giovedì 31 dicembre 2020

I Fantasmi dell'Anno Passato. E quelli dell'anno che verrà

 

 La scena del diavolo del film "Fantasia" di Walt Disney del 1940. Una rappresentazione appropriata dell'incubo che è stato il 2020.  

Questo clip è particolarmente adatto perché si nota che il diavolo non fa proprio nulla di male durante l'intera scena. Evoca fantasmi e demoni:  urlano, volano, ballano, ma non toccano niente, non fanno danni a nessuno. 

Il male è una caratteristica della nostra mente: creiamo il male e ne subiamo le conseguenze. Forse potremmo sentire le campane dissipare il diavolo nel 2021, come accade nel film al minuto 5:40? Forse, ma è anche possibile che creeremo fantasmi ancora peggiori di qualsiasi cosa vista nel 2020. 

In ogni caso, come sempre, rimarremo dominati dai fantasmi che noi stessi creiamo.

 

 

 

giovedì 24 dicembre 2020

martedì 22 dicembre 2020

Sulla democraticità o meno della scienza.


di Fabio Vomiero

In un'epoca come quella attuale in cui cominciano ad evidenziarsi chiaramente tutti i limiti e le conseguenze sistemiche anche di un'impostazione intellettuale per certi versi inadeguata, l'eterna frattura cognitiva che purtroppo divide ancora la scienza dagli altri contesti sociologici, non accenna minimamente a saldarsi.

Sembra quasi si stia assistendo a un fenomeno sociologico di tipo bipolare in cui anche il cittadino considerato secondo i criteri attuali di media-elevata "cultura", è spesso portato per mancanza di strumenti concettuali adeguati a disinteressarsi completamente della scienza da una parte, o al contrario ad assimilare acriticamente qualsiasi cosa uno "scienziato" gli dica dall'altra.

Proprio di recente, peraltro, alcune dichiarazioni da parte di due noti esponenti del "mondo scientifico", Piero Angela e il prof. Burioni, hanno contribuito a rilanciare un dibattito, in realtà mai assopitosi, che oltre a riguardare in generale il difficile rapporto tra scienza e società, si è concentrato specificatamente sul concetto di quanto la scienza possa essere o meno considerata una forma di cultura democratica.

Per farla breve, il primo (Angela), afferma che «La velocità della luce non si decide per alzata di mano», mentre il secondo (Burioni), sostiene invece con fermezza che «La scienza non può essere democratica», riprendendo peraltro questa specifica locuzione anche nel sottotitolo di un suo interessante libro dal titolo "La congiura dei somari", il quale non lascia spazio a dubbi riguardo il suo esplicito pensiero.

Ma se è vero che tali affermazioni possano sembrare ad una prima e sommaria analisi certamente un po' brutali e provocatorie, l'importante sarebbe però riuscire a cogliere, al di là della forma e delle parole, il messaggio nella sua generalità, onde evitare poi il crearsi dei soliti fraintendimenti.

D'altra parte l'interpretazione corretta di queste affermazioni da parte di chi invece la scienza la studia e la conosce non ha incontrato particolari problemi, a dimostrazione del fatto che, quando si parla lo stesso linguaggio, solitamente è molto più facile capirsi.

Come non dovrebbe nemmeno essere molto difficile cogliere nelle parole dei nostri due personaggi un retrogusto di evidente risentimento, del tutto legittimo, nei confronti di un diffuso modo di pensare che in realtà ha molto poco a che fare con il ragionamento scientifico e molto di più, invece, con tutta una serie di percezioni, quantomeno opinabili, dei concetti stessi di produzione di conoscenza, cultura e ignoranza.

A parte quindi l’utilizzo, proprio o improprio che sia, del concetto di democrazia, che non stiamo qui ad analizzare nella sua sottile ambiguità semantica, Angela e Burioni con le loro affermazioni e probabilmente in accordo con la maggior parte degli scienziati, vogliono semplicemente riferirsi al fatto di come, in una società evidentemente ancora poco alfabetizzata dal punto di vista scientifico, manchino troppo spesso sia un'adeguata comprensione del sistema scienza nel suo complesso e sia, di conseguenza, il dovuto rispetto verso certi “valori” che la scienza e il metodo scientifico invece praticano, promuovono e insegnano. Valori come quelli dell’evidenza scientifica, della prova, dell’esperimento, della fonte autorevole, del ragionamento logico e inferenziale, della verifica, della competenza, dello studio approfondito, della ricerca specialistica, della produzione di una conoscenza cumulativa e condivisa, per esempio.

Valori che nella scienza (che non va confusa con la tecnica), diventano anche dei veri e propri principi epistemici su cui la scienza stessa costruisce orgogliosamente il suo particolare approccio mentale che la conduce, ben consapevole dei propri limiti, verso la migliore comprensione possibile dei fenomeni naturali.

Ora, è chiaro che di fronte ad un impianto cognitivo talmente consolidato, collaudato e soprattutto potente e raffinato ai fini di una produzione di conoscenza affidabile (del resto i risultati di quattrocento anni di scienza moderna sono sotto gli occhi di tutti) rimanere ai margini di questa grande impresa intellettuale significa anche correre il rischio concreto di un pericoloso isolamento culturale del singolo soggetto o della società stessa, con tutti i danni collaterali che questo atteggiamento può comportare, per esempio in termini di scelte e decisioni che riguardino i grandi problemi energetici, ecologici ed ecosistemici che affliggono il nostro pianeta.

Ecco perchè oggi, se vogliamo mirare ad una società veramente più saggia e consapevole non possiamo più tollerare l'ignoranza pressochè completa nei confronti di un modo di pensare, di ragionare e di ottenere conoscenza utile e concreta tipico della scienza, anche perchè questo non vuol dire assolutamente sminuire o dover rinunciare a qualsiasi altra forma del sapere che ognuno (compreso lo scienziato), a seconda dei propri gusti e delle proprie inclinazioni, può benissimo continuare a coltivare.

Quindi, tornando al dibattuto dilemma della democraticità o meno della scienza, potremmo concludere che la scienza è certamente democratica in quanto essendo un'impresa intellettuale collettiva, benchè impegnativa, è teoricamente aperta all'accesso e al contributo di tutti, ma non può essere democratica per niente nei confronti di chi invece, per sua negligenza e ottusità, pretende, spesso addirittura con arroganza, di poter comunque dire la sua ignorando completamente il funzionamento preciso e l'essenza stessa del fare scientifico.

Uno non può svegliarsi la mattina e in base alle sue elucubrazioni filosofiche o religiose derivanti dalla sua misera esperienza personale pretendere di affermare, magari cavalcando l'immagine evocativa di un novello Galileo incompreso, che le attività umane non c'entrino niente con il riscaldamento globale, che i vaccini non si debbano fare, che l'evoluzione biologica sia mancante di prove sufficienti, che esistano i complotti X e Y contro l'umanità e così via, in barba a tutte le evidenze scientifiche e ai decenni di ricerca sul campo da parte di persone preparate che hanno studiato per tutta una vita.

A meno che non sia in grado di supportare le proprie argomentazioni in modo assolutamente coerente, pertinente e soprattutto scientificamente rilevante.

Pertanto, questa apparentemente severa prospettiva che a qualcuno potrà anche sembrare vagamente scientista, in realtà non vuole assolutamente stigmatizzare a priori il dissenso o la discussione, ma soltanto chiarire come, al di là di un concetto abbastanza elusivo come quello di democrazia, le opinioni abbiano invece sempre un loro peso specifico e di conseguenza il grado di fiducia che concediamo a una persona o a un gruppo di persone dovrebbe sempre essere pesato sulle reali competenze che quella persona o quel gruppo hanno relativamente alla materia o agli argomenti in questione.

Tutto qui... Altro che scientismo.


mercoledì 16 dicembre 2020

Apologia dell'Apofatismo: Discutendo la Teologia Negativa

Di Bruno Sebastiani

Apofatismo, chi era costui? Non pensate di essere ignoranti se non conoscete il significato di questa parola. È talmente in disuso che oramai credo che ben pochi la conoscano.

E allora ricorriamo a Santa Wikipedia, che ci dice che 


L'apofatismo (dal greco ἀπό φημί che significa letteralmente “lontano dal dire”, “non dire”) è un metodo teologico secondo il quale la comprensione della natura di Dio non può essere espressa a parole.

In quest'ottica, l'approccio più adeguato a Dio è quello che prevede il silenzio, la contemplazione e l'adorazione del mistero, prescindendo cioè da qualsivoglia processo di speculazione o indagine discorsiva dell'essere divino.

Nelle forme più radicali l'apofatismo può implicare non solo che non vi siano argomenti per descrivere appropriatamente Dio, ma che Egli sia del tutto inconoscibile dalla ragione, perché trascende le capacità cognitive umane e la stessa realtà fisica.

Anch’io ignoravo questa corrente della cosiddetta Teologia negativa sino a che mi ci sono imbattuto nell’ambito della ricerca di materiale per il nuovo libro che sto scrivendo.

