Vi preoccupa la caduta del PIL nazionale negli ultimi anni? Beh, non c'è problema. Abbiamo trovato il modo non solo di invertirla, ma anche di ritornare alla crescita!
Come si fa? Molto semplice: basta che l'ISTAT si metta a ricalcolare il PIL, aggiungendo un po' di cosette:
Le attività illegali di cui tutti i paesi inseriranno una stima nei conti (e quindi nel Pil) sono: traffico di sostanze stupefacenti, servizi della prostituzione e contrabbando (di sigarette o alcol).
Vogliamo scommettere che quest'anno il PIL cresce? E al diavolo i catastrofisti.......
Da “Oil Man”. Traduzione di MR (h/t Luca Mercalli)
Contrariamente a quanto c'è scritto in tutti i manuali di economia, l'energia (e non il capitale, che senza l'energia è inerte) si rivela essere IL fattore essenziale della crescita, secondo Gaël Giraud, 44 anni, direttore di ricerca al CNRS e gesuita. Economisti, dopo due secoli perpetrate ancora l' stesso errore fatale?
Gaël Giraud, direttore di ricerca al Centro di economia della Sorbona, specializzato in matematica e membro dal 2004 della Compagnia di Gesù. [Agenzia Sipa].
Quali sono secondo lei gli indici di un legame intimo fra consumo di energia e crescita dell'economia?
Dopo due secoli, dopo il lavoro di Smith e Ricardo, per esempio, la maggior parte degli economisti spiegano che l'accumulo di capitale è il segreto della crescita economica inedita conosciuta dalle società occidentali e di una parte del resto del mondo. Marx è stato, lui stesso, convinto di questa prova apparente. Tuttavia, storicamente, l'accumulo di capitale (in senso moderno) non è iniziato nel 18° secolo con l'arrivo della rivoluzione industriale, ma almeno duecento anni dopo. Al contrario, la prima “rivoluzione di mercato” del 12° e 13° secolo, che ha permesso all'Europa di uscire dalla feudalità rurale, ha coinciso con la diffusione di mulini ad acqua e a vento. Una nuova fonte energetica, oltre alla fotosintesi (agricoltura) e della forza animale, era diventata disponibile. Allo stesso modo, chi può negare che la scoperta delle applicazioni industriali del carbone, poi del gas e del petrolio (e più di recente dell'atomo) abbia giocato un ruolo decisivo nella rivoluzione industriale e, quindi, come motore della crescita? Dal 1945 al 1975, i “trenta gloriosi” sono stati un periodo di crescita accelerata ed anche di consumo inedito di idrocarburi. Da allora, il pianeta non ha mai più ritrovato la velocità di consumo di energie fossili che era loro proprio nel dopoguerra. E' una buona notizia per il clima. Ma questo non è estraneo al fatto che non abbiamo mai ritrovato il tasso di crescita del PIL dei trenta gloriosi.
Nel corso degli ultimi 10 anni in Francia, il consumo di energia, e di petrolio in particolare, è diminuito, mentre il PIL è aumentato. Questo non prova il fatto che non c'è legame fra consumo di energia e crescita economica?
Il consumo di energia primaria francese è passato da 2,55 miliardi di tonnellate equivalenti di petrolio (gigaTep) nel 2000 a 2,65 gigaTep nel 2004. In seguito ha declinato leggermente fino al 2008, prima di mostrare un crollo nel 2008-2009, seguito da un secondo crollo nel 2011. Ha raggiunto un plateau (provvisorio?) nel 2012 a 2,45 gigaTep. Il PIL francese ha conosciuto delle variazioni analoghe, queste variazioni sono semplicemente state più ammortizzate. Questo è del tutto normale nella misura in cui, fortunatamente, l'energia non è il solo fattore di produzione che “tira” il PIL. Il lavoro realizzato con Zeynep Kahraman, membro di Shift Project, mostra che l'efficienza energetica gioca ugualmente un ruolo grande, anche quello maggiore di quello del capitale. Eppure, sul lungo termine, esiste una relazione estremamente stabile fra il consumo di energia e la crescita del PIL. Si ritrova la stessa grande stabilità quando si allarga la prospettiva non più nel tempo, ma nello spazio. Per dei paesi importatori come la Francia, l'esternalizzazione del consumo di energia attraverso le importazioni porta a sottostimare l'influenza dell'energia nell'evoluzione della crescita economica. La stima della relazione fra energia e crescita è molto più affidabile su scala mondiale che su scala nazionale.
