Un post di Federico Tabellini
Nei momenti di grande incertezza, negli esseri umani cresce il bisogno d'identità. Gli eventi politici recenti, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, ne sono la prova. Uno spirito anti-globale e localistico ha preso d’assedio le due sponde dell’atlantico. Nonostante la globalizzazione dell’informazione, e forse in parte per sua causa, lo stato-nazione – questo binomio in apparenza inscindibile nel nostro tempo – è riemerso prepotentemente come il frame interpretativo egemone sulla realtà: un vero e proprio manto ideologico che ricopre ogni cosa, alterandone la fisionomia.
Nei momenti di grande incertezza, negli esseri umani cresce il bisogno d'identità. Gli eventi politici recenti, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, ne sono la prova. Uno spirito anti-globale e localistico ha preso d’assedio le due sponde dell’atlantico. Nonostante la globalizzazione dell’informazione, e forse in parte per sua causa, lo stato-nazione – questo binomio in apparenza inscindibile nel nostro tempo – è riemerso prepotentemente come il frame interpretativo egemone sulla realtà: un vero e proprio manto ideologico che ricopre ogni cosa, alterandone la fisionomia.
Gli stati fanno appello all’identità nazionale per
rafforzare la propria coesione interna. Le nazioni che non sono organizzate in
stati (la Catalogna, per esempio) rivendicano un riconoscimento istituzionale:
vogliono costituirsi come stati. Oggi più che quindici anni fa, vediamo attraverso le lenti distorsive
dello stato-nazione, ci sentiamo
parte di esso, e in base a esso ci auto-definiamo
nelle nostre interazioni con gli altri. Persino chi nel proprio intimo non
vede, non sente e non si definisce in rapporto allo stato-nazione, ne è
costretto nei propri rapporti sociali da un lessico culturale comune.
L’alternativa è l’incomprensione, l’isolamento socio-semantico. Siamo
italiani, cinesi, statunitensi o indiani prima che esseri umani. La domanda ‘sei italiano?’ utilizza il verbo essere
in quasi tutte le lingue indoeuropee. Se l’io
è un individuo, il noi, quando non
specificato, è una nazione; il loro è
una nazione.
L’identità, è fatto noto, nasce dalla distinzione. Per
fare parte di qualcosa, occorre auto-escludersi da una realtà più ampia. La
mera somiglianza raramente accende la scintilla identitaria. Tutti siamo umani,
solo alcuni sono italiani: per ciò, mentre con la specie umana non
intratteniamo una relazione emozionale, essere
italiani è un sentimento identitario. Essere italiani è un’esperienza, essere
umani una mera constatazione. Sappiamo
di essere umani ma sentiamo di essere
italiani. E poco importa che essere umani
costituisca una realtà tangibile, biologica, laddove essere italiani rappresenti
un mero costrutto storico-culturale. I costrutti storico-culturali appaiono
spesso più reali della realtà, non è forse vero?
Sì – è vero –, ma
cosa c’entra tutto questo con i temi trattati sul blog? C’entra,
c’entra eccome. La rinnovata importanza delle identità nazionali si ripercuote
sul modo in cui i grandi problemi del presente vengono non solo percepiti, ma
anche affrontati (o ignorati). I
problemi locali diventano magicamente problemi nazionali, problemi degli
italiani. Lo stato se ne deve assumere la responsabilità legale, certamente, ma
sono gli individui ad attribuire ad esso una responsabilità morale. E i
problemi globali, o anche solo transnazionali, non avendo un referente
identitario chiaro cui fare appello, sono avvertiti come seccature esterne
da delegare, o di cui liberarsi al più presto. La colpa è degli indiani, si
dice, dei cinesi, o di un altro
esterno che, guarda caso, è sempre rinchiuso nei confini semantici dello
stato-nazione.
In Italia tanto il voto alle elezioni regionali
quanto quello alle europee è di norma ridotto a un terreno di prova per le
elezioni nazionali, le uniche che sembrano avere valore. La stampa e i media di
massa privilegiano le notizie di portata nazionale, relegando alle pagine
interne tanto quelle locali quanto quelle di portata globale, oppure ponendo
l’attenzione su loro aspetti di livello nazionale. I problemi degli italiani
diventano così più importanti di quelli dei milanesi o degli europei. La crisi
ecologica globale, invece, acquista cogenza e riceve la maggiore attenzione
solo quando la sempre più frequente alluvione o (inserisci-qui-un-disastro)
colpisce la penisola.