In questo nuovo scritto (che avrà per titolo “Rivelazione – Discorso alle cellule malate” e che vedrà la luce non si sa quando) cercherò di spiegare all’uomo che è inutile che si affanni a tentare di risolvere tutti i problemi del mondo e a cercare una spiegazione per ogni questione: il suo cervello è limitato, oltre un certo limite non può andare e se tenta di farlo può solo combinare disastri, come puntualmente stiamo constatando.

Ma questo concetto non è del tutto analogo a quello degli asceti “apofatici”, che sostenevano la limitatezza della ragione umana e la sua incapacità a sondare l’origine dell’universo?

Essi chiamavano comunque Dio questa realtà irraggiungibile e, pur dichiarandola inconoscibile, poi affidavano alla fede il seguito del discorso.

Può sembrare un atteggiamento contraddittorio, ma dobbiamo considerare il contesto storico e sociale in cui questi uomini vivevano. In ogni caso il loro approccio alle verità ultime era ben diverso da quello dei rappresentanti del “catafatismo”, o teologia affermativa, che ritenevano conoscibile Dio attraverso l’uso dell’intelletto.

Questi ultimi, come noto, prevalsero e sdoganarono la ragione come strumento di indagine, prima teologica e poi scientifica, sino a quando essa si ribellò ai vincoli dei dogmi, si autodichiarò dea e salì all’onore degli altari rivoluzionari.

Ma, per tornare ai rappresentanti dell’apofatismo, mi immagino che essi si sedessero in muta contemplazione della natura, del cielo, del mare, del bosco e si sentissero tutt’uno con questa realtà. La conoscevano “visceralmente” e per essi era inconoscibile “razionalmente”.

Non l’avrebbero mai deturpata disboscando e cacciando più del minimo necessario alla loro sopravvivenza. A questi santi anacoreti, eremiti, padri del deserto ho dedicato un apposito capitolo del mio libro “Il cancro del pianeta consapevole” e a quelle pagine rimando per ogni approfondimento.

Ma in quel libro avevo anche esteso la ricerca di correnti di pensiero “apofatiche” alle realtà spirituali di altri continenti.

Una di queste, il Taoismo, mi pare la più esplicita al riguardo e, al fine di renderla ancor più esplicita, mi ero permesso di parafrasare il primo capitoletto del Tao Te Ching in modo da renderlo più comprensibile alla mentalità dell’uomo d’oggi. Credo di non aver tradito lo spirito del messaggio che l’antico ignoto estensore del testo aveva inteso indirizzare ai suoi contemporanei. Se così è, credo di aver realizzato una discreta sintesi dell’Apofatismo. Ma lascio ai lettori di giudicare:

 

Il capitolo introduttivo del Tao Te Ching, libro base del Taoismo, recita:

 

1.            Il Tao di cui noi possiamo parlare non è il Tao in se stesso.

2.            Anche attribuendogli qualsiasi nome non sarà l’eterno nome.

3.            Non ha nome poiché è anteriore al Cielo e alla Terra:

4.            Ha un nome perché è chiamato “la Madre di ogni cosa”.

5.            Come non essere possiamo definirlo il nascosto Seme di tutto l’esistente:

6.            Come essere rappresenta l’ultimo Fine a cui tende questo stesso esistente.

7.            Sia il Seme che il Fine sono aspetti di uno stesso Principio.

8.            Il Principio è chiamato Mistero!

9.            Mistero di tutti i misteri!

10.         La soglia dell’inafferrabile!”

 

Così nella traduzione di Chin-Hsiung Wu e Rosanna Pilone in “Quaderni di Civiltà Cinese”, anno 1 numero 2, Milano, settembre 1955, p. 143. Altri hanno tradotto in modo un poco differente.

 

Ma, al di là dell’ermetismo del testo, il significato credo che possa essere il seguente:

 

1.          I segreti dell’Universo non possono essere da noi neppure immaginati e quindi, tantomeno, definiti.

2.         Qualunque descrizione noi si faccia di tali segreti con le parole, non potrà mai essere una descrizione che rispecchi la realtà.

3.          Le parole sono un’invenzione del cervello dell’uomo, ma questi non può attingere alle realtà supreme, che tanto lo precedono e lo sopravanzano.

4.          Eppure l’uomo ha voluto dare un nome ad ogni cosa, ed ha pensato di poter definire anche l’origine dell’Universo.

5.          E mentre prima poteva attingere alle realtà supreme senza far ricorso all’uso del cervello, ma semplicemente contemplando in silenzio l’Universo

6.          Ora, schiavo dell’uso del cervello, non può che vedere cose particolari, così come egli le ha definite.

7.          L’Universo è sempre il medesimo

8.          Ma per il cervello umano esso è Mistero

9.          Il Mistero di tutti i misteri

10.        Che il nostro cervello non può afferrare!

Può servire qualche riflessione a cambiare il corso degli eventi? Non lo so, ma quello che so per certo è che il corso degli eventi volge al peggio e ogni tentativo per cambiarlo è il benvenuto.


giovedì 10 dicembre 2020

Perché la moda di indossare mascherine non se ne andrà tanto presto

  Indossare una maschera è un peso ma, in alcuni casi, anche un vantaggio, soprattutto per le donne in una società patriarcale. Tradizionalmente, una maschera consentiva un certo anonimato e una possibilità di licenza sessuale occasionale. Potrebbe essere che l'attuale diffusione dell'abitudine di indossare mascherine sia una reazione allo "stato di sorveglianza" sempre più invasivo in Occidente? In questo post esploro questo problema anche in relazione alla storia biblica di Tamar e Giuda (sopra, Tamar e Giuda in un dipinto della scuola di Rembrandt))

 
 

La moda di indossare mascherine per il viso in Occidente è sorprendente, soprattutto considerando la campagna contro il velo islamico condotta per anni in nome della "dignità delle donne." Tuttavia, gli abitanti di molti paesi occidentali si stanno aggrappando alle loro maschere come se la loro vita dipendesse da loro, anche in condizioni in cui non sono necessarie, per esempio all'aria aperta.

Questa abitudine è tanto più sorprendente se si considera che praticamente nessuna società conosciuta nella storia ha mai imposto di indossare maschere o veli per tutti, tranne nelle aree in cui è necessaria protezione contro il gelo o la sabbia portata dal vento. Nell'iconografia occidentale standard, qualcuno che indossa una maschera è un criminale o un fuorilegge. Chi avrebbe bisogno di nascondere la sua faccia se non per qualche scopo malvagio? È vero, a volte una maschera è indossata da personaggi positivi nella narrativa, come Batman, ma c'è sempre un lato oscuro della storia.

L'unica eccezione alla regola è il velo indossato dalle donne sposate. A volte si dice che sia una tradizione islamica, ma non lo è. Nell'Europa meridionale, fino a meno di un secolo fa era comune per le donne sposate indossare il velo in pubblico e, ancora oggi, una sposa occidentale a volte lo indossa durante il suo matrimonio. In generale, è tipico che le donne siano velate in pubblico nelle società patriarcali, come è ancora il caso in alcuni paesi del Medio Oriente e dell'Asia.

Direi che il velo può essere visto come un peso, ma anche come un vantaggio per le donne. Niente esiste se non ha motivo di esistere e, nel corso della storia, le donne hanno accettato di indossare il velo perché dava loro dei vantaggi. Un certo grado di anonimato che ha permesso loro di indulgere occasionalmente a comportamenti non consentiti dalla loro società. In effetti, indossare maschere rimane una caratteristica delle festività del carnevale occidentale, dove una certa tradizione di libera sessualità era tipica nei tempi andati e rimane parzialmente viva ancora oggi.

Quindi, potrebbe essere che l'attuale esplosione di maschere in Occidente sia il risultato della diffusione dello "sorveglianza di stato"? Con modi sempre più oppressivi per controllare le persone che vengono schierate, con tecniche di riconoscimento facciale, droni di sorveglianza, spy cam e tutto il resto, indossare una maschera offre un certo vantaggio a chi la indossa. Non è un caso che gli hacker "anonimi" siano rappresentati mentre indossano una maschera. L'anonimato è un vantaggio e c'è sicurezza nei numeri.
In tal caso, è probabile che le maschere facciali diventino una caratteristica stabile della società occidentale, indipendentemente dalla loro utilità come barriere anti-virus. Sono scomode, ma se riescono a nasconderti da quei maledetti droni, beh, potrebbe valere la pena indossarle. Maschere come forma di libertà dall'oppressione? Può essere.

Per capire meglio il significato di indossare maschere, vediamo  una storia antica in cui una maschera per il viso ha svolto un ruolo fondamentale: la storia biblica di Tamar e di Giuda. Ho già discusso di questa storia in un post precedente, ma qui mi permetto di entrare in qualche dettaglio in più.
 

