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sabato 28 settembre 2019

Una domanda capziosa: come tener conto del progresso tecnologico?

Un Post di Jacopo Simonetta




Sabato 21 Settembre scorso, presso le Officine Garibaldi in Pisa si è tenuto un convegno sulla crisi climatica ed ambientale in corso, organizzata dall’Associazione “Esperia”.  Non molta gente, ma interessata, tanto che in parecchi si sono attardati fin oltre l’ora di pranzo per discutere.

Vorrei qui tornare su una delle domande fatte perché ha riproposto uno dei miti fondanti della nostra civiltà, nonché uno dei principali ostacoli da superare se vogliamo affrontare la situazione in modo costruttivo.

La domanda è stata circa questa: “Nei vostri modelli previsionali, con quale algoritmo è integrata la variabile del progresso tecnologico?” 

Sul momento la risposta più sintetica ed esaustiva la ha data Luca Pardi (uno dei relatori) con queste parole: “Nella cultura odierna il progresso tecnologico ha preso il posto della Divina Provvidenza”.   

Non avendo la capacità di sintesi di Pardi, vorrei qui dilungarmi un poco sull’argomento, non per dire qualcosa di nuovo, ma per cercare di riassumere cose dibattute e risapute a beneficio, forse, dei giovani che si affacciano ora a questi temi e che si troveranno spesso a rispondere a domande simili.

Prima una piccola osservazione: la domanda era evidentemente capziosa, non mirava cioè ad avere una risposta, bensì a screditare l’avversario.  Mi sento di affermarlo perché ad averla posta è stato un universitario che deve (o dovrebbe) sapere che un sistema della complessità della Terra non è modellizzabile.  Quindi non esiste e non può esistere un “modello predittivo”.   Già vediamo quotidianamente le lacune dei modelli che cercano di simulare l’evoluzione del clima (che è solo uno degli elementi in gioco); per non parlare del puntuale fallimento di quasi tutti modelli economici.  

In realtà si lavora su indicatori, modelli parziali e dati empirici da cui si possono estrapolare delle tendenze evolutive che consentono di delineare degli scenari più o meno probabili.  Ma soprattutto conosciamo bene le leggi fondamentali dell’energia e della materia, le quali non ci dicono cosa succederà, ma ci dicono con assoluta certezza cosa NON succederà.   Ecco perché possiamo tranquillamente affermare che un salvataggio in extremis della civiltà industriale per via tecnologica è quanto meno estremamente improbabile.

Ma come essere così categorici?   Abbiamo appena detto che il sistema Terra non è modellizzabile ed è fuor di dubbio che lo straordinario miglioramento di strumenti e processi è esattamente ciò che oggi consente di vivere ad un numero di persone superiore alla somma di tutte le generazioni precedenti messe insieme, da quanto H. sapiens esiste; oltretutto con un livello ed una durata di vita mediamente assai superiori che in passato. 

Anzi, si può affermare che è proprio grazie allo sviluppo della tecnologia che la nostra specie esiste; se i nostri remoti antenati non avessero imparato prima a scheggiare sassi e poi a fare il fuoco oggi sulla Terra non ci sarebbe niente di simile a noi.  Dunque perché pensare che la tecnologia non potrà risolvere i problemi del presente e del futuro, come a fatto con quelli del passato?

Perché il progresso tecnologico non è una variabile indipendente, frutto esclusivamente dell’ingegno umano, bensì  il prodotto di un contesto che lo rende possibile e lo alimenta.  In particolare, dipende dalla disponibilità di energia e di servizi eco-sistemici.  Dissipare energia è infatti ciò che consente l’elaborazione, l’accumulo e la conservazione di informazione (sia sotto forma di bit che di pagine, di arte e di costruzioni, di computer e telefoni, di denaro e quant’altro).  I gli ecosistemi naturali compensano l’aumento di entropia che inevitabilmente deriva da questa dissipazione, evitando che la Vita si dissolva nel caos.  

In altre parole, da un lato il progresso tecnologico, da cui ci si aspetta una riduzione dei consumi energetici, è frutto di un aumento dei medesimi; dall’altro, la tecnologia ha consentito alla nostra nicchia ecologica di occupare oramai oltre la metà della Biosfera, minando alla base i processi di riduzione dell’entropia che solo la Biosfera e nessuna tecnologia, neppure teorica, potrà mai realizzare.   E di questo possiamo essere scientificamente del tutto certi dal momento che la temperatura media del pianeta aumenta e la biodiversità diminuisce.

Ma l’efficienza energetica?  La dematerializzazione?  Il disaccoppiamento?   Anche senza andare a spolverare le venerande ossa di Mr. Jevons e di Mr. Watt, abbiamo tutti visto come l’efficienza dei motori a scoppio sia migliorata enormemente nei 50 anni scorsi, mentre i consumi di carburante e l’inquinamento relativo crescevano in modo iper-esponenziale.   I computer di 20 anni fa pesavano 4-5 volte tanto quelli odierni ed avevano prestazioni oggi risibili; nel frattempo i consumi di elettricità e materie prime per costruirli e farli funzionare sono esplosi mentre la percentuale di riciclo è caduta assai vicina a zero, proprio perché oramai in ogni esemplare c’è troppo poco materiale perché valga la pena di recuperarlo. Intanto il numero di queste macchine è cresciuto tanto che le miniere sono ormai diventate dei mostri che devastano intere regioni e popoli.  Perfino il consumo di carta negli uffici è aumentato, anziché diminuire come annunciato, mentre Internet assorbe oramai qualcosa come il 5% circa dei consumi elettrici mondiali, un altro dato in crescita esponenziale.  

Quanto al disaccoppiamento fra PIL e consumi/emissioni, se andiamo a vedere i dati reali, troviamo che è stato verificato solo in pochissimi casi ed anche in questi è stato solo temporaneo e/o relativo (vale a dire c’è stato un aumento del PIL superiore a quello dei consumi/emissioni che, però, sono comunque aumentati).    Ma per essere utile a qualcosa, il disaccoppiamento dovrebbe essere permanente, generale e assoluto (cioè dovremmo avere un aumento o una stabilizzazione del Pil a fronte di una diminuzione dei consumi).   Soprattutto, il disaccoppiamento dovrebbe essere sufficiente.   L’IPCC, che finora si è sempre dimostrato molto prudente nelle sue stime, valuta che per sperare di contenere il riscaldamento al di sotto dei 2 C° di media globale i paesi “ricchi” dovrebbero ridurre le loro emissioni di qualcosa come il 5% annuo, mentre gli altri paesi le dovrebbero stabilizzare ai livelli attuali o poco più.   Al di fuori dei romanzi, non esistono tecnologie che possono fare questo e probabilmente non potrebbero neppure esistere.

Ma, si potrebbe obbiettare, l’Intelligenza Artificiale, il computer quantistico, i robot e le altre meraviglie della tecnologia prossima ventura?  Proprio perché è roba che funziona, nella misura in cui uscirà dai laboratori per entrare nella società, aumenterà i consumi.   Del resto, è esattamente questa la promessa di questi oggetti: mettere chi ne disporrà in condizione di fare cose finora impossibili.  Il che, tradotto in termini scientifici, significa estendere ulteriormente la già obesa nicchia ecologica umana, riducendo quindi lo spazio ecologico a disposizione di tutte le altre specie (e degli umani che non ne disporranno).  Cioè esattamente il contrario ciò che bisogna fare.

Insomma, i processi e gli strumenti sono migliorati e continuano a migliorare ed è fuor di dubbio che a scala locale possono mitigare ed anche risolvere molti problemi, ma a livello macro è proprio questo miglioramento che spinge la crescita dei consumi, della popolazione e, di conserva, anche dell’entropia. 

Bene, ma se non abbiamo dei modelli previsionali affidabili, che senso ha fare un’affermazione del genere?

Le ragioni sono molte e molte sono già state trattate su queste e su altre pagine.  Mi limiterò quindi a ricordare alcuni punti essenziali.

