e fu un successo senza precedenti.    Anche la conoscenza della natura che oggi abbiamo, e che non ha precedenti nella storia, deve molto al “Discorso sul metodo”, malgrado il suo autore fosse un pessimo naturalista.

Fu, infatti, in buona parte grazie a questa scelta l’Europa ha costruito quella civiltà industriale e tecnologica che ha indubbiamente creato le più grandi meraviglie della storia.   Ma anche le più grandi tragedie: dalla sovrappopolazione allo sconquasso climatico.

Dunque abbiamo scelto bene o male?   Se aveva ragione Spinoza, profondo conoscitore sia di Cartesio che di Campanella, non c’erano alternative: non poteva che prevalere Cartesio.    Ma forse il compimento ultimo del cartesianesimo potrebbe essere scoprire che, in fondo, aveva ragione Campanella.


“Dopo una vita consacrata alla scienza, la più razionale possibile, posso dirvi che la materia non esiste.   Tutta la materia esiste in virtù di una forza che fa vibrare le particelle e tiene insieme il minuscolo sistema solare di un atomo.    E’ come uno spirito, intelligente e cosciente.   Questo spirito è la ragione di ogni materia.”   Max Plank




martedì 25 agosto 2015

Rileggendo Spinoza.

Di Jacopo Simonetta

Una delle calamità che hanno colpito l’umanità, a mio avviso, è stato il divorzio fra scienza, filosofia e teologia.   Ognuna di queste branche del sapere, infatti, da sola si è come smarrita, con conseguenze spesso terribili, sia pure in maniera indiretta.
Senza volermi auto-nominare professore di filosofia, penso che possa quindi essere interessante andare a ripescare dalle nebbie del nostro passato liceale alcuni personaggi che hanno avuto un ruolo importante nel periodo in cui tale divorzio maturò.   Ovviamente, i primi nomi che vengono in mente sono Galilei, Bacone, Cartesio e gli altri “padri” della rivoluzione scientifica del XVII secolo.

Tuttavia, vorrei proporre qui alcune riflessioni “postpicco” sull'opera di Baruch de Spinoza (1632 – 1677).   Un tipico “cane sciolto” che non ha avuto l’influenza di altri pensatori, ma la cui filosofia presenta aspetti particolarmente interessanti alla luce delle più recenti scoperte scientifiche e della piega che hanno preso le vicende umane.

Il concetto a mio avviso centrale nel modello di Spinoza è quello di “Necessità”, a mio avviso mediato da Giordano Bruno e dall’Ananke platonica.    Nella sua concezione, la realtà e la divinità erano sinonimi; un’idea riassunta nel motto “Deus sive Natura” (Dio, o piuttosto Natura).   Il Dio di Spinoza è infatti l’insieme di tutto ciò che esiste, di tutte le relazioni che legano anche indirettamente ciò che esiste e le imprescindibili leggi che governano il divenire della natura.   Leggi che sono strutturate con l’assoluta precisione e determinatezza della geometria.   Tradotto in termini contemporanei: Dio è sinonimo di Realtà: cioè materia, energia, complessità e leggi fisiche (in senso lato).

La realtà è dunque perfetta.   Non nel senso stupido illustrato nel Candide da Voltaire (sempre molto abile nel deridere ciò che non capiva); bensì nel senso che ciò che accade è l’unica cosa che avrebbe potuto accadere.    Una realtà perfetta non è una realtà in cui va tutto bene, evidentemente, bensì una realtà che non potrebbe essere diversa da com'è.   Dunque ciò che accade è necessario che accada esattamente così come avviene.

Per fare un esempio di attualità, nella ristretta cerchia degli ambientalisti e dei "picchisti" è frequente lagnarsi del fatto che i punti essenziali circa lo sconvolgimento climatico ad opera delle emissioni antropogeniche erano già sufficientemente noti e sicuri agli inizi degli anni ’70.   Ci sarebbe quindi stato tutto il tempo per ridurre le emissioni ed evitare la tragedia che appare oggi inevitabile.
Ebbene, a mio avviso, no.

Di alterazione del clima, limiti dello sviluppo eccetera se ne parlava molto all'epoca, ma solo nel mondo occidentale.   In Unione Sovietica qualunque deroga al culto del progresso infinito del popolo era punito col carcere.   Di conseguenza, solo in occidente, teoricamente, si sarebbero potuti prendere dei provvedimenti efficaci.   Provvedimenti che avrebbero certamente giovato al Pianeta, ma che avrebbero fatto pendere la bilancia geo-politica a favore dell’URSS, con conseguenze facili da immaginare.   Di conseguenza, quand'anche fosse stato possibile soperchiare le enormi resistenze di imprenditori e consumatori, non era possibile che i governi occidentali optassero per una politica che avrebbe si ridotto i rischi climatici a lungo termine, ma a costo di aumentare quelli bellici e politici immediati.

