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venerdì 3 marzo 2023

Nazionalismo e Ambientalismo: una contraddizione insolubile?




Il Nazionalismo sta andando di moda, anche se con il nome un tantino più nobilitato di "sovranismo," ma è sempre la stessa cosa. Di per sè, non c'è niente di male nell'amare il proprio paese. Il problema è che la crescita del sovranismo è andata di pari passo con il declino della capacità delle istituzioni internazionali di fare qualcosa per evitare il degrado degli ecosistemi planetari, che non conoscono confini, non hanno identità culturali, e non seguono bandiere. Fra i primi a tirar fuori esplicitamente il problema è stato Daniele Conversi con il suo recente libro "Cambiamenti Climatici, Antropocene e Politica," dove suggerisce alcune possibili strategie per evitare la contraddizione. Qui, una recensione di Elena Camino.




Verso un nazionalismo «cosmopolita» Venerdì 3 Marzo 2023 

Elena Camino


La copertina del libro di Conversi

Alcuni giorni fa, presso la Casa dell’Ambiente di Torino (Corso Moncalieri 18) è stato presentato un libro dal titolo Cambiamenti climatici. Antropocene e politica (Mondadori Università, 2022). Era presente l’autore, Daniele Conversi – professore presso l’Università dei Paesi Baschi a Bilbao, Spagna – che ha conseguito un dottorato di ricerca presso la London School of Economics, e ha collaborato con varie istituzioni negli Stati Uniti e in Europa. Esperto di nazionalismi, Conversi in questi ultimi anni ha indirizzato le sue ricerche sulle relazioni, complesse e conflittuali, tra le varie espressioni di nazionalismo e gli emergenti problemi globali provocati dai cambiamenti climatici.

L’Antropocene e i nazionalismi

«Il nazionalismo è la modalità dominante di legittimazione politica e soggettività collettiva dell’era moderna» (Malesevic, 2019). «Lo Stato-nazione è la realtà politica dominante del nostro tempo» (Brubaker, 2015).

Nonostante questa realtà, che in un suo recente articolo Daniele Conversi ci ricorda, fino al 2020 nessuno studio accademico ha affrontato il tema del cambiamento climatico dalla prospettiva delle teorie sul nazionalismo. Questa considerazione mette drammaticamente in luce l’esistenza, ancora oggi, di barriere tra discipline specialistiche diverse. Da decenni ormai il problema dei cambiamenti climatici è analizzato da scienziati che si occupano di scienze fisiche, chimiche e naturali (ma anche filosofi…), tanto da aver indotto la comunità scientifica mondiale ad assegnare il nome di «Antropocene» a questo periodo della storia della Terra, così drammaticamente perturbato dalla presenza umana.

Eppure questo insieme, ormai consolidato, di conoscenze e di previsioni sul futuro dell’umanità (e del pianeta) non ha mai incrociato un aspetto cruciale delle scienze sociali, quello delle storie e delle dinamiche degli «stati» e delle «nazioni», e dei modi con cui ne vengono condizionate le vite e le relazioni tra i popoli.

Quali nazionalismi per il futuro globale?

Daniele Conversi è stato il primo studioso a esplorare questo campo di ricerca, con un articolo pubblicato nel 2020 dal titolo: The ultimate challenge: nationalism and climate change (L’ultima sfida: nazionalismo e cambiamento climatico). Dopo questo primo saggio ha approfondito la ricerca sul tema, cercando di capire se sono in atto forme di nazionalismo che siano più adeguate di altre nell’accogliere la sfida del cambiamento climatico. Insieme al collega Lorenzo Posocco ha preso in esame alcuni Stati-Nazione che di recente sono stati ufficialmente segnalati come particolarmente virtuosi nel campo della protezione ambientale.

Si tratta di Paesi scandinavi che hanno ricevuto punteggi elevati in valutazioni internazionali, come l’Environmental Performance Index (EPI), elaborato dalle università di Yale e della Columbia e pubblicato per la prima volta nel 2002. Progettato per integrare gli obiettivi ambientali delle Nazioni Unite, l’EPI prende in esame 32 indici di performance di salute ambientale calcolati per 180 Paesi.

