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lunedì 1 marzo 2021

La Morte di Zaki Yamani, lo "Sceicco del Petrolio"

 


Zaki Yamani, ministro del petrolio dell'Arabia Saudita fino al 1986, è morto a Londra la settimana scorsa. In ricordo dello "sceicco del petrolio," riproduco qui un commento che era apparso sul blog di ASPO-Italia nel 2006. L'intervista che gli fece Oriana Fallaci in 1976 è un buon esempio delle tante bugie dette su di lui ma, nonostante tutte le accuse che gli arrivavano addosso, Yamani fu sempre un moderato che cercava il compromesso. Riuscì a evitare al suo paese, l'Arabia Saudita, i disastri che si abbatterono su tutti i paesi produttori di petrolio nel Medio Oriente.  Purtroppo, la sua eredità si è un po' persa negli anni, come tutti sappiamo. Adesso, l'Arabia Saudita fronteggia un periodo terribilmente difficile e si può solo sperare che riesca a trovare le risorse per superarlo.

 

http://aspoitalia.blogspot.com/2006/11/fallaci-intervista-yamani.html

Fallaci intervista Yamani: trenta anni dopo
Di Ugo Bardi - Settembre 2006

Circa trenta anni fa, Oriana Fallaci intervistava l'allora Ministro del Petrolio dell'Arabia Saudita, lo sceicco Ahmed Zaki Yamani. Il testo dell'intervista apparve sui giornali e lo si può trovare oggi nel libro "intervista con la storia" (BUR 2001). E' un testo interessante perché ripropone gli elementi che hanno caratterizzato il dibattito da allora fino ad oggi. Da una parte, l'interpretazione "politica" della crisi, come dovuta a un complotto, in questo caso interpretata dalla Fallaci. Dall'altra parte l'interpretazione pragmatica della crisi, come dovuta all'impossibilità della produzione di soddisfare la domanda, in questo caso interpretata da Yamani. Purtroppo, il testo dell'intervista non si trova su internet, ma provo a riassumervelo con qualche commento da parte mia.

Questa con Yamani è soltanto una delle molte interviste che Oriana Fallaci aveva ottenuto dai vari potenti della terra (fra di loro Henri Kissinger) degli anni 1970. In qualche modo, essere intervistati da lei era qualcosa che i potenti dell'epoca apprezzavano, o forse non riuscivano a evitare. Secondo quanto la Fallaci stessa ci racconta, Ahmed Yamani ci ha pensato sopra parecchio prima di accettare di essere intervistato. Alla fine, però, ha invitato la Fallaci a casa sua a Gedda, l'ha ricevuta con grande cortesia, ospitata, e le ha fatto conoscere sua moglie Taman e le sue figlie.

Da quello che scrive, non sembra che la Fallaci sia stata particolarmente grata a Yamani per queste cose. Anzi, il testo della sua intervista è tutta una serie di offese contro di lui. Lo definisce, per esempio, "L'uomo che può riportarci ai tempi in cui si viaggiava a cavallo, che può far chiudere le le nostre fabbriche, far fallire le nostre banche..." . L'antipatia della Fallaci verso Yamani è evidentissima e si manifesta in domande e commenti tipo "volevate il denaro e l'avete avuto, rovinandoci"; lo accusa di ricatto, di volersi comprare una bomba atomica, di essere "diabolico" e cose del genere. Più tardi, la Fallaci avrebbe accusato Yamani anche di aver tentato di sedurla, un' accusa che però non appare nell'intervista.

Ma non è tanto questione di offese o accuse. Quello che colpisce di questa intervista è il fatto che la Fallaci non si è minimamente preparata sull'argomento "petrolio" e non è in grado di fare domande che non siano semplicemente basate sulle varie leggende del tempo (le stesse di oggi). Per dare un'idea del tono della faccenda, stile tipo cronaca rosa da rotocalco, ecco alcune delle domande che la Fallaci ha posto a Yamani

Volevate il denaro e l'avete avuto: rovinandoci. Ma dove finiscono quelle migliaia di miliardi? Dove? Io vedo molti orologi d'oro nelle vostre vetrine e accendini d'oro, anelli d'oro, vedo grosse automobili per le vostre strade, ma non vedo case, non vedo vere città.

Più avanti, sostterrà a proposito dei petrodollari.

"sappiamo bene che gli emiri se ne servono per comprare water-closet d'oro"

A un certo punto, ritira fuori addirittura la famosa leggenda che

"in Arabia Saudita si scava per cercare acqua e si trovava petrolio."

Per tutta l'intervista, la Fallaci gira intorno al concetto che gli Arabi complottavano contro l'Occidente usando il petrolio come arma. Più volte cerca di fare ammettere a Yamani che, si, esiste un complotto contro l'occidente per rovinarci e per instaurare la dittatura islamica mondiale. Se possibile, vorrebbe fargli ammettere che è proprio lui, Ahmed Zaki Yamani, il capo del complotto. A parziale discolpa della Fallaci, va detto che in Occidente in quegli anni quasi tutti credevano che la crisi degli anni '70 avesse origini politiche. Oggi, vediamo chiaramente dai dati che la crisi fu causata invece dal picco di produzione degli Stati Uniti che ebbe luogo nel 1970. Ma la veemenza con cui la Fallaci attacca Yamani nell'intervista non sembra basarsi su nessun dato o nessun riferimento preciso. La Fallaci, semplicemente, riversa su Yamani tutte le leggende che si leggevano sulla stampa a quell'epoca.

Yamani, da parte sua, ribatte sempre senza perdere le staffe. E' chiaro da quello che la Fallaci ci racconta che la considerava come una specie di bomba a orologeria, da trattare con cautela e con i guanti. Ci deve essere voluta veramente molta pazienza per Yamani per rispondere alla serie di domande che gli sono arrivate: molte erano semplicemente sciocche, alcune offensive e altre indiscrete come quella sulle sensazioni che aveva provato assistendo all'esecuzione dell'assassino del re Feisal. Ma Yamani è sempre cortese e risponde senza mai schivare la domanda anche se in cuor suo deve essersi domandato più di una volta chi glie lo aveva fatto fare. La Fallaci, invece di apprezzare, lo accusa in risposta dicendo che "si era proibita la spontaneità".

Ma, alla fine dei conti, quello che rende interessante l'intervista è che non è veramente la Fallaci a condurla, ma piuttosto Yamani. Nonostante l'impreparazione di chi gli sta facendo le domande, Yamani riesce a dare un quadro completo e organico della situazione petrolifera dell'epoca, che già prefigurava esattamente il mondo di oggi. A quei tempi, l'Arabia Saudita produceva tre milioni e mezzo di barili al giorno, ma Yamani dice che ne avrebbe potuto produrre 11. In effetti l'Arabia Saudita è riuscita a produrne quasi 11, in certi periodi. Yamani aveva perfettamente chiara la strategia che sarebbe stata dell'Arabia Saudita negli anni a venire; quella di "swing producer" ovvero ago della bilancia che avrebbe stabilizzato la produzione e evitato ulteriori crisi nel futuro. Yamani aveva perfettamente inquadrato la situazione petrolifera mondiale come sarebbe stata per almeno tre decenni a venire. La Fallaci non era in grado di apprezzare il valore di quello che le veniva detto, ma leggendo l'intervista, si rimane impressionati dalla chiarezza con la quale Yamani aveva previsto gli eventi dei successivi trent'anni.

Valgono ancora oggi le considerazioni di Yamani? Complessivamente, si, ma non continueranno a essere valide molto a lungo. Oggi, l'Arabia Saudita come ago della bilancia ha di fronte un futuro molto difficile. Si dice che potrà ancora aumentare la produzione, ma si dice anche che i giacimenti attuali hanno raggiunto i loro limiti e che il declino sta per iniziare. Prima o poi, l'Arabia Saudita non potrà più essere l'ago della bilancia che è stata a partire dai tempi di Yamani. L'esaurimento delle risorse è il vero problema e non quello degli "emiri che si comprano i water closet d'oro" come diceva la Fallaci, forse credendoci veramente.

Oriana Fallaci oggi non c'è più. Yamani non è più ministro del petrolio dal 1986, oggi è un anziano signore che vive a Londra e si occupa di studi islamici. Il mondo va avanti, gli eventi di una volta si ripropongono sempre uguali ma in forme sempre diverse. Una cosa cambia, però: di petrolio ce n'è sempre meno.

sabato 9 gennaio 2021

Superare il capitalismo? Conversione Ecologica e Conflitto



Terza puntata dedicata alla conversione ecologica ed al conflitto.