Tamar e Giuda: il velo come strumento salvavita

di Ugo Bardi, agosto 2020


Nel libro della Genesi della Bibbia, leggiamo come Tamar si prostituì per avere figli da suo suocero, Giuda. È una storia affascinante che ci racconta di tempi remoti, ma non così remoti da non poter comprendere la difficile situazione delle persone che hanno vissuto e lottato in un mondo molto diverso dal nostro.

La storia di Tamar viene spesso commentata per il suo significato morale e religioso, ma prendiamolo qui in considerazione con uno scopo più concreto: capire come l'abitudine delle donne sposate di indossare un velo abbia influenzato le antiche società patriarcali e, occasionalmente, potrebbe essere stata un vantaggio per le donne.

Quindi, iniziamo con i protagonisti. Giuda era uno dei patriarchi degli Israeliti, il pronipote di Abramo in persona. Non era proprio un modello si virtù, e ci viene detto di come avessea tentato di uccidere suo fratello Giuseppe. Più tardi, sembrava aver guadagnato un po' di rispettabilità, si era sposato e aveva avuto tre figli, Er, Onan e Shelah.

Tamar entra nella storia quando sposa Er, il figlio maggiore di Giuda. Non ci viene detto molto sulle origini di Tamar. Fonti diverse dalla Bibbia dicono che era una cananea, altre che era figlia di un sommo sacerdote. La Bibbia non menziona una dote, ma è impensabile che Tamar non ne avesse portata una a Er. Le doti sono tipiche delle società patriarcali dove gli uomini sono considerati più preziosi delle donne. In queste società, una donna può ottenere l'accesso a un uomo di alto rango pagando per il privilegio.

Quindi, Tamar sposa Er e tutto sembra andare per il meglio, ma Er muore improvvisamente. La Bibbia ci spiega che Dio era arrabbiato con Er per motivi non chiari, ma il nocciolo della storia è che Tamar è rimasta vedova senza figli. In questo caso, le società patriarcali avevano una tradizione chiamata "levirato" che favoriva, o addirittura imponeva, che il fratello minore di un uomo deceduto sposasse la vedova. La legge si applicava quando la vedova era senza figli, come nel caso di Tamar.

Le leggi del levirato sono fondate su questioni finanziarie, come la maggior parte dei matrimoni erano nell'antichità, e lo sono ancora. In una società patriarcale, una donna aveva accesso a un uomo di alto rango pagando una dote. Ma se l'uomo fosse morto prima di avere figli, la donna aveva pagato per non avere nulla, perché essendo femmina non poteva ereditare i beni del marito defunto. La legge sul levirato proteggeva la vedova assicurandosi che avesse un marito e la possibilità di avere eredi maschi. I figli generati dal fratello del marito deceduto sarebbero stati considerati figli e figlie del primo marito per quanto riguarda le questioni ereditarie.

Quindi, leggiamo che la famiglia di Giuda aveva seguito le usanze del levirato e che il cognato di Tamar, Onan, la sposò. Questo sembrava risolvere tutti i problemi, ma qualcosa era andato storto: Onan non era interessato ad avere figli da Tamar. Ci viene detto che "spargeva il suo seme per terra", qualcosa che oggi chiameremmo "coitus interruptus". Perché Onan lo facesse probabilmente è ancora legato alle implicazioni finanziarie del levirato. Se Tamar avesse generato un erede maschio di Onan, la sua eredità sarebbe stata ridotta perché il figlio sarebbe stato considerato figlio di Er e forse Onan aveva altri figli da un'altra donna. La storia potrebbe essere stata molto più complicata di così, comunque quello che succede è che muore anche Onan. Forse è stato colpito da Dio per il suo cattivo comportamento, ma il punto è che Tamar si ritrova vedova senza figli per la seconda volta.

A questo punto le cose si complicano davvero. La legge sul levirato dice che Tamar dovrebbe ora sposare il figlio rimanente di Giuda, Shelah. Ma lui è troppo giovane, e così Tamar si ritrova promessa sposa di un bambino con la prospettiva che quando sarà cresciuto abbastanza, si comporterà come Onan, per gli stessi motivi. Poi, dopo aver seppellito due mariti, possiamo immaginare che la reputazione di Tamar era un po' offuscata, per non dire altro. Forse è una strega? Non dimentichiamoci che la Bibbia dice nell'Esodo, "Non permetterai che una strega viva". Riguardo a Shelah, non doveva essere così entusiasta alla prospettiva di dover sposare una donna che poteva avere 10 anni più di lui. E Giuda, cosa poteva fare? Forse avrebbe potuto rimandare Tamar dalla sua famiglia, ma poi avrebbe dovuto ripagare la dote che aveva ricevuto - non una prospettiva che gli faceva piacere, ovviamente.

Stando così le cose, sembriamo avere una classica situazione dove perdono tutti. Ma poi succede qualcosa che cambia tutto. Leggiamo la storia dal libro della Genesi
 
Dal libro della Genesi

13 E fu riferito a Tamar, dicendo: Ecco, tuo suocero sale a Timnath per tosare le sue pecore.

14 Si tolse di dosso le vesti da vedova, si coprì con un velo, si avvolse e si sedette in un luogo aperto, che è sulla strada per Timnath; poiché vide che Shelah era cresciuto e non gli era stata data in moglie.

15 Quando Giuda la vide, pensò che fosse una meretrice; perché si era coperta il viso.

16 E si voltò verso di lei lungo la strada e disse: Va ', ti prego, lasciami entrare in te; (poiché non sapeva che era sua nuora.) E lei disse: Che cosa mi darai, per entrare in me?

17 E lui disse: Ti manderò un capretto del mio gregge. E lei disse: Mi dai un pegno finché non la invierai?

18 Ed egli disse: Che pegno ti darò? E lei disse: Il tuo sigillo, i tuoi braccialetti e il tuo bastone che è nelle tue mani. Ed egli glieli diede, ed entrò in lei, e lei concepì da lui.

19 Ella si alzò e se ne andò, si tolse il velo e indossò le vesti da vedova.

20 E Giuda mandò il suo amico Adullamita con la capretta, a ricevere il suo pegno dalla mano della donna, ma non la trovò.

21 Quindi interrogò gli uomini di quel luogo, dicendo: Dov'è la meretrice che era qui sul lato della strada? E dissero: Non c'era nessuna prostituta in questo luogo.

22 E tornò da Giuda, e disse: Non riesco a trovarla; e anche gli uomini del luogo dissero che non c'era nessuna prostituta in quel luogo.

23 E Giuda disse: "Lasciamo perdere, che altrimenti ne saremo svergognati". Ecco, ho mandato questa captretta e tu non l'hai trovata.

24 E avvenne circa tre mesi dopo, che fu detto a Giuda, dicendo: Tamar, tua nuora, si è prostituita; e inoltre, ecco, lei è incinta per prostituzione. E Giuda disse: Falla venire qui e che sia bruciata.

25 Quando fu accompagnata, mandò dal suocero a dirle: "Per l'uomo di cui sono queste io sono incinta; e lei disse: Discerni, ti prego, di chi sono questi, il sigillo e i braccialetti, e il bastone.

26 E Giuda li riconobbe e disse: Ella è stata più giusta di me; perché non l'ho data a Shelah mio figlio.

 

Ora, questa storia ha dei buchi di logica così grandi che ci potrebbe passare attraverso una carovana di cento cammelli. Vediamo di spiegare.

In primo luogo, l'idea che una prostituta aspetti i clienti in "un luogo aperto" è già strana. Le prostitute tendono a frequentare luoghi affollati e che una di loro si sieda e aspetti i clienti in un luogo aperto sarebbe pericoloso se incontrasse un cliente disonesto o violento. Nei tempi antichi, le prostitute operavano principalmente nei templi come "ierodule". Ciò ha dato origine alla leggenda che Tamar fosse una prostituta sacra di qualche culto. Ma le ierodule non erano sacerdotesse, erano solo un servizio fornito dal tempio che garantiva anche la loro sicurezza e che venissero pagate. Lo descrivo in un post precedente. Questo è principalmente un dettaglio, ma uno dei tanti punti deboli dell'intera storia.