1. La crescita della popolazione, della tecnologia e dell’economia sono tre fattori strettamente correlati e largamente sinergici (anche se in modo complesso ed in parte tuttora discusso) e tutti e tre dipendono dalla quantità di energia che è possibile dissipare.  La qualità termodinamica delle fonti di energia disponibile sta diminuendo e continuerà a farlo, mentre la tecnosfera invecchia e la complessità dei sottosistemi socio-economici cresce.  Questo significa che la quantità di energia necessaria per estrarre e distribuire energia (anche rinnovabile), per manutenzionare la tecnosfera e per far funzionare le società sta aumentando e continuerà a farlo, lasciando sempre meno energia netta a disposizione dell’economia e della ricerca scientifica, anche se i consumi globali continueranno a crescere.  La tecnologia può mitigare tutto ciò, ma non impedirlo.

2. Il clima sta rapidamente peggiorando e continuerà a farlo comunque, generando sempre maggiori costi economici e sociali, ma soprattutto devastando quel che resta degli ecosistemi semi-naturali (ecosistemi del tutto naturali non esistono già più) riducendo ulteriormente i servizi ecosistemici.

3. I servizi eco-sistemici sono quelli che assicurano gratuitamente che il Pianeta rimanga abitabile e dipendono dall’integrità degli ecosistemi.  Stiamo distruggendo Biosfera ad un ritmo molto più rapido di quanto non stiamo incrementando le emissioni, anche nei paesi con emissioni di CO2 infinitesimali, sia totali che pro-capite.  Fra peggioramento del clima e perdita di servizi ecosistemici vi è una stretta sinergia dal momento che un clima relativamente temperato è proprio il principale fra questi “servizi.”

4. Già in parecchi paesi anche importanti la combinazione di sovrappopolazione e peggioramento delle condizioni di vita ha portato o sta portando al collasso totale o parziale delle società e degli stati, con quel che ne consegue in termini di morte e distruzione.

Ognuno di questi 4 fatti, da solo, sarebbe probabilmente sufficiente a far tramontare il sogno di una “rivoluzione tecnologica” capace di salvare lupi, capre e cavoli.  Ma non solo sono contemporanei, sono anche sinergici.

Insomma, la tecnologia risolve “problemi”, cioè trova soluzioni tecniche per fare cose che prima non si potevano fare.  Ma noi non abbiamo un “problema”, siamo piuttosto in una “brutta situazione” da cui non possiamo uscire facendo qualcosa che prima non potevamo fare, semmai il contrario. 

Il guaio è che ciò comporterebbe di pagare un conto salato in termini di benessere, di convinzioni, scelte etiche e modelli mentali, oltre che di vite.  Un conto che nessuno vuole pagare. 

La tecnologia ci aiuta moltissimo a rimandare il "redde rationem", ma a costo di far lievitare gli interessi passivi.  E su questo non c’è tecnologia che tenga: più tardi pagheremo il conto, più salato sarà; più difficile sarà ricominciare per chi sopravvivrà alla fase acuta. 

Anche di questo possiamo essere ragionevolmente certi, anche se non possiamo assolutamente prevedere quando, come e dove colpiranno le calamità.  

Personalmente, ho sempre trovato spassoso che proprio fra i cultori della scienza e della tecnica si trovino tante persone che, pur competenti e colte, nel loro intimo pensano in termini magici che avrebbero fatto sorridere Agrippa di Nettesheim.


domenica 28 maggio 2017

Non si combatte il cambiamento climatico con la Pepsi Cola

Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di MR




Da "powertechnology.com", Un articolo di Julian Turner. Non è sbagliato, ma è possibile che non possiamo discutere più di niente senza trasformarlo in un “fatto rivoluzionario”, una “grande scoperta” e tutto il resto? Un po' meno clamore in questi rapporti aiuterebbe molto. 

Di Ugo Bardi

Qualche tempo fa, mi sono ritrovato a spiegare ad un giornalista il perché mi oppongo all'estrazione di CO2 in Toscana. Ho detto una cosa tipo “non ha senso che la regione spenda soldi per ridurre le emissioni di CO2 e, allo stesso tempo, permetta a questa azienda di estrarre CO2 che, altrimenti, rimarrebbe sottoterra”. “Ma”, ha detto il giornalista, “ho intervistato quelli dell'azienda e dicono che il CO2 che estraggono non viene disperso in atmosfera – viene immagazzinato”. “E dove viene immagazzinato?” ho chiesto. “Lo vendono alle società che fanno bibite gasate”. Ho cercato di spiegargli che produrre Coca Cola o Pepsi non è il modo di combattere il cambiamento climatico, ma non credo che abbia capito.

Questo è un esempio tipico di quanto sia difficile fare passare alcuni messaggi nel dibattito pubblico. Fra i tanti modi possibili di mitigare il riscaldamento globale, il carbon capture and sequestration (Cattura e sequestro del carbonio), o stoccaggio – CCS – è il meno compreso, più complicato ed è quello che più probabilmente porterà a pseudo soluzioni. Non sorprende, visto che è una storia complessa che coinvolge chimica, geologia, ingegneria ed economia.

Circa un mese fa, è apparso un post di Julian Turner su “Power Technology” dal titolo piuttosto ambizioso di “Finalmente ottenuta la cattura del carbonio”. Il post è pieno di enfasi su una grande scoperta nel processo che purifica il CO2 in uscita da un impianto a carbone – un processo chiamato “lavaggio del CO2”. Il nuovo processo, viene detto, è migliore, meno costoso, più rapido, efficiente e “cambia le regole del gioco”. Sharma, amministratore delegato della società che ha sviluppato il processo, ha dichiarato:

“Il TACL sarà in grado di catturare il CO2 dalle emissioni delle loro caldaie e quindi riusarlo”, conferma Sharma. “per l'utente finale, l'elettricità prodotta catturando il biossido di carbonio sarà elettricità pulita a il vapore prodotto sarà energia pulita. Per questa ragione, possiamo dire che è 'senza emissioni'”.

Non ho dubbi che ci sia qualcosa di buono nel nuovo processo. Pulire il CO2 usando solventi è una tecnologia nota e può certamente essere migliorata. La tecnologia è buona nel fare esattamente questo: migliorare processi noti. Il problema è un altro: si tratta davvero di un processo “senza emissioni”? E la risposta è, sfortunatamente, “niente affatto”, perlomeno nella forma in cui viene presentata l'idea. Il problema, qui, è che tutta l'enfasi è sulla cattura del carbonio, ma non c'è nulla in queste affermazioni sul sequestro del carbonio. Infatti l'articolo discute di “cattura ed utilizzo del carbonio” (CCU) e non di “cattura e sequestro del carbonio” (CCS). Ora, è la CCS che deve mitigare il riscaldamento globale, la CCU NON lo fa.

Torniamo ai concetti fondamentali: se si vuol capire cosa sia la CCS, un buon punto di partenza è il rapporto speciale del IPCC sulla materia (un documento massiccio di 443 pagine). Più di dieci anni dopo la sua pubblicazione, la situazione non è cambiata granché, come confermato da un rapporto più recente. L'idea di fondo rimane la stessa: trasformare il CO2 in qualcosa che sia stabile e non inquinante. E quando diciamo “stabile”, intendiamo qualcosa che rimanga stabile nell'ordine delle migliaia di anni, almeno. E' questo che chiamiamo “sequestro” o “stoccaggio”.