Articolo già apparso su Apocalottimismo il 30/10/2020

 

Di Iacopo Simonetta


Settimane fa, a seguito di un interessante incontro nell’ambito del progetto “Ecoesione” dell’Università di Pisa su conversione ecologica e conflitto, mi posi tre domande: 1 – Crescita o non crescita? 2 – Quanta decrescita e per chi? 3 – Bisogna superare il capitalismo?


Delle prima due abbiamo parlato nei precedenti post, qui vorrei accennare ad alcune questioni relative al un punto fondamentale: il capitalismo è compatibile con l’auspicata conversione ecologica?
La questione è cruciale perché coloro che si adoperano per tale conversione devono far pressione sul sistema attuale per modificarne la rotta, oppure cercare di sostituirlo con un’altro sistema? E se questa fosse l’opzione, con quale sistema?
Mercato o non mercato? 

Tutte le proposte inerenti una qualche variante di “green Economy” danno per scontato di operare all’interno di un’economia di mercato. Sia pure con qualche aggiustamento, si pensa comunque di restare saldamente in un sistema capitalista, con tutto il relativo apparato legale, istituzionale e di costume. Siamo sicuri che sia possibile una vera transizione ecologica senza sbarazzarsi del capitalismo o, magari, trasformarlo in qualcosa di molto diverso?

Struttura del capitalismo.  

Il capitalismo è un sistema economico unico nella storia e, alla resa dei conti, si è dimostrato di gran lunga il più efficiente nello sfruttare le opportunità di crescita che offriva un “mondo vuoto” (sensu H. Daly). Non solo ha infatti permesso la creazione di immense fortune private (anche altri sistemi lo hanno fatto), ma ha anche distribuito il massimo storico di benessere materiale e di libertà personale ai cittadini degli stati che lo hanno adottato per primi. Si è anche dimostrato inattaccabile grazie alla sua capacità camaleontica di adattarsi ai più diversi contesti, pur restando saldamente sé stesso. Anzi, assorbendo ed utilizzando a proprio vantaggio anche le idee, i concetti e le invenzioni nate per contrastarlo.
Proprio questo lo rende così terribilmente distruttivo. Qui non possiamo scendere in dettagli su cui mi riprometto di tornare in futuro, ma è un fatto che il sistema capitalista è strutturato su una ridondanza di retroazioni positive senza freni interni. Al contrario ha molti strumenti (ad es. la tecnologia e la finanza) per contrastare gli effetti frenanti derivanti dagli impatti negativi sulle risorse, l’ambiente ecc.
Ne consegue che un sistema capitalista può fare solo due cose: crescere o collassare, senza possibili vie di mezzo.

Ovvio che se quella che si cerca è una “crescita verde” il capitalismo è quello che ci vuole, ma è lecito dubitare che in tal modo si possa davvero ridurre l’impatto umano sul Pianeta. Del resto, i deleteri effetti del “green washing” sono sotto gli occhi di tutti. Oramai, in nome e per conto della “economia verde” e dello “sviluppo sostenibile” si promulgano leggi ai limiti del criminale, come il “Testo Unico Forestale” del governo Gentiloni, e si finanziamo speculazioni a dir poco spregiudicate.


Effetti macroeconomici del superfluo. 

Il consumismo è alla base del disastro ecologico globale e si basa sulla vendita di oggetti perlopiù inutili, talvolta perfino dannosi, spesso progettati per rompersi presto e non essere riparabili. Verissimo, ma la maggior parte delle persone oggi lavorano proprio alla produzione e commercializzazione di beni e servizi inutili. L’esperienza dei blocchi dovuti alla pandemia di Covid-19 ci ha dato una dimostrazione plateale di come sia stato sufficiente rallentare per alcuni mesi la commercializzazione mondiale di generi non indispensabili per scatenare una crisi economica ancora più grave di quella, catastrofica, del 2008, lasciando disoccupate centinaia di milioni di persone nel mondo. Circa trenta milioni solo in Europa. Alla fine, nel mondo, il Covid avrà ammazzato più gente di miseria che di polmonite. 

Insomma, è verissimo che una vita sobria e laboriosa può essere di molta più soddisfazione di una vita passata a strascicare i piedi nei centri commerciali, ma le conseguenze per coloro che lavorano per far arrivare quella roba in quelle vetrine sarebbero devastanti. Certo, una vera transizione ecologica aprirebbe altri sbocchi professionali, magari più interessanti, ma rimane da stabilire quale sarebbe il saldo finale e come gestire la fase di passaggio che facilmente provocherebbe gravi conseguenze per molta gente e, di conseguenza, una netta opposizione, se non una vera insurrezione.

Effetti finanziari. I più seri tra i fautori del Green New Deal indicano anche quali sarebbero le fonti di finanziamento. In buona sostanza, sarebbero tre: – aumento delle tasse per i redditi più elevati, – diversa destinazione di spese già in atto, – varie tipologie di debito pubblico e privato.

La tassazione requisitoria dei super-redditi avrebbe indubbi vantaggi non tanto in termini di gettito fiscale, quanto in termini di recupero di credibilità e di autorevolezza della classe dirigente, oggi totalmente delegittimata. Resta da vedere se sia possibile attuare questa misura.

La ridistribuzione di spese e contributi potrebbe fare molto per sostenere la transizione, ma presenta dei rischi a seconda di quali finanziamenti si andassero a ridurre/eliminare. In particolare, le due categorie più gettonate sono le spese militari e le sovvenzioni alle industrie petrolchimiche. Delle prime si è già fatto cenno nella puntata precedente. Quanto alle sovvenzioni alle fossili, sono effettivamente un assurdo, ma il loro taglio potrebbe provocare il collasso di un comparto industriale che è già in affanno e che rimarrà comunque essenziale ancora a lungo. Fra l’altro, anche per realizzare la transizione energetica, visto che quasi tutto ciò che serve per essa viene direttamente o indirettamente dalle fossili.

Per quanto riguarda il debito comunque confezionato, la speranza è che i vantaggi derivanti dalla transizione consentano di ripagarlo. Il punto è che ciò sarebbe teoricamente possibile in un contesto di crescita economica, mentre in un contesto di decrescita ciò sarebbe comunque impossibile, con grave rischio di collasso del sistema finanziario e monetario. Inoltre, aumentare la massa monetaria in un contesto di contrazione od anche di stagnazione economica finirebbe con lo scatenare fenomeni inflattivi devastanti come si è già visto tante volte.

Insomma, se la transizione avvenisse in un contesto di decrescita sufficientemente rapida da salvare la Biosfera, bisognerebbe pianificare l’annullamento di gran parte del debito, il che significa la scomparsa del denaro e dalla finanza attuali e, quindi, la loro sostituzione. Con che? Non mi risulta che questo sia un punto in discussione.

Al contrario, se il GND fosse capace di rilanciare la crescita economica, come molti affermano, l’intera operazione fallirebbe con ogni probabilità lo scopo. Sappiamo bene da oltre 50 anni che per evitare il collasso globale occorre contrarre e non accrescere l’economia e la popolazione.

Tensioni e conflitti internazionali. Un altro punto fondamentale che si tende a trascurare è che non esistono solo le tensioni sociali interne ai vari stati (di cui le versioni migliori del GND almeno in parte si occupano), ma anche tensioni internazionali, spesso complicate, talvolta violente, quasi ovunque in peggioramento. Gli stati che decidessero di fare da battistrada per una transizione del tipo di quella prospettata ridurrebbero il loro peso economico e politico nel mondo, specie se tagliassero drasticamente le spese militari, come generalmente auspicato dai sostenitori del GND. Una cosa estremamente pericolosa, visto che la maggior parte dei paesi vanta almeno un vicino ostile, ma anche considerata la necessità di mantenere aperti canali commerciali globali ancora per un lungo periodo di tempo. La probabilità che altri paesi approfittino del ridimensionamento di alcuni, optando per una politica di accaparramento degli spazi economici e politici lasciati da altri, sarebbero molto elevate. Per non dire una certezza.
Non dimentichiamo poi che moltissimi paesi anche molto vicini a noi andranno quasi sicuramente incontro a ulteriori crisi politiche e sociali, tipo “primavere”. Finora queste ondate di violenza collettiva si sono sfogate all’interno dei confini nazionali, anche se con un forte impatto su altri paesi a causa della fuga di massa dalle zone più colpite. Ma non è detto che in futuro continui ad essere così e, se anche fosse, dovremo fronteggiare flussi di gente in fuga di ordini di grandezza superiori a quelli visti finora. 