Crescita mondiale dell'economia, del consumo di energia e di petrolio.
Il suo lavoro porta a una conclusione che diverge totalmente dalle analisi classiche: “l'elasticità”, altrimenti detta sensibilità del PIL per abitante in rapporto al consumo d'energia è secondo voi dell'ordine del 60% e non di meno del 10% (o il costo della bolletta energetica nella produzione) come dice la letteratura economica abituale. Come giustifica questo enorme scarto?
La ragione profonda di questo scarto è evidentemente il livello molto basso del prezzo degli idrocarburi, anche oggi. Molti economisti postulano che il mercato internazionale dell'energia sia in equilibrio e che i prezzi che ne emergono riflettono le tensioni reali che si esprimono su quel mercato. Intanto qualche nota su questa idea di un equilibrio naturale. Il prezzo della maggior parte delle energie fossili è influenzato da quello del petrolio e, di recente, da quello del gas. Tuttavia, il prezzo del petrolio, come quello del gas di scisto nordamericano, non risulta affatto da un puro incontro concorrenziale di offerta e domanda. Entrambe sono sottomesse a diverse manipolazioni. Sembra che il modo per fissare il prezzo del petrolio spot, disponibile a breve termine, somiglia al modo in cui si fissa il tasso monetario del LIBOR che alle finzioni ideali dei manuali di economia. Oggi sappiamo che questi tassi interbancari del LIBOR sono stati scientemente manipolati da diverse banche della City di Londra, questo negli anni e forse con la complicità passiva del loro controllore, la banca centrale d'Inghilterra. Allo stesso modo, il prezzo del petrolio è un tema politicamente molto sensibile, non sorprende che sia sottoposto a diverse pressioni. Per esempio, la caduta del prezzo del petrolio durante la seconda metà degli anni 80 non è estranea alla strategia di Washington che era tesa a strangolare l'economia dell'URSS (chiedendo all'alleato saudita di aprire del tutto i propri rubinetti del greggio, nota della redazione), cosa che ha portato ad accelerare la caduta dell'impero sovietico. Non intendo dire che questo shock petrolifero degli anni 80 sia unicamente il risultato di questa iniziativa dell'amministrazione Reagan, ma che misura, attraverso un esempio di questo tipo, la natura in parte geopolitica del prezzo dell'oro nero. Al piano superiore dei mercati internazionali, quello dei mercati finanziari, il prezzo dei future, i contratti di consegna a termine sul petrolio, è lui stesso sottoposto a dei movimenti di capitale che non hanno granché a che fare con la realtà economica dell'energia, ma che hanno a che vedere con delle strategie speculative messe in atto da un pugno di grandi banche d'affari americane. Infine, a proposito del gas di scisto nordamericano, è certamente soggetto di uno scarico verso il basso, favorito da sovvenzioni più o meno nascoste dell'amministrazione americana. Da tutto questo risulta una sconnessione abbastanza forte fra le realtà strettamente economiche degli idrocarburi e i loro prezzi.
Torniamo al punto chiave: il grado di elasticità del PIL in rapporto all'energia secondo lei è largamente sottostimato...
