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mercoledì 4 marzo 2020

Filtri identitari, nazionalismo e crisi ecologica




Un post di Federico Tabellini

Nei momenti di grande incertezza, negli esseri umani cresce il bisogno d'identità. Gli eventi politici recenti, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, ne sono la prova. Uno spirito anti-globale e localistico ha preso d’assedio le due sponde dell’atlantico. Nonostante la globalizzazione dell’informazione, e forse in parte per sua causa, lo stato-nazione – questo binomio in apparenza inscindibile nel nostro tempo – è riemerso prepotentemente come il frame interpretativo egemone sulla realtà: un vero e proprio manto ideologico che ricopre ogni cosa, alterandone la fisionomia.

Gli stati fanno appello all’identità nazionale per rafforzare la propria coesione interna. Le nazioni che non sono organizzate in stati (la Catalogna, per esempio) rivendicano un riconoscimento istituzionale: vogliono costituirsi come stati. Oggi più che quindici anni fa, vediamo attraverso le lenti distorsive dello stato-nazione, ci sentiamo parte di esso, e in base a esso ci auto-definiamo nelle nostre interazioni con gli altri. Persino chi nel proprio intimo non vede, non sente e non si definisce in rapporto allo stato-nazione, ne è costretto nei propri rapporti sociali da un lessico culturale comune. L’alternativa è l’incomprensione, l’isolamento socio-semantico. Siamo italiani, cinesi, statunitensi o indiani prima che esseri umani. La domanda ‘sei italiano?’ utilizza il verbo essere in quasi tutte le lingue indoeuropee. Se l’io è un individuo, il noi, quando non specificato, è una nazione; il loro è una nazione.

L’identità, è fatto noto, nasce dalla distinzione. Per fare parte di qualcosa, occorre auto-escludersi da una realtà più ampia. La mera somiglianza raramente accende la scintilla identitaria. Tutti siamo umani, solo alcuni sono italiani: per ciò, mentre con la specie umana non intratteniamo una relazione emozionale, essere italiani è un sentimento identitario. Essere italiani è un’esperienza, essere umani una mera constatazione. Sappiamo di essere umani ma sentiamo di essere italiani. E poco importa che essere umani costituisca una realtà tangibile, biologica, laddove essere italiani rappresenti un mero costrutto storico-culturale. I costrutti storico-culturali appaiono spesso più reali della realtà, non è forse vero?

Sì – è vero –, ma cosa c’entra tutto questo con i temi trattati sul blog? C’entra, c’entra eccome. La rinnovata importanza delle identità nazionali si ripercuote sul modo in cui i grandi problemi del presente vengono non solo percepiti, ma anche affrontati (o  ignorati). I problemi locali diventano magicamente problemi nazionali, problemi degli italiani. Lo stato se ne deve assumere la responsabilità legale, certamente, ma sono gli individui ad attribuire ad esso una responsabilità morale. E i problemi globali, o anche solo transnazionali, non avendo un referente identitario chiaro cui fare appello, sono avvertiti come seccature esterne da delegare, o di cui liberarsi al più presto. La colpa è degli indiani, si dice, dei cinesi, o di un altro esterno che, guarda caso, è sempre rinchiuso nei confini semantici dello stato-nazione.

In Italia tanto il voto alle elezioni regionali quanto quello alle europee è di norma ridotto a un terreno di prova per le elezioni nazionali, le uniche che sembrano avere valore. La stampa e i media di massa privilegiano le notizie di portata nazionale, relegando alle pagine interne tanto quelle locali quanto quelle di portata globale, oppure ponendo l’attenzione su loro aspetti di livello nazionale. I problemi degli italiani diventano così più importanti di quelli dei milanesi o degli europei. La crisi ecologica globale, invece, acquista cogenza e riceve la maggiore attenzione solo quando la sempre più frequente alluvione o (inserisci-qui-un-disastro) colpisce la penisola.

Il doppio binario con cui si considera lo stato-nazione e qualsiasi altra entità politica fa sì che una riforma sgradita a livello europeo spinga ampie frange della popolazione a voler mandare all’aria l’intera Unione, laddove la medesima riforma a livello nazionale provocherebbe al più la richiesta di un cambio nella gestione dello stato. Dai problemi sovra-nazionali si scappa, solo i problemi nazionali vengono affrontati – spesso male, ma questo è un altro discorso. Tale atteggiamento è uno dei principali fattori alla base della paralisi politica di fronte alle grandi sfide globali del nostro tempo, crisi ecologica in primis. (E la colpa del fallimento, superfluo ribadirlo, è sempre dell’altro, e l’altro è sempre, immancabilmente, uno stato-nazione).

Vuoi un esempio? Eccone qua uno: accecati dalla nostra visione stato-centrica del mondo, dimentichiamo che i cinesi, pur contribuendo per un quarto alle emissioni globali di Co2, inquinano assai meno degli statunitensi, che concorrono per un ‘mero’ 15%. Eh sì, perché i cinesi sono 1 miliardo e 400 milioni, gli statunitensi ‘solo’ 320 milioni. Però a noi usare gli stati come metro di giudizio fa assai comodo. Utilizzare le emissioni pro capite come metro di giudizio farebbe ricadere la responsabilità sui nostri consumi, sui nostri stili di vita insostenibili. Utilizzare gli stati ci permette di andare in piazza a protestare contro il riscaldamento climatico dopo un pranzo veloce al MacDonald. Grazie alla loro visione stato-centrica del mondo, gli statunitensi possono illudersi di essere virtuosi. Loro (il ‘popolo americano’, non i singoli americani) inquinano meno dei cinesi! E gli australiani? Hanno le più alte emissioni pro capite al mondo dopo l’Arabia Saudita, ma ci sono solo 25 milioni di australiani. Un altro popolo virtuoso. 

Se solo avessimo il coraggio di scostarci per un istante dagli occhi le nostre preziose lenti identitarie, il mondo ci apparirebbe diverso, assai diverso. Chissà, potremmo persino arrivare a condannare gli australiani più dei cinesi, i tedeschi più degli italiani, gli italiani più degli indiani. Ma sarebbe un errore. Perché non è questo il punto. Non il principale, almeno. Il punto è che sono gli individui che inquinano, non i popoli. Ciò non vuol dire che i governi nazionali, in quanto nucleo del potere politico globale, non abbiano la responsabilità più grande di avviare il cambiamento. Significa però che la ripartizione dell’onere di quel cambiamento non può avere come punto di riferimento esclusivo gli stati. Dividere la popolazione mondiale per le emissioni globali e vedere di quanto sono superiori a un livello di emissioni pro capite sostenibile per il pianeta, e usare quel numero come referente individuale, ha più senso che parlare delle emissioni della Cina, dell’India e degli Stati Uniti. È anche probabile che ci faccia passare dalla parte del tort… ah! Hai visto com’è facile? Ci sono quasi cascato anch'io. Stavo parlando ancora di noi-italiani; mi stavo rimettendo le lenti davanti agli occhi. Invece proviamo a guardarci come individui, e a giudicarci come tali, e a usare un plurale (se proprio dobbiamo) che trascenda i confini immaginari delle nazioni. Un plurale inclusivo, che responsabilizzi tutti in egual misura, senza discriminare secondo la categoria più idiota di tutte: il luogo di nascita. Dovremmo farlo a maggior ragione in questo momento d’incertezza, di crisi identitaria (espressione paradossale, visto che l’identità l’alimenta, la crisi).

