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mercoledì 27 gennaio 2021

Contra philosophos, ovvero i filosofi e la superiorità della razza umana

 

Di Bruno Sebastiani

Lo scopo finale dell’uomo è di sottomettere a sé tutto ciò che è privo di ragione e di padroneggiarlo liberamente secondo la propria legge.”

Questa frase, tanto lapidaria quanto terrificante, riassume perfettamente il senso della perversa evoluzione subìta dal nostro cervello. Sembra pronunciata da un sadico aguzzino in preda a una crisi di delirio di onnipotenza.

Il suo autore è invece lo stimato e apprezzato filosofo Johann Gottlieb Fichte (immagine centrale), che l’ha inserita in uno dei suoi “capolavori”, “La missione del dotto” (Fabbri, Milano 2004, p. 17).

Questa affermazione è la più esplicita di una infinita serie di asserzioni che nel corso dei secoli i più celebri filosofi, scienziati ed ecclesiastici hanno profuso a piene mani nei propri scritti.

Senza risalire al famoso invito rivolto da Dio ad Adamo ed Eva (“soggiogate la terra e dominate sopra ogni essere vivente”) e a tutti i conseguenti precetti di natura religiosa, possiamo osservare che analoghi princìpi germogliarono anche in Grecia, la “laica” patria della filosofia.

Il mito di Prometeo e di Epimeteo, rievocato da Socrate nel Protagora di Platone, narra che “l’uomo divenne partecipe di una sorte divina […] unico tra gli esseri viventi, cominciò a credere negli dèi […]”.

Pochi anni più tardi Aristotele scrisse: “Tutti gli uomini sono protesi per natura alla conoscenza […] Nella vita degli animali […] sono presenti soltanto immagini e ricordi, mentre l’esperienza vi ha solo una limitatissima parte; nella vita del genere umano, invece, sono presenti attività artistiche e razionali. […] l’esperienza è per gli uomini solo il punto di partenza da cui derivano scienza e arte […] (Metafisica, 980a – 981a)

Plotino nel III secolo puntualizzava che: “[…] l’uomo possiede la vita completa, allorché ha non solo quella sensibile, ma anche la facoltà di ragionare e l’Intelligenza vera […]” (Enneade I 4, 5)

Nel 1260 Tommaso d’Aquino, in pieno Medio Evo cristiano, sancì la superiorità degli esseri dotati di pensiero razionale su quelli che ne sono privi: “[…] mostreremo che per divina disposizione, nel determinare la perfezione delle cose create secondo il migliore dei modi, era giusto che venissero prodotte delle creature dotate di intelligenza, poste nel grado supremo degli esseri.” (Somma contro i gentili, Libro II, Cap. XLVI)

Tutta la storia della chiesa è costellata di documenti che, sulla scia di quanto affermato dall’aquinate, hanno periodicamente ribadito la superiorità dell’uomo su ogni altro vivente.

Nel 1870 Pio IX, nella Costituzione Dogmatica “Dei Filius” ribadì che “[…] Dio destinò l’uomo ad un fine soprannaturale, cioè alla partecipazione dei beni divini, che superano totalmente l’intelligenza della mente umana […] sebbene la fede sia superiore alla ragione, pure non vi può essere nessun vero dissenso fra la fede e la ragione, poiché il Dio che rivela i misteri della fede e la infonde in noi è lo stesso che ha infuso il lume della ragione nell’animo umano […]”.

Dunque anche per la chiesa di Roma è il “lume della ragione” a stabilire la nostra superiorità in questo mondo.

I precetti della religione peraltro sono sempre ammantati da una patina di “sovra naturalezza” che ne attenua il rigore.

Spetta ai filosofi laici il primato della brutalità, e non vi è dubbio che, prima di Fichte, il pensatore più malvagiamente esplicito in tema di superiorità umana sia stato Cartesio, per il quale gli animali sono equiparabili a dei congegni meccanici.

“[…] non esistono uomini così ebeti e stupidi e magari anche pazzi che non siano capaci di combinare insieme diverse parole e di comporre un discorso con il quale far capire i loro pensieri, mentre, al contrario, non vi è nessun animale tanto perfetto e tanto felicemente nato che faccia lo stesso. […] Questo fatto testimonia non soltanto che le bestie hanno meno ragione degli uomini ma che non ne hanno affatto; […] è la natura ad agire in loro secondo la disposizione dei loro organi, così come si vede che un orologio, composto unicamente di ruote e di molle, può contare le ore e misurare il tempo più esattamente di noi con tutta la nostra prudenza.” (Discorso sul metodo, parte quinta)

Un po' meno brutale fu Leibniz, ma la sostanza del discorso è sempre la medesima: “[…] la conoscenza delle verità necessarie ed eterne è quella che ci distingue dagli animali bruti e ci fa avere la ragione e le scienze, elevandoci alla conoscenza di noi stessi e di Dio. Questo è ciò che in noi si chiama anima ragionevole o spirito.” (Monadologia, parte II, cap. VI

Credo che le citazioni sopra riportate forniscano un quadro sufficientemente chiaro di come i maggiori pensatori di tutti i tempi abbiano costantemente e concordemente incensato la superiorità della razza umana in contrapposizione all’inferiorità del mondo della natura.