La domanda che si sono posti Conversi e Posocco era: «Which nationalism for the Anthropocene?» (Quale nazionalismo per l’Antropocene?) ed è articolata in due questioni tra loro correlate:Il nazionalismo, che è l’ideologia dominante del nostro mondo di «stati-nazione», è compatibile con gli sforzi volti a fermare o ridurre i cambiamenti climatici e le conseguenti catastrofi ambientali?
Quali forme di governo, ispirate o meno all’ideologia nazionalista, potrebbero risultate più adatte ad affrontare la minaccia climatica che si è profilata all’orizzonte?
Tra emergenze geofisiche globali e divisioni geopolitiche

Mentre continua con le sue ricerche a cercare risposte a quelle domande, Daniele Conversi ha voluto compiere un servizio alla società, mettendo a disposizione del pubblico non specialistico (e a studiosi molto concentrati sulle proprie discipline!) una riflessione ampia e approfondita delle basi concettuali e delle ricerche finora svolte sui due temi che ritiene essenziale mettere in relazione, e di cui considera necessario lo sviluppo di un dialogo costruttivo: gli studi sulle cause e sulle previsioni dei cambiamenti climatici globali in atto, e gli studi sulla storia, sulla molteplicità e sull’evoluzione dei nazionalismi, che in varia misura influenzano le scelte politiche delle collettività umane in questo frangente storico.

Nel presentare il suo libro, pubblicato pochi mesi fa, l’autore ha sottolineato con forza l’importanza della divulgazione degli studi sui cambiamenti climatici, e sulla natura dinamica dei cambiamenti in atto sul nostro pianeta. Illustrando la struttura concettuale del suo lavoro, Conversi ha ripetutamente segnalato la necessità di un continuo aggiornamento dei dati scientifici, che pur essendo recentissimi sono già superati dal succedersi di nuovi e drammatici cambiamenti.

Nonostante la consapevolezza di una rapida obsolescenza dei dati scientifici, l’autore ha voluto dedicare la prima metà del suo libro ai risultati delle più recenti ricerche: oltre a fornire dati quantitativi, ha approfondito gli aspetti epistemologici e alle riflessioni interdisciplinari di questa nuova scienza della complessità e del limite, così poco nota al pubblico in generale e alle classi tecno-politiche dominanti. La seconda parte del libro affronta il problema della divisione geopolitica in Stati-nazione e dei loro nazionalismi incrociati, che hanno impedito finora azioni concertate per fermare la crisi, influenzando negativamente tutti gli accordi internazionali sul clima.

Nel quarto capitolo, in particolare, Conversi si interroga su come gestire questa pervasività del nazionalismo e su come cooptarlo verso una causa per cui non era stato inizialmente concepito, cioè la lotta al cambiamento climatico.

Mentre la ricerca scientifica continua a confermare le conseguenze sempre più rovinose dell’inazione – afferma l’autore – la necessità di costruire reti e alleanze globali sotto la bandiera del «cosmopolitismo di sopravvivenza» non può escludere a priori tutte le forme di nazionalismo. L’emergenza climatica e le relative crisi sono così ampie e onnicomprensive che nulla dovrebbe essere escluso a priori nello sforzo comune di cercare una via d’uscita dalla possibile catastrofe.

Una miniera di spunti

La presentazione che Daniele Conversi ha fatto del suo libro è stata lucida e appassionata, e ha suscitato interesse e curiosità da parte dei presenti, ciascuno esperto di «qualcosa» ma sicuramente ignorante su «altro». Ma la sfida lanciata dall’autore per stimolare un maggior grado di interdisciplinarietà tra gli studiosi, e per promuovere l’avvio di dialoghi davvero trans-disciplinari, si apprezza in tutta la sua complessità quando si comincia a sfogliare il suo libro. In poco più di 150 pagine vengono offerte informazioni, riflessioni, suggerimenti di letture che aiutano a vedere i problemi con sguardi nuovi, a connettere aspetti della realtà finora tenuti rigidamente separati, ad approfondire argomenti che sembravano estranei o irrilevanti.

Una bibliografia sterminata eppure tutta pertinente mette ricercatrici e ricercatori di fronte all’evidente necessità di sviluppare dialoghi con i colleghi di altre discipline, e sollecita lettrici e lettori del pubblico meno specialistico ad associare le nuove conoscenze scientifiche per ripensare le proprie scelte politiche in uno scenario di rapida trasformazione globale.

