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sabato 17 dicembre 2022

La fine dell'Europa: La conclusione di un lungo ciclo storico.

Il fallimento dell'Unione Europea potrebbe essere iniziato con la scelta della bandiera. Non che le bandiere nazionali debbano essere opere d'arte, ma almeno possono essere fonte di ispirazione. Ma questa bandiera è completamente piatta, non è originale ed è solo deprimente. Sembra una pizza al gorgonzola andata a male. E questa è solo una delle tante cose che non vanno bene dell'Unione Europea. (itentativi di renderla più attraente sono falliti completamente). È la conclusione di un ciclo millenario che sta per finire. Probabilmente era inevitabile, ma questo non lo rende meno doloroso.



L'Europa ha una lunga storia che risale a quando le calotte glaciali si ritirarono alla fine dell'ultima era glaciale, circa 10.000 anni fa. A quel tempo, i nostri remoti antenati si trasferirono in una terra incontaminata, la coltivarono, costruirono villaggi, strade e città. Viaggiarono, migrarono, combatterono tra loro, crearono culture, costruirono templi, fortezze e palazzi. Sulla costa meridionale dell'Europa emerse una vivace rete di scambi commerciali, resa possibile dal trasporto marittimo sul Mar Mediterraneo. Da questa rete nacque la civiltà greca e poi, verso la fine del primo millennio a.C., l'Impero romano. Esso comprendeva la maggior parte dell'Europa occidentale.(immagine dall'ESA)


Come tutti gli imperi, anche l'Impero Romano ha attraversato il suo ciclo di gloria e declino. Nel V secolo d.C., quando l'Europa entrò nel Medioevo, l'Impero era scomparso se non come ricordo della passata grandezza. Nei secoli successivi, la popolazione dell'Europa occidentale diminuì fino al minimo storico, forse meno di 20 milioni di persone. L'Europa divenne una terra di fitte foreste, rovine gigantesche, piccoli villaggi e signori della guerra in lotta tra loro. Nessuno poteva immaginare che, secoli dopo, gli europei sarebbero diventati i dominatori del mondo.

A volte i crolli portano con sé il seme della ripresa. È quello che ho chiamato il"Seneca Rebound". Per qualche motivo, noi moderni denigriamo il Medioevo, chiamandolo "Età Oscura". Ma non c'era nulla di oscuro durante il Medioevo europeo: l 'Europa era povera in termini materiali, ma gli europei riuscirono a creare una cultura fatta di letteratura raffinata, splendide cattedrali, musica sofisticata, tecnologie avanzate e molto altro. Uno dei motivi della prosperità della cultura europea era la presenza di strumenti che mancavano ad altre regioni del mondo. Uno di questi era la lingua latina, utilizzata per mantenere viva l'antica cultura classica e le sue conquiste. Inoltre, favorì gli scambi commerciali e creò forti legami culturali in tutto il continente. Gli europei ereditarono anche la maggior parte del diritto e della cultura romana e le tecnologie romane in campi come la metallurgia e la costruzione di armi.

Quando l'Europa si riprese dal crollo del V secolo, nuove miniere di metalli preziosi nell'Europa orientale iniziarono a riversare ricchezza nel continente. Il risultato fu esplosivo. Già nell'800 d.C. Carlo Magno, re dei Franchi, riuscì a mettere insieme un esercito abbastanza potente da creare un nuovo impero europeo, il "Sacro Romano Impero". Con l'inizio del millennio, la popolazione europea cresceva rapidamente e aveva bisogno di spazio per espandersi. L'Europa era una molla caricata, pronta a scattare. Nel 1095, un'ondata di eserciti uscì dall'Europa e si riversò nel Vicino Oriente. Era l'epoca delle Crociate.

Inizialmente, l'invasione del Medio Oriente fu un successo spettacolare: gli eserciti cristiani sconfissero i governanti locali, fondarono nuovi regni e ricrearono un collegamento commerciale diretto con l'Asia orientale, lungo la Via della Seta. Ma il compito era troppo grande per un'Europa ancora giovane. Dopo due secoli di lotta, gli eserciti europei furono costretti ad abbandonare la Terra Santa, sconfitti e allo sbando. A questo punto, l'Europa si trovò ad affrontare nuovamente il problema che aveva cercato di risolvere con le Crociate: la sovrappopolazione. 