Secondo, ci viene detto che Giuda "pensava che fosse una prostituta, perché si era coperta il viso". Questo è totalmente assurdo. Nei tempi antichi, le prostitute non si velavano la faccia. Quello era un no-no. Punto. Ecco come discuto questo punto in un post precedente
Secondo Michael Astur (1966), a una ierodula babilonese era severamente vietato indossare un velo e, se lo faceva, era punita severamente. Quindi, come poteva Giuda scambiare una donna velata per una prostituta? Astour, qui, compie un salto di logica davvero acrobatico, notando prima che una donna potrebbe abbandonare il suo status di ierodula e sposarsi e, in questo caso, le sarebbe stato permesso di indossare un velo. Quindi, supponendo che Tamar fosse stata una ierodula prima di sposarsi, il fatto che lei indossasse un velo poteva essere "un privilegio evidentemente esteso alla vedovanza". Anche se dovessimo concordare su questa pericolosa catena di ipotesi, la spiegazione non ha senso lo stesso. Come poteva Giuda sapere che la donna velata che aveva incontrato era un'ex prostituta quando invece il suo aspetto era quello di una donna sposata?
Terzo, ci viene chiesto di credere che Judah abbia rapporti sessuali con sua nuora che vive nella sua famiglia da almeno alcuni anni e che non la riconosce perché porta il velo (!!). Ora, questo mi ricorda come Luisa Lane nelle nostre storie di "Superman" è così stupida che non riesce a riconoscere che il suo fidanzato Clark Kent e Superman sono la stessa persona, solo perché Kent porta gli occhiali. Forse Judah non era il paio di forbici più affilate nella cassetta degli attrezzi del tosatore, ma non può essere stato così stupido. Secondo alcune fonti, ha detto che era ubriaco. Sicuro. Proprio.....

Infine, c'è la storia che la presunta prostituta chiede a Giuda un pegno sotto forma del "sigillo, braccialetti e bastone". Questo è un altro no-no: fin dai primi giorni della storia monetaria, le prostitute sono state pagate in contanti. È impensabile che Giuda andasse al mercato di Timnat senza portare con sé almeno un po 'd'argento. Era lì per tosare le sue pecore, e con cosa avrebbe pagato i tosatori? Quell'argento avrebbe potuto anche essere usato per pagare tutto ciò di cui avrebbe avuto bisogno mentre era lì, compresi i servizi di una prostituta. Che la presunta prostituta, Tamar, avesse chiesto a Judah un tale grado di impegno da lasciare qualcosa che lo rendesse riconoscibile era quantomeno strano, alquanto sospetto.

Allora, come si spiega questa serie di contraddizioni apparentemente irrisolvibili? Ebbene, come direbbe il Capitano Kirk dell'astronave "Enterprise", ci sono sempre modi per evitare di mettersi in una situazione senza possibilità di vittoria. Ed era quello che poteva essere successo.
 
 
Torniamo all'impasse iniziale: Giuda non vuole dare Tamar a Shelah ma non vuole nemmeno rimandarla dalla sua famiglia. Nel frattempo la moglie di Giuda muore e all'improvviso appare una soluzione ovvia per Giuda: prendere Tamar come moglie. Una buona idea che tiene i soldi a casa e dà comunque a Tamar la possibilità di avere un erede alla famiglia di Giuda. Inoltre, non è difficile immaginare che una donna in piena fioritura, come Tamar, sarebbe stata attraente per un vedovo, come Giuda. Ma sposarla è legalmente impossibile: Tamar è la promessa sposa di Shelah e per Giuda questo sarebbe visto come adulterio, un peccato grave, punibile anche con la morte.

Ma immaginiamo che Giuda e Tamar abbiano una relazione ben prima della storia di Timnath. Quindi, immaginiamo che Tamar rimanga incinta. Ahia! Grosso problema: ora sono adulteri, peccatori ed entrambi punibili dalla legge. Ovviamente Giuda potrebbe negare di essere il padre del figlio di Tamar, ma ciò condannerebbe Tamar a morte come una prostituta e provocherebbe l'ira della famiglia di Tamar.

Quindi, prima che la gravidanza di Tamar diventi ovvia, viene organizzata una rappresentazione teatrale. Tamar non ha nemmeno bisogno di andare a Timnath travestita da prostituta. Giuda riappare da Timnah senza il suo sigillo, braccialetti e bastone personale, ma nessuno gli chiede cosa ne ha fatto. Poi c'è la rappresentazione teatrale di inviare un amico a Timnath con una capra per pagare una prostituta, ma ben sapendo che non ce n'è mai stata una nel posto dove si sarebbe dovuta trovare. Quando lo scandalo esplode, il bastone di Giuda e tutto il resto ricompaiono miracolosamente nelle mani di Tamar, dando sostanza a una storia altrimenti incredibile.

Vedete come funziona tutta la storiella? Tamar si è comportata male, ma suo suocero non può punirla perché lei porta suo figlio (in realtà, figli, nasceranno gemelli). Allora Giuda non è un adultero perché non sapeva che stava facendo sesso con sua nuora (ah, già, era ubriaco!!). I parenti di Tamar, quindi, sono felici perché i figli di Tamar erediteranno la ricchezza di Giuda. E tutti sono talmente felici che nessuno fa caso alle tante incongruenze della storia. L'unico che potrebbe non essere così felice è Shelah, che ha perso il privilegio di essere il figlio maggiore di Giuda perché i figli di Tamar saranno considerati eredi del defunto Er. Ma così è la vita e non puoi avere tutto.

Vedete quanti dettagli si agganciano fra di loro in questa storia affascinante. È così affascinante perché descrive la situazione di persone normali che non erano preoccupate per le grandi cose come la casa di David, ma per la propria sopravvivenza in un momento difficile. E possiamo capire loro e la loro situazione, anche millenni dopo. 
 
Ma il dettaglio più affascinante della storia è il ruolo svolto dal velo. Se non ci fosse stato l'uso per le donne di indossare il velo, Giuda non avrebbe potuto sostenere che non sapeva con chi stava facendo sesso. Il velo ha letteralmente salvato la vita di Tamar e ha assicurato che i suoi figli sarebbero diventati i fondatori della linea davidica della tribù di Giuda. E, come ho detto all'inizio, per tutto ciò che esiste, c'è una ragione per cui esiste.
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In questa canzone del 1969 del cantante italiano Lucio Battisti, sentiamo la storia di un uomo a cui viene detto che sua moglie, Francesca, è stata vista con un altro uomo. Dice che non può essere, che la donna che hanno visto somigliava a Francesca, vestita allo stesso modo e con lo stesso colore di capelli. Ma non può essere perché, dice, "Francesca vive per lui". Se i veli fossero stati indossati dalle donne sposate in Italia negli anni '60, questa canzone non sarebbe potuta esistere.




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Astour, Michael, Journal of Biblical Literature, 85,2 (1966) 185-196.


venerdì 4 dicembre 2020

Il vegetariano seminudo: vivere nel giardino dell'Eden

 

di Bruno Sebastiani

 

Der Weltverbesserer” è un racconto lungo di Hermann Hesse pubblicato nel 1911 e tradotto in italiano da SugarCo con il titolo “Monte Verità”. In realtà l’unica attinenza con la nota comunità “naturista” che sorse nei pressi di Ascona all’alba del XX secolo consiste nel fatto che il protagonista del racconto, Berthold Reichardt, risiede in una località isolata del Tirolo ove ospita uno dopo l’altro vari personaggi anticonformisti.

Uno di questi, denominato “un vegetariano seminudo”, pronuncia frasi che offrono lo spunto per un approfondimento degno di interesse.

Quell’uomo […] non predicava né l’odio né l’inimicizia, ma nella sua orgogliosa umiltà era persuaso che, se la sua dottrina fosse attecchita, come per incanto sarebbe sbocciata una condizione umana molto simile a quella del paradiso terrestre […] Il suo primo comandamento suonava: “Non uccidere!”, ma egli non lo riferiva solo agli uomini e agli animali: lo intendeva come una sconfinata venerazione di ogni essere vivente. Ammazzare un animale gli sembrava un atto orribile e disgustoso e credeva fermamente che, una volta conclusosi l’attuale periodo di degenerazione e di cecità, il genere umano si sarebbe nuovamente astenuto da questo delitto. Era per lui un’empietà anche il solo strappare un fiore o il tagliare una pianta. Reichardt, evidentemente, obiettò che, senza abbattere gli alberi, noi non potremmo nemmeno costruirci una casa ed ecco il frugivoro annuire con calore.

“Giusto!”, disse. “Molto giusto! Non dobbiamo avere una casa e nemmeno vestiti. Le case e i vestiti ci allontanano dalla natura e fanno nascere in noi altri bisogni che, a loro volta, sono causa di assassinii, di guerre e di vizi”.

A quelle parole Reichardt tornò a obiettare: “Ma sarebbe difficile, senza casa e senza vestiti, sopravvivere a un inverno con il nostro clima!”.

E l’ospite sorrise di nuovo e, visibilmente allegro, riprese: “Bene! Bene! Vedo che lei non mi ha frainteso. Infatti, la fonte principale di tutte la miseria del mondo ha avuto inizio il giorno in cui l’uomo ha abbandonato la sua culla e la sua patria naturale nel grembo dell’Asia. Il fine dell’umanità è, appunto, ripercorrere questo cammino a ritroso e allora noi tutti torneremo a vivere nel giardino dell’Eden”. (H. Hesse, Monte Verità, SugarCo Edizioni, Milano 1988, pp. 71 – 73)

Con questa frase si conclude l’intervento del “vegetariano seminudo” e il racconto prosegue con altre vicende.