Se malgrado i commenti di apertura che ho appena fatto credete, come la maggior parte degli economisti universitari, che il prezzo dell'energia rifletta fedelmente l'offerta e la domanda reali e se, soprattutto, postulate che l'industria degli idrocarburi non sia sottoposta ad alcun vincolo dal lato dell'estrazione, allora concludete tranquillamente che l'elasticità del PIL in rapporto all'energia è vicino alla quota dei costi energetici del PIL, quello che viene chiamato il suo “cost share” in inglese. Meno del 10%, in effetti. E' questo ragionamento che permette ad alcuni dei miei colleghi economisti, penso a torto, di pretendere che l'energia si un tema marginale e, ad essere sinceri, un non-tema. Ammettiamo per un istante, ai fini della discussione, che il prezzo del petrolio sia veramente un prezzo di mercato concorrenziale. Anche in un caso simile, è evidentemente falso pretendere che l'estrazione fisica degli idrocarburi non sia sottoposta ad alcun limite geologico, politico, eccetera. Oppure, appena abbiamo reintrodotto questo tipo di vincolo, si può facilmente dimostrare che (anche su un mercato puramente concorrenziale) ci sarà uno scollegamento completo fra l'elasticità e la parte dell'energia all'interno del cost share: i calcoli fanno apparire dei “prezzi fantasma”, i quali riflettono la potenza dei vincoli esterni e deformano il cost share verso il basso in rapporto all'elasticità. Questa osservazione è già stata fatta molto tempo fa da un fisico tedesco, Reiner Kümmel, ed anche dall'americano Robert Ayres. Pertanto, la maggior parte degli economisti continuano a postulare che l'elasticità dell'energia è uguale al suo cost share, cioè molto bassa, senza essere andati a vedere più da vicino. Penso che questo sia dovuto, nel profondo, al fatto che molti economisti preferiscono guardare i prezzi e le quantità monetarie piuttosto che quelle fisiche. Questo è paradossale, dal momento che molti dei loro modelli funzionano in realtà come modelli senza moneta! (Lo so, ciò vi sorprende, ma servirebbe un'altra intervista per spiegare questo punto...). I miei lavori empirici, condotti su quasi una cinquantina di paesi e su una arco di tempo di più di 40 anni, mostrano che in realtà l'elasticità del PIL in rapporto all'energia primaria è compreso fra il 40%, per le zone meno dipendenti dal petrolio, come la Francia, e il 70% per gli Stati Uniti, con una media mondiale che si aggira intorno al 60%.
L'elasticità (la sensibilità) del PIL in rapporto al capitale le sembra di conseguenza molto più bassa di quanto comunemente accettato. Quali conseguenze ne trae sul livello dei prezzi dell'energia da una parte e sulla remunerazione del capitale dall'altra?
Una delle conseguenze della rivalutazione verso l'alto dell'elasticità del PIL in rapporto all'energia è, in effetti, una rivalutazione verso il basso in rapporto al capitale. Secondo i manuali, quest'ultimo dovrà essere ancora uguale al cost share del capitale, valutato tradizionalmente fra il 30% e il 40% del PIL. Per conto mio trovo delle elasticità la metà più basse e questo, anche adottando delle definizioni empiriche ampie del capitale, come quelle di Thomas Piketty. Si potrebbe essere tentati di dedurne che il capitale è pagato eccessivamente e che l'energia è pagata poco. Questo non è necessariamente sbagliato ma, dal mio punto di vista, questo tipo di conclusione continua a ragionare come se l'uguaglianza dell'elasticità e del cost share debba essere verificata in un mondo ideale. Tuttavia, ed è un punto fondamentale, non conosco delle dimostrazioni del tutto convincenti di questa uguaglianza. Anche se il prezzo dell'energia (o del capitale) è stato fissato in un mercato mondiale perfettamente concorrenziale, e non è affatto il caso in pratica, anche se si crede che le compagnie petrolifere non siano sottoposte a nessun vincolo esterno ai loro affari (di modo che nessun “premio fantasma” venga a deformare la relazione elasticità/cost share, che è una finzione), anche in un tale mondo ideale, questa uguaglianza resta ancora sospetta. E' legata al fatto che la micro-economia tradizionale soffre di numerosi errori interni, approssimazioni e altri cortocircuiti intellettuali che rendono le sue conclusioni estremamente fragili. Un libro eccellente, redatto da un economista australiano, Steve Keen, fa il punto su questi problemi apparentemente tecnici ma che sono, alla fine, decisivi per il dibattito politico contemporaneo. Sono incaricato, insieme a Aurélien Goutsmedt, della traduzione che apparirà il prossimo autunno qui (L'impostura economica, Steve Keen, Ed. de l'Atelier).
Dopo gli anni 60, il rapporto fra consumo di energia e PIL mondiale e quasi costante (ogni punto corrisponde ad un preciso anno). Questo grafico, di Jean-Marc Jancovici, fondatore dello Shift Project, mostra che a livello mondiale l'efficienza energetica non è stata praticamente migliorata da 50 anni.