Ad avvalorare questa affermazione aggiungo le citazioni di un filosofo che la vulgata comune definisce contiguo al romanticismo, al vitalismo e all’irrazionalismo, nonché connotato da una forte dose di pessimismo, Arthur Schopenhauer.

È opinione concorde di tutti i tempi e di tutti i popoli che tutte queste così svariate ed estese asserzioni hanno origine da un principio comune, da quel particolare potere dello spirito che rende l’uomo superiore all’animale e che è stato chiamato RAGIONE [in maiuscolo nel testo …]”

Il grande privilegio dell’uomo, la ragione, […] mediante una condotta regolata e ciò che ne consegue, gli allevia tanto la vita ed il suo peso […]

Quantunque nell’uomo, come idea (platonica), la volontà trovi la sua più chiara e perfetta oggettivazione, questa soltanto tuttavia non poteva esprimere la sua essenza. L’idea dell’uomo, per apparire nel suo debito significato non poteva manifestarsi sola e sconnessa, ma doveva essere accompagnata dal processo graduale discendente, attraverso tutte le forme animali, il regno vegetale, fino al mondo inorganico. Soltanto tutti questi si integrano in una completa oggettivazione della volontà; essi sono presupposti dall’idea dell’uomo, così come i fiori dell’albero presuppongono le foglie, i rami, il tronco e le radici: essi formano una piramide, il cui vertice è costituito dall’uomo.”

Come se a Schopenhauer non bastasse aver collocato l’uomo al vertice della piramide della natura, il desiderio di umiliare gli altri esseri viventi si esprime in lui nella constatazione che solo l’uomo cammina volgendo lo sguardo in alto, mentre tutti gli altri hanno il muso rivolto a terra!

Questa differenza fra uomo ed animale è espressa all’esterno mediante la diversità di rapporto della testa con il corpo. Negli animali inferiori, entrambi sono ancora del tutto attaccati; in tutti, la testa è inclinata verso terra […] Perfino negli animali superiori testa e tronco sono un tutt’uno, ancor più che nell’uomo, il cui capo appare collocato libero sul corpo, da questo solamente portato, non già al suo servizio. L’Apollo del Belvedere rappresenta a livello sublime questo vantaggio per l’uomo: la testa del dio delle muse, la quale volge ampiamente lo sguardo tutto intorno, poggia così libera sulle spalle, che si svincola completamente dal corpo e sembra non darsene più pensiero.” (Il mondo come volontà e rappresentazione, parr. 8, 16, 28 e 33)

Qui il cerchio si chiude e il moderno Schopenhauer si ricollega all’antico Aristotele, il quale si compiaceva di come l’uomo fosse “il solo degli animali ad avere posizione eretta […] con la sua parte superiore […] orientata verso la parte superiore dell’universo […]” (Parti degli animali, 656a)

Né a Schopenhauer né ad alcun altro illustre filosofo è mai venuto in mente che se lo sguardo dell’uomo, anziché verso lontani e irraggiungibili orizzonti, fosse stato rivolto verso la terra, le piante e gli esseri a noi più vicini, oggi non ci troveremmo a dover risolvere i terribili problemi che affliggono la biosfera e con essa anche le nostre stesse vite?

L’ora della fine del nostro mondo si avvicina velocemente e i grandi pensatori ne sono in buona parte responsabili.

Non vi è dubbio che il cervello dell’uomo sia più potente di quello degli altri animali, ma ben diverso è attribuire a questa peculiarità valore positivo, come hanno fatto sin qui tutti i filosofi, o valore negativo, come ho iniziato a ipotizzare ne “Il Cancro del Pianeta” sulla base degli esiti di ciò che la potenza del nostro organo di comando ha causato alla biosfera.