Una seconda finestra di possibilità si poteva aprire negli anni ’90, quando gli USA erano in grado di imporre la propria volontà praticamente al mondo intero.   Ma avrebbero potuto, gli americani collettivamente, optare per uno stile di vita monastico e, contemporaneamente, impegnarsi per impedire qualunque sviluppo industriale fuori dai confini propri o dei satelliti più fidati?   Una simile politica avrebbe scontentato contemporaneamente destra e sinistra, finanzieri e missionari, ricchi e poveri, altruisti ed egoisti.    Per non parlare del fatto che, con ogni probabilità, una simile politica avrebbe ridotto il potere degli USA sul mondo, vanificando lo sforzo.
Spinoza avrebbe detto che se non è accaduto, non c’era la possibilità che accadesse.

Sulla base della Necessità, Spinoza giunge ad una serie di conclusioni particolarmente interessanti per noi.   Per lui non ha infatti senso attribuire alcun primato all'uomo sul resto della Natura, dal momento che noi siamo una parte di essa e siamo quindi soggetti esattamente alle stesse leggi che governano gli altri esseri viventi.   E’ assurdo cercare una finalità nel divenire della storia, dal momento che ciò che accade è semplicemente un’inevitabile evoluzione del passato.   E’ futile cercare di distinguere le cause dagli effetti, giacché gli effetti sono a loro volta cause, e così via all'infinito.    E’ sciocco pensare che le cose avrebbero potuto andare diversamente da come stanno andando e non ha neppure senso attribuire alla Sacre Scritture un valore altro da quello di indurre gli uomini a rispettare delle norme di civile coabitazione e buon comportamento.

A questo proposito, vorrei per inciso ricordare che Spinoza scrisse subito dopo la Guerra dei Trent'anni: il periodo più nero delle persecuzioni religiose e della caccia alle streghe.   Probabilmente non fu bruciato e se la cavò con una maledizione perché era un marrano nato in Olanda; ma ad ogni buon conto pubblicò anonime le sue opere principali.

Comunque, lo scoglio su cui lo spinozismo si incagliò fu proprio questo determinismo assoluto che eliminava qualunque spazio di scelta e qualunque margine di incertezza.   Un problema fondamentale che si sforzò di risolvere trattando della libertà umana, senza però giungere a conclusioni molto convincenti, se non per il fatto che lo Stato aveva il dovere di assicurare libertà di pensiero e di parola ai cittadini.

Mi diverte immaginare la felicità che avrebbero dato a Spinoza concetti attuali come le strutture dissipative, i sistemi a retroazione ed i principi della termodinamica.   Ma forse il punto su cui la scienza contemporanea potrebbe meglio incontrarsi con lo spinozismo è proprio quello di una possibile conciliazione fra l’assoluto determinismo delle leggi naturali (nientedimeno che Dio, secondo Spinoza) e l’irriducibile indeterminatezza della realtà (anche’essa Dio, non dimentichiamolo).

L’apparente paradosso scompare, infatti, non appena si cessa di pensare in termini geometrici e si inizia a pensare in termini di dinamica dei sistemi complessi.   Una cosa che lui non poteva fare, ma noi si.

Forse la maggiore scoperta del XX secolo è stata infatti quella dei sistemi caotici: sistemi cioè regolati da una serie di leggi, ognuna delle quali strettamente deterministica, ma il cui effetto complessivo è, viceversa, imprevedibile ed incontrollabile.   Perfino quando si tratta di sistemi interamente teorici in cui si ha quindi una conoscenza perfetta di tutte le variabili in gioco.

Questi sistemi sono fondamentali  in Natura (il clima è forse il più noto fra i sistemi caotici) ed hanno molte caratteristiche peculiari.    La prima è che il livello di indeterminatezza dipende dal livello di complessità del sistema (numero di variabili e di relazioni in gioco) e dalla velocità con cui avvengono i fenomeni (ad es. il passaggio da un flusso lineare ad un flusso turbolento).   Un’altra peculiarità è che una variazione minima in un determinato punto spazio-temporale può modificare l’evoluzione del sistema in modo crescente, portando a conseguenze enormi in un altro punto spazio-temporale.    E’ il famoso paradosso della farfalla che può scatenare un uragano, ma anche no.

In altre parole, oggi sappiamo che Spinoza aveva ragione:  la Natura è perfetta e tutto ciò che accade è determinato da leggi inviolabili come funzioni matematiche, ma ciò non impedisce agli esseri viventi di scegliere fra una gamma variabile di possibilità, con conseguenze imprevedibili.   Applicato alle civiltà umane, il concetto si può riassumere nei seguenti termini: ogni civiltà è destinata certamente a dissolversi, ma i modi ed i tempi con cui un tale fato si compie sono tanti quanti le civiltà stesse.