Il problema si risolse da solo con un rapido crollo della popolazione, prima con la grande carestia (1315-1317), poi con la peste nera. L'Europa del XIV secolo era così indebolita che rischiò seriamente di essere sopraffatta dagli eserciti mongoli provenienti dall'Asia. Fortunatamente per gli europei, i mongoli non potevano sostenere un attacco su larga scala così lontano dal centro del loro impero.


Nonostante le devastazioni della peste nera, l'Europa riemerse con la sua cultura, la sua struttura sociale e le sue conoscenze tecnologiche ancora intatte. L'Europa non si limitò a riprendersi, ma si entrò in uno spettacolare ciclo di crescita. Le tecnologie di costruzione navale furono migliorate, permettendo agli europei di navigare attraverso gli oceani. Durante le loro dispute interne, gli europei avevano anche trasformato le armi da fuoco in armi terribilmente efficaci. Durante il XVI e il XVII secolo, respinsero i tentativi dell'Impero Ottomano di espandersi in Europa. Gli Ottomani ricevettero un duro colpo sul mare a Lepanto, nel 1571. Poi, furono sconfitti in modo decisivo sulla terraferma all'assedio di Vienna, nel 1683. Con i confini orientali ormai al sicuro, gli europei ebbero mano libera per espandersi oltreoceano.

Il XVI secolo vide la nascita di un modello che sarebbe durato per diversi secoli. Gli eserciti europei invadevano regni stranieri, schiacciavano ogni resistenza militare e sostituivano i leader locali con quelli europei. A volte usavano gli abitanti locali come schiavi, altre volte li spazzavano via e li sostituivano con coloni europei. Le nuove terre furono un'incredibile fonte di ricchezza. L'Europa importava metalli preziosi, legname, spezie e persino cibo sotto forma di zucchero prodotto dalla canna da zucchero. L'afflusso di oro e argento da oltreoceano stimolò l'economia europea, mentre il legname permise agli europei di costruire più navi. Le importazioni di cibo permisero alla popolazione europea di crescere e di mettere in campo nuovi eserciti in grado di conquistare nuove terre che producevano ancora più cibo.

Tuttavia, l'espansione europea iniziò a rallentare nel XVII secolo. La guerra dei 30 anni, dal 1618 al 1648, fu un terribile disastro che potrebbe aver sterminato il 10% della popolazione europea, o forse molto di più. Poi, come sempre accade con le guerre, seguì un'altra epidemia di peste. L'Europa sembrava aver raggiunto un nuovo limite alla sua espansione. Lo zucchero proveniente dalle colonie d'oltremare non era sufficiente, da solo, a sostenere il bisogno di materiali per mantenere ed espandere ulteriormente l'impero europeo. Il legno era necessario per produrre navi e, allo stesso tempo, per essere trasformato in carbone di legna necessario per fondere i metalli. Ma gli alberi si stavano esaurendo in Europa e l'importazione di legname da oltreoceano era costosa. La maggior parte dei Paesi dell'Europa meridionale vide le proprie foreste ridursi e la propria crescita arrestarsi.

(immagine tratta da Foquet e Bradberry). (La Francia non è mostrata nella figura, ma presenta un andamento simile a quello dell'Inghilterra).

Nonostante i problemi, le economie del Nord Europa (soprattutto l'Inghilterra) ripresero rapidamente a crescere dopo la crisi del XVII secolo. Il trucco era un nuovo sviluppo tecnologico: il carbone. Il carbone era già stato utilizzato come combustibile in epoca romana, ma nessuno nella storia lo aveva mai usato su così larga scala. Con il carbone, gli europei non avevano più bisogno di distruggere le loro foreste per produrre ferro e acciaio. Fu l'inizio di una nuova, fortunata ripresa. All'inizio del XX secolo, l'Europa dominava il mondo intero, direttamente o indirettamente.

La popolazione europea secondo Zinkina et al. (2017). I due cali del XIV e del XVII secolo sono chiaramente visibili, anche se meno drammatici su questa scala rispetto al precedente lavoro di Langer.

Come tipico degli imperi, una volta completate le conquiste arrivò il momento del consolidamento. Non più le rischiose avventure dei singoli Stati, ma un governo centrale che gestisse l'impero e lo tenesse unito. Per gli antichi Romani, era stato compito di Giulio Cesare creare uno Stato forte e centralizzato. Per l'Europa moderna, la storia era molto più difficile: come domare un gruppo di stati litigiosi che sembravano passare la maggior parte del tempo a farsi la guerra tra loro?