Un compito difficile, se ce ne è mai stato uno, ma non impossibile e, come è spesso il caso, il problema non è la fattibilità, ma il costo. Il modo più sicuro di stoccare il CO2 per tempi molto lunghi è quello di imitare il processo naturale di “degradazione dei silicati” e trasformare il CO2 in carbonati stabili di calcio e magnesio, per esempio. E' quello che fa un ecosistema per regolare la temperatura del pianeta. Ma il processo naturale è estremamente lento; parliamo di tempi nell'ordine delle centinaia di migliaia di anni, non proprio ciò di cui abbiamo bisogno ora. Possiamo, naturalmente, accelerare il processo di degradazione, ma ci vuole un sacco di energia, principalmente per schiacciare e polverizzare i silicati. Un metodo meno costoso è lo “stoccaggio geologico”, cioè pompare CO2 dentro un bacino sotterraneo. E sperare che se ne starà lì per decine di migliaia di anni. Ma è l'obbiettivo principale della CCS, oggigiorno.

Detto questo, il modo per valutare la fattibilità e l'opportunità dell'intero concetto di CCS è di esaminare il ciclo di vita di tutto il processo; vedere quanta energia richiede (il suo ritorno energetico sull'investimento, EROEI) e quindi confrontarlo coi dati di processi alternativi – per esempio investire le stesse risorse in energia rinnovabili piuttosto che in CCS (e l'energia rinnovabile potrebbe già essere meno costosa dell'elettricità prodotta col carbone). Ma sembra che questa analisi comparativa non sia stata fatta, finora, nonostante le diverse analisi dei costi delle CCS. Una cosa che possiamo desumere dal rapporto del 2005 (a pagina 338) è che, anche senza lavaggio, l'energia necessaria per l'intero processo potrebbe essere non lontana da valori che potrebbero renderlo un esercizio simile allo scavare buche per poi riempirle di nuovo, come pare abbia detto John Maynard Keynes. La situazione è migliore se consideriamo lo stoccaggio geologico, ma anche in questo caso il lavaggio è solo una frazione del costo totale.

A questo punto, potete capire cosa c'è di sbagliato nel definire il nuovo processo di lavaggio un “fatto rivoluzionario”. Non lo è. E' un processo che migliora una delle fasi della catena che porta allo stoccaggio del carbonio, ma che potrebbe avere poco valore per la CCS, a meno che uesta non sia valutata all'interno dell'intero ciclo di vita del processo.

Poi, in tutto l'articolo di Turner non c'è menzione alla CCS/stoccaggio. Parlano soltanto di cattura ed utilizzo del carbonio (CCU) e dicono che il CO2 verrà venduto ad un'altra azienda che lo trasformerà in carbonato di sodio (Na2CO3). Questo composto potrebbe quindi venire usato per fare il vetro, l'urea e scopi simili. Ma quasi tutti questi processi alla fine dei conti riporteranno il CO2 catturato nell'atmosfera!. Nessuno stoccaggio, nessuna mitigazione del riscaldamento globale. Potrebbero altrettanto bene vendere il CO2 all'industria delle bevande gassate. Non è questa la grande scoperta di cui abbiamo bisogno.

Così, che senso ha fare tutto questo baccano su “energia pulita”, “elettricità pulita” ed energia “senza emissioni”, quando il nuovo processo non mira a niente di quel genere? Non sorprende, fa tutto parte del dibattito “privo di fatti” in corso.

Per concludere, lasciatemi osservare che questo nuovo processo di lavaggio potrebbe essere solo uno di quei modi di “tirare le leve dalla parte sbagliata”, secondo la definizione di Jay Forrester. Cioè, potrebbe essere controproduttivo per gli stessi scopi per i quali è stato sviluppato. Il problema è che il CO2 puro è un prodotto industriale che ha un certo valore di mercato, come sanno molto bene le persone che lo estraggono dal sottosuolo in Toscana. Finora, il costo del lavaggio ha impedito che lo scarto delle centrali alimentate a combustibili fossili avesse un valore di mercato, ma un nuovo processo efficiente potrebbe rendere fattibile la sua trasformazione in un prodotto vendibile. Ciò renderebbe gli le centrali a carbone più redditizie ed incoraggerebbe le persone ad investire nella costruzione di altre centrali e questo non genererebbe riduzioni di emissioni di CO2! Sarebbe anche peggio se l'industria del carbone dovesse vendere ai governi il loro processo di lavaggio per sfuggire alle tasse sul carbonio. Vedete? Ancora una volta, il ruolo delle conseguenze impreviste si manifesta.

mercoledì 6 aprile 2016

In che modo la più grande tecnologia mai sviluppata si è ritorta contro di noi

Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di MR




La selezione naturale probabilmente è stato il fattore che ha portato il l'alce irlandese a sviluppare palchi sovradimensionati: erano una caratteristica benefica per i maschi nel gioco della competizione sessuale. Tuttavia, il peso dei palchi era anche un fardello e si è detto che sia stata una delle ragioni, forse quella principale, che ha portato all'estinzione della specie circa 7.000 anni fa. Nel caso degli esseri umani, potremmo considerare il linguaggio come una caratteristica evolutiva vantaggiosa, ma anche come una cosa che potrebbe rivelarsi come portatrice di conseguenze negative proprio come i palchi degli alci: lo tsunami di bugie alle quali siamo continuamente esposti.  Immagine da Wikipedia 


Il linguaggio è il verp e proprio punto di rottura fra gli esseri umani e qualsiasi altra cosa che cammina, striscia o vola sulla faccia della terra. Nessun'altra specie (eccetto le api) ha strumenti che possano essere usati per scambiarsi informazioni complesse fra gli individui in termini, ad esempio, di dove si può trovare il cibo e in quali quantità. E' il linguaggio che crea la “ultrasocialità” umana, è il linguaggio che ci permette di metterci insieme, pianificare per il futuro, fare le cose. Il linguaggio può essere visto come una tecnologia di comunicazione di incredibile potere. Ma, come per tutte le tecnologie, ha conseguenze inattese.

martedì 1 settembre 2015

Come i miglioramenti tecnologici aumentano la crescita della popolazione

Dalla pagina FB di Bodhi Paul Chefurka. Traduzione di MR



Ogni sviluppo tecnologico significativo della storia umana sembra aver causato almeno un raddoppio del tasso di crescita. Secondo la mia interpretazione del recente database della popolazione HYDE, ci sono stati cinque salti del genere negli ultimi 80.000 anni, più o meno. Questi salti sono facilmente correlabili con cambiamenti del livello generale di tecnologia, come mostrato nel grafico. Ipotizzo che l'Homo Sapiens abbia cominciato il nostro ultimo periodo dopo il collo di bottiglia di Toba, a partire da 77.000 anni fa, con 10.000 individui. Durante i 65.000 dalla catastrofe di Toba fino allo sviluppo dell'agricoltura intorno al 10.000 AC, la popolazione è cresciuta da 10.000 a circa 2 milioni, ad un tasso medio basso dello 0,01%all'anno o leggermente meno.

domenica 22 febbraio 2015

La falsa speranza della tecnologia e la saggezza dei corvi

Da “Shift”. Traduzione di MR (h/t Paul Chefurka)

“Cosa dobbiamo fare se non stare con le mani vuote e i palmi verso l'alto in un'era che avanza progressivamente all'indietro?”

TS Eliot, Cori da “La Rocca”



Di Dave Pollard

Solo un decennio fa, facevo parte del nocciolo duro di una squadra per la strategia e l'innovazione per un'enorme agenzia di consulenza multinazionale e scrivevo esuberante sul mio (a quel tempo nuovo) blog sull'innovazione e la tecnologia e come avrebbero probabilmente salvato il mondo. L'immagine sopra della Sintesi del Forum sulla Nuova Economia del Credit Suisse First Boston, descrive un “processo di sviluppo tecnologico” universale popolare a quel tempo. Uno dei principali relatori aziendali di quei giorni eccitanti era Chris Christensen, autore de Il dilemma dell'innovatore, che ho più o meno idolatrato.

