“Lo scopo finale
dell’uomo è di sottomettere a sé tutto ciò che è privo di ragione e di
padroneggiarlo liberamente secondo la propria legge.”
Questa frase, tanto
lapidaria quanto terrificante, riassume perfettamente il senso della perversa
evoluzione subìta dal nostro cervello. Sembra pronunciata da un sadico aguzzino
in preda a una crisi di delirio di onnipotenza.
Il suo autore è
invece lo stimato e apprezzato filosofo Johann Gottlieb Fichte (immagine centrale), che l’ha
inserita in uno dei suoi “capolavori”, “La missione del dotto” (Fabbri,
Milano 2004, p. 17).
Questa affermazione è
la più esplicita di una infinita serie di asserzioni che nel corso dei secoli i
più celebri filosofi, scienziati ed ecclesiastici hanno profuso a piene mani
nei propri scritti.
Senza risalire al
famoso invito rivolto da Dio ad Adamo ed Eva (“soggiogate la terra e
dominate sopra ogni essere vivente”) e a tutti i conseguenti precetti di
natura religiosa, possiamo osservare che analoghi princìpi germogliarono anche
in Grecia, la “laica” patria della filosofia.
Il mito di Prometeo e
di Epimeteo, rievocato da Socrate nel Protagora di Platone, narra che “l’uomo
divenne partecipe di una sorte divina […] unico tra gli esseri viventi,
cominciò a credere negli dèi […]”.
Pochi anni più tardi
Aristotele scrisse: “Tutti gli uomini sono protesi per natura alla
conoscenza […] Nella vita degli animali […] sono presenti
soltanto immagini e ricordi, mentre l’esperienza vi ha solo una limitatissima
parte; nella vita del genere umano, invece, sono presenti attività artistiche e
razionali. […] l’esperienza è per gli uomini solo il punto di partenza
da cui derivano scienza e arte […] (Metafisica, 980a – 981a)
Plotino nel III
secolo puntualizzava che: “[…] l’uomo possiede la vita completa, allorché ha
non solo quella sensibile, ma anche la facoltà di ragionare e l’Intelligenza
vera […]” (Enneade I 4, 5)
Nel 1260 Tommaso
d’Aquino, in pieno Medio Evo cristiano, sancì la superiorità degli esseri
dotati di pensiero razionale su quelli che ne sono privi: “[…] mostreremo
che per divina disposizione, nel determinare la perfezione delle cose create
secondo il migliore dei modi, era giusto che venissero prodotte delle creature
dotate di intelligenza, poste nel grado supremo degli esseri.” (Somma
contro i gentili, Libro II, Cap. XLVI)
Tutta la storia della
chiesa è costellata di documenti che, sulla scia di quanto affermato dall’aquinate,
hanno periodicamente ribadito la superiorità dell’uomo su ogni altro vivente.
Nel 1870 Pio IX, nella
Costituzione Dogmatica “Dei Filius” ribadì che “[…] Dio destinò
l’uomo ad un fine soprannaturale, cioè alla partecipazione dei beni divini, che
superano totalmente l’intelligenza della mente umana […] sebbene la fede
sia superiore alla ragione, pure non vi può essere nessun vero dissenso fra la
fede e la ragione, poiché il Dio che rivela i misteri della fede e la infonde
in noi è lo stesso che ha infuso il lume della ragione nell’animo umano
[…]”.
Dunque anche per la
chiesa di Roma è il “lume della ragione” a stabilire la nostra superiorità in
questo mondo.
I precetti della
religione peraltro sono sempre ammantati da una patina di “sovra naturalezza”
che ne attenua il rigore.
Spetta ai filosofi
laici il primato della brutalità, e non vi è dubbio che, prima di Fichte, il
pensatore più malvagiamente esplicito in tema di superiorità umana sia stato
Cartesio, per il quale gli animali sono equiparabili a dei congegni meccanici.
“[…] non esistono
uomini così ebeti e stupidi e magari anche pazzi che non siano capaci di
combinare insieme diverse parole e di comporre un discorso con il quale far
capire i loro pensieri, mentre, al contrario, non vi è nessun animale tanto
perfetto e tanto felicemente nato che faccia lo stesso. […] Questo fatto
testimonia non soltanto che le bestie hanno meno ragione degli uomini ma che
non ne hanno affatto; […] è la natura ad agire in loro secondo la
disposizione dei loro organi, così come si vede che un orologio, composto
unicamente di ruote e di molle, può contare le ore e misurare il tempo più
esattamente di noi con tutta la nostra prudenza.” (Discorso sul metodo,
parte quinta)
Un po' meno brutale
fu Leibniz, ma la sostanza del discorso è sempre la medesima: “[…] la
conoscenza delle verità necessarie ed eterne è quella che ci distingue dagli
animali bruti e ci fa avere la ragione e le scienze, elevandoci alla conoscenza
di noi stessi e di Dio. Questo è ciò che in noi si chiama anima ragionevole o
spirito.” (Monadologia, parte II, cap. VI
Credo che le
citazioni sopra riportate forniscano un quadro sufficientemente chiaro di come i
maggiori pensatori di tutti i tempi abbiano costantemente e concordemente incensato
la superiorità della razza umana in contrapposizione all’inferiorità del mondo della
natura.