Comunque, le prospettive sono abbastanza tetre per tutti. Per i paesi che vivono di esportazione di energia fossile (OPEC e Russia prima di tutti), una vera e diffusa conversione energetica sarebbe un disastro totale e non è detto che, potendo, non ricorrerebbero alle armi per salvarsi. Per le economie fortemente industrializzate, come Cina, USA e UE, una crisi dei trasporti internazionali, anche parziale, potrebbe facilmente innescare un completo collasso economico. Le devastanti conseguenze dei vari “lockdown” da Covid sono state un piccolo assaggio di quello che potrebbe facilmente accadere. Infine, molti dei paesi più poveri tirano avanti in buona parte grazie a programmi internazionali e rimesse di emigrati che diventerebbero molto più aleatori in un modo in cui le economie si contraggono. Molti fra questi paesi sono anche quelli demograficamente più instabili e maggiormente a rischio di violenza anche estrema.


Rientro nei limiti. 

La crescita economica comporta sempre un aumento dei consumi e, generalmente, anche della popolazione (contrariamente alla vulgata). In altre parole, aumenta l’impatto umano sul pianeta, mentre è imperativo ridurlo il più rapidamente possibile perché la situazione è già ora disperata.

Tanto per farsi un’idea, buona parte delle calotte glaciali è già in collasso e si stanno consolidando una serie di retroazioni che aumenteranno il tenore di CO2 e di metano in atmosfera, qualunque cosa faremo noi con le nostre tecnologie. Ancora peggio, i biomi non esistono più ed oggi si parla di Antromi. Dei 21 identificati, soltanto 3 sono considerati “wildlands”: deserti, tundra e resti di foreste primarie equatoriali, per un totale di poco più del 20% delle terre emerse (Antartide esclusa). Comunque, anche questi territori sono soggetti a gravissimi fenomeni di degrado come incendi, scioglimento del permafrost, ecc.

Tutto il resto, circa l’80% delle terre emerse, è occupato da ecosistemi totalmente artificiali, come città e campagne, o pesantemente modificati, come la quasi totalità delle foreste e delle praterie superstiti. In mare va pure peggio. 

Il risultato è che in appena 50 anni abbiamo perso oltre il 70% della fauna del mondo, mentre nello stesso periodo la popolazione umana è raddoppiata, raggiungendo una densità media mondiale di 55 persone per Kmq (sempre Antartide esclusa). Vale a dire che abbiamo un quadrato di poco più di cento passi per lato a testa. Se consideriamo però la sola superficie agricola, il quadrato diventa di soli 40 passi per lato (meno di 2000 mq). Oramai, il poco che resta di vita selvatica sopravvive stentatamente negli interstizi del nostro “formicaio umano globale”.


Considerazioni finali

Il petrolio abbondante, a buon mercato e di eccellente qualità è stato ciò che ha consentito al capitalismo di realizzare la più fantastica crescita economica di sempre e quella crescita è ciò che ha reso compatibili, anzi sinergici, il capitalismo e la democrazia.

La crescita è finita e non tornerà. E con la fine della crescita è finita questa sinergia: di qui il risorgere ed il diffondersi di partiti e movimenti estremisti, mentre il capitalismo in agonia cerca di sopravvivere adottando, gradualmente, metodi di manipolazione, controllo e repressione sempre più simili a quelli cari ai regimi totalitari. Tutto ciò che la crescita ha creato, senza di essa non potrà funzionare.

D’altronde, la decrescita non è una scelta, è una conseguenza di leggi fisiche e biologiche ineludibili. Questo significa che non solo le nostre abitudini ed il nostro benessere, ma anche buona parte di ciò che pensiamo, delle nostre certezze identitarie, fino ai nostri bastioni etici cadrà in rovina e da quelle rovine dovremo ricostruire un sistema di pensiero che ci possa sostenere in una realtà che già ci terrorizza, anche se ancora non la riusciamo ad immaginare.

D’altronde, per quanto duro, il declino è anche la strada migliore perché qualunque ulteriore crescita economica comporterebbe un ancor maggiore incremento dell’ingiustizia e della distruzione di ciò che resta della Biosfera.

In una qualche misura, possiamo però scegliere come declinare. Un vecchio detto afferma che per avere le buone risposte occorre porre le buone domande. Per esempio: “Come possiamo mantenere il nostro standard di vita?” è una domanda stupida perché sappiamo bene che la risposta è: “non possiamo”.

Però ci sono altre domande su qui vale la pena di riflettere. Per esempio: “Come possiamo contribuire a salvare la biosfera?” Oppure: “Possiamo seppellire il capitalismo salvando le libertà individuali?” O ancora: “E’ possibile una società decentemente giusta, anche se terribilmente povera?”
Ce ne sono molte altre, il punto è decidere quali sono le questioni che ci interessano davvero.

A chiosa, ricordo che tutte queste sono considerazioni strettamente personali che molti, specie fra coloro che sono importanti, non condividono, anzi negano o deridono. Sono il primo ad augurarmi di avere torto, ma avessi anche solo in parte ragione?




venerdì 17 aprile 2020

La pagliuzza che ha spezzato la schiena del cammello: Il virus causerà un collasso globale?





Questa è una versione dell'articolo che ho pubblicato sul "Al Arabiya" il 26 marzo 2020. Non è lo stesso testo che ho pubblicato lì-ma ho mantenuto la meravigliosa illustrazione di Steven Castelluccia. Trasmette perfettamente il concetto di " Seneca Cliff" . Tradotto da Cassandra's Legacy usando Yandex.ru.


Vi ricordate la storia della pagliuzza che ha spezzato la schiena del cammello? È un'illustrazione di come i sistemi in sovraccarico sono sensibili alle piccole perturbazioni. Quindi, l'epidemia di COVID-19 potrebbe essere la pagliuzza che spacca la schiena dell'economia mondiale?

Come un cammello sovraccarico, l'economia mondiale è sovraccaricata da almeno due oneri giganteschi: uno è l'aumento dei costi di produzione delle risorse minerarie (non fatevi ingannare dagli attuali prezzi bassi del petrolio: i prezzi sono una cosa, i costi sono un'altra). Poi, c'è l'inquinamento, compreso il cambiamento climatico, che pesa anche quello sull'economia. Questi due fattori definiscono la condizione chiamata "overshoot", che si verifica quando un sistema economico sta consumando più risorse di quanto la natura possa sostituire. Prima o poi, un'economia in overshoot deve venire a patti con la realtà. Significa che non può continuare a crescere: deve declinare.

Queste considerazioni possono essere quantificate. E' stato fatto per la prima volta nel 1972 con il famoso rapporto I Limiti dello Sviluppo, sponsorizzato dal Club di Roma. Fortemente criticato e demonizzato quando fu pubblicato, oggi ci rendiamo conto che il modello utilizzato per lo studio aveva correttamente identificato le tendenze dell'economia mondiale. I risultati dello studio hanno dimostrato che il doppio onere dell'esaurimento delle risorse e dell'inquinamento avrebbe portato prima alla cessazione della crescita economica e quindi alla sua caduta, probabilmente a un certo punto durante i primi decenni del XXI secolo. Anche con ipotesi molto ottimistiche sulla disponibilità di risorse naturali e di nuove tecnologie, i calcoli mostravano che il crollo potrebbe al meglio essere posticipato, ma non evitato. Molti studi successivi hanno confermato questi risultati: il collasso risulta essere una caratteristica tipica dei sistemi in overshoot, un fenomeno che ho chiamato il "dirupo di Seneca" da una frase dell'antico filosofo romano Lucio Anneo Seneca.



Lo scenario di base calcolato nella versione del 1972 di " i limiti alla crescita"


Il coronavirus, di per sé, è una piccola perturbazione, ma il sistema è pronto per il collasso e l'epidemia potrebbe innescarlo. Abbiamo già visto nel passato recente come l'economia mondiale è fragile: è quasi crollata nel 2008 sotto la relativamente piccola perturbazione del crollo del mercato dei mutui subprime. A quel tempo, era possibile contenere il danno ma, oggi, la fragilità del sistema non è migliorata e il coronavirus potrebbe essere una perturbazione più forte. Il crollo di interi settori dell'economia, come l'industria del turismo (oltre il 10% del prodotto lordo mondiale), è già in corso e potrebbe essere impossibile impedirne la diffusione in altri settori.

Allora, cosa ci succedera' esattamente? Siccome abbiamo comicnciato menzionando un cammello, possiamo anche citare una famosa dichiarazione dello Shaykh Rāshid che possiamo riassumere come: "mio padre cavalcava un cammello, Guido una Mercedes, Mio figlio cavalcherà un cammello." Quella frase potrebbe essere stata davvero profetica?

In effetti, la prossima crisi potrebbe rivelarsi così pesante da riportarci al Medioevo. Ma è anche vero che tutte le principali epidemie della storia hanno visto un robusto rimbalzo dopo il crollo. Consideriamo che, a metà del XIV secolo, la ”Peste Nera" aveva ucciso forse il 40% della popolazione europea, ma, un secolo dopo, gli europei scoprivano l'America e iniziavano il loro tentativo di conquistare il mondo. Può darsi che la peste nera sia stata determinante in questo rimbalzo: la riduzione temporanea della popolazione europea aveva liberato le risorse necessarie per un nuovo balzo in avanti.