Lei stima che esista una specie di “forza riequilibratrice” fra il consumo di energia e il ritmo di crescita del PIL. I due appaiono “co-integrati”, cioè che sarebbero condannati per sempre a tornare sempre uno verso l'altro, dopo un certo tempo. Esiste un legame di causa-effetto fra l'energia disponibile ed il livello dell'attività economica, o al contrario del livello dell'attività economica sul consumo di energia, o meglio ancora si tratta di un legame reciproco?
Questo tema è già stato studiato abbondantemente dagli economisti specializzati in energia. Non c'è più dubbio, oggi, sul carattere co-integrato dell'energia e del PIL. I miei lavori mostrano che la forza riequilibratrice fra queste due grandezze è tale che dopo uno shock esogeno (un crack finanziario, per esempio), queste variabili impiegano una media di un anno e mezzo per ritrovare la loro relazione di lungo termine. Se guardate la sequenza 2007-2009, questo è più o meno ciò che si osserva. Lei si pone giustamente la domanda della relazione di causalità: è il consumo di energia che causa il PIL o l'inverso? A quel punto, anche gli economisti energetici sono molto più divisi. I miei lavori con Zeynep Kahraman propendono chiaramente in favore di una relazione causale univoca del consumo di energia primaria verso il PIL e non l'inverso. Jean-Marc Jancovici aveva già anticipato questo risultato da tempo, osservando per esempio che a seguito del crack del 2007, la diminuzione del consumo di energia ha preceduto la diminuzione dl PIL in un numero importante di paesi. Come indica il buon senso della fisica, una relazione di causalità non si può tradurre come un precedente temporale della causa sull'effetto. E' esattamente questo che conferma il mio lavoro. Ci sono molti malintesi su questa storia della causalità. La causalità è una nozione metafisica: neanche la meccanica newtoniana pretende di dimostrare che la gravità universale faccia cadere le mele dall'albero! Tutto ciò che può dire è che dispone di un modello nel quale una grandezza chiamata forza gravitazionale che si suppone si manifesti attraverso il movimento di masse e che quel modello non è mai stato messo in crisi – per delle velocità minori in rapporto alla velocità della luce, evidentemente! Qui è lo stesso: tutto ciò che possiamo dire è che osserviamo una relazione empirica fra l'energia e il PIL, che si può interpretare statisticamente come una relazione causale.
Ai suoi occhi, in che misura la crisi del 2008 potrebbe essere una specie di shock petrolifero?
L'argomento è di facile concezione: nel 1999 il barile è a 9 dollari. Nel 2007, gira intorno ai 70 dollari (prima di involarsi a 140 dollari a causa della tempesta finanziaria). Le nostre economie hanno quindi conosciuto un terzo shock petrolifero nel corso dei primi anni del 2000, della stessa grandezza di quello degli anni 70, anche se più spalmato nel tempo. Tuttavia questo “shock petrolifero” non ha avuto un effetto recessivo maggiore di quelli del 1973 e 1979. Perché? Alcuni economisti avanzano l'idea che ciò sarebbe dovuto alla maggiore flessibilità del mercato del lavoro negli Stati Uniti, negli anni 2000, in confronto a quella che prevaleva negli anni 70, così come alla politica monetaria molto accomodante condotta dalla Federal Reserve americana (così come dalla banca Centrale europea). La prima spiegazione non mi convince affatto: poggia molto ampiamente sul postulato dell'uguaglianza elasticità/cost share, di cui ho già detto quanto sia sospetta. Mira in modo troppo evidente a legittimare dei programmi di flessibilizzazione a tutto tondo del mercato del lavoro, che hanno però dimostrato la loro inefficacia. D'altronde, la seconda spiegazione si avvicina a quella che suggerisce lei. La politica monetaria dei tassi di interesse molto bassi ha reso possibile un'espansione significativa del credito, essa stessa facilitata dalla deregulation finanziaria. Detto altrimenti, le nostre economie si sono indebitate per compensare l'aumento del prezzo del petrolio! Siccome il credito è stato molto a buon mercato, questo ha permesso di rendere lo shock petrolifero relativamente indolore. Allo stesso tempo, la politica monetaria, la deregolamentazione e la miopia del settore bancario hanno anche provocato il rigonfiamento della bolla dei subprime, il cui scoppio nel 2007 ha dato avvio alla crisi. Il rimedio che ha reso possibile ammortizzare lo shock petrolifero ha quindi anche provocato la peggiore crisi finanziaria della storia, essa stessa ampiamente responsabile della crisi attuale dei debito pubblici, della fragilità dell'euro, eccetera. Tutto avviene quindi come se stessimo per pagare, ora, il vero costo di questo terzo shock petrolifero.