Noi europei, che in gran parte non sentiamo di esserlo, ripudiamo l’Europa invece di renderla, come sarebbe auspicabile, il fulcro  di uno sforzo comune e coordinato verso il cambiamento. Ci rifugiamo nei nazionalismi, quando ciò di cui avremmo disperatamente bisogno è un meta-nazionalismo che ponga al centro l’essere umano. Un eco-umanismo globalizzato che ci faccia vedere il mondo in termini di individui (presenti e futuri) e specie – non solo quella umana, ma anche le numerose altre che stiamo distruggendo giorno per giorno –, anziché in termini di nazioni. Un meta-nazionalismo che ci faccia sentire più europei che italiani, e più umani che europei. E che ci faccia vedere in faccia la realtà.

Come dici? Non riesci proprio a vederla? Guarda qua, l’ho compressa in una frase e ripulita per bene dalle incrostazioni sovraniste, che di questi tempi quelle si appiccicano ovunque come la muffa. Ecco, sta qui sotto:

‘Il futuro dell’Europa conta più del futuro dell’Italia, e il futuro del pianeta infinitamente più di entrambi.’

Abbiamo fatto l’Italia, abbiamo fatto gli italiani. Ora è tempo di fare l’Europa e gli europei, e l’umanità soprattutto, e gli esseri umani.

domenica 24 febbraio 2019

Fischiettando sulla via del declino

 
Di Federico Tabellini
 

Nel 2018 è uscito un nuovo episodio di Star Wars, il principe Harry si è sposato, la Francia ha vinto i mondiali di calcio. Tutti lo sanno, tutti ne parlano. Sono senza dubbio le notizie più importanti dell’anno. 
L’IPCC ha rilasciato il suo Special Report on Global Warming, annunciando che ‘cambiamenti rapidi, profondi e senza precedenti in tutti gli aspetti della società’ sono necessari per assicurare che l’aumento della temperatura globale non superi i 1,5 gradi Celsius. Alcuni amici mi hanno riferito di averlo sentito in TV, fra l'ultimo singolo di Katy Perry e il nuovo maglione del ministro dell’interno. Non ricordano bene. La solita solfa del clima, dicono.

Comunque il matrimonio del principe Harry nella cappella di St. George in Inghilterra è stato seguito in diretta da 1,9 miliardi di persone! La mia vicina di casa ne parla ancora oggi. 

Le chiedo se è a conoscenza delle tre specie di uccelli che si sono estinte nel 2018. Mi guarda stranita. Le dispiace. “Com’è potuto succedere?”, chiede. Le ricordo che da tempo le estinzioni di specie animali procedono a una velocità migliaia di volte superiore alla norma. Non mi crede. Il giorno dopo torna a parlarmi del principe Harry. Pare sia in crisi con la sua nuova sposa. Terribile, dico. Puoi dirlo forte, risponde.

Il nuovo leader brasiliano ha deciso che la foresta amazzonica è un buon posto per tagliare legna e creare piantagioni. Gli indigeni si fottano. La crisi climatica è un’invenzione della sinistra. "Eh, gli americani...", mi sussurra il giornalaio sorridendo, alzando per un istante lo sguardo dalla Gazzetta.

I campionati mondiali di calcio in Russia sono stati seguiti da circa 3,5 miliardi di persone! Le urla eccitate si sono sentite sin da casa mia, ogni sera, per settimane. Non c’era giornale che non vi dedicasse pagine e pagine. Nelle strade festeggiamenti, e facce buie per chi ha visto la propria squadra sconfitta. (Qui a Barcellona non tengono tutti alla stessa: si chiama globalizzazione). A notte fonda le strade si svuotavano, ma non del tutto. Rimanevano a terra le lattine di birra e le bottigliette di plastica.

Stiamo vivendo la crisi più grande della storia umana. Ne siamo noi la causa. Abbiamo intrapreso una strada forse senza ritorno verso il suicidio ecologico. E la percorriamo allegramente, fischiettando una canzone. Non vediamo il declino attorno a noi perché abbiamo lo sguardo fisso sullo smartphone. Gerry Scotty non ne parla, quindi non esiste. Il declino, del resto, non è un evento ma un processo, e i processi non fanno notizia. Distruggi la foresta amazzonica un albero alla volta, e forse un trafiletto spunterà su qualche rivista. Distruggila in un giorno, e il mondo s'indigna. Almeno, è chiaro, fino all’uscita del nuovo Star Wars.


Ah, e vi ricordate l’annuncio dell’IPCC di cui vi parlavo? Nel mio libro ‘Il Secolo Decisivo’ ho provato a immaginare un itinerario possibile per giungere a un equilibrio fra sistema socio-economico ed ecosistemi. Ha richiesto anni di ricerca e molti mesi di lavoro non pagato per la stesura. Finora ha venduto un centinaio di copie. L’ultimo libro di Fabrizio Corona è in testa alle classifiche.



venerdì 8 febbraio 2019

Quattro riforme strutturali per uscire dal declino - Una proposta di Federico Tabellini




(Questo articolo costituisce una rielaborazione originale di temi trattati in maniera più organica e approfondita nel libro Il Secolo Decisivo: Storia Futura di un’Utopia Possibile
Di Federico Tabellini

Usando il termine in senso ampio, possiamo identificare quattro grandi 'crisi' contemporanee: una crisi ambientale ed energetica, una crisi delle diseguaglianze, una crisi culturale e una crisi concernente la stabilità del sistema economico-finanziario. Ne ‘Il Secolo Decisivo’ dimostro come queste crisi siano 1) strettamente correlate e 2) conseguenza fisiologica del modello socio-economico vigente, e non già una sua deriva accidentale.

Da ciò ne deriva che qualsiasi soluzione che voglia essere efficace debba essere 1) multisettoriale e 2) sistemica. In altre parole, risolvere le crisi richiede un approccio organico e comporta necessariamente il superamento dell’attuale modello socio-economico.

Perché il cambiamento sia possibile, è essenziale prendere coscienza dell’impossibilità di risolvere le crisi all’interno del modello che le ha in primo luogo generate. Questa presa di coscienza passa per la messa in discussione di una serie di miti e credenze che lo sostengono. Fra questi spiccano il mito del lavoro quale necessità e dovere (al di là dei suoi effetti in termini di benessere aggregato), il mito dei consumi come sinonimo di benessere e il mito della crescita economica quale unica via per il progresso. Lungi dall’essere meri fattori culturali, questi miti e credenze hanno forti ripercussioni sulla struttura sociale e sono da questa a loro volta rafforzati e perpetuati. Il legame fra struttura e cultura rende estremamente difficile che il cambiamento possa avvenire semplicemente dal basso, attraverso un mutamento negli stili di vita. Per fare un esempio, nel modello vigente la crescita del PIL è necessaria per sostenere i livelli di occupazione, e i consumi sono necessari per sostenere entrambi. Se tutti semplicemente consumassimo e lavorassimo meno, senza implementare al contempo riforme nella struttura economico-istituzionale, la recessione ci farebbe presto cambiare idea.

Un cambiamento strutturale è quindi di vitale importanza, ed è su quest’ultimo che si concentra il mio libro. Le domande da porsi, una volta accettata a livello culturale la necessità di un cambiamento, sono sostanzialmente due:

Com’è possibile passare da un modello basato sulla crescita costante di consumi e produzione a un’economia stazionaria e in equilibrio con gli ecosistemi?
È possibile mantenere economicamente e socialmente stabile un tale modello massimizzando al contempo il benessere degli esseri umani?