Il doppio binario con cui si considera lo
stato-nazione e qualsiasi altra entità politica fa sì che una riforma sgradita
a livello europeo spinga ampie frange della popolazione a voler mandare all’aria l’intera Unione, laddove la
medesima riforma a livello nazionale provocherebbe al più la richiesta di un
cambio nella gestione dello stato. Dai problemi sovra-nazionali si scappa, solo
i problemi nazionali vengono affrontati – spesso male, ma questo è un altro
discorso. Tale atteggiamento è uno dei principali fattori
alla base della paralisi politica di fronte alle grandi sfide globali del
nostro tempo, crisi ecologica in primis. (E la colpa del fallimento, superfluo ribadirlo, è sempre dell’altro, e
l’altro è sempre, immancabilmente, uno stato-nazione).
Vuoi un esempio?
Eccone qua uno: accecati dalla nostra visione stato-centrica del mondo,
dimentichiamo che i cinesi, pur contribuendo per un quarto alle emissioni
globali di Co2, inquinano assai meno degli statunitensi, che concorrono per un
‘mero’ 15%. Eh sì, perché i cinesi sono 1 miliardo e 400 milioni, gli
statunitensi ‘solo’ 320 milioni. Però a noi usare gli stati come metro di
giudizio fa assai comodo. Utilizzare le emissioni pro capite come metro di giudizio
farebbe ricadere la responsabilità sui nostri consumi, sui nostri stili di vita
insostenibili. Utilizzare gli stati ci permette di andare in piazza a
protestare contro il riscaldamento climatico dopo un pranzo veloce al MacDonald.
Grazie alla loro visione stato-centrica del mondo, gli statunitensi possono
illudersi di essere virtuosi. Loro (il ‘popolo americano’, non i singoli americani)
inquinano meno dei cinesi! E gli australiani? Hanno le più alte emissioni pro
capite al mondo dopo l’Arabia Saudita, ma ci sono solo 25 milioni di
australiani. Un altro popolo virtuoso.
Se solo avessimo il
coraggio di scostarci per un istante dagli occhi le nostre preziose lenti
identitarie, il mondo ci apparirebbe diverso, assai diverso. Chissà, potremmo persino
arrivare a condannare gli australiani più dei cinesi, i tedeschi più degli
italiani, gli italiani più degli indiani. Ma sarebbe un errore. Perché non è
questo il punto. Non il principale, almeno. Il punto è che sono gli individui
che inquinano, non i popoli. Ciò non vuol dire che i governi nazionali, in
quanto nucleo del potere politico globale, non abbiano la responsabilità più
grande di avviare il cambiamento. Significa però che la ripartizione dell’onere
di quel cambiamento non può avere come punto di riferimento esclusivo gli
stati. Dividere la popolazione mondiale per le emissioni globali e vedere di
quanto sono superiori a un livello di emissioni pro capite sostenibile per il
pianeta, e usare quel numero come referente individuale,
ha più senso che parlare delle emissioni della Cina, dell’India e degli Stati
Uniti. È anche
probabile che ci faccia passare dalla parte del tort… ah! Hai visto com’è facile?
Ci sono quasi cascato anch'io. Stavo parlando ancora di noi-italiani; mi stavo
rimettendo le lenti davanti agli occhi. Invece proviamo a guardarci come
individui, e a giudicarci come tali, e a usare un plurale (se proprio dobbiamo)
che trascenda i confini immaginari delle nazioni. Un plurale inclusivo, che
responsabilizzi tutti in egual misura, senza discriminare secondo la categoria
più idiota di tutte: il luogo di nascita. Dovremmo farlo a maggior ragione in
questo momento d’incertezza, di crisi identitaria (espressione paradossale,
visto che l’identità l’alimenta, la crisi).
Noi europei, che in gran parte non sentiamo di
esserlo, ripudiamo l’Europa invece di renderla, come sarebbe auspicabile, il
fulcro di uno sforzo comune e coordinato
verso il cambiamento. Ci rifugiamo nei nazionalismi, quando ciò di cui avremmo
disperatamente bisogno è un meta-nazionalismo che ponga al centro l’essere
umano. Un eco-umanismo globalizzato che ci faccia vedere il mondo in termini di
individui (presenti e futuri) e specie – non solo quella umana, ma anche le
numerose altre che stiamo distruggendo giorno per giorno –, anziché in termini
di nazioni. Un meta-nazionalismo che ci faccia sentire più europei che
italiani, e più umani che europei. E che ci faccia vedere in faccia la realtà.
Come dici? Non riesci proprio a vederla? Guarda
qua, l’ho compressa in una frase e ripulita per bene dalle incrostazioni
sovraniste, che di questi tempi quelle si appiccicano ovunque come la muffa.
Ecco, sta qui sotto:
‘Il futuro dell’Europa conta più del futuro
dell’Italia, e il futuro del pianeta infinitamente più di entrambi.’
Abbiamo fatto l’Italia, abbiamo fatto gli
italiani. Ora è tempo di fare l’Europa e gli europei, e l’umanità
soprattutto, e gli esseri umani.