Se vogliamo cercare di rallentare l’ecocidio, iniziamo dunque a riflettere sul reale valore dell’abnorme sviluppo evolutivo subìto dal nostro encefalo, che ci ha consentito di stravolgere l’armonia della natura ma che non ci permette di ricrearne un’altra altrettanto stabile e duratura.


venerdì 15 gennaio 2021

Una, nessuna o centomila? L'evanescente illusione dell'anima

 


Louis Janmot, Il volo dell'anima, 1854

Tranquilli. Pirandello non c’entra. La parafrasi del titolo del suo famoso romanzo serve solo a introdurre il tema dell’anima, questa evanescente illusione che ci siamo inventati per tentare di dare un senso all’inspiegabile.

Forse, a ben guardare, qualche attinenza con l’argomento del romanzo la si può trovare. Ma lascio volentieri ad altri questo esercizio.

Io preferisco concentrarmi su come e perché i nostri lontanissimi progenitori abbiano pensato che dietro a tutto ciò che nasce, si sviluppa e muore potesse sussistere una entità immateriale destinata ad affiancare il fenomeno vita e poi, presso talune fattispecie, a immortalarlo.

L’argomento è vastissimo e richiederebbe, per essere svolto in modo appropriato, lo spazio di un intero trattato e non quello di un semplice articolo.

Mi limiterò pertanto a enucleare i capitoli di questo tema e a svolgere qualche considerazione al riguardo.

Iniziamo col dire che all’insorgere dell’autocoscienza nel cervello di Homo sapiens, l’esistenza di qualcosa dietro ad ogni fenomeno naturale apparve la spiegazione più ovvia della realtà.

Nacque così l’animismo o religione della natura. L’etimologia stessa del termine “anima” ci rinvia a quel “soffio vitale” che “qualcuno” avrebbe insufflato nel corpo di ogni vivente, il quale, per l’appunto, in virtù di tale azione sarebbe divenuto “animato”.

In realtà inizialmente si ritenne che ogni realtà fosse dotata di tale spirito, fiumi, laghi e montagne compresi.

Poi, poco alla volta, il lume della ragione restrinse il campo. Solo ai viventi fu attribuita questa particolarità e l’animismo cedette il passo ai miti e alle religioni.

Ma il concetto di anima continuò a perpetuarsi (qualche sua sporadica espressione sopravvive ancora ai giorni nostri!) e fu rielaborato opportunamente da filosofi e uomini di chiesa.

La prima brutale operazione compiuta da costoro ai danni del mondo vegetale e di quello animale consistette proprio nel privare alberi e belve di questa sostanza immateriale, che da un certo punto in poi fu ritenuta appannaggio esclusivo della razza umana.

Ma come? Se la sua funzione primaria era di affiancare e sostenere ogni essere vivente, perché riservarla solo all’uomo?

L’unica spiegazione plausibile è che l’uomo, rispetto a ogni altro vegetale e animale, ha un cervello molto più fitto di neuroni e sinapsi, condizione questa che lo pone in grado di dominare tutti gli altri esseri dotati di vita e di decidere cosa compete a costoro, anche in termini di presunta vita ultraterrena.

Perché di questo si tratta. Avere l’anima è la condizione indispensabile, secondo miti e religioni, per poter “sopravvivere alla morte” e accedere all’“al di là”, sia che si chiami “ade” o “campi elisi” o “paradiso” (con la variante punitiva dell’“inferno”).

Il fitto intrico di neuroni e sinapsi ha infatti svelato all’uomo che a ogni nascita conseguono l’invecchiamento e la morte, destino tanto inesorabile quanto oscuro e angosciante.

Per tale motivo sorse l’esigenza di aggrapparsi a un “salvagente ideologico”, ed ecco l’utilità di quel concetto di anima che sopravvive alla morte.

Il fatto di non attribuirla agli animali ha una sua logica. Essi conoscono l’angoscia della morte solo nel momento del pericolo. Non ne sono afflitti costantemente nel corso della vita e non hanno quindi necessità di particolari supporti “psicologici” durante la loro esistenza.

Osservazione a margine. Ma questa condizione “animalesca” non è preferibile a quella umana? E, se sì, non ne consegue che il maggior intrico di neuroni e sinapsi formatosi nel cervello dell’uomo sia da ritenere un attributo infausto anziché super-favorevole?

Ma torniamo a occuparci della fantomatica anima e vediamo quali forme abbia assunto la sua presunta esistenza nel corso dei secoli.

Anche in questo caso, come in molti altri, il più eminente organizzatore dell’idea “anima” nell’antichità è stato Aristotele.