E poi è successo qualcosa. La mia ricerca sulla storia dell'innovazione e della tecnologia mi ha suggerito che, piuttosto che essere il risultato di un processo rigoroso, di eccellenza inventiva, la maggior parte delle tecnologie durature di un qualche valore sembravano essere il risultato di incidenti fortuiti o erano il prodotto di scarto da buttar via di programmi militari massicci e scandalosamente costosi. La scienza della complessità a quel punto stava gettando seri dubbi su molte teorie accettate sul modo in cui avviene realmente il cambiamento nelle organizzazioni e nelle società. Il libro di Ronald Wright Breve storia del progresso e lavori analoghi di Jared Diamond ed altri, sostenevano che il 'progresso' fosse un'illusione e che tutte le civiltà collassano inevitabilmente (portandosi con sé la capacità di sostenere le loro tecnologie).

In realtà è probabile che abbiamo vissuto più sani, felici (e spesso più a lungo, quando non venivamo mangiati dai predatori) in tempi preistorici, sembra, molto prima delle invenzioni – o più precisamente le scoperte – delle prime grandi tecnologie (la freccia, il fuoco, la ruota e poi il linguaggio astratto e, più tardi, l'agricoltura – che Richard Manning, in Contro il grano, dice che dovrebbe più precisamente essere chiamata “agricoltura catastrofica”), permettendo l'evoluzione umana innaturale che chiamiamo “insediamento”. L'insediamento ha portato con sé una bufera di nuovi problemi da risolvere per la tecnologia (più in particolare malattie infettive ed emotive) ed ogni nuove tecnologia dalle buone intenzioni ha prodotto ancora più problemi, probabilmente maggiori di numero, dimensione e intrattabilità, dei benefici che le tecnologie precedenti hanno fornito.

Delusione e disillusione

Niente di nuovo in tutto questo. Nel 1994, nel suo libro "Ricominciare", David Ehrenfeld ha descritto il sostegno tecnologico alla nostra civiltà come un volano lacero, sovradimensionato, rattoppato ed arrugginito, che gira sempre più veloce e che ora comincia a tremare a a gemere man mano che inevitabilmente si sfalda. Nel decennio scorso, la disillusione verso l'innovazione e la tecnologia è cresciuta. Il lavoro di Christensen è stato ampiamente discreditato da una revisione, col senno di poi, che suggerisce che le aziende “innovative” alla fine non vanno meglio di quelle che hanno “disgregato”. Uno studio recente di Peter Thiel sul MIT Technology Review afferma che “la tecnologia è in stallo dal 1970”. Man mano che il potere multinazionale si è consolidato in sempre meno mani, spiega, c'è sempre meno motivazione all'innovazione e più ricchezza per comprarla fuori e soffocarla, con l'aiuto degli eserciti di avvocati della Proprietà Intellettuale.

La mia stessa ricerca degli ultimi anni sostanzia questa affermazione. La cosa più importante che ho imparato da 35 anni nella (e studiando la) cultura organizzativa, è stata che la dimensione è nemica dell'innovazione e che gran parte delle cose creative utili che avvengono in grandi organizzazioni accadono attraverso soluzioni alternative di persone in prima linea, nonostante, non grazie al, tono del processo culturale stabilito dall'alto. Ripensando ai centinaia di programmi e progetti strategici, costosi ed orientati al cambiamento in cui sono stato coinvolto (compresi numerosi che ho condotto io stesso) non è rimasto quasi niente da mostrare di loro dieci, o persino cinque, anni dopo che sono stati condotti.

La critica più schiacciante alla tecnofilia Kurzweiliana che tante persone brillanti ora abbracciano proviene da John Gray, che dedica un intero capitolo del suo libro Cani di Paglia a smontare le nozioni idealistiche ed acritiche secondo le quali la tecnologia, sul lungo termine, migliora costantemente e a volte in modo impressionante le nostre vite. Gray scrive:

“Se c'è una cosa sicura di questo secolo è che il potere conferito “all'umanità” dalle nuove tecnologie sarà usato per commettere crimini atroci contro di essa. Se diventa possibile clonare gli esseri umani, verranno riprodotti soldati nei quali le normali emozioni umane sono stentate o assenti. L'ingegneria genetica potrebbe permettere di estirpare malattie secolari. Allo stesso tempo, è probabile che sia la tecnologia scelta per i genocidi futuri. Coloro che ignorano il potenziale distruttivo delle nuove tecnologie possono farlo solo perché ignorano la storia. I progrom sono vecchi quanto la cristianità, ma senza ferrovie, il telegrafo e i gas velenosi non ci poteva essere alcuno Olocausto. Ci sono sempre state tirannie, ma senza i moderni mezzi di trasporto e di comunicazione, Stalin e Mao non avrebbero potuto costruire i loro gulag. I peggiori crimini dell'umanità sono stati resi possibili solo dalla moderna tecnologia”.

Presto per essere una cosa del passato

Sia che crediamo che l'innovazione e la tecnologia rendano il mondo migliore o peggiore, oppure no, ora ci sono prove schiaccianti che sono insostenibili in ogni caso. Fra la sovratensione economica, la dipendenza energetica e la rovina della nostra atmosfera e di altri ambienti da parte della nostra civiltà e delle sue tecnologie, ora è quasi inevitabile che vedremo presto un collasso che farà sembrare la Grande Depressione, e forse anche la precedente quinta estinzione della vita sulla Terra, un nonnulla.

Questo collasso ci richiederà di vivere una vita molto più semplice, più locale, diversa e dipendente dal luogo. Siamo destinati ad essere molto nostalgici dei buoni vecchi tempi della tecnologia moderna appena se ne va, cosa che è probabile che accada presto. La tecnologia moderna richiede energia a buon mercato e, malgrado i recenti giochi di potere fra Stati Uniti e Russia stiano temporaneamente ed artificialmente abbassando i prezzi del petrolio, lo finiremo rapidamente. La tecnologia richiede standardizzazione e globalizzazione su vasta scala e, senza petrolio a basso prezzo, lavoro straniero a basso prezzo e materie prime a basso prezzo, nessuno dei quali è sostenibile, non possiamo aspettarci che duri ancora a lungo. Un barile di petrolio sostituisce il lavoro di sei anni di una persona e quando quei barili diventeranno indisponibili o inaccessibili, la grande maggioranza di ciò che noi tutti facciamo cambierà drasticamente.

Ma almeno, si potrebbe insistere, Internet sopravviverà e permetterà ad altre tecnologie di continuare a prosperare anche se devono essere prodotte e fatte funzionare in modo più frugale e locale. Dmitry Orlov, come spiega ne Le cinque fasi del collasso, non pensa che sia così e il costo impressionante e il tempo richiesto per mantenere a galla Internet quando l'economia è in caduta libera sembrano completamente insostenibili man mano che i nodi dei server diventano articoli di lusso e il tempo delle persone viene reimpiegato per vivere adeguatamente nel mondo reale. Analogamente ad altre tecnologie sui cui poniamo grandi speranze per il nostro futuro o che siamo arrivati a dare per scontate: pannelli solari ed altri beni costosi e dipendenti dalle risorse; la macchina privata; i voli aerei non di emergenza; i prodotti miracolosi delle industrie farmaceutiche e plastiche (comprese le fibre sintetiche); l'agricoltura industriale; i mass media e qualsiasi cosa che dipenda da una rete elettrica o di comunicazione affidabile e coerente.


La vita dopo la falsa speranza

Come sarà la vita senza le tecnologie alimentate dal petrolio? Varierà enormemente da una comunità, sempre più isolata, all'altra. Molto dipenderà dallo stato della terra (la qualità del suolo, la sua capacità di produrre cibo sostenibile, la vicinanza a fonti di acqua pulita e salutare, la sua vulnerabilità alle siccità, alle alluvioni, alle pandemie e ai disastri naturali indotti dal cambiamento climatico), dal numero di persone della comunità che devono essere sostenute, la loro coesione come comunità e la loro salute fisica e mentale, dalle competenze e capacità essenziali. Dipenderà dalla nostra capacità collettiva di vivere adeguatamente, non in modo stravagante, e di essere resilienti al cambiamento. Dmitry Orlov, in Le comunità che si adeguano (Communities That Abide), dice che tali comunità hanno bisogno di tre qualità: (1) autosufficienza, (2) capacità di autoorganizzarsi e recuperare di fronte alle calamità e (3) mobilità: non essere legate a nessuno luogo. Le più moderne tecnologie non si adattano bene ad un modello del genere.