Potremmo vedere un rimbalzo simile della nostra società in futuro? Perche ' no? Dopotutto, il coronavirus potrebbe farci un favore costringendoci ad abbandonare i combustibili fossili obsoleti e inquinanti che usiamo oggi. Gli attuali bassi prezzi di mercato sono il risultato della contrazione della domanda e saranno probabilmente la pagliuzza che spezza la schiena dell'industria petrolifera. Questo lascerà spazio a nuove e più efficienti tecnologie. Oggi l'energia solare è diventata così economica che è possibile pensare a una società completamente basata sull'energia rinnovabile. Non sarà facile, si può fare.

Tutto questo non significa che il collasso a breve termine potrà essere evitato. La transizione verso una nuova infrastruttura energetica richiederà enormi investimenti, impossibili da trovare in un momento di contrazione economica come quello che ci aspettiamo per il prossimo futuro. Ma, nel lungo periodo, la transizione è inevitabile e c'è speranza per un "rimbalzo di Seneca" verso una nuova società basata su energia pulita e rinnovabile, non più  sotto la minaccia dell'esaurimento delle risorse e del cambiamento climatico. Ci vorrà del tempo, ma possiamo guarire la schiena di questo povero cammello.

venerdì 3 aprile 2020

Ugo Bardi parla del petrolio dopo il coronavirus






Una brevissima riflessione sulle conseguenze del crollo dei prezzi del petrolio connessi all'epidemia del coronavirus. Preparata per il programma di disseminazione di conoscenza dell'università di Firenze 




mercoledì 3 luglio 2019

Se una cosa non è menzionata nei media, allora non esiste: ecco perché lo Yemen non ha mai prodotto una goccia di petrolio




L'ultimo post che ho pubblicato sul "Fatto Quotidiano" non ha avuto gran successo, almeno a giudicare dal piccolo numero di commenti. Forse per il titolo, un po' fiacco, o forse per il soggetto: il turismo a Firenze considerato come risorsa esauribile, un po' come il petrolio. Niente di male, non tutti i post "sfondano."

Ma dai commenti a quello che pubblichi si impara sempre qualcosa. In questo caso, mi arriva questa signora (presumo) che si nicknomina "Porpessa de Scuoglio." Lasciamo stare la questione del Venezuela, se ne può discutere ma il problema che hanno con il petrolio non è l'embargo, perlomeno non solo quello. Piuttosto, la cosa strabiliante è la sicumera con la quale la signora Porpessa mi spiega che "Lo Yemen non ha mai prodotto una goccia di petrolio"

Ora, non pretendo che i lettori del "Fatto Quotidiano" si intendano di petrolio. Resta il fatto che dire che "Lo Yemen non ha mai prodotto una goccia di petrolio" è un po' come dire, che so, che "L'Italia non ha mai prodotto un grammo di mozzarella." Se uno Yemenita avesse detto una cosa del genere gli dareste giustamente dell'ignorante.

Per vostra curiosità, ecco qui i dati sulla produzione di petrolio in Yemen.

Ai tempi d'oro, la produzione Yemenita di 450mila barili al giorno era una quantità più che discreta. Certo, non paragonabile alla produzione dei giganti tipo Arabia Saudita o USA, ma insomma faceva un buon 20% di quello che produce il Kuwait, ben noto per essere un paese ricco di petrolio. In ogni caso, grande o piccola che fosse, era un elemento essenziale dell'economia dello Yemen.

Notate anche come la produzione yemenita ha raggiunto un picco e poi ha cominciato a scendere per via del graduale esaurimento. Vi ricordate di un signore chiamato "Hubbert?" -- ecco, lo Yemen è uno dei casi che validano la sua teoria. I grossi guai in Yemen sono cominciati quando la curva della produzione ha intersecato quella del consumo, azzerando le esportazioni. E' a quel punto che è cominciata la guerra, tuttora in corso.

Ma di Yemen ne ho già parlato in un post di qualche anno fa. Quello di cui vi volevo parlare è dell'Italia -- ovvero di come da noi viene condotta quella cosa chiamiamo "dibattito." Magari il dibattito in Yemen è anche peggio che da noi, non lo so, ma come è possibile che uno/a si attacchi alla tastiera sparando la prima scemenza che gli viene in mente e voglia anche ragione?

La risposta è che questa vicenda ha una sua logica che si può riassumere in una singola frase: Se una cosa non si legge sui giornali o non si sente dire in TV, allora non esiste.

Vista in questa logica, la reazione della signora Porpessa si spiega perfettamente: non avendo mai sentito dire in TV che lo Yemen produce o produceva petrolio, ne consegue che non ne produce e non ne ha mai prodotto.

Ora, non so se vi rendete conto che è un fatto di per se evidente che la sig.ra Porpessa è in grado di leggere, scrivere, e usare l'Internet quel tanto che basta da mandare un messaggio in una forma grammaticale comprensibile, seppure completamente insensato in termini di conteunuti. La conseguenza terrificante è che la signora Purpessa sarebbe perfettamente in grado di digitare sulla tastiera nel box di Google "Petrolio" e "Yemen" per trovare dati e spiegazioni  - prende circa 30 secondi. Ma, evidentemente, non lo può o non lo vuole fare. O forse entrambe le cose.

Forse per qualche carenza culturale, blocco psicologico, forse semplicemente un atteggiamento. Non saprei dire, ma non è certamente la sola (*). Il dibattito che chiamiamo "politico" è tutto così: ognuno tira fuori e poi difende accanitamente la prima cosa che gli/le viene in mente, tipicamente sostenendo qualcosa che ha sentito dire in TV o, peggio, negando l'esistenza di qualcosa di cui NON ha sentito dire in TV.

Insomma, non so se c'era bisogno della sig.ra Porpessa per capire che quella cosa che si chiama "dibattito politico fra cittadini informati" si trova forse in altri universi, ma non nel nostro. Avevo questa impressione anche prima, diciamo che l'intervento della Porpessa me la ha rinforzata notevolmente.

Lo diceva già Karl Rove al tempo della guerra in Iraq che la realtà è qualcosa che si può creare. A quel tempo, erano riusciti a creare dal nulla le "armi di distruzione di massa" in Iraq. Ma è anche vero che la realtà la possiamo anche fare sparire nel nulla semplicemente evitando di menzionarla in TV-- come il petrolio dello Yemen. Il che mi sembra anche peggio - perlomeno in termini di conseguenze potenziali. Ma che ci volete fare? Si vede che l'universo funziona così.



(*) nota -- non avevo ancora pubblicato questo post, quando ho visto questo commento al mio post sul turismo ripubblicato sul blog di Miguel Martinez



E, appunto, dicevo che la Porpessa non è la sola ( e notare che la Siria, al suo picco, produceva più dello Yemen). Semmai ci fosse stato bisogno di conferme.....





sabato 2 aprile 2016

Lo strano caso della ministra "caduta per amore"





di Ugo Bardi

Non so cosa ne pensate voi, ma a me questa cosa delle dimissioni del ministro Guidi non mi suona giusta. Per niente. Ci stanno propinando una storia che sembra veramente una telenovela, come detto esplicitamente nel titolo di un articolo di Monica Setti "La ministra caduta per amore." Caduta per amore? Ma cosa ci raccontate?

Già il fatto delle dimissioni immediate dopo lo scandalo è cosa strana per l'Italia, specialmente notando che il ministro Boschi, anche lei è coinvolta in questa storia, non ha mosso un sopracciglio. Ma quello che è veramente strano è che Federica Guidi sia stata così ingenua da raccontare per telefono al suo compagno che aveva fatto inserire nella legge un emendamento che faceva comodo a lui. Ma è possibile? Una che arriva a diventare ministro della repubblica è una fessacchiotta che si fa fregare in questo modo? Non lo sa quanto è facile intercettare una telefonata?

Non ho nessuna informazione particolare a proposito della signora Guidi. Mi sono limitato a fare un giro sul Web dal che sembrerebbe proprio che la ex-ministra sia tutto fuori che una fessacchiotta. Ha un curriculum di tutto rispetto e non è certamente stata scelta a caso come ministra. In questi incarichi girano soldi, e parecchi soldi e il ministro Guidi non era scevra di potenziali conflitti di interesse. Forse poi tutta la faccenda ha qualcosa a che vedere col fatto che Guidi sia alleata di Berlusconi.