Nelle poche parole pronunciate dal “frugivoro”, a parte l’inesatta collocazione geografica della culla dell’umanità (Asia anziché Africa), è condensata la critica più radicale che si possa pronunciare nei confronti del mito del progresso e della superiorità del genere umano sulle altre specie.

Una tale visione del mondo mi affascinò in passato – ben prima della lettura del testo di Hesse - al punto che pensai di fondare su di essa un movimento culturale dal nome “regressismo” in opposizione al “progressismo” imperante.

Il mito rousseauiano del buon selvaggio mi apparve allora il faro su cui puntare il timone del mio “veliero ideologico”.

Ma anche di fronte alle posizioni più estreme, giustificate dalla gravità della situazione in cui il progressismo ci ha precipitati, mi resi conto che non si doveva abdicare al realismo e al buon senso.

Considerai le difficoltà pratiche che un siffatto cammino a ritroso avrebbe comportato, pur in presenza di una ipotetica (e del tutto improbabile) unanimità di consensi circa la sua intrapresa.

Per inciso anche il protagonista del racconto, Berthold Reichardt, mostra “[…] una certa insofferenza per l’evidente semplicismo di un pensiero fondamentalmente idillico […]”, pur se “[…] amava a suo modo questa filosofia […]”.

Anch’io l’amavo, ma anch’io mi rendevo conto della sua concreta impraticabilità.

Nacque così il “cancrismo”, teoria in cui si riconosce che “la fonte principale di tutte la miseria del mondo ha avuto inizio il giorno in cui l’uomo ha abbandonato la sua culla”, ma in cui si considera anche che tale abbandono non dipese da un atto della volontà, bensì da casuali alterazioni geniche intervenute ai danni del nostro encefalo e che, soprattutto, queste alterazioni hanno provocato una serie concatenata di danni oramai non più riparabili dal nostro intelletto, capace di distruggere ma non di ricostituire l’equilibrio della biosfera.

Il mio ultimo libro, “L’impero del cancro del pianeta”, è dedicato a questo argomento. Affrontando il tema dell’alimentazione di tutta l’umanità e di tutte le macchine costruite dall’uomo, ho cercato di argomentare come la strada dell’aggressione a ogni risorsa del pianeta sia a senso unico: non si può che andare avanti, pena il blocco dei rifornimenti di cibo e di energia a quelle vaste masse tumorali che sono le megalopoli ovunque diffuse.

Ma se la strada sin qui seguita dall’uomo non è percorribile a ritroso, dobbiamo rassegnarci ad andare verso il precipizio senza poter mettere in atto alcuna modifica di percorso?

Sicuramente è da incoraggiare ogni invito a ridurre i consumi e ad adottare stili di vita più rispettosi dell’ambiente che - se posto in atto - potrebbe, quantomeno, rallentare la nostra folle corsa alla devastazione del pianeta.

Ma poiché queste riduzioni e modifiche non sono gradite alla maggioranza della popolazione, la diffusione di una teoria “violenta” come il Cancrismo può forse costituire la cura d’urto necessaria a smuovere le coscienze.

Un ultimo appunto sul discorso del “vegetariano seminudo”.

Il suo primo comandamento suonava: “Non uccidere!”, ma egli non lo riferiva solo agli uomini e agli animali: lo intendeva come una sconfinata venerazione di ogni essere vivente.

Questa è una nobilissima dichiarazione di intenti da un punto di vista etico. Ma l’etica è figlia della ragione umana, la stessa che sta distruggendo il pianeta. Non esiste una analoga legge in natura, laddove il primo comandamento suona “nutriti per vivere”, e il nutrimento deriva pressoché totalmente da sostanze organiche, animali o vegetali. Ho affrontato in parte questo argomento in un precedente articolo (“Carne o non carne? Siamo animali vegetariani o onnivori?”) e ad esso rimando per approfondire gli aspetti relativi alla dieta umana.

Altri hanno messo assai egregiamente in risalto come l’introduzione dell’agricoltura abbia alterato in modo irreparabile gli equilibri del mondo naturale. Si veda in proposito il saggio di Jared Diamond (“Il peggior errore nella storia della razza umana”) e quello di John Zerzan (“Agricoltura”).

Dunque, per concludere, un sentito ringraziamento al “vegetariano seminudo” per il suo intervento, anche se il filo della sua coerenza ideologica non è del tutto lineare. Ma ogni testimonianza di amore per la natura e di repulsione per gli imperanti miti progressisti è da apprezzare e da diffondere risolutamente, in vista dell’avvento di una nuova consapevolezza sulla reale natura della nostra specie.


lunedì 30 novembre 2020

Gli Olobionti alla Conquista del Mondo: Vinceremo!

Un post di Alessandro Chiometti già apparso il 12 Ottobre sul blog molto Cassandrista "Aspettando la Fine del Mondo"

Di Alessandro Chiometti

Vivere Mantova durante il festivaletteratura è sempre una delle migliori esperienze che si può fare in questo paese. Ti dimentichi di molta dell’arretratezza culturale che siamo costretti a vedere giornalmente sui social network e nelle chiacchiere razziste e qualunquiste che ormai imperversano ovunque.

Capita che ti trovi seduto al ristorante vicino al tavolo vicino a Michela Murgia che si alza per abbracciare con affetto la sua amica Lella Costa, che incontri Carlo Lucarelli che non disdegna mai due chiacchiere con i suoi fan su qualche mistero di blu notte, che vedi Jeffrey Deaver scrutare l’architettura di qualche chiesa e magari pensi che sta progettando il plot di qualche suo nuovo thriller.

Soprattutto, visto che la divulgazione scientifica affianca filosofia e letteratura,  divulgatori e scienziati come Guido Barbujani, Telmo Pievani o Piergiorgio Odifreddi sono diventati ospiti fissi del festival ed è sempre un piacere aggiornarsi sulle loro ultime scoperte.

Proprio in una conferenza di Telmo Pievani ci capita di sentire la giovanissima Lynn Chiu che a vederla seduta così giovane al suo tavolo, da italico maschio medio senza speranza di evoluzione, uno pensa: “sarà la stagista!”.  Dopo di che la giovane Ph.D docente di filosofia della scienza,  nonché ricercatrice pluripremiata con il suo inglese perfetto ti dice “Buongiorno olobionti” e ci fa precipitare in un abisso di nuova consapevolezza.

Insomma, quello che la nuova biologia evoluzionistica ci dice, confortata da un buon numero di fatti e di evidenze scientifiche, è che questi bipedi infestanti auto-definitesi “umani” con evidente sprezzo del ridicolo, i quali non sono stanno distruggendo l’unico pianeta che hanno a disposizione ma riescono anche a non accorgersene, non dovrebbero essere più considerati una singola specie ma degli Olobionti per l’appunto. Ovvero: organismi eucarioti multicellulari con più specie di simbionte persistenti.

Dati di fatto? Eccovene uno abbastanza significativo: l’insieme di 70-80 kg di massa corporea che mediamente ci portiamo dietro con la nostra deambulazione ha un numero di cellule batteriche maggiore delle cellule umane. Circa 380.000 miliardi di cellule batteriche contro circa 300.000 miliardi di cellule umane.

Il concetto di Olobionte cerca di spiegare i complessi rapporti simbiotici con questa enorme massa batterica con cui conviviamo; come possiamo pensare che una presenza così invadente non ci condizioni? E soprattutto quando parliamo (ad esempio) di reazioni avverse non previste a qualche tipo di farmaco, di reazioni allergiche non consuete, insomma di anomalie non previste… come possiamo non tenerne conto? La PhD Lynn Chiu ci dice come questo rivoluzioni il concetto di self-non self e di come si dovrebbe passare al modello living with the trouble .

Ma dal punto di vista teorico questo non è l’unico motivo, anzi forse neanche quello più importante. Come cerca di spiegare anche questo articolo dell’università di Padova, se l’uomo è in realtà un olobionte anche il suo genoma sarà un ologenoma ovvero l’insieme dei geni umani e dei geni batterici e deve essere considerato un’unica entità evolutiva.

Sorridiamo ripensando ancora al fatto di come tutto ciò possa avere un impatto sull’eterna discussione “che cosa è la vita”, questione su cui nessuno riesce a trovare una definizione intrinseca per quanto ci sforziamo.

Ovviamente ci sono anche molti critici di questa teoria, che non ritengono necessario arrivare a tanto per spiegare il compelsso rapporto con i nostri ospiti, e che è meglio seguire la strada di comprendere meglio i processi di commensalismo, parassitismo e mutualismo che verrebbero messi in secondo piano se si segue la teoria dell’olobionte.

Perché ovviamente la discussione scientifica sulla scienza è sempre viva, attiva e affascinante. Certo che il problema è che una volta fuori dagli incontri scientifci di Mantova è difficile farlo comprendere  a coloro che non hanno ancor accettato l’idea di essere scimmie nude.