Una copia del libro sarà a breve disponibile al prestito presso la Biblioteca del Centro Studi Sereno Regis di Torino.



sabato 4 febbraio 2023

La Fine dell'Internazionalismo: e ora come la mettiamo con il cambiamento climatico?

 



L'Internazionale Comunista nasce al tempo della Comune di Parigi, verso il 1870. Una reazione contro la vittoria del nazionalismo Prussiano sopra l'internazionalismo che il secondo impero francese di Napoleone III ancora coltivava. Ma, nonostante l'internazionalismo di maniera del comunismo sovietico, il trionfo del nazionalismo è stato completo durante il ventesimo secolo. E oggi ci ritroviamo di fronte a un ritorno di fiamma del nazionalismo più esasperato sotto il nome di "sovranismo." 


Come possiamo affrontare problemi globali in una prospettiva nazionale? Sembra un'impresa persa in partenza, e probabilmente lo è. Di fronte ai problemi sempre più pressante del cambiamento climatico, del degrado dell'ecosistema, dell'esaurimento delle risorse, la società umana si sta rifugiando in un nazionalismo sempre più esasperato. Ma allora, cosa fare? 

Sono pochi che ci stanno ragionando sopra. Uno è Daniele Conversi che mette i problemi sul piatto con il suo recente libro "Cambiamenti Climatici, Antropocene e Politica", e non a caso, riparte dal Club di Roma per rivisitare la situazione attuale. Il Club era stato forse la prima entità che al tempo dello studio del 1972, "I Limiti dello sviluppo" che aveva cercato di affrontare problemi globali con un approccio globale. Era stato un fallimento, ma anche un punto di partenza che aveva generato molti tentativi paralleli di gestire le risorse globali per il bene di tutta l'umanità.

Sfortunatamente, dopo 50 anni di lavoro non abbiamo visto nessun progresso reale nel tentativo di costruire strutture globali per gestire i beni comuni del pianeta. Con i problemi globali che diventano sempre più pressanti, più il dibattito si rifugia in un nazionalismo esasperato che prende oggi il nome di "sovranismo." 

Quest'anno, abbiamo visto il crollo rapido e probabilmente irreversibile di certe entità che una volta sembravano una solida base sulla quale costruire delle azioni a livello planetario. La COP27 -- la conferenza delle parti sul cambiamento climatico -- si è svolta quest'anno a Sharm el Sheik, in Egitto, dando più che altro l'impressione di un viaggio-vacanze organizzato dal ClubMed, completo con la dimostrazione di un set di pentole in vendita a prezzi modici. Poi, l'incontro annuale del "World Economic Forum" a Davos ha visto la prudente assenza di molti dei leader mondiali, lasciando spazio a creature che sono ormai ridotte a caricature di se stessi, come Klaus Schwab che sembra sempre di più il fratello cattivo di Babbo Natale (quello che ti porta via i regali). Per non parlare dell'OMS, che sta suscitando l'ira funesta di tutti quanti cercando di imporre un trattato internazionale sulle emergenze pandemiche, senza neanche un briciolo di pudore per ammettere di aver completamente sballato la gestione di quella del Covid. E non dimentichiamoci dell'IPCC. Vi ricordate dell'IPCC? L'international panel sul cambiamento climatico. Sapete che ha tirato fuori uno dei suoi rapporti l'anno scorso? Un rapporto importantissimo. Certo... Ah... e poi l'Unione Europea.... Europea cosa?

Insomma, se ne è sciolto di ghiaccio in Groenlandia dal tempo in cui Peccei cercava di mettere insieme i leader mondiali per concordare azioni a livello internazionale che portassero a una miglior distribuzione e una miglior gestione dei beni comuni del pianeta. Non è detto che non si riesca ad arrivarci attraverso un "Nazionalismo Verde" come nota Conversi nel suo libro. Certamente, è un'impresa molto in salita, ma come dice lui a conclusione del libro "nulla dovrebbe essere escluso a priori." Parlarne non vuol dire che li si possano risolvere, ma perlomeno si può provare a parlarne in modo realistico, senza pensare che certi fantasmi del passato abbiano ancora rilevanza nel mondo attuale.


mercoledì 4 marzo 2020

Filtri identitari, nazionalismo e crisi ecologica




Un post di Federico Tabellini

Nei momenti di grande incertezza, negli esseri umani cresce il bisogno d'identità. Gli eventi politici recenti, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, ne sono la prova. Uno spirito anti-globale e localistico ha preso d’assedio le due sponde dell’atlantico. Nonostante la globalizzazione dell’informazione, e forse in parte per sua causa, lo stato-nazione – questo binomio in apparenza inscindibile nel nostro tempo – è riemerso prepotentemente come il frame interpretativo egemone sulla realtà: un vero e proprio manto ideologico che ricopre ogni cosa, alterandone la fisionomia.