L'evoluzione del consumo di energia è, dice lei, un non-tema per la maggior parte degli economisti. Altri lavori analoghi al suo (quello di Robert Ayres, particolarmente) concludono ugualmente che il ruolo dell'energia nell'economia è del tutto sottostimato. Dove viene preso in considerazione il vostro tipo di approccio nella ricerca economica e nel pensiero economico in generale? Ottenete un eco presso i vostri colleghi, o predicate nel deserto?
La comunità degli economisti universitari non è per nulla omogenea. Alcuni continuano a recitare il catechismo dei manuali, eppure abbiamo molte ragioni per credere che ci siano molte verità importanti contro, che non sono estranee all'incapacità di una parte della categoria di anticipare una crisi monumentale come quella dei subprime, o ancora di immaginare altre soluzioni alla crisi europea se non l'approfondimento dei programmi di rigore di bilancio che, tuttavia, ci portano alla deflazione. Ma altri economisti fanno un lavoro notevole: lei ha citato giustamente Robert Ayres, ci sono anche delle persone come Michael Kumhof al FMI (la sua intervista su 'Oil Man'), James Hamilton (presentazione su 'Oil Man'), David Stern, Tim Jackson, Steve Keen, Alain Grandjean, Jean-Charles Hourcade, Christian de Perthuis... Sono convinto che, quando la società prenderà coscienza del ruolo vitale dell'energia – questo processo di presa di coscienza è già iniziato – la prima categoria di economisti sarà costretta a cambiare i propri dogmi. Il resto appartiene alla sociologia del campo accademico.
I vincoli del picco del petrolio e del cambiamento climatico promettono di disegnare un avvenire nel quale la macchina economica avrà sempre meno energia a sua disposizione per funzionare. Questi due vincoli secondo lei implicano la fine prossima dell'economia della crescita?
Sì, molto verosimilmente. Senza transizione energetica (cioè, senza un ri-orientamento volontario delle nostre forze produttive e delle nostre modalità di consumo verso un'economia meno dipendente dalle energie fossili), non potremo semplicemente più trovare alcuna crescita sostenibile. Anche se alcuni pretendono di andarla a cercare coi denti. I miei lavori suggeriscono che le economie come le nostre non possono conoscere, alla fine, che tre regimi di medio termine: una crescita significativa accompagnata da un forte inflazione (i trenta gloriosi), la deflazione (il Giappone dopo vent'anni, l'Europa e gli Stati Uniti fra le due guerre) o meglio una crescita lenta accompagnata da bolle speculative a ripetizione sui mercati finanziari. L'Europa occidentale è evidentemente nel terzo regime, verso il quale abbiamo svoltato nel corso degli anni 80 , a favore della deregulation finanziaria. La domanda che ci si pone oggi è quella di sapere se vogliamo continuare questa esperienza, al prezzo dell'aumento delle ineguaglianze incredibili che conosciamo e della distruzione a termine del settore industriale europeo da parte della sfera finanziaria. Oppure possiamo lasciarci scivolare pigramente nella deflazione (la più pericolosa) come è già il caso di una buona parte dell'Europa meridionale. O ancora, possiamo tentare di ricollegarci alla prosperità. Quest'ultima possibilità non coincide con la crescita del PIL. Come lei sa, il PIL è un indicatore molto povero. E' tempo di cambiarlo. Il rapporto Sen-Stiglitz-Fitoussi o, meglio ancora, il lavoro di Jean Gadrey e di Florence Jany-Catrice indicano delle strade molto promettenti per andare in questa direzione. Detto altrimenti, far crescere il PIL non ha importanza. Da questo l'inutilità dei dibattiti sulla crescita verde, che si interrogano sul fatto di sapere se la transizione sia compatibile con la crescita del PIL. La domanda buona è: come operare la transizione in modo da assicurare il maggior numero di posti di lavoro ed uno stile di vita allo stesso tempo democratico e prospero?