Del resto  anche per le strade di questa illuminata Mantova l’inquietante e invadente presenza dei Testimoni di Geova (uno degli ultimi gruppi di fanatici religiosi che credono ancora al creazionismo biblico), ci riporta alla brusca realtà della nostra specie. Di cui, olobionti o meno, ancora non sappiamo se sia il caso augurarne l’estinzione.

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martedì 24 novembre 2020

Quanta decrescita e per chi? Una valutazione del progetto ECOESIONE


Seconda puntata dedicata al progetto “Ecoesione” dell’Università di Pisa su conversione ecologica e conflitto. Già pubblicato su Apocalottimismo" il 24/10/2020

Di Jacopo Simonetta

Nella prima puntata abbiamo visto alcune delle ragioni per cui un’ulteriore crescita economica non solo è estremamente improbabile, ma sarebbe anche in netto contrasto con l’imperativo di ridurre il più rapidamente possibile l’impatto dell’umanità sul Pianeta. Sarebbe anche prodromo di maggiore conflittualità sociale poiché, salvo opportuni provvedimenti, con ogni probabilità contribuirebbe ad accrescere ulteriormente le differenze di reddito.

Ma se la crescita ha il potere di mitigare i conflitti sociali, la decrescita ha l’effetto opposto, specialmente se, mentre i più decrescono, alcuni continuano a crescere in ricchezza e potere. Non è certo l’unico fattore in gioco, la struttura demografica è anche più importante nel favorire la violenza, ma resta comunque una delle forzanti importanti di cui occuparsi. 

Ogni società elabora i propri criteri per decidere cosa è giusto e cosa no, ma sempre vi è un limite oltre il quale la classe dirigente cessa di essere considerata una guida e comincia ad essere vista come un parassita. Di qui la seconda domanda che pongo: Quanta decrescita e per chi? 

La decrescita è un concetto alieno, tanto che la parola stessa è un neologismo di assai recente invenzione e gli stessi suoi fautori si affrettano a specificare che, sostanzialmente, si tratta di fare a meno del superfluo, guadagnando però in termini di qualità della vita grazie al venir meno del consumismo compulsivo. Che il consumismo sia una strategia basata sulla cronicizzazione di una stato di frustrazione e solitudine non ho dubbi, ma la questione di quanto sia necessario decrescere per evitare il collasso planetario è parecchio più complicata. Vediamo alcuni dei punti che credo dovrebbero essere tenuti in conto. 

Quanto bisogna decrescere? Una serie di indicatori concordano nel suggerire che l’umanità nel suo complesso abbia superato la capacità di carico del pianeta nei primi anni ’70. Vale a dire che sono circa 50 anni che l’effetto combinato di popolazione, consumi e tecnologia ha superato la “capacità di carico” del Pianeta, avviandone un degrado progressivamente accelerato. Moltissime specie, soprattutto di grande fauna, erano già state eliminate dai nostri antenati fin dal tardo paleolitico, ma fino ai primi anni ’70 questo non aveva messo in forse il permanere sulla Terra di condizioni chimico-fisiche compatibili con la vita. A far data da allora invece si. 

Di qui l’imperativo, ossessivamente ed inutilmente ribadito ad ogni occasione, di riportare gli impatti complessivi, far cui le famigerate “emissioni climalteranti”, entro dei limiti di sicurezza. Ma se cinquant’anni or sono questo sarebbe stato sufficiente, oggi non lo è più perché nel frattempo biosfera, atmosfera e idrosfera sono state pesantemente modificate cosicché, per consentire al pianeta di recuperare, sarebbe oggi necessario riportare l’impatto antropico ben al di sotto di quella soglia.

Tanto per farsi un’idea di larga massima possiamo comunque darci l’obbiettivo di riportare i nostri consumi globali a quelli di 50 anni or sono. Non dovrebbe essere molto traumatico, visto che chi c’era non ha un cattivo ricordo di allora, per non parlare dei miliardi di persone che vivono ben al di sotto dello standard europeo degli anni ’60 e che, quindi, avrebbero un buon margine di miglioramento. Ma non è così semplice. 

Un calcolo preciso sarebbe molto complicato ed aleatorio, ma per farsi un’idea molto approssimativa basta pensare che, da allora, la popolazione è più che raddoppiata, così come i consumi medi pro capite. Ne consegue che, per tornare all’impatto antropico di allora occorrerebbe ridurre ad un quarto i consumi medi attuali. Significherebbe un livello di consumo analogo a quello attuale della Moldavia, per avere un’idea molto approssimativa. Una cosa che non sarebbe certo indolore, soprattutto per noi euro-occidentali, e che ci porta direttamente nel cuore dei possibili conflitti sociali ed internazionali legati a politiche (per ora ipotetiche) di sufficiente riduzione dei consumi.

Chi deve decrescere fra classi. Una così drastica riduzione dei consumi medi può avere effetti estremamente diversi a seconda di come vengono ripartiti fra le classi sociali, dal momento che anche nei paesi più poveri ci sono ricchi e ricchissimi. Anzi, è proprio in questi stati che le disparità di reddito raggiungono l’apice (ad oggi, la UE ha uno dei livelli di sperequazione minori al mondo). 

Secondo la vulgata, per risolvere la situazione sarebbe sufficiente tassare pesantemente i super-redditi e super patrimoni per ridistribuire il denaro fra i poveri, ma ancora una volta non è così semplice. 

Innanzitutto, se ci fidiamo di Piketty che parla dell’Europa, per quanto spropositati, i super redditi sono troppo pochi per fornire un gettito fiscale adeguato ai bisogni. Bisognerebbe quindi estendere le super-tasse ad un buon 10-20% della popolazione, vale a dire all’intera classe dirigente. La probabilità che ciò avvenga è estremamente ridotta, malgrado questo porterebbe indubbi vantaggi proprio all’élite in termini di recupero di credibilità e di legittimità. 

Inoltre, proprio i patrimoni ed i redditi maggiori sono i più difficili da accertare e “catturare”, come dimostrato dal fatto che un miliardario come Trump non solo può impunemente eludere le tasse in un paese assai severo con gli evasori, ma addirittura diventarne il capo.

Comunque, anche immaginando una “Robin Tax” efficace, non è affatto detto che la ridistribuzione del reddito verso il basso sia compatibile con lo scopo dichiarato di ridurre gli impatti antropici. E’ infatti certamente vero che i ricchi consumano e inquinano più dei poveri, ma stimare quanto non è così semplice come Oxfam sostiene con la sua pubblicazione che è perfettamente condivisibile sul piano politico, ma che ha ben poco valore su quello scientifico. 

Anzi, uno dei meccanismi automatici che portano alla crescita spropositata dei massimi patrimoni, mentre quelli relativamente modesti rendono poco, è proprio il fatto che i grandissimi capitalisti possono devolvere in consumi solo una piccola parte dei loro redditi, cosicché ne reinvestono una percentuale tanto maggiore, quanto più grande è il patrimonio accumulato. Un classico anello a retroazione positiva; uno dei tanti annidati nel cuore del capitalismo. 

Inoltre, dal punto di vista ambientale, il risultato sarebbe diverso a seconda di come la ricchezza vaisse distribuita. Per esempio, se super-tassassimo alcune persone ed imprese europee per distribuire il ricavato fornendo trasporti pubblici gratuiti i consumi diminuirebbero. Viceversa, se lo distribuissimo sotto forma di “ecoincentivi” per l’acquisto di auto elettriche i consumi presumibilmente aumenterebbero.

Comunque, al di là delle questioni di dettaglio, rimane il fatto che ridurre di molto il potere d’acquisto di poche persone per aumentare di poco quello di molte probabilmente manterrebbe i consumi costanti. 

Anzi c’è il rischio che li incrementi e, con essi, probabilmente, anche la natalità. Per dirla con un aforisma: la sostenibilità si persegue impoverendo i ricchi, non arricchendo i poveri. Un fatto che in molto subodorano e che cementa quindi una singolare alleanza proprio fra i ricchi (che non vogliono rinunciare ai loro privilegi) e molti poveri e medi (che non vogliono rinunciare al sogno di arricchirsi o, perlomeno, di mantenere lo status quo).

Chi deve decrescere fra stati. E’ perfettamente vero che noi occidentali, chi più chi meno, abbiamo sfruttato ignobilmente altri popoli e paesi per lungo tempo. Ed è vero che, anche se la palma della maggiore potenza coloniale mondiale sta passando in mano cinese, una parte consistente del nostro residuo benessere deriva ancora da accordi commerciali a noi favorevoli. Sono quindi giustificate le rivendicazioni di altri paesi e il desiderio di una parte degli europei di porre fine a questa situazione, ma difficilmente si tenta di analizzare a fondo le implicazioni di una simile operazione. 