L'imperatore del Sacro Romano Impero, Carlo V (1500-1558), fu tra i primi a provarci, senza successo. Il suo successore, Filippo II di Spagna (1527-1598), tentò di sottomettere la Gran Bretagna con la sua "invincibile armata" nel 1588, ma anche lui fallì. Il declino della Spagna lasciò spazio ad altre potenze europee per tentare di nuovo. Napoleone Bonaparte (1769-1821) ci era quasi riuscito, ma i suoi sogni imperiali naufragarono a Trafalgar e poi morirono di freddo nelle pianure russe. Poi, fu la volta della Germania. Il tentativo iniziò nel 1914 e di nuovo nel 1939. In entrambi i casi, fu un tragico fallimento. Anche la debole Italia aveva sogni imperiali. Negli anni '40, Benito Mussolini tentò di ricreare una nuova versione dell'antico Impero Romano nel Mar Mediterraneo. Un fallimento totale, ancora una volta.

Più volte, le aspiranti potenze imperiali europee si trovarono di fronte a una sfida impossibile. A Occidente, la Gran Bretagna non aveva alcun interesse a veder sorgere un Impero europeo dall'altra parte della Manica. Lo stesso valeva per l'Oriente, con la Russia che non voleva vedere una grande potenza sorgere vicino ai suoi confini. Il risultato fu che gli eserciti europei si trovarono spesso a combattere su due fronti contemporaneamente. Inoltre, il Mar Mediterraneo era nella ferrea morsa della marina britannica: le potenze continentali non potevano espandersi a sud. Con la fine della Seconda Guerra Mondiale, l 'Europa uscì dalla lotta distrutta, impoverita e umiliata.

L'ultimo (e forse l'ultimo) tentativo di unificare l'Europa è stata l'Unione Europea. I creatori dell'Unione capirono che era impossibile unificare l'Europa con mezzi militari, quindi cercarono di farlo sotto forma di una zona franca economica e di un parlamento eletto. È stato un tentativo coraggioso, ma non ha funzionato. Non avrebbe potuto funzionare. L'Unione doveva affrontare enormi forze ostili, sia interne che esterne. Gran Bretagna e Francia avrebbero dovuto bilanciare la potenza tedesca, ma quando la Gran Bretagna se ne andò con la "Brexit", nel 2020, l'Unione subì una sconfitta equivalente a quella militare subita dalla Germania nella Battaglia d'Inghilterra, nel 1940. In entrambi i casi, era il fallimento del tentativo di assorbire la Gran Bretagna nel sistema economico dell'Europa continentale.

La defezione della Gran Bretagna ha lasciato l'Unione Europea dominata dalla Germania. Proprio come durante la Seconda Guerra Mondiale, il governo tedesco non ha mai compreso che fare il gradasso non era il modo per farsi apprezzare dagli Stati vicini. Il risultato è stato la crescita di forze antieuropee in tutto il continente. Il movimento chiamato "sovranismo" mira a ripristinare il potere degli Stati nazionali e a sbarazzarsi dei burocrati dell'UE. Finora questo movimento ha giocato solo un ruolo marginale nella politica, ma è riuscito a rendere l'UE profondamente odiata da tutti coloro che non ricevono uno stipendio da Bruxelles.

Proprio come era accaduto nel 1941, l'Europa è ora impegnata in una battaglia disperata su due fronti diversi, ma la lotta è ora principalmente economica e culturale, non militare: è una guerra di "dominio a tutto spettro". La lotta è ancora in corso, ma sembra già chiaro che l'Europa è stata sconfitta. Proprio come la Germania si era autodistrutta con un attacco militare alla Russia nel 1941, l'Unione Europea si sta autodistruggendo con le sue sanzioni economiche contro la Russia. Di fatto, l'Europa sta commettendo un lento e doloroso suicidio. Ma è così che funziona il dominio a tutto spettro: distrugge i nemici dall'interno.

E ora? Era inevitabile che l'Europa cessasse di essere un Impero. Le risorse umane e materiali che avevano reso possibile il dominio europeo non ci sono più. Ma non era inevitabile che l'Europa si autodistruggesse. L 'Europa avrebbe potuto sopravvivere e mantenere la sua indipendenza rimanendo in buoni rapporti con le altre potenze eurasiatiche, Cina, Russia e India, ma scegliere di rompere le relazioni commerciali, culturali e umane con il resto dell'Eurasia non è stato solo un suicidio economico. È stato un suicidio culturale e morale.