Il parallelo proposto da Tainter fra la dipendenza dell'Impero Romano riguardo all'energia saccheggiata alle società conquistate e la nostra dipendenza energetica mi pare molto pertinente. Il colonialismo ha costituito – senza offesa per alcuni storici come Jacques Marseille – una grande operazione di captazione di un certo numero di grandi risorse energetiche da parte di un continente (l'Europa) che è gravemente carente di risorse energetiche fossili sul proprio territorio. Che il nostro continente sia più o meno condannato al declino se non realizza la transizione energetica, anche questo mi sembra evidente. D'altra parte, sono meno d'accordo con Tainter sulla tesi concernente il legame intangibile fra la complessità di una società ed il suo uso di energia. Questa nozione di complessità non giustifica la rinuncia della politica, se si suppone che questa implichi, decisamente, che le cose sono troppo complesse perché chi governa possa pretendere di decidere alcunché? E' vero, al contrario, che la deregolamentazione finanziaria ha provocato una cortina di informazioni contraddittorie (i premi dei mercati finanziari) che seminano un'enorme confusione sulle tendenze economiche forti e paralizzano sia gli investimenti di lungo termine sia le decisioni politiche. In quel senso, l'esperienza della deregolamentazione ci ha immersi in un mondo “complesso”, nel senso di confuso. Ma non è irreversibile ed è un motivo in più per non far dipendere la nostra prosperità dai mercati finanziari. Se si segue Tainter, nella misura in cui la nostra società avrà raggiunto il suo “picco della complessità”, al di là del quale i guadagni di produttività della complessità diventerebbero trascurabili, saremmo condannati? Posso sbagliarmi, ma sono convinto, per parte mia, che solo due regioni al mondo possono lanciare la transizione energetica come più ampio progetto economico e politico: l'Europa e il Giappone. In effetti, per farla servono ottimi ingegneri ed una popolazione molto istruita. Se l'Europa diventa leader nella transizione energetica e, più globalmente, ecologica, allora potrà, col proprio ritorno di esperienza, esportare al resto del mondo il proprio saper fare. Altrimenti, sarà condannata a dover fare la guerra, come l'Impero Romano, per prendere l'energia d'altri, cosa che non ha più i mezzi di fare. La transizione è di fronte a noi: è il segreto della prosperità futura dell'Europa, perlomeno se il nostro continente si da i mezzi per metterla in atto.
qualche mese fa Tasio Urra mi ha inviato questo saggio. In questo periodo lo ha pubblicato su Attac e ripubblicato su Rebelión, oltre all'apparizione su altri media. Tasio mi ha chiesto di ripubblicarlo anche qui per migliorarne la diffusione e per la sua rilevanza in questo contesto. Di sicuro non vi lascerà indifferenti.
Saluti.
AMT
La bolla scientifica e tecnologica: mercificazione, controllo della conoscenza e opportunismo...
Di Jokin_Zabal@
Jokin_Zabal@ è l'alter ego di José Anastasio Urra Urbieta, docente ordinario di gestione aziendale all'Università di Valencia, membro di ATTAC País Valencià, delegato sindacale del CGT e autore del libro “Le bugie della crisi... Un aneddoto del cyberspazio?, di Jokin_Zabal@” (http://www.attacpv.org/public/www/web3/images/file/LasMentirasDeLaCrisis.pdf).
Colpisce il fatto di verificare la generalizzazione delle istituzioni mondiali e delle persone che intonano il mantra della crescita economica, senza tuttavia considerare le restrizioni fisiche di tale crescita in una biosfera finita e limitata, come soluzione a tutti i mali socioeconomici del nostro tempo, dagli imprenditori, ai governi, ai politici, a tutti gli elettori di tutte le tendenze politiche in tutti i territori, passando per il principali sindacati maggioritari. Né risulta meno stupefacente il numero crescente di istituzioni e persone che, di fronte ai problemi socioeconomici ed ecologici che stiamo attraversando, confida quasi ciecamente, in vere e proprie manifestazioni di fede, nella scienza, nel sapere e nella tecnologia come motori di questa crescita e pietre filosofali di fronte a tutte le avversità e le sfide.
Tuttavia, se consideriamo le grandi sfide che abbiamo di fronte, il cambiamento climatico antropogenico, il sovraccarico degli ecosistemi e la crisi energetica e, allo stesso tempo, allo stato attuale della scienza, del sapere e della tecnologia, siamo fregati. Doppiamente fregati.