Noi occidentali siamo stati, complessivamente, i più ricchi e potenti del mondo per talmente tanto tempo da credere che questo sia un fatto naturale ed irreversibile. Non è stato così in molti periodi della storia e non è scritto da nessuna parte che debba restare così per sempre. Anzi, abbiamo ben visto che nel giro di appena 20 anni abbiamo perso parecchie posizioni. Anche questo è un fattore di tensione e di possibile conflitto, stavolta su di un piano internazionale, ma c’è un problema anche maggiore: una rapida decrescita comporterebbe una riduzione del peso politico, economico e militare dello stato, in un contesto di crescente conflittualità non solo con paesi e governi tradizionalmente ostili, ma anche fra paesi che vantano decenni di ottimi rapporti. 

Si possono pensare dei sistemi per gestire la questione riducendo i rischi, ma occorre che il problema sia tenuto ben presente e analizzato senza nascondersi il fatto che molti degli stati nostri vicini sono destinati, comunque, ad attraversare fasi di violenza estrema e che non è assolutamente detto che questo non ci coinvolga, in un modo o nell’altro. Come non è assolutamente detto che le potenze maggiori decidano di non approfittare della nostra debolezza, come noi approfittiamo di quella altrui. In particolare mi preoccupano sia gli USA che la Cina che, impegnate nello scontro per la supremazia mondiale, stanno facendo di tutto per colonizzare l’Europa ancor più di quanto non abbiano già fatto.

Impatti su settori irrinunciabili. Quando si parla di abbandono del petrolio, si parla di energia per uso domestico, di agricoltura, trasporti ed altro, ma vi sono interi settori vitali di cui non si parla mai. Qui mi limiterò a citarne uno solo: la sanità. Oggi, soprattutto in Europa ma non solo, praticamente chiunque ha accesso ad un livello di cure che un re od un miliardario di soli 50 anni fa neppure si immaginava e questa è considerata una delle conquiste principali ed irrinunciabili del progresso. Solo che tutto ciò di cui vive il sistema sanitario (medicinali, ospedali, materiali di tutti i generi, protesi ecc.) proviene direttamente o indirettamente dal petrolio e non ci sono alternative possibili, neppure in prospettiva. 

In un'ottica di rapida e radicale decabonizzazione, sarebbero anche altri i settori socialmente vitali ad andare in forte crisi. Diciamo che l’intero sistema di welfare (Sanità, sussidi, pensioni, ecc.), già fortemente sotto stress, diventerebbe impossibile da mantenere. 

Si potrebbe pensare di conservare una modesta estrazione petrolifera per soddisfare questi e gli altri bisogni per i quali non vi sono alternative, ma non sarebbe possibile; perlomeno non in un’economia di mercato perché, venendo meno le economie di scala, i costi diventerebbero impossibili.

Impatti demografici. Senza qui indugiare su di un tema così complesso, ignorare o trattare sulla base di comodi luoghi comuni uno dei fattori principali in gioco, anzi IL fattore principale in gioco, è come pensare di cucinare una torta usando zucchero e lievito, ma senza farina. Vale quindi la pena di ricordare che la sovrappopolazione non è un fatto assoluto, bensì relativo in quanto dipende certamente dal numero di persone, ma anche dalla struttura della popolazione, dalle condizioni economiche, dal livello tecnologico e dalla capacità di carico del territorio in questione. Il ultima analisi, è il rapporto fra impatti antropici complessivi ed ambiente che determina lo stato di sovrappopolamento. 

Tendenzialmente, la crescita economica, anche se “verde”, favorisce la natalità, riduce la mortalità e favorisce l’immigrazione. Il contrario di solito avviene quando la crescita finisce, ma gli effetti reali sono difficili da prevedere perché dipendono anche da molti altri fattori politici, sociali e culturali. 

Resta comunque il fatto che, di solito, la crescita demografica segue quella economica con un'inerzia che tende ad erodere i vantaggi raggiunti, generando situazioni di stress sociale particolarmente gravi se associati ad un vistoso “bubbone giovanile”. Masse di giovani senza reali sbocchi professionali sono infatti un viatico sicuro per un elevato grado di turbolenza e di conflittualità, finanche estrema come già stiamo vedendo in molti dei paesi maggiormente prolifici, alcuni molto vicini a noi.
 

Comunque, modifiche sensibili nelle condizioni di vita hanno sempre conseguenze demografiche, anche se si riescono ad evitare scoppi di violenza. Per fare un esempio pratico, l’aspettativa di vita in Italia è oggi di circa 83 anni, mentre nei citati anni ’70 era di 72; quella odierna della Moldavia è di 76. Ciò non significa che qui accadrebbe lo stesso che là, oppure che si torni indietro nel tempo, ma la correlazione fra consumi e aspettativa di vita è stretta e ben motivata. Certo, se volendo essere cinici, una riduzione della vita media sarebbe un considerevole vantaggio economico sia per i governi che per i giovani, ma politicamente la questione è improponibile, tanto è vero che si evita accuratamente anche solo di farvi cenno.

Uno dei libri più straordinari mai scritti è “I Limiti della Crescita” che dopo 50 anni non solo non è invecchiato affatto, ma anzi è più di attualità che mai. Decenni di verifiche e controlli sui dati reali hanno infatti confermato oltre ogni possibile dubbio l’esattezza dell’impostazione di quel lavoro e che quello che oramai stiamo vivendo sono le prime fasi di un collasso dell’intera civiltà industriale mondiale. Questo significa che una brutale decrescita non è più una scelta, ma un fatto ineluttabile e nasconderselo non ci aiuterà a sopravvivere.

La buona notizia è però che, anche se oramai è troppo tardi per evitare il “Picco di Tutto”, siamo ancora in tempo a mitigare i danni del “rientro” entro quei limiti che abbiamo cercato di esorcizzare negandoli, con l’unico risultato di sfracellarci contro di essi alla massima velocità possibile.

Ma, si obbietta spesso, se si ammette che il collasso sia ormai inevitabile (fatto sul quale molti peraltro dissentono energicamente), a che pro darsi da fare? E’ una strana obbiezione perché è proprio quando la nave affonda che c’è il massimo di lavoro da fare, non quando la crociera procede tranquilla.

Di questo parleremo nel terzo ed ultimo episodio.

mercoledì 18 novembre 2020

Conversione ecologica e conflitto. La Contrazione Pianificata dell'Economia

Articolo già apparso su Apocalottimismo in data 16 ottobre 2020.

Di Jacopo Simonetta

Recentemente, l’Università di Pisa ha avviato un interessante progetto di ricerca, chiamato “Ecoesione”. In sintesi, si tratta di capire quali impatti sociali negativi potrebbero venire da effettive politiche di contrasto al cambiamento climatico per poterli prevenire o, perlomeno, mitigare e gestire, evitando l’esplodere della violenza.

Trovo la cosa molto interessante perché, anche se i pareri su quali provvedimenti siano necessari spesso divergono, tutti concordano che siano indispensabili ed urgenti cambiamenti drastici e rapidi a tutti i livelli ed in tutti i settori. Ed ogni volta che qualcosa cambia, qualcuno ci guadagna ed altri ci perdono, sempre. E’ quindi normale che i perdenti si oppongano con tutti i mezzi a loro disposizione e non è neppure detto che abbiano tutti i torti. Per esempio, i disordini fomentati dai “Gilets Jaunes” hanno finito con l’essere strumentalizzati dall’estrema destra, ma non erano nati per questo e, neppure, sono stati una banale rivolta contro le politiche di contrasto al GW, come qualcuno ha detto. La rivolta aveva infatti radici profonde nella discriminazione molto francese fra Parigi e “provincia”, nell’impoverimento della piccola borghesia e dei lavoratori, nel venir meno di molti servizi in vaste zone della Francia rurale; per non parlare dell’atteggiamento spesso spocchioso di Macron.

Insomma, il rincaro del prezzo del gasolio è stata la classica “goccia che fa traboccare il vaso” per una massa di persone che già vive in condizioni disagiate e che per le proprie necessità (lavoro, acquisti, scuola, sanità, ecc.) dipende interamente da vecchie macchine diesel che non si può permettere di cambiare.

Il progetto dell’Unipi si prefigge esattamente questo: evitare errori di questo genere.
Partecipare come “stakeholder” alla riunione di avvio ufficiale del progetto mi ha suggerito tre domande che, credo, sarebbe utile discutere proprio approfittando dello staff d’alto profilo schierato per questo progetto. Le tre domande che pongo sono queste:

1 – Crescita o non crescita?
2 – Quanta decrescita e per chi?
3 – Bisogna superare il capitalismo?
 

In rapporto ad ognuna di queste avanzerò alcune osservazioni, in tre puntate per ridurre il tedio degli eventuali lettori. Niente di nuovo, ma sono aspetti che in molte discussioni si tende a dimenticare.

Crescita o decrescita?