Insomma, non voglio fare il complottaro, ma questa storia mi ricorda tanto quei telefilm americani dove il poliziotto cattivo mette in tasca al protagonista una bustina di cocaina per poi ritrovarla e sbatterlo in galera. Cosa è successo, allora, con la ministra Guidi? Una pugnalata alla schiena contro Renzi? Una vendetta trasversale? Una resa dei conti all'interno del "cerchio magico"? O forse veramente un ministro ingenuo e pasticcione? Probabilmente, non lo sapremo mai. L'unica cosa sicura è che qualsiasi cosa succeda non ce la raccontano mai giusta. E quando c'è di mezzo il petrolio, è anche peggio.










giovedì 25 giugno 2015

Il discorso di Matteo Renzi: un monito forte sulla necessità di agire contro il cambiamento climatico...... o forse no?


Tradotto e adattato da "Resource Crisis"


Qualche giorno fa, Matteo Renzi  è intervenuto in un incontro dedicato alla situazione del clima. Il suo discorso in questa occasione potrebbe essere preso come un invito ad agire contro il cambiamento climatico ma, in realtà, è un buon esempio di come un astuto politico riesce sempre a dire tante cose, senza però dire niente. E' uno stile di politica che non è tipico soltanto della situazione italiana, ma ormai universale.

Così, mi sono preso la libertà di riprendere le frasi principali del discorso di Renzi, come riportate da "La Repubblica" e espanderle con il loro vero significato (Grassetto: le parole di Renzi)



"Io non credo alla cultura della negatività e del pessimismo: sono ottimista, ma occorre assumersi della responsabilità e il tempo delle scelte è oggi" - Comincio con una bella banalità, ma non pensate che sia la sola!

"...Dire che per noi il clima è una priorità, è restituire un senso di identità al nostro paese" Il che è, ovviamente, un'altra bella banalità, ma ha uno scopo. Notate che ho detto "una" priorità e non ho detto quali sono le altre priorità. Così, come vi potete immaginare, ci saranno sempre delle priorità più prioritarie del clima (e ora vi dirò quali sono).

"Oggi, il nostro nemico è il carbone", e questo lo posso dire dato che in Italia non usiamo molto carbone; così posso prenderlo come lo spauracchio del momento senza offendere le lobby dei combustibili fossili che mi finanziano. Inoltre, mi da la scusa di dire che altri combustibili fossili sono puliti in confronto.


"Fra 40-50 anni avremo bisogno di andare ben oltre la lotta a questo combustibile" Notate che sto dicendo che tutta la lotta al cambiamento climatico si riduce alla lotta a un combustibile che in in Italia praticamente non si usa - non è una bella cosa?  Questo vuol dire che non c'è bisogno di fare niente contro il cambiamento climatico per i prossimi 40-50 anni. E questo la dice lunga su come la penso in proposito.

"Dobbiamo essere capaci di dire le cose come stanno, cioè che le rinnovabili da sole non bastano"  La solennità con la quale dico questa cosa banale non vuol dire che capisco qualcosa di energia rinnovabile. Vuol dire solo che rappresento un'altra lobby. 

"Da qui a domani mattina non finiscono né il petrolio né il gas" E questa è un'altra bella banalità ma è per farvi capire esplicitamente, nel caso siate veramente molto tonti, quali sono le mie priorità. Non siete contenti?





domenica 10 maggio 2015

Guida rapida per i cosiddetti esperti petroliferi

DaThe Oil Crash”. Traduzione di MR


Cari lettori,

vorrei dedicare il post della settimana ai cosiddetti “esperti di energia”. Non sto parlando di una persona che più o meno se ne intende della materia, né dei giornalisti o accademici che dedicano una buona parte del loro tempo professionale ad informare degnamente sui fatti, nonostante la sordina mediatica. No. Il tipico “esperto di energia” al quale farò riferimento oggi è un personaggio veste sempre l'abito della sua religione (lui: vestito con gilè opzionale, camicia perfettamente stirata, cravatta perfettamente annodata; lei: vestito di colore discreto o che colpisce, a seconda di quello che vuol dimostrare, scarpe coi tacchi, giacca; in entrambi i casi il prezzo dei loro indumenti equivale a diversi mesi del mio stipendio).


Queste persone frequentano gli alti templi del loro credo (Parlamento Europeo, ministeri, segreterie di Stato, consigli regionali, think tank, …) e sono di casa alle cerimonie rituali che sono loro proprie (ricevimenti ufficiali, vini spagnoli, banchetti di gala, conferenze stampa...) Per il loro modo di parlare, di comportarsi e persino di muoversi, ci si rende conto che si tratta di una specie diversa di homo sapiens comune, sono persone abituate al fatto che tutti pendono dalle loro labbra, a troncare le discussioni con una frase, a sollazzarsi ascoltando la propria voce. Sono persone che si sono strusciate col primo ministro, hanno condiviso un desco con uno sceicco arabo, che hanno pisciato di fianco all'Economista Capo della IEA o che è andata in bagno con Hillary Clinton dopo l'obbligatorio “Se ci volete scusare...”. Sono persone che sanno di energia perché hanno sentito parlare a lungo altri che sanno di energia in riunioni dove tutte queste persone si riuniscono periodicamente e prendono decisioni che riguardano tutti noi, senza avere fondamentalmente nessuna idea comprovata dai fatti di quello di cui stanno parlando.

E' a questi esperti che voglio dedicare il post di oggi. (E non (solo) con l'animo di deriderli ancora di più con questo piccolo post, ma per offrir loro sinceramente alcune linee guida sulla materia che trattano e maltrattano. Si tratta di offrire loro dati comprovati e fonti affidabili perché, anche se non li usano nella loro prossima discussione liturgica, perlomeno vedano che forse c'è un approccio alternativo.

giovedì 2 aprile 2015

10 buone ragioni per non trivellare

Un interessante articolo di Giuliano Garavini che si fa tutte le domande giuste. Dal blog dell'associazione "Paolo Sylos Labini"



Un articolo di Giuliano Garavini

Il decreto legge chiamato “sblocca Italia”, tra le altre cose, è anche un decreto “sblocca trivelle”.  Le decine di migliaia di cittadini che vi sono opposti in tutta Italia sono stati definiti con disprezzo “comitatini”.

Ecco dieci buone ragioni per interrompere da subito esplorazioni e trivellazioni sia in Adriatico che sulla terraferma.

1. Oggi l’offerta mondiale di petrolio è maggiore della domanda. Il prezzo del Brent si aggira sui 55 dollari al barile, meno della metà della sua quotazione a giugno del 2014. In queste circostanze lasciare il petrolio sottoterra è il modo migliore per valorizzarlo. Estrarlo è invece il modo migliore per sperperare una ricchezza non rinnovabile che in futuro varrà di più.

2. Non solo non si dovrebbe procedere a nuove trivellazioni, ma lo Stato dovrebbe imporre ai pozzi in funzione di ridurre la produzione. Se c’è troppo petrolio e i prezzi calano in modo abnorme, bisogna produrne di meno in previsione di tempi migliori. Si può fare e si deve fare: la regolazione statale della produzione l’hanno inventata e imposta per primi negli anni ’30 quel paradiso dei petrolieri che sono gli Stati Uniti, attribuendo il potere di controllo ad un’istituzione chiamata Texas Railroad Commission.

3. Le royalty pagate in Italia sulla produzione di greggio sono oltraggiosamente basse: tra il 7 e il 10 per cento per il petrolio su terra e il 4 per cento per quello in mare. A questo si aggiunge lo scandalo che le prime 20mila tonnellate di petrolio prodotto su terraferma e 50mila prodotte in mare sono del tutto esenti royalties! Le royalties non hanno nulla a che vedere con le tasse (quelle che le società pagano sui loro profitti). Esse rappresentano il corrispettivo che gli operatori (società petrolifere) pagano al proprietario del terreno per sfruttare una risorsa naturale esauribile. In tutto il mondo (tranne negli Stati Uniti) il proprietario del terreno è lo Stato. l voler seguire l’esempio della Germania le royalty pagate in Bassa Sassonia sono oggi del 37 per cento! La prima cosa da fare è raddoppiare le royalties al 20 per cento. Ogni punto di royalty meno del 20 per cento è un furto ai danni dei cittadini italiani. La produzione del tutto esente da royalty è un furto con scasso.

4. Gli italiani non traggono alcun beneficio diretto dal consumare petrolio prodotto sul territorio nazionale. Al consumatore italiano non cambia nulla, una volta che fa il pieno dal benzinaio, che il petrolio venga dalla Basilicata o dal Golfo Persico. Tanto vale comprarlo nei Paesi dove esso può essere prodotto con minori danni per l’ambiente e a costi molto più bassi. Quelli che parlarono di “sicurezza energetica” in relazione al gas e al petrolio prodotto in Italia sono comici involontari. L’Italia potrebbe garantirsi la “sicurezza energetica” solo in due modi: smettendo di utilizzare del tutto le energie fossili o tornando a colonizzare la Libia.