Ronald Wright non solo ha scritto il summenzionato Breve storia del progresso, ma anche il racconto Una storia d'amore scientifica (A Scientific Romance), che dipinge la vita quotidiana del Regno Unito secoli dopo il collasso. Quando l'ho letto, sono rimasto colpito da quanto la nostra antica natura umana (come spazzini, più come corvi che come mammiferi) emerga nella sua visione e quanto il mondo che descrive risuoni col mondo descritto nel libro di Pierre Berton La Grande Depressione. Entrambi i libri descrivono mondi che accettano (o anche si rassegnano), che sono auto-sostenuti, pieni di sforzo e gioia e solo occasionalmente (e anche brevemente e spettacolarmente) violenti.

Entrambi i libri descrivono persone che inizialmente cercano di perpetuare le proprie tecnologie, di farle illogicamente funzionare in un mondo in cui l'infrastruttura di base non può più sostenerle. E entrambi i libri descrivono come le persone alla fine lasciano perdere queste tecnologie e si liberano dalla loro dipendenza. Non è così terribile, un mondo senza tecnologie moderne e Internet. E' il mondo a cui si anela nel libro di Mark Kingwell Il mondo che vogliamo e in quello di Thomas Princen La logica della sufficienza, anche se questo non avverrà nel modo così elegante che gli autori avevano sperato. La tecnologia ci ha sempre offerto una falsa speranza e continua a farlo (l'ultimo “miracolo” tecnologico che ci è stato venduto è il fracking). Prima e più gentilmente la lasciamo perdere, e la nostra dipendenza da sistemi che sottende in modo così precario, prima e più gentilmente possiamo cominciare a farci strada verso uno stile di vita più resiliente.

La saggezza dei corvi

I corvi, un successo evolutivo spettacolare sia con sia senza di noi, hanno hanno molto da insegnarci e da mostrarci a questo proposito. Non hanno quasi nessuna tecnologia e quelle che hanno scoperto (per esempio l'uso di bastoncini uncinati) le prendono alla leggera, usandole per impieghi non essenziali e di divertimento. Hanno un sofisticato senso del divertimento ed usano creativamente il loro tempo libero in modo gioioso ed esuberante ogni qualvolta e ovunque sia disponibile. Amano, sostengono ed insegnano agli altri senza aspettarsi reciprocità. Si adattano ai luoghi, al posto di tentare di adattate scioccamente gli ambienti che hanno scelto a loro. La falsa speranza della tecnologia ci può portare solo alla delusione, al dolore e alla sofferenza. E' tempo di imparare a lasciar perdere, gradualmente ma a partire da adesso, e abbandonare i nostri sogni di tecnologie “intelligenti” che sono troppo intelligenti per il nostro bene. Facendo così, non abbracceremo il progresso e la saggezza delle masse (crowds), ma la resilienza e la saggezza dei corvi (crows).



lunedì 25 agosto 2014

Il picco del chilometraggio e i ritorni decrescenti della tecnologia

DaResource crisis”. Traduzione di MR


Questo grafico, da “economonitor”, è molto interessante perché contiene informazioni rilevanti. (Tuttavia, c'è da notare un dettaglio: il titolo del grafico. “Miglia Guidate” è un pochino fuorviante; dovrebbe essere “chilometraggio”, come dice chiaramente il testo del post). Il rapporto del chilometraggio agli stipendi orari è un parametro che vale la pena di esaminare perché ci dice molto sull'efficienza “sistemica” del trasporto su gomma. Che tipo di efficienza ci possiamo realmente permettere?

Ora, il grafico mostra un chiaro “picco del chilometraggio” che è avvenuto intorno al 2000, quando l'America si poteva permettere il più alto chilometraggio della storia dalle sue automobili. Si è trattato di un picco di efficienza del sistema di trasporto su gomma. Ma poi questa efficienza è diminuita. Come possiamo spiegarlo?

I dati del grafico dipendono da tre fattori: 1) il costo della benzina, 2) lo stipendio orario medio e 3) il chilometraggio medio delle auto. Vediamo prima il comportamento dei prezzi del petrolio, che a loro volta determinano i prezzi della benzina.



Vedete come il prezzi del petrolio hanno avuto due picchi durante gli ultimi 50 anni, con il primo e il secondo (ancora in corso) shock petrolifero. Sorprendentemente, dopo l'inizio della prima crisi petrolifera, il chilometraggio per ora lavorata è aumentato, nonostante i netti aumenti del prezzo. Ma è avvenuto l'opposto con la seconda crisi petrolifera, il chilometraggio per ora lavorata è diminuito rapidamente. Qualcosa deve aver compensato l'aumento del prezzo durante la prima crisi, ma ciò non sta accadendo durante la seconda. Perché?

Degli altri due parametri coinvolti nella curva del chilometraggio, la paga oraria gioca solo un ruolo secondario. I termini reali, gli stipendi sono rimasti più o meno costanti negli Stati Uniti dai primi anni 70, come potete vedere in questo grafico (fonte: income inequality).



La cosa che è cambiata molto in questo periodo è la tecnologia delle auto. Il primo shock petrolifero negli anni 70 è stato, di fatto, uno shock. La gente ha reagito cercando attivamente soluzioni tecnologiche che aumentavano il chilometraggio delle loro auto. E queste soluzioni erano facili da trovare: semplicemente ridurre la dimensione e il peso dei mostri bevitori di benzina degli anni 60 ha fatto il lavoro. Guardate questi dati (fonte):


Vedete quanto rapidamente sia aumentato il chilometraggio negli anni 70 – è quasi raddoppiato in meno di 10 anni! E potete vedere quanto rapidamente la gente ha dimenticato il problema del petrolio una volta che i prezzi sono crollati nella seconda parte degli anni 80. Il grafico mostra anche che, con la seconda crisi petrolifera, il chilometraggio ha ricominciato ad aumentare, ma in assoluto non rapidamente come negli anni 70. C'è una ragione: è difficile ottimizzare qualcosa che è già stato ottimizzato. Questo lo chiamiamo “ritorni decrescenti del progresso tecnologico”.

Alla fine, sembra che il “picco del chilometraggio” dei tardi anni 90 sia quello vero. In futuro, la combinazione di fattori che portano al "picco del chilometraggio" non tornerà più. L'esaurimento del petrolio è destinato a rendere il petrolio sempre meno accessibile, anche se le oscillazioni di mercato potrebbero nascondere questo fenomeno. E' improbabile che gli stipendi crescano in termini reali, dopo essere stati statici negli ultimi 40 anni. E i miracoli tecnologici sono improbabili. Anche la Toyota Prius, meraviglia tecnologica dei nostri tempi, ci può solo riportare dove eravamo 15 anni fa in termini di chilometraggio per ora lavorata. Finché rimaniamo all'interno del paradigma del “veicolo stradale alimentato da un motore a combustione”, abbiamo raggiunto il limite di quello che possiamo fare.

Il risultato della ridotta efficienza complessiva dei trasporti la possiamo vedere in quest'ultimo grafico  (da advisorperspectives). Negli Stati Uniti, la gente guida di meno. Forse sono coinvolti fattori comportamentali, ma il “picco del chilometraggio” suggerisce che lo stanno facendo perché non possono permettersi di guidare di più.


h/t Giorgio Mastrorocco


venerdì 27 giugno 2014

Perché non finiremo mai il petrolio






DaResource Insights” Traduzione di MR

di Kurt Cobb

L'economista di Harvard Morris Adelman, famoso per aver detto che non finiremo mai il petrolio, è morto il mese scorso. Ciò che è seguito all'annuncio della sua morte è stato un prevedibile insieme di encomi come questo da parte dei difensori dell'industria petrolifera che esaltano l'infinita saggezza di Adelman. Alcuni (compreso mio padre, apparentemente) sono stati così coinvolti nello strano stato d'animo celebrativo – quello che riemerge ogni volta che la gente contempla quante cose ci sono nell'Universo – che il motto piuttosto limitato e quasi insignificante di Adelman è stato presentato come la base di una politica energetica completa. (E non importa che quella politica energetica non menziona assolutamente il cambiamento climatico). Tutto ciò ha senso solo se si evita di pensarci. Ma una semplice illustrazione mostrerà proprio quanto sia insignificante la nozione che non finiremo mai il petrolio. Immaginate per un momento che a partire da domani una metà del petrolio che la società umana normalmente consuma ogni giorno non sia più disponibile e che questo vada avanti per diversi mesi.