Konrad Lorenz fece notare che l’uomo odierno è tenuto in scacco da una serie di atteggiamenti mentali profondissimamente radicati in ognuno di noi, forse addirittura a livello genetico. Atteggiamenti che in passato hanno favorito il successo della nostra specie, ma che nel contesto attuale la stanno invece portando diritti verso il disastro. Fra questi, dedica un capitolo all’ Amore per la Crescita. Niente ci da gioia come vedere crescere ciò che si ama: la propria famiglia, il gregge, i libri della biblioteca, il conto in banca, i fiori del giardino e qualunque altra cosa cui teniamo.
In relazione alla crescita economica, a questa atavica passione si aggiunge l’oggettiva esperienza degli indiscutibili vantaggi materiali che questa porta con sé.

Per questo, di solito, i promotori di una qualunque variante di “transizione ecologica” parlano apertamente di “crescita verde” o, perlomeno, lasciano intendere che sia possibile salvare la Biosfera ed il clima, pur rilanciando quella crescita economica che dovrebbe risolvere tutti i nostri problemi.

Siamo sicuri che sia possibile e, se si, che sia compatibile con lo scopo prefissato di fermare la catastrofe ambientale planetaria? L’argomento ha una valenza politica di primo livello ed è infatti molto dibattuto, spesso trascurando alcuni fattori particolarmente sgradevoli, ancorché ben noti.
Limiti delle energie rinnovabili. Troppo spesso si da per scontato che le energie rinnovabili possano sostituire quelle fossili semplicemente mediante sufficienti investimenti, ma non è così.

Innanzitutto, per essere usata, l’energia deve essere prima concentrata cosa di cui, nel caso delle fossili, si sono incaricati i movimenti tettonici nel corso di milioni di anni. Nel caso delle rinnovabili dobbiamo invece farlo noi mediante opportuni mezzi tecnici che ci sono, ma che occorre pagare e che, per funzionare, dissipano parte dell’energia captata. Non possono quindi avere lo stesso rendimento termodinamico delle fossili.

In secondo luogo, sono intermittenti e necessitano quindi di opportuni sistemi di accumulo ed una forte ridondanza di tutte le strutture. Le tecnologie disponibili sono molte ed efficaci, ma tutte comportano un aumento dei costi e dei materiali impiegati, una perdita di efficienza ed un aumento degli impatti ambientali.

Anche le energie rinnovabili hanno infatti degli impatti ambientali sia diretti (per esempio la distruzione di intere valli, fiumi e torrenti mediante le dighe), sia indiretti per l’estrazione e la lavorazione dei materiali con cui vengono costruite e manutenzionate. Oggi sarebbe impossibile realizzare e mantenere efficienti impianti fotovoltaici, dighe e pale eoliche senza disporre di grandi quantità di energia fossile a buon mercato. In futuro potrebbe forse cambiare, ma si entra nel campo della fantascienza.




Infine, oggi le energie fossili coprono poco meno dell'80% dei consumi globali, il legname (la cui rinnovabilità è molto parziale) un altro 9% ed il nucleare poco più del 2 %. Complessivamente, le rinnovabili vere coprono meno del 10% dei consumi attuali (il fotovoltaico circa lo 0,1%).
Semplicemente, non è pensabile una vera transizione energetica senza una molto sostanziale riduzione dei consumi finali, mentre questi continuano ad aumentare. Infatti, ed è il punto più critico di tutti, finora le nuove fonti energetiche non hanno sostituito quote di energia fossile, ma si sono aggiunte a quelle, comunque in crescita. Ma l’impatto complessivo, non solo climatico, dell’umanità sul Pianeta dipende prima di tutto proprio dalla quantità complessiva di energia che dissipiamo.

Limiti del disaccoppiamento. 

Secondo la vulgata, la chiave per mantenere, anzi migliorare le condizioni di vita dell’umanità e, contemporaneamente, ridurre i consumi di energia è il progresso tecnologico che assicurerà un crescente disaccoppiamento. Vale a dire una maggiore produzione di beni e servizi a fronte di minori consumi.

Una approfondita metaricerca ha però dimostrato che si tratta in buona misura di leggende metropolitane. In realtà, i casi documentati di effettivo disaccoppiamento sono molto pochi e molto parziali. Al massimo, abbiamo un lieve disaccoppiamento relativo, vale a dire che i consumi crescono meno della produzione, ma crescono comunque e noi li dobbiamo ridurre.

Si potrà obbiettare che, anche se un vero disaccoppiamento non si è ancora visto, l’efficienza della produzione è comunque aumentata e continua ad aumentare, permettendo di contenere la crescita dei consumi, tanto di energia quanto di materiali (la cosiddetta “dematerializzazione”). Ma anche questo non è vero, se non forse, in qualche caso. Il punto qui è il cosiddetto “effetto rebound” (alias “Paradosso di Jevons”). L’osservazione empirica dei dati storici, dall’introduzione del motore Watt nel 1782 ad oggi, dimostra che l’effetto è anzi contrario: l’aumento dell’efficienza riduce i costi di produzione e di uso di beni e servizi, così da renderli disponibili per masse crescenti di persone. Il risultato finale è quindi un aumento e non di una riduzione dei consumi di energia e materiali. Questo operando in un’economia di mercato; cambiando il contesto politico ed economico le cose potrebbero anche andare diversamente, ma questo ci rimanda alla terza domanda.

Comunque, anche al di la delle esperienze finora maturate, ci sono vincoli fisici invalicabili che ci assicurano che un vero disaccoppiamento non è fattibile, perlomeno non su di una scala neppure lontanamente prossima a quella necessaria. L’unico modo per ridurre i consumi in misura adeguata è quindi ridurre considerevolmente la produzione di beni e servizi, una faccenda molto spinosa da proporre ed ancor più da gestire anche perché accadrà comunque, anzi sta già accadendo in buona parte del mondo, malgrado gli sforzi dei governi.

Limiti dell’economia circolare. 

Il secondo pilastro su cui si regge il sogno di una “green economy” è la chiusura dei cicli produttivi mediante il completo riciclaggio dei rifiuti. E’ certamente vero che in questo campo ci sono ampi margini di miglioramento (a condizione però di ristrutturare radicalmente il mercato e la fiscalità), ma un riciclaggio del 100% non è possibile neppure in via del tutto teorica. Ad ogni ciclo una parte del materiale va inevitabilmente perduto, quali che siano le tecnologie usate ed i finanziamenti disponibili. Perciò un’economia circolare è necessariamente un’economia che utilizza una quantità costantemente decrescente di materiale, oppure che preleva una quantità crescente di materie prime in natura.

Naturalmente non tutti sono d’accordo e molti sostengono che invece è possibile perché il progresso tecnologico consente di ridurre progressivamente la quantità di materiali usati per ogni singolo oggetto.
Il che è vero, ma il vantaggio si perde se si fabbricano più oggetti per più persone. Non solo: la riduzione della quantità di materiale incorporato in ogni singolo oggetto ha talvolta effetti deleteri sulle possibilità di riciclare i medesimi.

Insomma, si potrebbe fare molto per ridurre l’estrazione di minerali, biomassa, ecc. dall’ambiente, ma anche da questo punto di vista, per tornare veramente entro dei limiti di effettiva sostenibilità, bisognerebbe pianificare una consistente contrazione della produzione, con tutto ciò che ne consegue.

Limiti non energetici all’economia. I sostenitori del Green New Deal si focalizzano soprattutto sull’energia. Giustamente perché senza energia non si fa nulla, ma esistono anche altri limiti all’economia. Due di cui si parla comunque assai sono la disponibilità di materie prime e la capacità di smaltire i rifiuti, ma ne esiste un altro di cui non si parla praticamente mai: l’integrità funzionale della Biosfera che ci assicura quelli che riduttivamente chiamiamo “servizi ecosistemici”. Sono questi, infatti, che assicurano non solo la disponibilità delle risorse rinnovabili, l’assorbimento della CO2, la trasformazione finale dei rifiuti e molto altro, ma soprattutto consentono che sulla Terra si mantengano condizioni chimiche e fisiche compatibili con la vita biologica. Per essere chiari, il collasso della Biosfera (forse già iniziato e certamente non lontano) comporterebbe (o comporterà?) anche l’estinzione della nostra specie o, perlomeno, la scomparsa definitiva dei presupposti per l’esistenza di una qualunque civiltà.

Civiltà senza petrolio ce ne sono infatti state migliaia; invece civiltà senza acqua, suolo, foreste, biodiversità, ecc. non ce ne sono mai state, né mai ce ne saranno. Anzi, sono molte le società che si sono estinte proprio perché hanno eccessivamente degradato la Biosfera nel loro territorio. La differenza è che finora si è trattato di catastrofi locali o regionali, mentre oggi qualcosa del genere sta avvenendo a livello planetario.

In definitiva, direi che la risposta alla prima domanda è che pianificare una robusta contrazione dell’economia sia una delle condizioni necessarie affinché un progetto di transizione sia realistico. Ciò condurrebbe sicuramente al conflitto, solo che ogni altra possibile strategia è destinata al fallimento e dunque ad un conflitto ancor più grave. Il che ci porta alla prossima domanda: Quanta decrescita e per chi? Ne parleremo la prossima settimana.