Le possibili risposte a queste domande sono molteplici. La mia proposta attinge alla più recente ricerca nei campi di filosofia politica, ecologia, economia ed etica. Ritengo sia fra le più facilmente implementabili sul breve-medio periodo (qualche decennio), perché le riforme preliminari che richiede possono in grande misura essere messe in atto sin da subito. Il loro effetto congiunto renderebbe possibile il passaggio a un modello economico stazionario, dopo una fase iniziale di decrescita materiale necessaria a rientrare nei limiti di sostenibilità ecosistemica che abbiamo da tempo superato. In termini generali, le riforme coinvolgono quattro macro-aree:
  1. I sistemi redistributivi e fiscali degli stati;
  2. Il sistema educativo;
  3. I regimi politico-elettorali;
  4. Il sistema finanziario.
Quello che segue è un elenco sintetico e necessariamente incompleto delle proposte discusse nel libro preliminari alla transizione da un modello economico basato sulla crescita infinita a un modello stazionario stabile.

I sistemi fiscali e redistributivi andrebbero ricalibrati per adattarli a un’economia post-lavorista. In tal modo il progresso tecnologico e l’automatizzazione di produzione e servizi potranno essere messi al servizio dell’uomo, liberando l’umanità dall’assurda ricerca di una non più necessaria (ai fini della massimizzazione del benessere aggregato) piena occupazione. I proventi di un’economia via via più automatizzata e indipendente dal lavoro umano andranno poi redistribuiti attraverso l’istituzione di un reddito di base[1] su vasta scala, continuamente ricalibrato in funzione della congiuntura economica.[2]
L’attuale sistema educativo gerarchico e massificato andrebbe sostituito con un’educazione orizzontale e flessibile, che conceda a ogni studente la libertà di operare scelte autonome, entro certi limiti, circa la propria formazione e sviluppo personale. La scuola dovrà cessare di essere una fabbrica di esseri umani funzionale alla crescita economica, per divenire invece un servizio a disposizione delle persone, finalizzato alla scoperta e allo sviluppo dei talenti e delle vocazioni di ognuno.
L’esaltazione del ‘volere del popolo’ propria delle contemporanee democrazie rappresentative – che troppo spesso si traduce nella tirannia di una maggioranza ignorante manipolata da leader populisti di ogni sorta – dovrebbe essere sostituita da una promozione attiva del dibattito politico a tutti i livelli e dall’istituzione di vincoli conoscitivi al voto, rimpiazzando l’attuale politica dei sentimenti con una politica degli argomenti.
Il sistema finanziario andrebbe riformato e reso indipendente da una crescita costante dell’economia materiale. Ciò richiederà la messa in discussione del modello inflazionista, una riduzione drastica della speculazione finanziaria e un completo superamento del sistema bancario a riserva frazionaria.

Ognuna di queste macro-riforme difficilmente potrà essere implementata senza una parallela implementazione delle altre, per ragioni che è impossibile illustrare in dettaglio in un singolo articolo.[3] Basti qui dire che senza un ripensamento dei sistemi fiscali e redistributivi che metta in secondo piano il lavoro, la crescita economica non potrà che rimanere essenziale per contrastare la disoccupazione tecnologica, non importa quanto superflue e finanche dannose divengano le mansioni svolte dagli esseri umani. Similmente, l’istituzione di un sistema politico basato su discussione e ragionamento – le quali richiedono indipendenza di analisi e tempo per approfondire le ragioni dei propri interlocutori – è impensabile senza una previa riforma del sistema educativo e una liberazione del tempo umano dalle catene del lavoro. Infine, è difficile immaginare che una riforma profonda del settore finanziario (i cui frutti sarebbero visibili solo sul lungo periodo) possa essere implementata con successo in assenza di un sistema politico ed elettorale basato su discussione, contenuti e ragionamento.

Le ragioni che rendono queste riforme necessarie, le possibili modalità della loro implementazione e gli effetti potenziali che potrebbero sortire sulle società umane sono esaminati nel dettaglio nel libro ‘Il Secolo Decisivo: storia futura di un’utopia possibile’. Qualsiasi critica, domanda o commento sui contenuti di questo articolo e/o del libro cui si ispira è assolutamente benvenuta.

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[1] Si utilizza qui il termine nella sua accezione classica, come reddito concesso a ogni individuo adulto indipendentemente da ogni prova dei mezzi. Il reddito di base è universale in quanto concesso a ogni individuo, a prescindere dalla sua condizione sociale ed economica.

[2] Si vedano i capitoli 3 e 6 del libro ‘Il Secolo Decisivo’ per la discussione di un possibile meccanismo di ricalibrazione.

[3] Si rimanda al libro per una loro analisi approfondita.

sabato 7 luglio 2018

Una Nuova Rivoluzione Culturale?



Un contributo di Bruno Sebastiani

PER UNA NUOVA RIVOLUZIONE CULTURALE

Osservazioni a margine della teoria “uomo=cancro del pianeta”




La visione del mondo secondo cui l’essere umano è superiore ad ogni altro essere vivente nasce decine di migliaia di anni or sono, nel momento in cui nella mente dell’uomo si sviluppa la coscienza. La motivazione di questa superiorità risiede nella maggiore capacità “elaborativa” del cervello umano rispetto a quello di ogni altro animale, ma questa spiegazione si affermò solo poche migliaia di anni fa, con i primi filosofi.

Sino ad allora prevalse il convincimento che fosse stato il creatore dell’Universo in persona ad investire l’uomo della funzione di re del mondo, e questa idea continuò ad esercitare il suo fascino anche in seguito, fino ai giorni nostri. La superiorità di cui ci vantiamo è multiforme, non riguarda solo le capacità intellettive. Spazia dalle emozioni ai sentimenti, dall’etica all’estetica, dalla politica all’arte e così via.

Una delle sue più efficaci sintesi è stata messa in rima da Dante nel XXVI canto dell’Inferno: “… fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”, versi che rinviano anch’essi all’investitura divina. Ma questa superiorità è talmente ampia, indiscussa ed indiscutibile che nel tempo si è estesa anche al regno di cui saremmo stati nominati signori, oltreché alla già citata nostra origine ai vertici della creazione. Il regno (la Terra) fu dunque immaginato al centro dell’Universo e noi ci fantasticammo forgiati direttamente dalle mani di Dio.

Oggi sappiamo che le cose non sono andate così. Ma per abbattere questi falsi convincimenti sono state necessarie due gigantesche rivoluzioni culturali, che hanno letteralmente scosso dalle radici la visione del mondo secondo cui l’essere umano è superiore ad ogni altro essere vivente.

La prima di queste rivoluzioni prese avvio nel 1543 con la pubblicazione del trattato astronomico di Niccolò Copernico “Sulle rivoluzioni dei corpi celesti”. Fino ad allora resisteva saldo nella coscienza dell’umanità il convincimento espresso nel 350 a.C. da Aristotele nell’opera “De caelo”: “… il centro della terra e quello del Tutto si trovano a coincidere … È chiaro dunque che la terra si trova necessariamente posta al centro, ed è immobile …”.

Questa teoria, il geocentrismo, era poi stata avvalorata ne “L’Almagesto” di Claudio Tolomeo intorno al 150 d.C., da cui il nome di Sistema Tolemaico dato alla dottrina secondo la quale la Terra è ferma e il Sole, la Luna e gli altri pianeti le girano attorno. È evidente la funzionalità di una simile teoria all’antropocentrismo, che vede l’uomo signore e padrone dell’Universo.

Ma la ragione evolve, e, a dispetto anche della considerazione che essa ha di se stessa, a un certo punto della storia la verità emerge. Faticosamente. Le intuizioni di Copernico non furono infatti sufficienti a ribaltare d’emblée la visione del mondo tradizionale.