Questo certamente non significherebbe che lo abbiamo finito. Avremmo semplicemente molto meno petrolio di quanto ne serva al nostro attuale sistema globale per funzionare così come è progettato. Il risultato sarebbe sicuramente una depressione economica globale. E' così che siamo dipendenti dall'attuale TASSO di produzione di petrolio. E' questa l'importanza che ha l'input continuo di energia di alta qualità da petrolio per il nostro benessere collettivo. Questo spiega la preoccupazione di coloro che credono che un declino del tasso mondiale di produzione di petrolio potrebbe arrivare entro il prossimo decennio. Nessuno in questo gruppo ha mai detto che finiremo il petrolio. Si tratta di una fandonia usata per confondere la gente sul problema reale, che è il TASSO di produzione. Ma questo non si riflette nell'osservazione spesso troncata di Adelman. Inoltre, ciò che ha detto in realtà è stato che il petrolio non finirà finché la tecnologia sarebbe progredita e i prezzi fossero sufficientemente alti da giustificarne l'estrazione. All'interno dei confini molto stretti della sua dichiarazione piuttosto annacquata e quasi tautologica, Adelma ha ragione. La parola chiave in questa dichiarazione, tuttavia, è “sufficientemente”.

E se la tecnologia progredisce, ma non sufficientemente, e se il prezzo del petrolio è alto, ma non abbastanza alto da giustificare di estrarlo dal sottosuolo al TASSO richiesto per il funzionamento dolce della società globale? Cosa succederebbe? L'ironia è che mentre coloro che si sono alleati con l'industria petrolifera stanno lodando il caro estinto, l'industria petrolifera stessa si sta tirando indietro dagli investimenti in esplorazione e sviluppo petrolifero anche a fronte dei prezzi medi record del greggio mondiale. La ragione: un aumento di cinque volte delle spese del cosiddetto capitale a monte per l'esplorazione e lo sviluppo da parte della grandi compagnie petrolifere dal 2000 che è risultato solo in un piccolo aumento della produzione di petrolio per quelle stesse compagnie. Anche con prezzi del petrolio al di sopra dei 100 dollari, il costo e il miserrimo ritorno sull'esplorazione e lo sviluppo sta spingendo le grandi compagnie a tagliare le loro precedenti spese sontuose.

Tutto ciò può significare solo una cosa: meno petrolio consegnato in futuro. E tutto ciò va nella direzione opposta all'osservazione di Adelman. I progressi tecnologici continuano ad essere sviluppati dall'industria, compreso la cosiddetta fratturazione idraulica con grandi volumi di  “acqua liscia” (slickwater hydraulic fracturing), in combinazione con la trivellazione orizzontale usata per estrarre petrolio dai depositi di scisto profondi che erano precedentemente inaccessibili. E mentre con queste tecniche hanno aumentato significativamente la produzione negli Stati uniti, la crescita nella produzione complessiva mondiale nei 7 anni dal 2005 al 2012 è in realtà rallentata drammaticamente a circa un quarto del tasso dei sette anni precedenti. E questo in un'era di nuove tecnologie, di prezzi medi quotidiani da record e, finora, di spese record in esplorazione e sviluppo da parte delle compagnie petrolifere.

Sì, le condizioni di Adelma – prezzi alti e progresso tecnologico – ci hanno evitato di finire il petrolio. Ma ma non è questo il punto. Queste condizioni avrebbero dovuto produrre un eccesso e prezzi bassi. Non sono riusciti a farlo per una ragione semplice. Nella corsa fra la geologia sempre più impegnativa e la localizzazione delle rimanenti risorse petrolifere del mondo e la tecnologia sempre in progresso dell'industria petrolifera, la geologia e la localizzazione stanno vincendo. E in realtà sembra che stiano vincendo da parecchio mentre le scoperte fanno fatica a compensare i consumi. Ciò significa che stiamo vivendo un tempo in prestito, usando riserve facili da ottenere scoperte molto tempo fa – e nella speranza, ma contro ogni speranza, che in qualche modo nuove tecnologie prenderanno il sopravvento prima che arrivi il vero declino della produzione. Ciò rende la politica energetica molto debole. Agli economisti di Harvard piacerebbe pensare che il mondo obbedisca a pochi principi semplici che si applicano sempre ed ovunque. Ma in realtà il mondo è di gran lunga più complesso di quanto qualsiasi economista possa immaginare. Visto che noi come esseri umani siamo a conoscenza di una percentuale molto piccola di quella complessità, l'umiltà e la prudenza dovrebbero essere le nostre parole d'ordine quando affrontiamo problemi epocali come la politica energetica.

Le grandi previsioni nell'anno 2000, da parte della EIA statunitense, della IEA e del National Intelligence Council (che serve le agenzie di intelligence degli Stati Uniti) hanno proclamato con fiducia che la produzione di petrolio poteva salire nel prossimo decennio per compensare l'aumento della domanda e che i prezzi sarebbero rimasti bassi. Incantati dalla logica semplice ma errata di Adelman e di altri, hanno malamente sbagliato i numeri della produzione – erano tutti troppo ottimistici – e ancora di più sui prezzi, prevedendo un prezzo medio di circa 28 dollari al barile nel 2010 quando i prezzi giornalieri sono stati in media di 80 dollari. Gli psicologi hanno imparato da studi che persino quando la gente sa che chi fa le previsioni con troppo confidenza ha in gran parte sbagliato sbagliato in passato, sceglieranno di creder loro a causa della loro presentazione sicura. E la gente, in generale, non crederà ai presentatori sperimentali anche se quella gente sa che i presentatori sperimentali sono stati più precisi in passato. Adelman ed i suoi accoliti hanno dato idee semplici ma fuorvianti con sicurezza – e idee che sono in linea con ciò che molta gente vuole credere. Non vedremo mai tali ideologi ritrattare le proprie idee quando i fatti dimostrano che sono sbagliate. Ignoreranno semplicemente i fatti. E sperano che anche voi lo facciate.

venerdì 21 marzo 2014

La bolla scientifica e tecnologica


Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR


di Antonio Turiel


Cari lettori,

qualche mese fa Tasio Urra mi ha inviato questo saggio. In questo periodo lo ha pubblicato su Attac e ripubblicato su Rebelión, oltre all'apparizione su altri media. Tasio mi ha chiesto di ripubblicarlo anche qui per migliorarne la diffusione e per la sua rilevanza in questo contesto. Di sicuro non vi lascerà indifferenti.

Saluti.
AMT

La bolla scientifica e tecnologica: mercificazione, controllo della conoscenza e opportunismo...

Di Jokin_Zabal@

Jokin_Zabal@ è l'alter ego di José Anastasio Urra Urbieta, docente ordinario di gestione aziendale all'Università di Valencia, membro di ATTAC País Valencià, delegato sindacale del CGT e autore del libro “Le bugie della crisi... Un aneddoto del cyberspazio?, di Jokin_Zabal@” (http://www.attacpv.org/public/www/web3/images/file/LasMentirasDeLaCrisis.pdf).