5. Secondo gli studi di Nomisma, gli unici effettuati (Prodi è tra i grandi sponsor delle trivellazioni), lo Stato incasserebbe da un raddoppio della produzione di idrocarburi circa 1,2 miliardi di euro l’anno per i prossimi dieci anni. Ma lo studio era del 2014, prima del tracollo dei prezzi del petrolio! Oggi queste stime andrebbero per lo meno dimezzate a 600 milioni di euro l’anno. Dunque si tratterebbe di un introito, certo interessante in tempo di vacche magre, ma assolutamente irrisorio se comparato alla liquidazione delle riserve italiane: un patrimonio per le generazioni future cui finora abbiamo lasciato in eredità solo un bel cumulo di debito pubblico.

6. Nessuno ci ruba il nostro petrolio. Questo lo dicono i gran maestri delle trivellazioni con in testa (scusate il gioco di parole) Chicco Testa. Testa e sodali affermano che in Adriatico, se non lo fanno gli italiani, saranno i Croati ad estrarre il nostro gas e il nostro petrolio ciucciandocelo via da sotto il naso. Cito il Presente di Federpetroli Marsiglia che di idrocarburi dovrebbe intendersene: “Un giacimento è molto vasto, formato da vari pozzi. Sono stupidaggini di persone non competenti quando si legge che la Croazia ci ruberà il nostro petrolio. Non perdiamo idrocarburo”.

7. Argomento ricorrente dei trivellatori è che gas e petrolio italiani ridurrebbero la bolletta energetica degli italiani. A parte che questo sarebbe vero solo se a produrre idrocarbuti fosse unicamente l’ENI (cosa che non è). Bisogna poi capire quanti dei soldi intascati dall’ENI restino effettivamente nel nostro Paese reinvestiti per creare occupazione e nella ricerca, quanti finiscano nella casse di società controllate di ENI, magari in Olanda, o peggio vengano utilizzati per pagare tangenti in Algeria o in Nigeria.

8. Il patrimonio paesaggistico, storico e artistico dell’Italia è, oltre che un bene comune da preservare, anche una fonte di reddito indiscutibilmente superiore a qualsiasi possibile incasso dalle vendita di idrocarburi. Visitando una piattaforma ENI in Adriatico posso testimoniare che l’azienda presta la massima attenzione alla sicurezza e che il personale tecnico della società è degno della massima fiducia. Ma si riuscisse pure a scongiurare ogni possibile fuoriuscita di gas o di olio, si riuscisse a mitigare l’impatto sull’ambiente marino delle trivellazioni, come si fa a non tenere in considerazione l’impatto di centinaia di piattaforme in mezzo al piccolo mare Adriatico? E cosa resterà di questo cimitero di ferro arrugginito una volta terminato il proprio lavoro di suzione? Difficile non ritenere questo scenario una terribile pubblicità negativa per il turismo.

9. L’Italia è un Paese densamente popolato, a forte rischio idrogeologico, soggetto a terremoti. Ogni volta che la terra si scuote riprendono i dibattiti scientifici sul ruolo delle estrazioni di petrolio e di gas e delle “reiniezioni” nei pozzi nello stimolare i terremoti. Ancora una volta: perché non comprare petrolio da Paesi che sono semidesertici e che dai proventi della vendita degli idrocarburi, pagati il loro giusto prezzo, possono ricavare le risorse che servono sia per sostentare al meglio la propria popolazione che per approfittare della manifattura e delle competenze italiane? Anche in Paesi come l’Algeria, che dipendono in tutto dagli introiti degli idrocarburi, vi sono vivaci e coraggiosissime proteste contro il fracking in pieno deserto. Non dovremo dare l’esempio anche noi prendendoci cura del nostro territorio?

10. La vera fonte energetica del futuro, prima ancora delle rinnovabili, è il “risparmio energetico”. Questa è una frontiera che ha praterie davanti a sé e nella quale dovrebbero investire le imprese energetiche italiane, diversificando opportunamente la propria attività. A me, per esempio, fa piacere vedere ENI associata al car-sharing. Solo dal risparmio energetico può nascere un vero beneficio per la bolletta energetica dell’Italia, accoppiata ad miglioramento della qualità della vita dei cittadini. Il binomio perfetto. Occorre permettere alle società energetiche di guadagnare sul risparmio energetico, sulle nuove tecnologie e sull’efficienza delle infrastrutture. Regalare loro petrolio va nella direzione opposta.

sabato 7 marzo 2015

Stasera, Luca Pardi in TV!



Da non perdere: Stasera Luca Pardi, presidente di ASPO-Italia, parla di petrolio e di fracking in TV.

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Stasera seconda puntata di SCALA MERCALLI su Rai3 ore 21:30 :
Carbone, gas, petrolio: sono gli idrocarburi che hanno permesso all'uomo la crescita degli ultimi duecento anni. Ma estrarre risorse naturali è sempre più difficile e costoso.
Inquinamento in Cina, esempio positivo della Danimarca, architettura eco-biocompatibile in Italia.

http://www.scalamercalli.rai.it/dl/portali/site/news/ContentItem-461075e5-4f21-455a-aae5-b05d17b1e4b2.html?refresh_ce
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Si possono vedere le puntate già trasmesse qui :

http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/page/Page-5b5f6bd2-5128-4d7f-9987-212ab3949511.html?set=ContentSet-e700c6bd-340d-4c48-b0b6-5bddaf753356&type=V

h/t Gianni Tiziano.

lunedì 9 febbraio 2015

Strada obbligata.

The one way forward
Di John M. Greer
Traduzione di Jacopo Simonetta.

Ho voluto tradurre questo lungo (un po’ troppo lungo) articolo dell’ineffabile Aci-druido perché mi pare che sia particolarmente interessante.   Fra l’altro, esprime posizioni molto simili a quanto sostenuto da Serge Latouche in una conferenza tenuta a Pisa nella primavera scorsa.
Io rimango scettico per varie ragioni che esporrò in un prossimo post, ma mi pare comunque un’idea interessante.

Nota sulla traduzione:   La prosa di Greer è molto lineare nei suoi libri, ma spesso contorta nei suoi post.   In queste pagine, mi sono preso la libertà di modificare leggermente la punteggiatura e qualche giro di frase che, tradotto pedissequamente in italiano, diventava illeggibile.


Tutto considerato, il 2015 non promette di essere una buona annata per chi crede nel “business as usual”.   Dopo il post della settimana scorsa sull’Archidruid report, il partito anti-austerity Syriza ha spazzolato le elezioni in Grecia, fra l’entusiasmo di partiti simili in tutta Europa e lo sconforto della gerarchia di Bruxelles.   Questa non può rimproverare altri che se stessa per questo evento.   Oramai per più di un decennio, le politiche EU hanno effettivamente protetto le banche ed i possessori di buoni del tesoro dalla salubre disciplina del mercato, prima di ogni altra considerazione.   Ivi compresa la sopravvivenza economica di intere nazioni.    Non dovrebbe sorprendere nessuno se questo non era un approccio vitale a lungo.

Nel frattempo, la bolla del fracking continua a sgonfiarsi.   Il numero di trivelle al lavoro nei campi petroliferi americani continua a cadere verticalmente di setimana in settimana.   I licenziamenti nel settore petrolifero stanno accelerando ed il prezzo del petrolio rimane a livelli che rendono ogni espansione del fracking un benvenuto esercizio matematico per il tribunale locale.   Quei pundit mediatici che stanno ancora parlando dell’industria del  fracking stanno insistendo che il calo del prezzo del petrolio prova che loro avevano ragione e che quei maledetti eretici che parlano di picco del petrolio devono avere torto. Ma evitano di spiegare come mai i minerali di ferro, rame e molti altri dei materiali principali stanno perdendo valore ancora più in fretta del greggio.   E neppure perché la domanda di petrolio negli USA sta declinando anche lei.

Il fatto è semplicemente che un’economia industriale costruita per correre con petrolio convenzionale a buon mercato non può funzionare a lungo con petrolio costoso senza schiacciarsi il naso per terra.   Dal 2008, le nazioni industriali del mondo hanno cercato di compensare la differenza inondando le loro economie con credito a buon mercato, nella speranza che questo avrebbe potuto compensare la rapidamente crescente quantità di ricchezza reale che deve essere dirottata dagli altri scopi, nello sforzo di mantenere il flusso di combustibili liquidi al loro livello di picco.   Ora però le leggi economiche hanno chiamato il loro bluff.    Le ruote si stanno fermando in una nazione dopo l’altra ed il prezzo del petrolio (come quello di altre risorse) è sceso ad un livello che non copre i costi dell’olio di scisto, delle sabbie bituminose e cose simili.   Ciò perché tutti questi frenetici tentativi di esternalizzare i costi della produzione di energia comportano che sia l’economia globale che riceve il colpo.