Il rogo di Campo de’ Fiori in cui perì nel 1600 Giordano Bruno e il processo a Galileo Galilei con la sua conseguente abiura forzata del 1633 ci fanno capire quanto sia stato irto di difficoltà il cammino che consentì il diffondersi della semplice constatazione che la Terra è un pianeta come gli altri e che, come gli altri, gira intorno al Sole.

Nella Sentenza pronunciata dal Tribunale del Sant’Uffizio contro Galileo l’accusa di eresia si basa esplicitamente sul fatto “d’haver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e Divine Scritture, ch’il sole sia centro della terra e che non si muova da oriente ad occidente, e che la Terra si muova e non sia centro del mondo”.

Ma infine, nonostante tutto, la dottrina copernicana si dimostrò veritiera ed iniziò ad aprire gli occhi dell’uomo sulle sue reali dimensioni: non siamo al centro dell’Universo, abitiamo solo uno dei tanti pianeti che girano intorno al Sole. E più avanti abbiamo capito che di astri come il Sole ne esistono a milioni! Resisteva però il convincimento che Dio avesse generato direttamente tutta la realtà per asservirla all’essere umano. Egli, l’Onnipotente, aveva creato la luce, il cielo, la terra, l’acqua, le piante e gli animali e poi, separatamente, l’uomo, a “sua immagine”.

Per intaccare la saldezza di tale convincimento occorse una seconda grande rivoluzione culturale, e questa avvenne a metà Ottocento.Fu Charles Darwin a darle avvio pubblicando nel 1859 “L’Origine delle Specie”, in cui delineò la teoria evoluzionistica, destinata ad affermarsi in tutto il mondo scientifico nel giro di qualche decennio.

In base a questa teoria l’uomo non sarebbe stato creato direttamente da Dio, a “sua immagine e somiglianza”, ma discenderebbe nientemeno che dalle scimmie. E così pure tutti gli altri esseri viventi si sarebbero evoluti con estrema lentezza e gradualità da qualche forma di vita primigenia, superando ogni nuova condizione esistenziale grazie a multiformi processi di selezione naturale.

Fortunatamente per il grande biologo e naturalista britannico il tribunale dell’inquisizione ai suoi tempi non aveva più il potere di due secoli prima e il clima storico culturale era completamente cambiato. Ciononostante non mancarono (e non mancano tuttora) i fieri avversari delle teorie darwiniste, nostalgici di un creazionismo che ai loro occhi sancisce in modo più convincente la superiorità dell’essere umano su ogni altra creatura.

Eppure l’evoluzionismo, pur avendo smantellato il creazionismo biblico, quello, tanto per intenderci, di Dio che plasma l’uomo con la polvere del suolo e la donna con una costola di Adamo, non esclude un “creazionismo remoto”, che, con le conoscenze da noi oggi acquisite, potrebbe situarsi prima del Big Bang.

Inoltre non contesta la superiorità dell’essere umano nei confronti di ogni altro essere vivente. Anzi, il termine stesso di evoluzione sottintende quello di sviluppo, di crescita, di incremento, tutti concetti che indirizzano il pensiero verso l’idea della preminenza di chi sta in cima alla scala, e non vi è alcun dubbio che quella posizione anche per Darwin spetti all’essere umano.

E allora come si spiega l’interminabile serie di disastri ambientali che dalla Rivoluzione Industriale in avanti hanno costellato il percorso della storia e che, soprattutto, fanno temere il peggio per gli anni a venire?

Certo, noi occidentali del XXI secolo viviamo all’apice della prosperità, e le porte del benessere sembrano schiudersi anche per molti figli del Celeste Impero. Ma il conto di questo banchetto deve ancora essere pagato, e non sappiamo fino a quando riusciremo a rinviare il redde rationem, avuto soprattutto presente che il numero degli abitanti del pianeta continua ad aumentare nelle aree più povere e depresse.

Da queste considerazioni nasce l’esigenza di una nuova grande rivoluzione culturale che abbatta definitivamente il mito della superiorità della razza umana su ogni altra specie vivente, al fine di demolire l’illusione di una impossibile crescita senza limiti.

E poiché la ragione evolutasi nel cervello dell’uomo si è dimostrata senza dubbio l’arma più potente nella battaglia per la vita di darwiniana memoria, ad essa è necessario far ricorso anche per questa terza grande rivoluzione culturale. A tal fine molto umilmente ho tentato di imbastire una teoria che a mio avviso contiene alcuni spunti degni di riflessione.

In un saggio di recente pubblicazione (“Il Cancro del Pianeta”, Armando Editore) ho immaginato che la nostra intelligenza anziché essere una scintilla divina o una mirabile opera della natura sia un tragico errore del processo evolutivo della vita, una via “svantaggiosa” imboccata casualmente dalla natura, che ben presto la abbandonerà per far ritorno a forme di vita meno distruttive per l’ambiente.

In pratica l’intelligenza umana sarebbe il frutto di un’abnorme evoluzione patìta dal nostro cervello, evoluzione che ci ha consentito di piegare a nostro vantaggio le leggi della natura, di squilibrare, sempre a nostro vantaggio, il delicato ed ultra complesso sistema di congegni e meccanismi biologici formatisi spontaneamente in milioni e milioni di anni, e ci ha consentito di farlo in un battibaleno, in poche migliaia di anni, un’inezia di tempo cosmico; ma che non ci ha consentito, né mai ci consentirà, di creare un nuovo equilibrio altrettanto solido come quello che abbiamo distrutto.

E per far meglio comprendere questa amara realtà a Homo sapiens, tanto orgoglioso della sua presunta superiorità, cosa di meglio che paragonare la sua azione distruttrice a quella delle cellule che danno origine alla malattia oggi più temuta, il cancro?

Le analogie sono molte, ad iniziare dalla indiscriminata proliferazione delle cellule tumorali, alla distruzione che esse operano ai danni dei tessuti sani dell’organismo e così via, fino a quando, nel tragico epilogo, le cellule malate e quelle sane periscono insieme.

Non ha grande importanza che la correlazione abbia basi scientifiche o meno. Ciò che conta è che faccia intendere all’essere umano come il progresso di cui va tanto orgoglioso altro non sia per la biosfera se non una malattia che tutto distrugge. Questo morbo minaccia di far sparire la vita in una nuova estinzione di massa, indotta questa volta non da eventi esogeni, ma dall’errore commesso dalla stessa natura, da quella via svantaggiosa imboccata casualmente e che presto sarà abbandonata, come ogni errore che si produce nel corso del processo evolutivo.

Ecco delineata per sommi capi la teoria che a mio modesto avviso potrebbe scuotere le coscienze degli intellettuali più avveduti, contribuendo forse a rallentare, se non a interrompere, la marcia che ci vede procedere diritti verso il precipizio, come i bambini che seguirono il pifferaio magico, l’incantatore che nel nostro caso indossa i panni del progresso infinito ed illimitato.


domenica 1 maggio 2016

USA: primi al mondo per terre accaparrate






Estensione delle terre accaparrate dagli USA : equivale alla superficie di Toscana, Marche, Umbria, Lazio e Abruzzo evidenziata in verde.


Di Silvano Molfese


L’accaparramento di terre, in inglese land grabbing, da parte dei paesi più ricchi consiste nel comprare o affittare estese superfici di terreno all’estero per produrre cibo per se stessi. (1)

Gli Stati Uniti, con primati in ogni ramo della scienza e della tecnologia, prima potenza nucleare, con una superficie territoriale estesa oltre trenta volte l’Italia ed una densità di 34 abitanti per km2 (rispetto agli oltre 200 abitanti per km2 che caratterizza il nostro paese), all’avanguardia nella ricerca e nella coltivazione delle sementi OGM, sono indotti, nonostante tutto, ad accaparrarsi ben 6,9 milioni di ettari di terre in altri stati per far fronte ai propri fabbisogni alimentari, addirittura più del triplo di quanto si è accaparrata l’India! (2)

E dire che, da almeno tre lustri, le multinazionali delle sementi sostengono a spada tratta i vantaggi dei semi OGM: aumenterebbero le rese delle produzioni agricole.