Senza nemmeno entrare nella valutazione delle restrizioni che il cambiamento climatico antropogenico o il sovraccarico degli ecosistemi stanno già introducendo nel nostro pianeta, e che aumenteranno soltanto nei prossimi decenni, la IEA come è risaputo, o dovrebbe esserlo, ha esplicitamente riconosciuto per la prima volta nel suo rapporto World Energy Outlook de 2010 che il “picco” mondiale del petrolio, o il momento a partire dal quale il petrolio comincia irreversibilmente a declinare, è avvenuto nel 2006. Nel World Energy Outlook de 2013, la IEA afferma già che, in assenza di ulteriori investimenti [sic], nel 2035 dovremo “arrangiarci” con una produzione di petrolio di uno scarso 18% della disponibilità attuale, che tocca i 75 Mb/g. Considerare il cambiamento climatico che abbiamo già provocato, la pressione ecologicamente insopportabile del nostro modello di sviluppo economico sugli ecosistemi e il “picco” del petrolio, come stiamo facendo, presuppone di accettare il fatto che siamo fregati, visto che con tali restrizioni e scarse possibilità di sostituzione energetica molte cose devono cambiare un pochissimo tempo perché nel giro di pochi anni possiamo organizzarci socio-economicamente senza cadere in un collasso di civiltà, peraltro già iniziato, insormontabile.
Ma se di fronte alla realtà di tale scenario consideriamo in più lo stato attuale della scienza, del sapere e della tecnologia, siamo fregati due volte. Lo siamo già perché la scienza, il sapere e la tecnologia, che sono gli strumenti sui quali potrebbe, e dovrebbe, fare leva il formidabile cambiamento senza precedenti che abbiamo di fronte, attualmente sono controllati politicamente, mercificati e presi da un opportunismo grave, si prostituiscono al Business As Usual, o al “più della stessa cosa che ci ha portato sin qui” e che ha generato una bolla scientifica e tecnologica simile alla bolla economica e finanziaria che già conosciamo, che in un futuro non lontano molto probabilmente può solo scoppiare.
Le recenti dichiarazioni del professor Andre Geim dell'Università di Manchester – vincitore del Nobel per la Fisica nel 2010 per la sua scoperta del grafene, materiale tanto di moda – vanno in questa direzione, quando ci avverte che “Temiamo, temiamo molto, la crisi tecnologica” in cui ci siamo cacciati negli ultimi decenni. In occasione della celebrazione del Forum Economico Mondiale del 2012 di Davos, Geim descrive come la crescente mercificazione della conoscenza scientifica e la ricerca del profitto rapido a detrimento della ricerca scientifica pura, o di base, durante gli ultimi decenni ci abbiano portato ad una riduzione allarmante, e con implicazioni gravi, del tasso mondiale di scoperte scientifiche.
Sfortunatamente, sono brutte notizie ma non nuove. Nel 2005, in uno degli studi di maggior portata sull'evoluzione mondiale della tecnologia, sorprendentemente poco divulgato, pubblicato in una delle principali riviste accademiche mondiali sulla tecnologia e gli affari, uno scienziato indipendente, Jonathan Huebner, Fisico per l'esattezza, ha dimostrato con un alto grado di certezza, come riflette la figura allegata a queste frasi, che l'innovazione tecnologica radicale, quella che ha un grande impatto socioeconomico capace di produrre pietre miliari nello sviluppo e nel progresso dell'umanità, ha raggiunto il suo “picco” nel 1873 [sic], anno dal quale il tasso mondiale di di innovazione radicale non ha mai smesso di declinare. Evidentemente, questi risultati non sono per niente piaciuti in determinati circoli vicini all'industria e i risultati di Huebner hanno subito il tentativo di messa in discussione dal momento della pubblicazione, anche se con poco successo. Se fossero veri e coerenti, come sembra, l'esperienza e l'intuizione di Andre Geim arriverebbe soltanto a ratificare una tendenza abbastanza più pesante di soli “pochi decenni”.