Naturalmente non è così che i governi ed i media spiegano la crisi che sta emergendo.   Del resto, non c’è carenza di pundit e di gente fuori dai corridoi del potere  che ignorano il collasso generale del prezzo delle materie prime.   Fissandosi sul petrolio al di fuori del più vasto contesto dell’ esaurimento delle risorse in generale, insistono che il cambio del prezzo del petrolio sia un atto di guerra, o quel che vi pare.

Questa è una logica che i lettori di questo blog hanno visto dispiegarsi molte volte nel passato.   Qualunque cosa accada deve essere stato deciso ed attuato da esseri umani.   Uno stupefacente numero di persone in questi tempi, sembra incapace di immaginare la possibilità che fattori totalmente impersonali come le leggi dell’economia, della geologia e della termodinamica possano da sole far accadere delle cose (grassetto mio ndt.).

Il problema che fronteggiamo ora è precisamente che l’inimmaginabile è la nostra realtà.   Per un po’ troppo tempo, troppa gente ha insistito che non bisogna preoccuparsi dell’assurdità di perseguire una crescita illimitata su di un delimitato e fragile pianeta,  perché “troveranno qualcosa”.   Oppure hanno pensato che chattare sui forum internet a proposito di questo o quel pezzo di fumo tecnologico sia fare qualcosa di concreto a proposito dell’imminente collisione della nostra specie con i limiti della crescita.   Viceversa, per appena un po’ troppo tempo, non abbastanza persone hanno voluto fare qualcosa in proposito ed ora i fattori impersonali hanno occupato la sedia del conducente, dopo aver malmenato tutti noi sette miliardi ed  averci ficcati nel bagagliaio.

Come ho segnalato nel post della settimana scorsa, questo pone dei severi limiti a quello che possiamo fare nel breve termine.   Con ogni probabilità, a questo stadio del gioco, ognuno di noi incontrerà l’onda della crisi con la preparazione che si è dato; sostanziale o trascurabile che questa sia.   Sono cosciente che un certo numero dei miei lettori non sono felici di questo, ma non possono essere aiutati.   Il futuro non è tenuto ad aspettare pazientemente finché siamo pronti.
Alcuni anni fa, quando postai un testo che riassumeva la strategia che proponevo, probabilmente avrei dovuto mettere più enfasi sulla parola principale dello slogan: adesso.   Oramai quel che è fatto è fatto.

Questo non significa che siamo alla fine del mondo.    Significa che con tutta probabilità, cominciando in un qualche momento di questo anno e per parecchi anni a venire, molti dei miei lettori saranno indaffarati con gli impatti multipli di una martellante crisi economica sulla loro vita e su quella dei loro familiari, amici, comunità e datori di lavoro.   In un periodo in cui il sistema politico di gran parte del mondo industriale sarà grippato, le guerre latenti nel Medio Oriente ed in gran parte del terzo Mondo saranno in ebollizione più del solito ed il tramonto della Pax Americana spingerà  sia il governo USA che i suoi nemici ad un livello ancora maggiore di rischio.

Come esattamente questo accadrà nessuno lo sa, ma accadrà sicuramente.   E difficilmente sarà piacevole.

Intanto che ci prepariamo per il primo colpo, comunque, è utile parlare un poco a proposito di cosa accadrà dopo.    Per quanto sia lungo l’effetto domino sugli istituti finanziari coinvolti nella bolla del fracking, prima o poi cadrà l’ultimo e, dopo qualche anno, le cose torneranno ad una “nuova normalità”; anche se molto più in basso lungo la pendice della decrescita.   Non importa quante guerre per procura, colpi di stato, azioni segrete ed insurrezioni manipolate saranno lanciate dagli Stati Uniti e dai suoi rivali nella loro lotta per la supremazia; molti dei posti toccati da questi conflitti vedranno alcuni anni di guerra effettiva, con periodi di relativa pace prima e dopo. Le altre forze che guidano il collasso agiscono sostanzialmente allo stesso modo.  Il collasso è un processo frattale, non uno lineare.

Però sull’altro lato della crisi c’è qualcos’altro che “di più dello stesso”.   La discussione che vorrei cominciare a questo punto è centrata su quello che potrebbe valere la pena di fare una volta che le masse di macerie economiche, politiche e militari smetteranno di rimbalzare.   Non è troppo presto per pianificare questo. Se non altro, darà ai lettori di questo blog qualcosa cui pensare mentre staranno in coda per il pane o nascosti in cantina, mentre polizia e ribelli si scontrano in strada.   A parte questo beneficio, prima si comincia a pensare a quali opzioni saranno disponibili una volta tornata una certa stabilità, migliori saranno le probabilità di essere pronti ad agire, nella nostra vita o ad una più ampia scala.

Del resto, una delle interessanti conseguenze di ogni crisi davvero sostanziale è che ciò che era impensabile prima può non essere impensabile dopo. Leggete il brillante “The proud Tower” di Barbara Tuchman e vedrete quante delle indiscutibili certezze del 1914 erano finite nella compostiera della storia alla fine del 1945.   E quante delle idee che erano state appannaggio di frange ultraperiferiche  prima della prima guerra mondiale erano diventate buon senso comune dopo la seconda.   E’ un fenomeno comune ed io propongo qui di andare avanti lungo questa curva proponendo, come materiale grezzo di riflessione e nient’altro, qualcosa che è certamente impensabile oggi, ma che potrebbe diventare una necessità dieci o venti, o quaranta anni da ora.

Che cosa ho in mente?   Una intenzionale regressione tecnologica come politica pubblica.
Immaginate, per un momento, una nazione industriale che riduca la sua infrastruttura tecnologica approssimativamente a quel che era nel 1950.   Questo comporterebbe un drastico decremento dei consumi energetici pro-capite, sia direttamente  (la gente usava molto meno energia di tutti i tipi nel 1950), sia indirettamente ( anche la produzione di beni e servizi richiedeva molto meno energia allora).   Ciò comporterebbe parimenti una brusca riduzione dei consumi pro capite di molte risorse.    Comporterebbe anche un brusco incremento dei posti di lavoro per le classi lavoratrici.   A quei tempi, un sacco di cose oggi fatte dai robot erano fatte da esseri umani, cosicché c’erano molte più buste paga che andavano in giro il venerdì per pagare i beni e servizi che i consumatori normali comprano.   Dal momento che un flusso costante di stipendi ai lavoratori è una delle cose principali per mantenere un’economia stabile e vigorosa, questo sarebbe sicuramente un ovvio vantaggio, ma per adesso possiamo lasciare questo da parte.

Certamente il cambiamento proposto comporterebbe certi cambiamenti rispetto a come vanno adesso le cose.   Nel 1950 i viaggi in aereo erano estremamente costosi, i ricchi erano chiamati “il jet-set” perché erano gli unici che potevano comprare i biglietti.   Così tutti gli altri era costretti ad usare dei veloci, affidabili ed energicamente efficienti treni quando dovevano andare da un posto all’altro.   I Computers erano rari e costosi, il che significava, ancora una volta, che più gente aveva un lavoro.   E Significava anche quando chiamavate una ditta od un ufficio la vostra probabilità di trovare un essere umano per aiutarvi in qualunque vostro problema era considerevolmente più alta di oggi.
Mancando internet, la gente si doveva accontentare di un’ampia gamma di frequenze radio, migliaia di periodici generici o specializzati ed un sacco di librerie e biblioteche locali, zeppe di libri.  

Almeno in America, gli anni ’50 furono l’età d’oro delle biblioteche pubbliche e molte cittadine avevano delle collezioni che in questi giorni non trovate nemmeno nelle grandi città. Oh, e quelli a cui piace guardare foto di gente spogliata (che oggi hanno un grande e di solito non menzionato ruolo nel pagare internet) si dovevano accontentare di riviste indecenti che gli consegnavano in anonime buste marroni. Oppure andavano in negozietti di periferia.  Tutte cose che, comunque, non sembravano metterli in imbarazzo.

Come osservato prima, sono del tutto cosciente che un simile progetto è assolutamente impensabile oggi; che provocherebbe un’immediata reazione di superstizioso orrore.  Quindi, per prima cosa, parliamo delle obbiezioni più ovvie.  Sarebbe possibile? Sicuro.