Lo hanno gridato ai quattro venti ma Lester Brown, come diversi altri autorevoli analisti di fama internazionale, smentì questa diceria:

“In relazione all’aumento delle rese si cita spesso il potenziale delle biotecnologie ma, nonostante da venti anni i genetisti stiano selezionando nuove varietà di piante, non hanno ancora prodotto una sola varietà di grano, riso o mais che porti ad un reale aumento delle rese. ” (3) .

Ho ripreso il dato statunitense perché mi sembra emblematico di una diffusa ed eccessiva fiducia nella tecnologia che pervade il mondo intero.

Tutto ciò è più che un campanello d’allarme per tutti noi italiani, nonché per la nostra classe dirigente: affascinati (o distratti?) da auto, cellulari ecc., di fatto, trascuriamo da almeno due decenni l’agricoltura.

La cementificazione imperante, con milioni di vani vuoti, l’ipertrofica e ridondante infrastrutturazione stradale, hanno rubato e rubano centinaia di migliaia di ettari di fertile suolo.

La cosa è ancor più grave se consideriamo il riscaldamento globale in atto e la conseguente crisi idrica sempre più diffusa anche in Italia.

Le nostre importazioni di cereali, al netto delle esportazioni dei prodotti di molitura e di quelle per la produzione della pasta, si aggirano intorno ai 7,8 milioni di tonnellate. Con le attuali rese ci vorrebbe una superficie di circa 1,5 milioni di ettari per soddisfare gli attuali consumi interni di cereali. (*)

Certamente i consumi alimentari, anche in Italia, eccedono i reali fabbisogni di circa il 30% (4) ma è pur vero che le rese delle produzioni agricole, con l’agricoltura biologica, si riducono grosso modo di circa il 20% rispetto all’attuale industria agricola: quest’ultima impiega in modo diretto e indiretto elevate quantità di combustibili fossili. (5)

Con il cambiamento climatico in atto e la conseguente scarsità idrica, di quanto si ridurranno le nostre produzioni agricole? Quanta terra in più ci vorrà? Con l’aumento delle bocche da sfamare ed avendo raggiunto i limiti produttivi su tutto il pianeta, quanto pagheremo in più i cereali importati? 



Bibliografia 

Brown L, 2011. – Un mondo al bivio – Edizioni Ambiente, 98


Gardner G., 2015 – Mounting losses of agricultural resources – State of  the World 2015, Islandpress, 71

Brown L., 2001 – Cancellare la fame: una sfida sempre più dura - State of the World 2001, Edizioni Ambiente, 82

Affamati di spreco, giovedì 15 ottobre 2015, ore 23.30 - Rai Storia

Dossier Fibl - L’agricoltura bio accresce la fertilità del suolo e la biodiversità –Supplemento a biodinamica n. 51 – novembre/dicembre 2003


(*) I dati sono desunti dall’ISTAT e riferiti al 2013. Ho fatto i calcoli in base allo scambio commerciale con l’estero: dei cereali, dei prodotti della molitura e delle paste alimentari. Per le rese dei cereali ho considerato sempre il 2013.

lunedì 18 maggio 2015

Quando e’ cominciata la crisi? Molto prima di quanto non si creda.

Di Iacopo Simonetta

Molti, a dire il vero, si chiedono quando finirà la crisi e su questo i pareri, sostanzialmente,  fanno capo a duescuole di pensiero.  La prima dice che finirà fra 6 mesi, anzi, sta già finendo.  La seconda sostiene che se ne riparlerà nel XXII° secolo. Vedremo, ma certo è una domanda molto difficile. Vorrei quindi cimentarmi con un’altra domanda, apparentemente più facile: quando è cominciata?

Nel 2008”.   Risposta scontata, ma ne siamo sicuri?

Per cominciare, l’unico dato disponibile in serie temporali lunghe è il famigerato PIL che, dovremmo saperlo oramai bene, tutto è tranne che un indicatore affidabile dello stato di salute di un economia.   Ancor meno della qualità della vita.   Del resto, in ecologia, è rarissimo che si possa disporre di serie di dati statistici affidabili su periodi abbastanza lunghi.   Si cerca quindi di ovviare mediante degli indicatori.   Cioè di dati che non descrivono il sistema, ma che sono rappresentativi del suo stato e/o  delle sue tendenze.    Per fare un esempio, in assenza di dati sul numero di cervi in un parco, è possibile farsi un’idea della loro densità dal numero di tracce rilevabili sulla neve.    Oppure, indipendentemente da quanti siano, si può capire se sono troppi o pochi osservando i segni sugli alberi.   Analogamente, in assenza di dati sul reddito dei cittadini, è possibile farsi un’idea dal numero e dal tipo di scarpe vendute (tenuto conto della moda).

Per determinare lo stato di salute di un’economia i dati relativi all'occupazione sono particolarmente interessanti, ma estrarre delle tendenze concrete dalle tabelle ISTAT non è così semplice come potrebbe sembrare.   Il tasso di occupazione dice infatti quale percentuale di cittadini ha un lavoro, ma non che tipo di lavoro.

Molto più interessante, a mio avviso, è uno studio dell’Università Bicocca di Milano, pubblicata “in tempi non sospetti”, vale a dire nel 2001.   Lo studio riguardava il decennio precedente ed era focalizzato sul ricambio generazionale.   In pratica: i figli facevano lavori migliori, peggiori od uguali a quelli dei loro genitori?    Ebbene, il risultato era già allora impietoso.  
I ricercatori avevano diviso i lavoratori in quattro grandi categorie:   In vetta gli imprenditori, i super-dirigenti ed i grandi professionisti.    Seguivano funzionari e liberi professionisti; infine operai ed impiegati.   Per ogni categoria, si era tenuto conto del lavoro svolto dai genitori e di quello svolto dai figli.   Ebbene, anche se negli anni ’90 un certo numero di figli riuscivano a scalare posizioni migliori di quelle dei propri genitori, era nettamente superiore il numero di figli appartenenti ad una classe sociale inferiore a quella paterna. 

Ad esempio, ben il 46% dei figli di imprenditori e super-dirigenti era finito come funzionario ed un altro 22% come impiegato od operaio.   Contro un 15 % di figli di funzionari ed un 5 % di figli di impiegati od operai che erano riusciti a scalare la vetta.

 In complesso, la classe dei lavori molto ben pagati e quella dei liberi professionisti avevano subito una consistente perdita nel cambio generazionale, con una massa considerevole di rampolli che si erano trovati rigettati in una classe sociale subalterna quella in cui erano nati.   Esattamente il contrario di quanto si era verificato a cavallo degli anni ’60.      

Insomma, negli anni ’90 la disoccupazione non era un problema drammatico come oggi, ma l’ascensore sociale era già in avaria e quello che funzionava a pieno regime era piuttosto un efficace discensore sociale.  

Un dato che, da solo, non dimostra alcunché, ma che è un indicatore molto, molto forte del fatto che, già venti anni fa, la crescita economica fosse finita, mentre la popolazione continuava a crescere.

“Una rondine non fa primavera” si diceva un tempo ed è corretto.   Un solo indicatore, per di più puntuale, non significa niente.   Può però diventare significativo se possiamo inserirlo in un contesto coerente.    Le analisi in questo senso sono oramai perfino troppe, mi limito quindi a rimandare ai numerosi articoli di  Antonio Turiel e Richard Heinberg che, fra i molti, hanno forse meglio di altri sintetizzato i punti chiave della questione.