Ad avvalorare questa
affermazione aggiungo le citazioni di un filosofo che la vulgata comune
definisce contiguo al romanticismo, al vitalismo e all’irrazionalismo, nonché
connotato da una forte dose di pessimismo, Arthur Schopenhauer.
“È opinione
concorde di tutti i tempi e di tutti i popoli che tutte queste così svariate ed
estese asserzioni hanno origine da un principio comune, da quel particolare
potere dello spirito che rende l’uomo superiore all’animale e che è stato
chiamato RAGIONE [in maiuscolo nel testo …]”
“Il grande
privilegio dell’uomo, la ragione, […] mediante una condotta regolata e
ciò che ne consegue, gli allevia tanto la vita ed il suo peso […]
“Quantunque
nell’uomo, come idea (platonica), la volontà trovi la sua più chiara e perfetta
oggettivazione, questa soltanto tuttavia non poteva esprimere la sua essenza.
L’idea dell’uomo, per apparire nel suo debito significato non poteva
manifestarsi sola e sconnessa, ma doveva essere accompagnata dal processo
graduale discendente, attraverso tutte le forme animali, il regno vegetale,
fino al mondo inorganico. Soltanto tutti questi si integrano in una completa
oggettivazione della volontà; essi sono presupposti dall’idea dell’uomo, così
come i fiori dell’albero presuppongono le foglie, i rami, il tronco e le
radici: essi formano una piramide, il cui vertice è costituito dall’uomo.”
Come se a
Schopenhauer non bastasse aver collocato l’uomo al vertice della piramide della
natura, il desiderio di umiliare gli altri esseri viventi si esprime in lui
nella constatazione che solo l’uomo cammina volgendo lo sguardo in alto, mentre
tutti gli altri hanno il muso rivolto a terra!
“Questa differenza
fra uomo ed animale è espressa all’esterno mediante la diversità di rapporto
della testa con il corpo. Negli animali inferiori, entrambi sono ancora del
tutto attaccati; in tutti, la testa è inclinata verso terra […] Perfino
negli animali superiori testa e tronco sono un tutt’uno, ancor più che
nell’uomo, il cui capo appare collocato libero sul corpo, da questo solamente
portato, non già al suo servizio. L’Apollo del Belvedere rappresenta a livello
sublime questo vantaggio per l’uomo: la testa del dio delle muse, la quale
volge ampiamente lo sguardo tutto intorno, poggia così libera sulle spalle, che
si svincola completamente dal corpo e sembra non darsene più pensiero.” (Il
mondo come volontà e rappresentazione, parr. 8, 16, 28 e 33)
Qui il cerchio si
chiude e il moderno Schopenhauer si ricollega all’antico Aristotele, il quale
si compiaceva di come l’uomo fosse “il solo degli animali ad avere posizione
eretta […] con la sua parte superiore […] orientata verso la parte superiore
dell’universo […]” (Parti degli animali, 656a)
Né a Schopenhauer né
ad alcun altro illustre filosofo è mai venuto in mente che se lo sguardo
dell’uomo, anziché verso lontani e irraggiungibili orizzonti, fosse stato
rivolto verso la terra, le piante e gli esseri a noi più vicini, oggi non ci
troveremmo a dover risolvere i terribili problemi che affliggono la biosfera e
con essa anche le nostre stesse vite?
L’ora della fine del
nostro mondo si avvicina velocemente e i grandi pensatori ne sono in buona
parte responsabili.
Non vi è dubbio che il
cervello dell’uomo sia più potente di quello degli altri animali, ma ben
diverso è attribuire a questa peculiarità valore positivo, come hanno fatto sin
qui tutti i filosofi, o valore negativo, come ho iniziato a ipotizzare ne “Il Cancro del Pianeta”
sulla base degli esiti di ciò che la potenza del nostro organo di comando ha
causato alla biosfera.
Se vogliamo cercare
di rallentare l’ecocidio, iniziamo dunque a riflettere sul reale valore dell’abnorme
sviluppo evolutivo subìto dal nostro encefalo, che ci ha consentito di
stravolgere l’armonia della natura ma che non ci permette di ricrearne un’altra
altrettanto stabile e duratura.