Molto di quello che deve essere fatto sono dei semplici cambiamenti nelle leggi fiscali.   Proprio ora, negli stati uniti, una galassia di perversi regolamenti penalizzano i datori di lavoro se assumono persone ed incentivano quelli che rimpiazzano gli impiegati con delle macchine. Cambiate questo in modo che spendere di più in stipendi abbia maggior senso finanziario che spendere per automatizzare, e sarete già a metà strada.

Una revisione della politica commerciale farebbe buona parte del resto che sarebbe necessario.   Malgrado le fideistiche pretese degli economisti, quello che viene scherzosamente chiamato “mercato libero” benefica i ricchi a spese di tutti gli altri e potrebbe essere rimpiazzato da ragionevoli tariffe per sostenere la produzione domestica, contro il mercantilismo predatorio che domina l’economia globale in questi giorni.   Aggiungete a questo alte tariffe sulle importazioni di tecnologia e togliete a qualsiasi tecnologia successiva al 1950 i sontuosi sussidi che ingrassano le aziende del “Fortune 500” e di base ci siete.

Quello che rende il concetto di regressione tecnologica così intrigante, e così utile, è che non richiede di sviluppare niente di nuovo. Sappiamo già come funzionava la tecnologia del 1950. Quali sono le sue necessità di energia e risorse; quali sarebbero vantaggi e svantaggi nell’adottarle.

Un’abbondante documentazione ed una certa frazione della popolazione che ancora ricorda come funzionava renderebbero la cosa facile.   Quindi sarebbe una cosa semplice fare una lista di quel che serve, quali sarebbero costi e benefici, e come minimizzare i primi massimizzando i secondi.   Non dovremmo fare quei tentativi alla cieca e quelle ipotesi arbitrarie che sono necessarie quando si sviluppa una nuova tecnologia.  Tanto per la prima obbiezione.

Seconda domanda: ci sarebbero controindicazioni ad una deliberata regressione tecnologica?  

Certamente! Ogni tecnologia e qualsiasi gruppo di opzioni politiche ha le sue controindicazioni.   In effetti, una comune fantasia odierna pretende che sia ingiusto prendere in considerazione le controindicazioni delle nuove tecnologie ed i vantaggi delle vecchie, quando si decide se rimpiazzare una tecnologia vecchia con una più nuova. Una illusione ancora più comune pretende che non devi nemmeno decidere. Quando una nuova tecnologia emerge, si presume che tu la segua belando come tutti gli altri, senza porre alcuna domanda.

La tecnologia corrente ha immense controindicazioni.  Le tecnologie future ne avranno anche loro.   E’ solo nelle pubblicità e nelle storie di fantascienza che le tecnologie non hanno difetti. Quindi, il mero fatto che anche le tecnologie del 1950 ponevano dei problemi non è una ragione valida per scartare la regressione tecnologica. Per quanto impensabile, la domanda da porre  è se, tutto considerato, sarebbe saggio accettare le controindicazioni della tecnologia del 1950 al fine di disporre di un complesso operativo di tecnologie in grado di funzionare con molto minori consumi procapite di energia e risorse. E dunque migliori speranze di attraversare l’età dei limiti che abbiamo davanti, piuttosto che con la molto più stravagante e fragile infrastruttura tecnologica odierna.

Probabilmente è necessario parlare anche di un particolare pezzo di paralogica che emerge ogniqualvolta qualcuno suggerisce la regressione tecnologica: la nozione che se torni ad un più vecchia tecnologia, devi assumere anche le pratiche sociali e le abitudini culturali di quei tempi. Ho ricevuto molti commenti di questo tipo l’anno scorso quando ho suggerito che una tecnologia a vapore di tipo vittoriano alimentata da energia solare potrebbe essere una forma di ecotecnica del futurro. Uno stupefacente numero di persone sembravano incapace di immaginare che questo fosse possibile senza reintrodurre anche usanza vittoriane quali il lavoro infantile ed il pudore sessuale.   Per quanto sciocche, idee simili hanno radici profonde nell’immaginario moderno.

Senza dubbio, come risultato di queste profonde radici, ci sarà un sacco di gente che risponderà alla proposta che ho appena fatto che le pratiche sociali e le abitudini culturali del 1950 erano orribili, e pretendendo che queste abitudini non possono essere separate delle tecnologie in questione. Posso rispondere osservando che il 1950 non aveva un solo set di pratiche sociali e culturali. Solo negli Stati Uniti, un viaggio da Greenwich Village alla Pennsylvania rurale nel 1950 vi avrebbe fatto incontrare con notevoli diversità culturali fra persone che usavano la medesima tecnologia.

Il punto si può ribadire notando che, in quell’anno,  la stessa tecnologia era in uso a Parigi, Djakarta, Buenos Aires, Tokyo, Tangeri, Novosibirsk, Guadalajara e Lagos. E non tutti questi avevano le stesse usanze degli americani, sapete. Ma sarebbe fiato sprecato. Per i veri credenti nella religione del progresso, il passato è un ribollente calderone di eterna dannazione da cui perpetuamente ci salva il surrogato messia del progresso. Ed il futuro è il radioso paradiso, le cui porte i fedeli sperano di varcare a tempo debito. Molte persone in questi giorni non vogliono discutere questa dubbia classificazione più di quanto un contadino medioevale non fosse disposto a dubitare del miracoloso potere che si supponeva emanasse dalle ossa di S. Ethelfrith (il fondatore del regno di Northumbria, attuale Inghilterra ndt).

Niente, ma niente suscita un più superstizioso orrore nella cultura dominante del dire, cielo aiutaci, “torniamo indietro”. Anche se la tecnologia di giorni precedenti è più adatta ad un futuro di scarsità di risorse e di energia, piuttosto che l’infrastruttura che abbiamo adesso.   Anche se la tecnologia di giorni andati effettivamente fa meglio il lavoro di molte cose che abbiamo oggi,  “Non possiamo tornare indietro!” è l’angosciato grido delle masse.   Sono stati così bene imbambolati dai propagandisti del progresso che non smettono mai di pensare questo.

C’è una ricca ironia nel fatto che i circoli alternativi e d’avanguardia tendono ad essere ancora più ossessivamente fissati col dogma del progresso lineare delle masse che si presumono conformiste.  

Questa è una delle più subdole caratteristiche del mito del progresso; quando le persone diventano insoddisfatte dello status quo, il mito le convince che la sola opzione che hanno è fare esattamente quello che tutti gli altri fanno. Così, quello che era cominciato come un moto di ribellione viene cooptato in un perfetto conformismo e la società continua a marciare stupidamente lungo la traiettoria corrente.   Come i lemming di un documentario Disney, senza nemmeno chiedere cosa ci dovrebbe essere in fondo.

Questo per quanto riguarda il progresso. La parola stessa significa “movimento continuo nella medesima direzione”.  Se la direzione era una cattiva idea all’inizio, o se ha superato il punto fino a cui aveva senso, continuare ad arrancare ciecamente in avanti in un’oscurità che si addensa potrebbe non essere la migliore idea del mondo.  Rompi questa camicia di forza mentale ed una gamma di futuri possibili si schiude immediatamente.

Ad esempio, potrebbe essere che una regressione tecnologica al livello del 1950 risulti impossibile da mantenere sui tempi lunghi. Se le tecnologie del 1920 possono essere supportate con un più modesto apporto di energia che possiamo recuperare dalle fonti rinnovabili, per esempio, qualcosa di simile alla tecnologia del 1920 potrebbe essere  mantenuta sul lungo termine, senza ulteriori regressioni.

Potrebbe invece emergere che qualcosa di simile alle macchine a vapore solari che ho menzionato prima sia il livello massimo che può essere sostenuto indefinitamente.   Un’ecotecnica equivalente alla tecnologia del 1820, con mulini a vento e ad acqua come motori dell’industria, canali navigabili come principale infrastruttura di trasporto e la maggior parte della popolazione che lavora in piccole fattorie di famiglia che supportano villaggi e cittadine.

Quest’ultima opinione sembra eccessivamente deprimente?   Comparatela con un altro scenario molto probabile e potrete trovare che questa ha i suoi vantaggi.   Ad esempio, immaginiamo che cosa accadrebbe se le società industriali del mondo scommettessero per la loro sopravvivenza su di un grande balzo avanti di una non provata fonte di energia che non ripaga i suoi costi, lasciando miliardi di persone a contorcersi nel vento, senza infrastruttura tecnologica di sorta.  

Se state guidando in un vicolo cieco e vedete un muro di mattoni davanti, potete ricordarvi che strillare “non possiamo tornare indietro!” non è esattamente una buona trovata.   In una simile situazione  (e voglio suggerire che questa è un’affidabile metafora della situazione in cui siamo proprio adesso ) tornare indietro, ricercando la strada percorsa  findove necessario, è un modo per andare avanti.