Gli stati fanno appello all’identità nazionale per rafforzare la propria coesione interna. Le nazioni che non sono organizzate in stati (la Catalogna, per esempio) rivendicano un riconoscimento istituzionale: vogliono costituirsi come stati. Oggi più che quindici anni fa, vediamo attraverso le lenti distorsive dello stato-nazione, ci sentiamo parte di esso, e in base a esso ci auto-definiamo nelle nostre interazioni con gli altri. Persino chi nel proprio intimo non vede, non sente e non si definisce in rapporto allo stato-nazione, ne è costretto nei propri rapporti sociali da un lessico culturale comune. L’alternativa è l’incomprensione, l’isolamento socio-semantico. Siamo italiani, cinesi, statunitensi o indiani prima che esseri umani. La domanda ‘sei italiano?’ utilizza il verbo essere in quasi tutte le lingue indoeuropee. Se l’io è un individuo, il noi, quando non specificato, è una nazione; il loro è una nazione.

L’identità, è fatto noto, nasce dalla distinzione. Per fare parte di qualcosa, occorre auto-escludersi da una realtà più ampia. La mera somiglianza raramente accende la scintilla identitaria. Tutti siamo umani, solo alcuni sono italiani: per ciò, mentre con la specie umana non intratteniamo una relazione emozionale, essere italiani è un sentimento identitario. Essere italiani è un’esperienza, essere umani una mera constatazione. Sappiamo di essere umani ma sentiamo di essere italiani. E poco importa che essere umani costituisca una realtà tangibile, biologica, laddove essere italiani rappresenti un mero costrutto storico-culturale. I costrutti storico-culturali appaiono spesso più reali della realtà, non è forse vero?

Sì – è vero –, ma cosa c’entra tutto questo con i temi trattati sul blog? C’entra, c’entra eccome. La rinnovata importanza delle identità nazionali si ripercuote sul modo in cui i grandi problemi del presente vengono non solo percepiti, ma anche affrontati (o  ignorati). I problemi locali diventano magicamente problemi nazionali, problemi degli italiani. Lo stato se ne deve assumere la responsabilità legale, certamente, ma sono gli individui ad attribuire ad esso una responsabilità morale. E i problemi globali, o anche solo transnazionali, non avendo un referente identitario chiaro cui fare appello, sono avvertiti come seccature esterne da delegare, o di cui liberarsi al più presto. La colpa è degli indiani, si dice, dei cinesi, o di un altro esterno che, guarda caso, è sempre rinchiuso nei confini semantici dello stato-nazione.

In Italia tanto il voto alle elezioni regionali quanto quello alle europee è di norma ridotto a un terreno di prova per le elezioni nazionali, le uniche che sembrano avere valore. La stampa e i media di massa privilegiano le notizie di portata nazionale, relegando alle pagine interne tanto quelle locali quanto quelle di portata globale, oppure ponendo l’attenzione su loro aspetti di livello nazionale. I problemi degli italiani diventano così più importanti di quelli dei milanesi o degli europei. La crisi ecologica globale, invece, acquista cogenza e riceve la maggiore attenzione solo quando la sempre più frequente alluvione o (inserisci-qui-un-disastro) colpisce la penisola.

Il doppio binario con cui si considera lo stato-nazione e qualsiasi altra entità politica fa sì che una riforma sgradita a livello europeo spinga ampie frange della popolazione a voler mandare all’aria l’intera Unione, laddove la medesima riforma a livello nazionale provocherebbe al più la richiesta di un cambio nella gestione dello stato. Dai problemi sovra-nazionali si scappa, solo i problemi nazionali vengono affrontati – spesso male, ma questo è un altro discorso. Tale atteggiamento è uno dei principali fattori alla base della paralisi politica di fronte alle grandi sfide globali del nostro tempo, crisi ecologica in primis. (E la colpa del fallimento, superfluo ribadirlo, è sempre dell’altro, e l’altro è sempre, immancabilmente, uno stato-nazione).