Colpisce il fatto di verificare la generalizzazione delle istituzioni mondiali e delle persone che intonano il mantra della crescita economica, senza tuttavia considerare le restrizioni fisiche di tale crescita in una biosfera finita e limitata, come soluzione a tutti i mali socioeconomici del nostro tempo, dagli imprenditori, ai governi, ai politici, a tutti gli elettori di tutte le tendenze politiche in tutti i territori, passando per il principali sindacati maggioritari. Né risulta meno stupefacente il numero crescente di istituzioni e persone che, di fronte ai problemi socioeconomici ed ecologici che stiamo attraversando, confida quasi ciecamente, in vere e proprie manifestazioni di fede, nella scienza, nel sapere e nella tecnologia come motori di questa crescita e pietre filosofali di fronte a tutte le avversità e le sfide.

Tuttavia, se consideriamo le grandi sfide che abbiamo di fronte, il cambiamento climatico antropogenico, il sovraccarico degli ecosistemi e la crisi energetica e, allo stesso tempo, allo stato attuale della scienza, del sapere e della tecnologia, siamo fregati. Doppiamente fregati.

Senza nemmeno entrare nella valutazione delle restrizioni che il cambiamento climatico antropogenico o il sovraccarico degli ecosistemi stanno già introducendo nel nostro pianeta, e che aumenteranno soltanto nei prossimi decenni, la IEA come è risaputo, o dovrebbe esserlo, ha esplicitamente riconosciuto per la prima volta nel suo rapporto World Energy Outlook de 2010 che il “picco” mondiale del petrolio, o il momento a partire dal quale il petrolio comincia irreversibilmente a declinare, è avvenuto nel 2006. Nel World Energy Outlook de 2013, la IEA afferma già che, in assenza di ulteriori investimenti [sic], nel 2035 dovremo “arrangiarci” con una produzione di petrolio di uno scarso 18% della disponibilità attuale, che tocca i 75 Mb/g. Considerare il cambiamento climatico che abbiamo già provocato, la pressione ecologicamente insopportabile del nostro modello di sviluppo economico sugli ecosistemi e il “picco” del petrolio, come stiamo facendo, presuppone di accettare il fatto che siamo fregati, visto che con tali restrizioni e scarse possibilità di sostituzione energetica molte cose devono cambiare un pochissimo tempo perché nel giro di pochi anni possiamo organizzarci socio-economicamente senza cadere in un collasso di civiltà, peraltro già iniziato, insormontabile.

Ma se di fronte alla realtà di tale scenario consideriamo in più lo stato attuale della scienza, del sapere e della tecnologia, siamo fregati due volte. Lo siamo già perché la scienza, il sapere e la tecnologia, che sono gli strumenti sui quali potrebbe, e dovrebbe, fare leva il formidabile cambiamento senza precedenti che abbiamo di fronte, attualmente sono controllati politicamente, mercificati e presi da un opportunismo grave, si prostituiscono al Business As Usual, o al “più della stessa cosa che ci ha portato sin qui” e che ha generato una bolla scientifica e tecnologica simile alla bolla economica e finanziaria che già conosciamo, che in un futuro non lontano molto probabilmente può solo scoppiare.

Le recenti dichiarazioni del professor Andre Geim dell'Università di Manchester – vincitore del Nobel per la Fisica nel 2010 per la sua scoperta del grafene, materiale tanto di moda – vanno in questa direzione, quando ci avverte che “Temiamo, temiamo molto, la crisi tecnologica” in cui ci siamo cacciati negli ultimi decenni. In occasione della celebrazione del Forum Economico Mondiale del 2012 di Davos, Geim descrive come la crescente mercificazione della conoscenza scientifica e la ricerca del profitto rapido a detrimento della ricerca scientifica pura, o di base, durante gli ultimi decenni ci abbiano portato ad una riduzione allarmante, e con implicazioni gravi, del tasso mondiale di scoperte scientifiche.

Sfortunatamente, sono brutte notizie ma non nuove. Nel 2005, in uno degli studi di maggior portata sull'evoluzione mondiale della tecnologia, sorprendentemente poco divulgato, pubblicato in una delle principali riviste accademiche mondiali sulla tecnologia e gli affari,  uno scienziato indipendente, Jonathan Huebner, Fisico per l'esattezza, ha dimostrato con un alto grado di certezza, come riflette la figura allegata a queste frasi, che l'innovazione tecnologica radicale, quella che ha un grande impatto socioeconomico capace di produrre pietre miliari nello sviluppo e nel progresso dell'umanità, ha raggiunto il suo “picco” nel 1873 [sic], anno dal quale il tasso mondiale di di innovazione radicale non ha mai smesso di declinare. Evidentemente, questi risultati non sono per niente piaciuti in determinati circoli vicini all'industria e i risultati di Huebner hanno subito il tentativo di messa in discussione dal momento della pubblicazione, anche se con poco successo. Se fossero veri e coerenti, come sembra, l'esperienza e l'intuizione di Andre Geim arriverebbe soltanto a ratificare una tendenza abbastanza più pesante di soli “pochi decenni”.


Se lo scenario descritto da tali ricerche e casistica non fosse sufficientemente grigio, un numero crescente di scienziati e intellettuali si avvicinano, sempre di più, a questa prospettiva della nostra realtà, andando anche più il là facendo un'ipotesi più opprimente: non si tratta solo del fatto che il tasso di scoperta scientifica sia diminuito, e che sia pertanto minore, ma che la quantità assoluta di progresso scientifico nel suo insieme può essere inferiore nella misura in cui trascendiamo nel tempo. E' l'ipotesi che fondamentalmente mantengono e argomentano il medico e professore di psichiatria evolutiva all'Università di Newcastle, Bruce Charlton o l'analista di sistemi cibernetici e programmatore di software Anthony Burgoyne, fra gli altri, oltre ad offrirci innumerevoli chiavi e tracce su come siamo arrivati a questa situazione.

Secondo Charlton, la chiave si trova, di nuovo, in una mercificazione della conoscenza scientifica che ha incentivato un “professionalizzazione” della scienza e del lavoro scientifico e generato un opportunismo collettivo che ha portato a convertire in “cartamoneta” la pubblicazione di articoli irrilevanti sulle riviste accademiche, confondendo collettivamente la vera crescita della conoscenza e progresso scientifico con una mera espansione di “chiacchiere e cose senza valore” [sic].

Questa stessa cosa è quello che alcuni di noi stanno presenziando, osservando e denunciando nel nostro contesto nazionale, sopportando da vicino, a volte, l'opportunismo e l'arroganza di molti il cui unico fine sembra farsi una posizione di carriera universitaria e/o politica e di una grande maggioranza che aspira semplicemente a conservare o migliorare il proprio status quo. Mentre si riduce il finanziamento all'università e ai centri di ricerca pubblici, come il CSIC, fiore all'occhiello della nostra ricerca, si gratificano le università private, che hanno una capacità di ricerca praticamente nulla e approfittano dei tagli per concedere un ruolo ancora più determinate in tutta l'attività universitaria alla valutazione dell'attività di ricerca del personale universitario, che in Spagna viene fatto da anni medianti i cosiddetti sessenni (complementi salariali che sono nati per retribuire la produttività della ricerca e che hanno finito per diventare in misura della sua “qualità”, requisito di promozione e sviluppo di carriera) ed i procedimenti di accreditamento che porta a termine l'ANECA (Agenzia Nazionale di Valutazione della Qualità e dell'Accreditamento)  e le agenzie di valutazione autonome.

In parole povere, sono completamente a favore che si valuti l'attività di insegnamento e quella di ricerca degli universitari e degli scienziati, funzionari o meno, ma non che detta valutazione si converta in un elemento di controllo politico oscuro e discrezionale che incentivi e legittimi il “si salvi chi può” e che castighi chiunque la cui motivazione sia prima di tutto il mero piacere della scoperta scientifica e il progresso della scienza, oltre il valore economico immediato o la “convenienza” dei risultati della ricerca.