A questo argomento ha dedicato uno specifico trattato (per l’appunto il De Anima), in cui stabilisce (bontà sua) che all’anima competano varie facoltà, le quali “si trovano in alcuni viventi tutte […] in altri alcune, in taluni, infine, una sola.” (II, 3, 414a) Sia detto per inciso, le povere creature con una sola facoltà (quella nutritiva) sarebbero le piante, mentre gli animali sarebbero in possesso di anime con più facoltà, seppure in forma ben ridotta rispetto all’uomo.

Quest’ultimo, il dominatore dell’Universo, è l’unico fornito di intelletto (seppure passivo, essendo quello attivo di competenza della divinità). Questa attribuzione gli dà comunque diritto a un’anima di tipo superiore, provvista di ogni facoltà, compresa quella di ricevere la luce riflessa dell’intelletto attivo e quindi di proseguire la sua vita oltre la morte.

L’indagine di Aristotele non ha peraltro scopi religiosi e non sconfina nella vita ultraterrena. Per lui l’anima è il principio che sostiene ogni essere vivente e il suo studio si incentra eminentemente sul funzionamento del fenomeno “vita”, relativamente al quale l’anima è l’artificio che consente di dare una spiegazione a ciò che il sapere scientifico dell’epoca non era in grado di giustificare.

Platone nel Timeo espone la sua cosmogonia, secondo la quale “questo mondo è veramente un animale animato e intelligente generato dalla provvidenza di dio.” (VI, 30b) Ebbene questo “animale” vive sul pianeta Terra e dispone di un’anima unica e multiforme. Ecco come si sarebbe formata: “[…] il dio […] fece un corpo liscio e uniforme ed eguale dal centro in ogni direzione […] E messa l’anima nel mezzo di esso, la distese per tutte le sue parti, e con questa stessa l’involse tutt’intorno di fuori […]” (VIII, 34b)

È un approccio un po' più poetico e meno filosofico di quello di Aristotele, ma entrambi lasciano aperta la possibilità che, in aggiunta alle singole anime individuali, ve ne sia una “planetaria”, o piuttosto che le prime derivino da quest’ultima, preesistente.

In particolare, una interpretazione degli scritti di Aristotele operata da Averroè ipotizzò l’esistenza di due tipi di anime, una personale e mortale e un’altra immortale ma impersonale, cioè unica per tutto il genere umano.

Come si può ben capire, se questa fosse stata l’ipotesi prevalente sarebbe venuto meno tutto il potere persuasivo e dissuasivo nelle mani della chiesa: nell’aldilà non vi sarebbero premi per i buoni e castigo per i cattivi. E allora perché operare il bene disinteressato anziché ricercare il vantaggio egoistico?

Per stroncare questa teoria e altre eterodosse che si stavano diffondendo, papa Leone X nel 1513 emanò la Bolla Apostolici Regiminis in cui veniva proclamata solennemente l’immortalità di ogni singola anima umana, che così da “una” diveniva “centomila”.

E quando l’anima svanì, divenne “nessuna”?

Si deve arrivare al 1789, al trionfo rivoluzionario della Dea Ragione, e poi al XIX secolo, con l’avvento dello scientismo. Come credere ancora all’esistenza di una entità incorporea, che nessuno hai mai visto e toccato, destinata a vivificare i corpi degli uomini nel corso della loro vita e a sopravvivere dopo la morte?

Oltretutto Charles Darwin dimostrò verso la fine dell’800 la nostra discendenza da una famiglia di primati, i quali per Aristotele avevano una forma di anima “ridotta” e per la chiesa nessuna. L’anima nell’uomo si sarebbe dunque formata a un certo punto del suo percorso evolutivo. Ma quando? L’ipotesi più plausibile è che ciò sia accaduto in concomitanza con l’insorgere dell’autocoscienza. Dunque l’anima sarebbe un riflesso della ragione. Ma poi la ragione “cresce”, si sviluppa e ci mette in grado di conoscere il reale funzionamento dei corpi, dove non troviamo traccia di alcuna entità immateriale nonostante l’uso degli strumenti più sofisticati.

L’anima è svanita, è diventata “nessuna”. Il rischio di questa sparizione è che con essa sia sparito ogni freno all’egoismo umano. Se non vi sono premi o castighi ultraterreni, perché non cercare di ottenere i massimi vantaggi nel corso di questa vita terrena?

È ciò che stiamo facendo, depredando brutalmente tutte le risorse del pianeta! Dunque la sparizione dell’anima segna il raggiungimento di un nuovo stadio della malattia che rappresentiamo per la biosfera? Pare proprio di sì, con l’aggravante che l’anima scacciata non potrà mai tornare in auge, a conferma che il cammino sin qui fatto della razza umana non può essere percorso a ritroso.

Per approfondimenti https://ilcancrodelpianeta.wordpress.com/.