Quindi, cosa succederà alla povera Europa? La storia, come al solito, fa rima: non dimenticate che nel 1945 il piano ufficiale degli Stati Uniti prevedeva la distruzione dell'economia tedesca e lo sterminio della maggior parte della popolazione tedesca. Fortunatamente il piano è stato accantonato, ma questa idea potrebbe tornare di moda? Non possiamo escludere che stati più potenti della debole coalizione Europea decidano che la distruzione dell'economia Europea sia una cosa conveniente per loro. E che quelli che non sopravviveranno al crollo economico, non sono un loro problema. Un'Europa impoverita potrebbe tornare a essere qualcosa di non dissimile da ciò che era nell'Alto Medioevo: spopolata, povera, primitiva, una mera appendice del grande continente eurasiatico.

Eppure, l'Europa si è ripresa più di una volta da terribili disastri. Potrebbe accadere di nuovo. Ma non a breve termine.


Altrettanto attraente di una pizza al gorgonzola andata a male

venerdì 9 dicembre 2022

Qual è la prossima cosa che ci arriverà addosso? Preparatevi, perché potrebbe essere una gran bella botta


Nonostante io abbia antichi veggenti come antenati (gli "aruspici"), non pretendo di essere in grado di prevedere il futuro. Ma credo di poter proporre degli scenari per il futuro. Quale potrebbe essere il prossimo disastro che ci arriverà addosso? Suggerisco che sarà lo sconvolgimento del mercato petrolifero causato dalla recente misura di un tetto al prezzo del petrolio russo.


Vi ricordate quante cose sono cambiate negli ultimi 2-3 anni, e sono cambiate in modo incredibilmente veloce? C'era uno schema in questi cambiamenti: una parte dello schema era che dovevano essere solo temporanei, un altro era che erano per il nostro bene. Ci è stato detto che erano necessarie"due settimane per appiattire la curva", che "le sanzioni faranno crollare l'economia russa in due settimane" e molte altre cose. Poi, i nostri problemi saranno risolti e il mondo tornerà alla normalità. Ma questo non è successo. Al contrario, il risultato è stato una "nuova normalità", per nulla simile a quella vecchia.

Ora, la domanda più ovvia è "e adesso?" Più esattamente,"con cosa ci colpiranno la prossima volta?". "C'è l'idea che possa esserci una nuova pandemia, un nuovo virus o il ritorno di quello vecchio. Ma no. Sono più intelligenti di così: finora sono sempre stati un passo, forse due, avanti a noi. Sono maestri di propaganda, sanno che la propaganda si basa sui memi e che i memi hanno una durata limitata. I vecchi memi sono come i vecchi giornali, non sono più interessanti. Un particolare spauracchio non può spaventare la gente per troppo tempo, e l'idea di spaventarci con un virus pandemico ha superato la sua utilità. Potrebbero averci sondato con la pandemia del "vaiolo delle scimmie", e hanno visto che non ha funzionato. Era comunque ovvio. Quindi, ora che si fa?

Permettetemi di suggerire un possibile nuovo modo di colpirci. Forse ne avete sentito parlare ma, finora, si pensava che fosse qualcosa di marginale, non destinato a creare un'altra "nuova normalità". Ma potrebbe. È enorme, è gigantesco, sta arrivando. È il il tetto sui prezzi del petrolio russo. L'idea è che un cartello di Paesi, soprattutto occidentali, si mettono d'accordo per vietare l'importazione di petrolio russo a meno che non abbia un prezzo inferiore ai 60 dollari al barile. Inoltre, renderà più difficile per la Russia esportare petrolio all'estero, anche nei Paesi che non aderiscono all'accordo.

Questa idea è, come al solito, promossa come un modo per aiutarci. Non solo danneggerà il malvagio Putin, ma ridurrà i prezzi del petrolio, quindi tutti in Occidente dovrebbero essere felici. Ma funzionerà davvero? A dir poco difficile, ed è probabile che i promotori lo sappiano molto bene.

Pensateci: negli ultimi cento anni non è mai successo che un cartello di Paesi intervenisse per imporre un certo prezzo del petrolio a livello mondiale. Anche durante la "crisi petrolifera" degli anni '70, l'Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC) non ha mai fatto ciò che viene spesso accusata di aver fatto, fissando un prezzo elevato del petrolio. L'OPEC può solo fissare quote di produzione o sanzionare alcuni Paesi, ma non ha alcun potere, e non l'ha mai avuto, sui prezzi, che sono stabiliti dal mercato internazionale.