Se lo scenario descritto da tali ricerche e casistica non fosse sufficientemente grigio, un numero crescente di scienziati e intellettuali si avvicinano, sempre di più, a questa prospettiva della nostra realtà, andando anche più il là facendo un'ipotesi più opprimente: non si tratta solo del fatto che il tasso di scoperta scientifica sia diminuito, e che sia pertanto minore, ma che la quantità assoluta di progresso scientifico nel suo insieme può essere inferiore nella misura in cui trascendiamo nel tempo. E' l'ipotesi che fondamentalmente mantengono e argomentano il medico e professore di psichiatria evolutiva all'Università di Newcastle, Bruce Charlton o l'analista di sistemi cibernetici e programmatore di software Anthony Burgoyne, fra gli altri, oltre ad offrirci innumerevoli chiavi e tracce su come siamo arrivati a questa situazione.
Secondo Charlton, la chiave si trova, di nuovo, in una mercificazione della conoscenza scientifica che ha incentivato un “professionalizzazione” della scienza e del lavoro scientifico e generato un opportunismo collettivo che ha portato a convertire in “cartamoneta” la pubblicazione di articoli irrilevanti sulle riviste accademiche, confondendo collettivamente la vera crescita della conoscenza e progresso scientifico con una mera espansione di “chiacchiere e cose senza valore” [sic].
Questa stessa cosa è quello che alcuni di noi stanno presenziando, osservando e denunciando nel nostro contesto nazionale, sopportando da vicino, a volte, l'opportunismo e l'arroganza di molti il cui unico fine sembra farsi una posizione di carriera universitaria e/o politica e di una grande maggioranza che aspira semplicemente a conservare o migliorare il proprio status quo. Mentre si riduce il finanziamento all'università e ai centri di ricerca pubblici, come il CSIC, fiore all'occhiello della nostra ricerca, si gratificano le università private, che hanno una capacità di ricerca praticamente nulla e approfittano dei tagli per concedere un ruolo ancora più determinate in tutta l'attività universitaria alla valutazione dell'attività di ricerca del personale universitario, che in Spagna viene fatto da anni medianti i cosiddetti sessenni (complementi salariali che sono nati per retribuire la produttività della ricerca e che hanno finito per diventare in misura della sua “qualità”, requisito di promozione e sviluppo di carriera) ed i procedimenti di accreditamento che porta a termine l'ANECA (Agenzia Nazionale di Valutazione della Qualità e dell'Accreditamento) e le agenzie di valutazione autonome.
In parole povere, sono completamente a favore che si valuti l'attività di insegnamento e quella di ricerca degli universitari e degli scienziati, funzionari o meno, ma non che detta valutazione si converta in un elemento di controllo politico oscuro e discrezionale che incentivi e legittimi il “si salvi chi può” e che castighi chiunque la cui motivazione sia prima di tutto il mero piacere della scoperta scientifica e il progresso della scienza, oltre il valore economico immediato o la “convenienza” dei risultati della ricerca.
Oltre a contribuire ad una enorme bolla dalle conseguenza prevedibili, tale controllo politico, mercificazione e perversione della scienza e del progresso scientifico produce dei paradossi significativi. Come osserva il professor Juan Torres, la ricercatrice Saskia Sassen, che ha ricevuto di recente il Premio Principe delle Asturie di Scienza Sociale, una delle scienziate più importanti della nostra epoca, non ha ottenuto nessun sessennio, nessun accreditamento, di fronte ai criteri delle nostre agenzie di valutazione, che antepongono sempre lo stesso criterio, le pubblicazioni JCR (Journal Citation Reports) negli ultimi 5 anni. La Sassen non ne ha nessuna, ma ha pubblicato libri e saggi, frutto di progetti di ricerca veri e referenze fondamentali per accademici compromessi ed ha pubblicato numerosi articoli su media di grande diffusione, ma ha resistito alla pratica di il suo curriculum con articoli standardizzati senza interesse né lettori al di là dei circoli di amici che si citano reciprocamente e cattedratici con insaziabili ansie di farsi una posizione a qualsiasi prezzo.
Ma, quando la bolla scientifica scoppierà, cosa resterà dopo l'esplosione? Come afferma il professor Charlton, magari solo la vecchia scienza, quella di un'era nella quale la maggioranza degli scienziati erano almeno onesti nel cercare di scoprire la verità sul mondo naturale. Nel migliore dei casi potremmo subire un regresso scientifico di vari decenni più che di qualche anno, ma probabilmente è molto peggio di così...