Ma non solo.   All'interno di una civiltà in collasso, niente impedisce che singoli individui o gruppi trovino il modo di vivere bene, talvolta anche meglio di prima.   La storia degli imperi succedutisi in Cina è forse l’esempio più calzante che si possa fare a questo proposito.

Insomma, senza essere filosofo, credo che lo spinozismo potrebbe essere un buon punto di partenza per ricucire quello strappo fra scienza, filosofia e teologia cui accennavo in apertura.   Un lavoro considerevole che potrebbe allontanarci da quello “scientismo” che, nipote della rivoluzione scientifica del XVII secolo, è degenerato col tempo in una malattia mentale grave, per usare le parole di Konrad Lorenz.   La certezza che il progresso tecnologico possa risolvere ogni problema che affligge l’umanità è infatti diventata una vera e propria superstizione che ha non poca parte nel mantenerci nell'impasse in cui ci troviamo.   Ognuno ha la sua tecnologia del cuore.   Reale, come l’elettricità fotovoltaica, o presunta, come la fusione fredda, ma quasi tutti concordano che una o più invenzioni porteranno il benessere per tutti.

Indicatori evidenti di questa sorta di fede son ben evidenti in tutte le rubriche e le istituzioni dedicate a “scienza e tecnica”, in cui gli aspetti prettamente ingegneristici ed industriali fanno ampiamente aggio sulla cosiddetta “scienza di base”.   Per non parlare delle questioni filosofiche, scomparse o ridotte al lumicino.

La Teologia è oramai da tempo una specie di fossile conservato nei seminari.
Per citare un esempio importante di questa evoluzione, si pensi a Leonardo da Vinci che, in vita, fu rinomato come artista e, secondariamente, per le sue ricerche scientifiche.   I trabiccoli che disegnava sui suoi quaderni erano, viceversa, considerati con sufficienza, se non con sospetto, dai suoi mecenati.   Viceversa, se oggi visitiamo un sito internet od una mostra su Leonardo, nella quasi totalità dei casi l’enfasi è posta sulla sua genialità inventiva.   Secondariamente sul suo talento artistico, mentre le sue ricerche, ad esempio in fisica ed anatomia, le ricordano solo gli specialisti.


Una parabola in qualche modo analoga la hanno compiuta anche altri personaggi, magari più lontani dai libri di scuola, ma più vicini al cuore ed alla mente degli scolari.   Ad esempio Archimede Pitagorico, nato dalla matita di Barks con il nome assai meno impegnativo di Gyro Gearloose.   In origine, era un personaggio buffo e pasticcione, sempre intento ad aggeggiare marchingegni che non funzionano, o peggio.    Col tempo, è invece diventato uno scienziato, capace di risolvere qualunque problema con una geniale invenzione.   Se un fallimento talvolta sopravviene, è solo per l’avidità di Paperone, non per i limiti che la realtà pone all'ingegno.

Forse, l’evoluzione del pensiero occidentale ha sbagliato strada da qualche parte lungo la parabola che ci ha condotti da Spinoza ad Archimede Pitagorico.


Ringraziamenti:  per questo post devo ringraziare Luca Pardi che non ha alcuna responsabilità sulle eventuali sciocchezze che vi si possono trovare, ma che mi ha dato ottimi suggerimenti su come affrontare la questione senza cadere nelle mie solite geremiadi.



lunedì 9 marzo 2015

Aporia

DaThe Great Change”. Traduzione di MR

 "Strategicamente, tutto si riduce a giocare la carta della paura o quella della speranza, anche se non si escludono l'una con l'altra".

Di Albert Bates


Ultimamente abbiamo ponderato strategie attraverso le quali le persone consapevoli si sono approcciate alla minaccia esistenziale posta dal cambiamento climatico. Ha poco senso sprecare tempo in strategie che sono destinate a fallire, quindi periodicamente dobbiamo chiederci se il tempo dedicato alla rabbia, a reinventarci e a re-inquadrarci sia ben speso. In numerosi anni nel passato abbiamo adottato un approccio “tutto quello di cui” al consiglio di mitigare il cambiamento climatico, concedendo ugual peso ai processi esasperanti dei negoziati e agli arresti di massa. Da un lato ci impegniamo nella ritualità complessa degli incontri lunghi settimane delle Nazioni Unite cercando di metterci d'accordo su codici di condotta vincolanti. Dall'altro ci rallegriamo alle dimostrazioni di piazza ed ascoltiamo discorsi di incoraggiamento delle celebrità che ci dicono che dobbiamo modificare i nostri stili di vita, diventare verdi, conservare.