Qui mi limiterò a riprendere alcuni dati che ho già utilizzato in un precedente post.     Sono dati resi disponibili da alcuni ricercatori della Massaciussets university che si sono presi la briga di rifare i calcoli del PIL USA al netto dell’inflazione, utilizzando per tutti gli anni gli stessi parametri di calcolo.   Diversamente dal governo che via via li cambia.  

Ebbene, non troppo sorprendentemente, la crescita vera pare essersi fermata agli inizi degli anni ’70 (forse non per caso in corrispondenza del picco del greggio domestico).   Poi il PIL ha continuato a salire fra alterne vicende, ma solo grazie alla contemporanea esplosione del debito e della borsa, mentre l’economia reale cominciava ad arrancare a la qualità della vita pure.    Fino alla fine della guerra fredda il gioco ha funzionato, poi vediamo che neppure la crescita esponenziale del debito e l’esplosione della “new economy”  sono più riuscite a sostenere una crescita dell’economia reale, mentre la qualità della vita declinava.  Con il 2.000, malgrado tutti gli sforzi,  l’economia americana è entrata decisamente in contrazione e la qualità della vita del cittadino medio in picchiata.   Nel frattempo, gli indici di borsa entravano un una fase di estrema volatilità da cui non sono più usciti.


Per l’Italia non disponiamo di dati sul PIL indipendenti dagli enti di governo, ma li abbiamo sul debito pubblico che indicano un’esplosione a partire dalla metà degli anni ’60, con una fase di stasi negli anni ’90, prima di ripartire fuori controllo.   Questo potrebbe suggerire che da noi la crescita avesse cominciato a rallentare prima che in USA, il che è coerente con il fatto che eravamo, e tuttora siamo, un paese periferico dell’impero USA.  


Altri paesi hanno seguito parabole analoghe, anche se spostate nel tempo.   Ad esempio, Cina ha avuto la sua fase di crescita economica reale più convulsa nei venti anni approssimativamente compresi fra il 1985 ed IL 2005 grazie ai massicci investimenti esteri ed al non meno massiccio trasferimento di impianti e tecnologie occidentali.   In pratica, assieme ad altri, ha saputo sfruttare l’onda di mania suicida che ha colto le “economie avanzate”  con la storica vittoria delle potenze capitaliste su quelle socialiste.   Ma sia pure con modi e tempi diversi rispetto agli altri paesi, anche in Cina il rallentamento dell’economia traspare oramai anche attraverso l’intensa manipolazione dei dati ufficiali, così come dal rilancio di forme di propaganda e di repressione che molti credevano oramai consegnati alla storia.

Dunque: “Quando è cominciata la crisi?”  

Una risposta definitiva non sono in grado di darla, ma possiamo perlomeno distinguere fra diversi livelli.    Considerando le  economie “G7”, la stagnazione è probabilmente iniziata negli anni ’70.   Venti anni dopo, negli anni ’90, la contrazione dell’economia reale ha subito una brusca accelerazione in conseguenza della vittoria militare e, soprattutto, politica sull’URSS.   Un apparente paradosso, facilmente spiegabile con un fatto molto semplice: l’economia industriale è un gioco in cui ci sono necessariamente vincitori e sconfitti.   Quelli che hanno le manifatture vincono, quelli che hanno le cave e le discariche (wells and sinks) perdono.   Fra gli altri, lo aveva intuito Mohandras  Gandhi e lo aveva spiegato Nicholas Georgescu-Roegen.    Ma ancora non lo hanno capito i governanti occidentali che hanno incoraggiato e finanziato, a spese del contribuente, il trasferimento delle principali attività industriali in paesi esteri, solo perché praticamente privi di sindacati e di norme ambientali.   Ne hanno usufruito altri stati, primo fra tutti la Cina, finquando  i “Limiti della crescita” non hanno cominciato a fermare anche loro.  

Invece, il picco dell’economia globale è probabilmente stato, effettivamente, fra il 2005 ed il 2010.   Probabilmente non a caso in corrispondenza con il picco globale della disponibilità di greggio, ma anche preoccupantemente in linea con i tempi dello scenario base dei “Limiti dello Sviluppo”.   

Molti contesteranno questa idea con dovizia di dati, ma ritengo che, quando è scoppiato il bubbone nel 2008, la crisi fosse già consolidata da molti anni nel cuore stesso delle economie occidentali.  Se la maggior parte di noi non ci aveva fatto caso è stato probabilmente per un insieme di fattori fra cui l’abitudine, il martellamento mediatico ed il fatto che, ancora, non erano stati toccati i patrimoni piccoli e grandi accumulati nella fase precedente.   Man mano che i risparmi vengono erosi, le proprietà divengono un peso ed i vecchi dotati di buone pensioni muoiono, diviene semplicemente evidente una malattia  che abbiamo oramai da molto tempo.  Un po’ come quando ci si rende conto di avere l’AIDS, magari dopo venti o trent'anni che abbiamo contratto l’HIV.







mercoledì 26 novembre 2014

Crisi dello Stato: una prospettiva dal punto di vista della crisi energetica

DaThe Oil Crash”. Traduzione di MR



Di Antonio Turiel

Cari lettori,

il tema che affronterò oggi appartiene a un tipo diffuso di argomenti dei quali preferisco non parlare. Non mi piace parlare di questi temi non perché siano un tabù, ma perché non mi considero sufficientemente capace e in possesso della conoscenza adeguata per affrontarli in modo appropriato, per cui più che in altri casi quello che potrei dire è fortemente discutibile e persino sbagliato, almeno in parte, Insomma, che la mia opinione su questi temi non è più qualificata di quella di qualsiasi altro cittadino, pertanto non mi pare sia corretto sbandierarla da questo blog, dandole un rilievo che non ha. Tuttavia, noto che progressivamente le discussioni su internet ed altri media  si stanno incancrenendo nella misura in cui ci avviciniamo alla successiva grande ondata recessiva globale (della quale l'attuale tendenza al ribasso del prezzo del petrolio è un sintomo chiaro, visto che non è aumentata la produzione ma i prezzi scendono, ergo è la domanda che retrocede poiché si sta distruggendo a causa della recessione che avanza – e non dell'efficienza, come a volte si dice per confondere ancora di più). E ultimamente rilevo che c'è una certa confusione sul posizionamento politico, in chiave molto classica e partitica, di alcune cifre della discussione della crisi energetica in spagnolo, particolarmente le mie. Posizione partitica che non è rilevante in termini assoluti, come ho ripetuto tante volte, e che pregiudicherebbe la trasmissione di un messaggio di carattere trasversale e non partitico. Tuttavia, e nonostante tutte le premesse che finisco per esprimere, credo che sia interessante chiarire una questione chiave per capire perché il binomio capitalismo-comunismo è, a mio modo di vedere, superato e perché dovremmo esplorare altre dimensioni della discussione. Essenzialmente, parlerò del ruolo dello Stato così come lo vedo io con le mie conoscenze limitate, perché credo che quello che deve venire non potrà somigliare in nulla ai due sistemi apparentemente opposti anche se entrambi si basano su un forte statalismo.