Vuoi un esempio? Eccone qua uno: accecati dalla nostra visione stato-centrica del mondo, dimentichiamo che i cinesi, pur contribuendo per un quarto alle emissioni globali di Co2, inquinano assai meno degli statunitensi, che concorrono per un ‘mero’ 15%. Eh sì, perché i cinesi sono 1 miliardo e 400 milioni, gli statunitensi ‘solo’ 320 milioni. Però a noi usare gli stati come metro di giudizio fa assai comodo. Utilizzare le emissioni pro capite come metro di giudizio farebbe ricadere la responsabilità sui nostri consumi, sui nostri stili di vita insostenibili. Utilizzare gli stati ci permette di andare in piazza a protestare contro il riscaldamento climatico dopo un pranzo veloce al MacDonald. Grazie alla loro visione stato-centrica del mondo, gli statunitensi possono illudersi di essere virtuosi. Loro (il ‘popolo americano’, non i singoli americani) inquinano meno dei cinesi! E gli australiani? Hanno le più alte emissioni pro capite al mondo dopo l’Arabia Saudita, ma ci sono solo 25 milioni di australiani. Un altro popolo virtuoso. 

Se solo avessimo il coraggio di scostarci per un istante dagli occhi le nostre preziose lenti identitarie, il mondo ci apparirebbe diverso, assai diverso. Chissà, potremmo persino arrivare a condannare gli australiani più dei cinesi, i tedeschi più degli italiani, gli italiani più degli indiani. Ma sarebbe un errore. Perché non è questo il punto. Non il principale, almeno. Il punto è che sono gli individui che inquinano, non i popoli. Ciò non vuol dire che i governi nazionali, in quanto nucleo del potere politico globale, non abbiano la responsabilità più grande di avviare il cambiamento. Significa però che la ripartizione dell’onere di quel cambiamento non può avere come punto di riferimento esclusivo gli stati. Dividere la popolazione mondiale per le emissioni globali e vedere di quanto sono superiori a un livello di emissioni pro capite sostenibile per il pianeta, e usare quel numero come referente individuale, ha più senso che parlare delle emissioni della Cina, dell’India e degli Stati Uniti. È anche probabile che ci faccia passare dalla parte del tort… ah! Hai visto com’è facile? Ci sono quasi cascato anch'io. Stavo parlando ancora di noi-italiani; mi stavo rimettendo le lenti davanti agli occhi. Invece proviamo a guardarci come individui, e a giudicarci come tali, e a usare un plurale (se proprio dobbiamo) che trascenda i confini immaginari delle nazioni. Un plurale inclusivo, che responsabilizzi tutti in egual misura, senza discriminare secondo la categoria più idiota di tutte: il luogo di nascita. Dovremmo farlo a maggior ragione in questo momento d’incertezza, di crisi identitaria (espressione paradossale, visto che l’identità l’alimenta, la crisi).

Noi europei, che in gran parte non sentiamo di esserlo, ripudiamo l’Europa invece di renderla, come sarebbe auspicabile, il fulcro  di uno sforzo comune e coordinato verso il cambiamento. Ci rifugiamo nei nazionalismi, quando ciò di cui avremmo disperatamente bisogno è un meta-nazionalismo che ponga al centro l’essere umano. Un eco-umanismo globalizzato che ci faccia vedere il mondo in termini di individui (presenti e futuri) e specie – non solo quella umana, ma anche le numerose altre che stiamo distruggendo giorno per giorno –, anziché in termini di nazioni. Un meta-nazionalismo che ci faccia sentire più europei che italiani, e più umani che europei. E che ci faccia vedere in faccia la realtà.

Come dici? Non riesci proprio a vederla? Guarda qua, l’ho compressa in una frase e ripulita per bene dalle incrostazioni sovraniste, che di questi tempi quelle si appiccicano ovunque come la muffa. Ecco, sta qui sotto:

‘Il futuro dell’Europa conta più del futuro dell’Italia, e il futuro del pianeta infinitamente più di entrambi.’

Abbiamo fatto l’Italia, abbiamo fatto gli italiani. Ora è tempo di fare l’Europa e gli europei, e l’umanità soprattutto, e gli esseri umani.