Oltre a contribuire ad una enorme bolla dalle conseguenza prevedibili, tale controllo politico, mercificazione e perversione della scienza e del progresso scientifico produce dei paradossi significativi. Come osserva il professor Juan Torres, la ricercatrice Saskia Sassen, che ha ricevuto di recente il Premio Principe delle Asturie di Scienza Sociale, una delle scienziate più importanti della nostra epoca, non ha ottenuto nessun sessennio, nessun accreditamento, di fronte ai criteri delle nostre agenzie di valutazione, che antepongono sempre lo stesso criterio, le pubblicazioni JCR (Journal Citation Reports) negli ultimi 5 anni. La Sassen non ne ha nessuna, ma ha pubblicato libri e saggi, frutto di progetti di ricerca veri e referenze fondamentali per accademici compromessi ed ha pubblicato numerosi articoli su media di grande diffusione, ma ha resistito alla pratica di il suo curriculum con articoli standardizzati senza interesse né lettori al di là dei circoli di amici che si citano reciprocamente e cattedratici con insaziabili ansie di farsi una posizione a qualsiasi prezzo.

Ma, quando la bolla scientifica scoppierà, cosa resterà dopo l'esplosione? Come afferma il professor Charlton, magari solo la vecchia scienza, quella di un'era nella quale la maggioranza degli scienziati erano almeno onesti nel cercare di scoprire la verità sul mondo naturale. Nel migliore dei casi potremmo subire un regresso scientifico di vari decenni più che di qualche anno, ma probabilmente è molto peggio di così...

martedì 20 dicembre 2011

L'irresponsabilità di essere (tecno)ottimisti

Guest post di Antonio Turiel apparso il 19 Aprile 2010 su The Oil Crash. Traduzione di Massimiliano Rupalti.




Cari lettori,



sulla base dell'ultimo commento di Agustìn (un lettore del blog, ndT) fatto al precedente post, ho creduto che il tema toccato fosse talmente ampio che meritasse un post a sé.

Circa la descrizione che facevo dei problemi di fornitura di frutta e verdura nel Regno Unito provocata dal blocco del traffico aereo (è il periodo dell'eruzione del vulcano islandese Eyiafjallajokull, ndT), Agustìn diceva quanto segue:

Sono chiare due cose: Primo: che in questo pianeta siamo di passaggio e quasi per caso, quindi qualsiasi crisi ci può spazzar via dalla faccia della Terra. Secondo:che la tecnologia (in questo caso l'aeronautica) può ben poco di fronte a questo. Ma non importa, ci sarà sempre gente che protesta perché non sono state previste le conseguenze dell'eruzione e perché non si è cercata una soluzione al “loro" problema.

Agustìn ha ragione, perché sono questi due i problemi ricorrenti e che spiegano in gran parte la nostra incapacità di approcciarci in modo razionale al problema del Picco del petrolio. Grosso modo (scritto così nel testo originale, ndT), questi due problemi sono la nostra incapacità di accettare i nostri limiti e il tecno-ottimismo.

L'essere umano è, intrinsecamente e necessariamente, limitato. Questo lo capiamo presto da bambini: non possiamo correre tanto quanto vorremmo, non possiamo sollevare cose molto pesanti, non possiamo volare... E nemmeno possiamo fare ciò che crediamo, nel contesto dei nostri limiti fisici, per via di altri limiti intangibili ma ugualmente inflessibili: la famiglia, la società, la scuola... Tuttavia, questa evidenza si va disperdendo con l'età, nella misura in cui si insedia un'altra idea, non tanto naturale ed evidentemente fallace, che dice che è possibile ottenere qualsiasi cosa, con i giusti mezzi. La nostra società dei consumi ci sta permeando con l'idea che con sufficiente denaro si può ottenere tutto e dove la nostra capacità fisica non può arrivare,sarà capace di arrivare l'onnipotente tecnologia. Questa nuova realtà prefabbricata risulta essere molto comoda e conveniente; elimina l'incertezza del mondo reale, rende più rarefatta la più terribile di tutte le certezze, quella della propria morte, e spinge le persone a
consumare senza riflettere.

Tuttavia, occasionalmente, la disgrazia arriva comunque, la gente muore in incidenti, terremoti, malattie.... L'economia ha problemi, la disoccupazione aumenta, l'insicurezza cresce... Per lottare contro questa realtà spigolosa, che intacca la nostra cortina di illusioni, abbiamo il tecno-ottimismo, vale a dire la rigida credenza nel fatto che la tecnologia possa risolvere qualsiasi problema, se solo siamo disposti ad investire a sufficienza nel suo sviluppo. Questo sta alla base di molte politiche che sono in corso di attuazione oggigiorno, man mano che si comincia a percepire il fatto che abbiamo un problema intrinseco col modello attuale: che, eventualmente, dobbiamo cercare energie alternative; che, eventualmente, l'auto elettrica ci potrà aiutare a superare la nostra dipendenza dal petrolio, ecc. L'infantilismo nel quale ci ha gettati il consumismo ci porta a credere che tutti i problemi si possono risolvere e che Papà-Stato-Autorità-Tecnologia-Scienza-Chiperloro, in ogni caso l'autorità superiore e responsabile, non solo può, ma addirittura ha l'obbligo di risolvere i problemi. Trovo frustrante che, in tutti gli incontri che vado proponendo sull'Oil Crash, quando arriva il momento delle domande ci sia sempre qualcuno che ci chiede, quasi esige da noi – noi che siamo scienziati e che pertanto siamo parte di questo establishment onnipotente – che risolviamo un problema tanto complesso come quello di adattare una società autistica ed egoista ad uno scenario di diminuzione dell'energia; fuori le soluzioni, forza!

Il problema veramente grave è che le diverse amministrazioni accettano questo ruolo di fornitori di soluzioni che, in realtà, non possono ricoprire. Non si vendono più automobili? “Non vi preoccupate, metteremo sovvenzioni per fare in modo che si continuino a vendere”, anche se entro tre anni non si sa da dove estrarremo il petrolio, non tanto a buon mercato, ma a qualsiasi prezzo. La gente si preoccupa perché il prezzo del petrolio sale? “Non vi preoccupate che con l'auto elettrica il problema del petrolio scompare”, ignorando il fatto che il petrolio non si usa solo per le auto, ma per quasi tutto e che in ogni caso non abbiamo idea da dove verrà l'energia per ricaricare queste auto e per la costruzione delle quali non abbiamo, in ogni caso, sufficienti materiali (per esempio le terre rare, ndT). La domanda di petrolio per gli altri usi energetici, oltre alle auto, continua? “Non vi preoccupate, che possiamo moltiplicare per due o per tre la produzione di energia rinnovabile attuale”, ma ignorando che questo è molto lontano dal moltiplicare il suo potenziale per 20, che è quello di cui avremmo bisogno per eguagliare il consumo attuale. Fra l'altro perché è impossibile, perché l'energia rinnovabile non ha un tale potenziale e questo senza parlare della mancanza di materiali per le installazioni e della loro scarsità associata all'aumento del prezzo del petrolio (perché serve petrolio, ed in quantità ingenti, per estrarre, raffinare e processare tutti i materiali). La gente ha paura della disoccupazione? “Non vi preoccupate e consumate, consumate, maledetti, che dobbiamo far crescere il PIL fino al magico 2,6% che farà in modo che la disoccupazione torni a scendere”, anche se questo non è possibile, visto che il nostro consumo di petrolio scende ad un ritmo medio del 3% ogni anno.

Essere tecno-ottimisti, credere che la tecnologia risolverà tutto, è un modo socialmente accettabile di essere suicidi. Io, se permettete, scelgo la vita. Sono uno scienziato, ma non un idiota e non voglio credere ai benefici della tecnologia come se fosse un atto di fede; proprio perché sono uno scienziato so che ci sono dei limiti nella natura (le leggi della termodinamica, per esempio) e che non possiamo fare miracoli, anche se possiamo e dobbiamo migliorare le condizioni di vita degli umani. Ma cerchiamo di essere razionali.

Saluti,

AMT