Il ruolo dello Stato

Ci sono molte discussioni storiografiche ed antropologiche sull'origine e la funzione dello Stato, delle quali sono uno scarso conoscitore. Tuttavia, c'è una serie di caratteristiche che vengono attribuite con un sufficiente consenso allo Stato. Una di queste è che lo Stato è il depositario del diritto alla violenza legittima, cioè, è l'unico agente che ha diritto ad agire violentemente in difesa di un bene percepito come comune se non esiste nessun altro mezzo per garantirlo. Lo Stato, che in sé non è altro che una serie di istituzioni create ad un certo punto per la gestione di un paese, diventa, in virtù di questo e di altri diritti, un soggetto di diritto, cioè, un ente con diritti e doveri riconosciuto da altri soggetti di diritto come lui. Per dirlo più semplicemente, lo Stato spagnolo è riconosciuto come l'interlocutore valido per discutere qualsiasi cosa che abbia a che fare col territorio che amministra, cioè la Spagna.

Dato che lo Stato ha il monopolio della violenza legittima, qualsiasi violenza esercitata nel suo territorio da chiunque non sia lo Stato diventa illegittima. Perché le cose siano più chiare, lo Stato, usando il proprio potere legislativo, promulga leggi che esplicitano la non legittimità di quelle azioni per mezzo di disposizioni legali che stabiliscono condizioni penali per i contravventori. Cioè, lo Stato stabilisce con delle leggi quale castigo corrisponde a chi esercita un determinato tipo di violenza che non sia ricoperta dallo Stato stesso. Visto che lo Stato ha diritto di far violenza a qualsiasi aspetto della nostra convivenza (per esempio, sparando a un rapinatore di un supermercato se questo mette in pericolo la vita di altri , o anche negando alcuni assembramenti di massa e inviando polizia antisommossa a picchiare i manifestanti se non se ne vanno, o anche mandando in carcere coloro non pagano le proprie tasse), lo Stato ha un grande potere su tutti noi e per questo è giusto si definiscano in modo molto chiaro quali siano i fini dello Stato e che ci sia un grande consenso sociale sul fatto che questi fini siano legittimi. Qui viene uno degli aspetti più delicati del meccanismo statale: dato che nei sistemi democratici si riconosce che la sovranità è del popolo, tutto il potere in realtà proviene dal popolo e lo Stato, che è un soggetto a parte ma con il grande potere della violenza, come abbiamo detto, deve il suo potere a quel popolo che in realtà glielo ha consegnato. Pertanto, lo Stato deve interpretare correttamente il dettato del popolo e da qui proviene la grande importanza del fatto che le istituzioni dello Stato siano trasparenti e democratiche, come modo per assicurare che si sta compiendo la volontà del popolo.

Come sappiamo tutti, gli Stati moderni sono strutture di una grande complessità e per la loro gestione servono funzionari specializzati e con esperienza. Permettetemi un inciso qui: la parola “funzionario”, in Spagna come in altri paesi, ha molte connotazioni negative, perché la maggioranza della gente di solito la associa a “funzionari di sportello” indolenti che hanno dovuto sopportare nel corso di una qualche operazione con l'Amministrazione. Ed i think tank liberali, nella loro crociata per spogliare lo Stato di tutto ciò che non è monopolio della violenza (curiosamente, ma neanche tanto, come vedremo), sono soliti approfittare di questa cattiva percezione per usare la parola “funzionario” come un insulto. Tuttavia, chiunque abbia avuto a che fare con imprese di grandi dimensioni e complessità si sarà incontrato con amministratori che svolgono funzioni del tutto analoghe a quelle dei funzionari di sportello e di simile indolenza. Si vede che ciò che favorisce quest'atteggiamento (che in realtà non è nemmeno maggioritario ma è più visibile perché è un'attività a contatto col pubblico) è il tipo di lavoro amministrativo tedioso e senza incentivi. Per di più, si è soliti ignorare che la maggioranza dei funzionari sono maestri, professori universitari, medici, infermieri, letterati, militari, pompieri, ispettori fiscali, scienziati, guardie forestali, avvocati, procuratori, giudici e un lungo eccetera di tecnici più diversi il cui lavoro non sempre è visibile ma è fondamentale. A causa della complessità dello Stato che stiamo esponendo, è necessario mantenere questi corpi di funzionari specializzati, che logicamente non possono essere sostituiti allo stesso ritmo dell'alternanza democratica del paese. Per questo è richiesto che i funzionari lavorino in modo fedele al servizio del Governo di turno per il bene del paese, a prescindere dalle loro convinzioni partitiche. In cambio, viene loro riconosciuto uno statuto del lavoro speciale, che in da tempo e specialmente in questi tempi incerti viene percepito come un privilegio inadeguato.

Cosa succede quando un potere sufficientemente forte, tipicamente economico, corrompe qualche struttura dello Stato? Che lo Stato si scollega dalla fonte della sua legittimità, che è il consenso sociale, e si comporta a beneficio di questi altri interessi, naturalmente in modo subdolo per evitare una rivoluzione popolare. Non credo che valga la pena farvi degli esempi, perché sono sicuro che ve ne verranno in mente molti anche senza sforzarvi. Di fatto, il potere economico o di altro tipo non ha bisogno, per i propri fini, di corrompere troppo tutte le strutture dello Stato, perché per costituzione gli Stati tendono ad essere fortemente gerarchici e centralizzati. Se si ottiene il controllo del vertice (per esempio, del Governo) o delle strutture immediatamente inferiori (gli alti funzionari), tutto il resto del macchinario dello Stato lavorerà in modo cieco e implacabile a favore di questo potere corruttore, in applicazione della massima secondo la quale i funzionari di rango inferiore hanno l'obbligo di soddisfare e servire fedelmente ciò che viene loro richiesto in virtù della loro condizione di servitori pubblici, al di là delle loro preferenze ideologiche.

Pertanto, la struttura piramidale e non deliberativa dello Stato lo rende più vulnerabile all'ingerenza illegittima di agenti non popolari, il che dà accesso a questi agenti a forme incontrastate di violenza, non sempre fisica. Si tende a pensare che quando succede questo sia per un difetto concreto dello Stato o persino della società che lo partorisce. Al contrario, da mio punto di vista non sufficientemente documentato ma che si basa sull'osservazione empirica del fatto che non c'è uno Stato non corrotto ma solo gradi diversi di corruzione, credo che la corruzione sia una caratteristica intrinseca degli Stati. Inoltre, che il ruolo dello Stato sia andato rinforzandosi durante la storia in simbiosi con l'ingerenza sempre maggiore dei poteri economici, di modo che alla fine il difetto della corruzione statale non è accidentale ma strutturale.

Capitalismo e comunismo

I due grandi sistemi economici che hanno dominato la discussione durante il ventesimo secolo sono il capitalismo e il comunismo (usare questi nomi è una semplificazione semantica, ma per non rendere questa discussione più complicata, prego i più pignoli che me lo concedano). Al margine di queste discussioni teoriche, la pratica dell'attuazione di entrambi i sistemi è stata completamente subordinata all'esigenza di uno Stato e, nei casi in cui questo non c'era in quanto tale, si è finiti per crearlo a beneficio del sistema economico. A mio modo di vedere, il carattere statalista del comunismo e del capitalismo non è una coincidenza, ma una necessità di entrambi i sistemi per ottenere i propri fini. Nel caso del comunismo di taglio sovietico e simili, la necessità di uno Stato forte risulta evidente a tutti: stiamo parlando di un'economia pianificata, che impone restrizioni ad ogni tipo di attività e che supervisiona in modo estenuante i dettagli della vita pubblica e privata dei suoi cittadini. Nel caso del capitalismo, la percezione popolare, incoraggiata da certi settori della società, è che sia un sistema di libertà e che qualsiasi ingerenza dello Stato in realtà è dannosa. Parrebbe, pertanto, che il capitalismo sia in qualche modo contrario ad uno Stato forte. Niente di più lontano dalla realtà. L'economia capitalista moderna è più pianificata che mai e le percezione di libertà, di capacità elettiva, non è altro che una finzione costruita abilmente.

Molte grandi imprese hanno bisogno che lo Stato le sovvenzioni o le favorisca indirettamente costringendo i suoi cittadini a consumare i suoi prodotti o attraverso esenzioni fiscali. Ha tutta la logica del mondo: l'investimento che queste imprese fanno per influire sullo Stato aumenta i loro benefici, mentre lo Stato beneficia del controllo sociale che queste imprese assicurano, attraverso i loro lavoratori e il loro controllo sui mezzi di comunicazione. E qui la simbiosi Stato-capitale negli Stati capitalisti. I casi nei quali lo Stato favorisce in modo indecente le grandi imprese non sono isolati ma ripetuti: la grande industria aeronautica sta in piedi grazie agli ordini di aerei militari (se qualcuno mi può far passare il collegamento che ho lasciato qualche settimana fa su Facebook...), le grandi banche vengono salvate quando fanno investimenti massicciamente rovinosi, il settore delle auto è sostenuto da piani statali consecutivi di sussidio all'acquisto di un'auto nuova, alle industrie petrolifere riducono le tasse, le grandi società elettriche ottengono regolamenti favorevoli ai propri interessi e contro il bene comune... E questo per non parlare degli scandali ambientali, a volte con gravi conseguenze per la popolazione, taciuti persino con l'uso della forza, grazie al controllo di uno Stato piegato agli interessi di un capitale che non conosce frontiere (“Ricordate Bhopal”).

Non c'è grande settore dell'economia capitalista di oggi che non sia sostenuto dallo Stato e questo non succede da ora, per colpa della crisi, ma è da molto tempo che è così. Di fatto, se uno si scomoda a immergersi nei libri di Storia vedrà che nella configurazione dei moderni Stati capitalisti la cosa è sempre stata così. Ma è solo ora che la sconnessione dalla volontà del popolo sovrano è più evidente. Per esempio in Spagna con l'Iniziativa Legislativa Popolare che promuoveva il pagamento in natura delle abitazioni ipotecate (con l'appoggio di quasi un milione e mezzo di forme) è stata sostanzialmente ignorata nel suo iter parlamentare. Il disprezzo dello Stato della volontà del popolo non è a sua volta una cosa nuova, ma di sempre. Semplicemente prima la gente si guadagnava meglio da vivere e preferiva continuare così piuttosto che passarla nell'impresa di fronteggiare gli abusi dello Stato, cosa quasi sempre inutile. Se si guardano con attenzione le differenza fra comunismo e capitalismo, queste non sono tanto grandi. Il comunismo sovietico è stato molto meno efficace dal punto di vista produttivo ed ha generato molte inefficienze, in molti casi frutto della disaffezione delle classi popolari agli obbiettivi dello Stato (qualcosa di molto naturale se teniamo conto del fatto che lo stato sovietico rifiutava la sovranità popolare anche se formalmente diceva di difenderla). Tuttavia, con l'attuazione di certe misure chiave, il comunismo cinese si è evoluto negli ultimi decenni verso quote di produttività superiori a quelle dell'Occidente, dimostrando che un paese comunista può essere tanto capitalista-statalista quanto qualsiasi democrazia occidentale e senza il costo aggiuntivo (economico) della democrazia.

La crisi dello Stato, conseguenza della crisi energetica?

Si può sostenere che la crisi dello Stato, in particolare quelle degli stati capitalisti come quelli in cui viviamo, è cominciata già da molto tempo. Il sintomo più chiaro di questa crisi di legittimità è stato il rifiuto dell'ingerenza in guerre in terre straniere a difesa di interessi falsi ed assurdi, il cui massimo esponente è stato il movimento di rifiuto della guerra in Vietnam negli Stati Uniti alla fine degli anni 60 e all'inizio degli anni 70 del secolo scorso, o il rifiuto della seconda Guerra del Golfo all'inizio di questo secolo. E' anche legittimo sostenere che la proliferazione delle pubblicazioni indipendenti favorita dalla diffusione di internet alimenta il focus e l'indagine delle disfunzionalità dello Stato  e in un certo modo aggrava la percezione delle stesse, cosa che ha a sua volta una parte importante  di ragione. Tuttavia, ciò che sta rendendo intollerabile le situazione di disprezzo della volontà popolare che dura già da decenni sono le crescenti difficoltà economiche delle famiglie. E causato del malessere popolare, che non può già più beneficiare del benessere materiale, ciò che porta a mettere sistematicamente in discussione i diversi ruoli esercitati dallo Stato. Le citazioni dello Stato disfunzionale escono continuamente fuori nelle conversazioni quotidiane, con speciale enfasi sui casi concreti e personalizzati di corruzione, ma con un fondo di sfiducia generalizzata verso il buon lavoro e persino verso i fini dell'Amministrazione (un esempio di rabbiosa attualità in Spagna è il primo caso di infezione da ebola in Europa, verificatosi a Madrid per ciò che molti considerano una gestione negligente ed imprudente dell'assistenza a due rimpatriati). In questi giorni è frequente che un notizia falsa apparsa su una pubblicazione satirica venga presa erroneamente da alcuni come vera, semplicemente perché l'atrocità descritta credibile in mezzo all'attuale degrado (nel quale, per esempio, si vede come normale ed accettabile abbandonare bambini la cui famiglia non ha altro sostegno se non quello della mensa scolastica durante i mesi estivi).

Pertanto, credo abbia fondamento dire che la messa in discussione dello Stato e il clamore crescente per la sua riforma, per la sua rigenerazione, provenga in gran parte dello scontento causato dalla crisi economica interminabile che stiamo vivendo. Crisi che, in ultima istanza, non potrà mai finire a causa della decrescita energetica, per colpa della crisi energetica. Potrà essere mantenuto uno Stato centralizzato e complesso in una situazione di ritorni decrescenti, di diminuzione dell'attività economica, di diminuzione delle entrate? E' chiaro che la risposta è no se la diminuzione è grave. E dato il corso prevedibile degli eventi (senza bisogno di scomodare scenari più drammatici) sembra evidente che gli Stati capitalisti ad un certo punto giungeranno alla loro fine. Ed il momento chiave che segna la loro scomparsa è il momento in cui perdono il loro potere principale: il monopolio della violenza. Quando lo Stato smette di pagare gli stipendi alla polizia smetterà di poter imporre la sua volontà e in quel momento smetterà praticamente di esistere.

Il futuro post-statalista

Che futuro attende i nostri paesi dopo la fine dei loro rispettivi Stati? Nessuno lo sa con certezza e questo tema, su quello che hanno teorizzato gli esperti da decenni, è ancora meno propizio per le mie divagazioni personali del tutto non autorizzate. Forse alcuni paesi conserveranno Stati più semplificati, forse in altri si recupereranno forme di organizzazione precedenti, molte delle quali democratiche; altri paesi, disgraziatamente, soccomberanno sotto un nuovo giogo feudale e, in ogni caso, la disgregazione sarà la norma. Ciò che mi è chiaro è che il futuro dipenderà dalle decisioni che prendiamo ora. Niente è perduto se non vogliamo che lo sia. Forse il primo passo per sapere dove si trova questo futuro che interessa a tutti costruire, tanto l'operaio della fabbrica quanto il suo titolare, è uscire dai vecchi schemi di discussione e cominciare a guardare dimensioni del dibattito lungamente ignorate, come per esempio quelle che trattano dei limiti ecologici di questo pianeta che dobbiamo condividere.

Saluti.
AMT