Quando i governi si intromettono nei prezzi, i risultati sono sempre negativi. In genere, i prezzi dei beni vengono fissati troppo bassi e ciò produce due effetti: la nascita di un mercato nero e la scomparsa dei beni dal mercato ufficiale. Era una caratteristica tipica dell'economia sovietica, dove i prezzi erano spesso fissati a livelli bassi per dare l'impressione che certi beni fossero alla portata di tutti. Ma non era così: in teoria, la maggior parte dei cittadini sovietici poteva permettersi il caviale venduto ai prezzi stabiliti dal governo. In pratica, questo caviale non si trovava quasi mai nei negozi. Ma, naturalmente, era possibile trovarlo al mercato nero, se si potevano pagare prezzi esorbitanti.

Oggi, intervenire per fissare un prezzo per il petrolio russo equivale a gettare una chiave inglese negli ingranaggi di una macchina enorme. Nessuno sa esattamente come reagirà il mercato petrolifero globale. L'unica cosa certa è che i russi si rifiutano di vendere il loro petrolio ai Paesi che hanno sottoscritto l'accordo. Il risultato complessivo dell'eliminazione di un grande produttore dal mercato può essere solo uno: l'aumento dei prezzi del petrolio. Esattamente l'opposto di ciò che il price cap dovrebbe fare. Ma questo è il minimo che possa accadere: gli effetti del tetto sono imprevedibili su un mercato già instabile e soggetto a oscillazioni selvagge dei prezzi. L'Europa potrebbe perdere completamente l'accesso al petrolio e andare in crisi. Le carestie sono state un evento fisso nella storia europea, potrebbero ripetersi. Cose del genere: non piccoli cambiamenti, ma cambiamenti enormi.

Perché i paesi occidentali si sono impegnati in questa idea apparentemente controproducente? Forse c'è del metodo in questa follia. Mi vengono in mente alcune possibili spiegazioni:

1. I governi occidentali sono nelle mani di idioti che agiscono secondo il principio noto come "Mi sono buttato nudo in un cespuglio di rovi". Perché? Perché mi sembrava una buona idea per cogliere le more". Mettono in pratica idee che sembrano buone (danneggiare Putin), senza preoccuparsi delle conseguenze (distruggere l'economia europea).

2. Il tetto ai prezzi ha lo scopo specifico di aumentare i prezzi del petrolio. Costringerà i Paesi consumatori in Europa a passare dal petrolio russo, relativamente economico, al più costoso petrolio americano, che diventerà ancora più caro in un regime di quasi monopolio. Questo porterà enormi profitti ai produttori americani. Non dimenticate che le élite americane sono convinte che le risorse petrolifere statunitensi siano infinite, o quasi.

3. Il tetto ai prezzi è pensato come un modo per salvare l'industria statunitense del tight oil. Finora il tight oil è stato quasi un miracolo, riportando gli Stati Uniti a una posizione di dominio tra i produttori di petrolio. Ma ora si trova in difficoltà a causa del calo dei prezzi del petrolio sul mercato mondiale. Con un aumento dei prezzi del petrolio, l 'Europa finanzierà un nuovo ciclo di estrazione di tight oil negli Stati Uniti, mentre i profitti rimarranno negli Stati Uniti. Sembra diabolico, e forse lo è. Aggiungo che forse c'è un motivo per cui l'industria del tight oil è stata recentemente dichiarata "morta" dai media tradizionali. Chiamatemi pure teorico della cospirazione, ma questo articolo su "Oilprice.com" potrebbe avere avuto lo scopo di spaventare i produttori statunitensi e far loro accettare la rischiosa misura di vietare l'ingresso del petrolio russo nel mercato occidentale.

4. Potrebbe esistere una "forza nascosta", da qualche parte, che sta agendo con un piano a livello globale. Il piano prevede una riduzione forzata della produzione e del consumo di combustibili fossili per mitigare i danni generati dal riscaldamento globale o, forse più probabilmente, per lasciare l'energia alle élite togliendola ai pezzenti come noi. Gli eventi recenti, la crisi di Covid e la crisi russa, hanno entrambi l'effetto di impoverire alcuni dei principali consumatori di combustibili fossili, i cittadini occidentali della classe media, riducendo così il consumo complessivo. Il tetto al prezzo del petrolio russo potrebbe essere solo il primo passo di un nuovo piano che costringerà gli occidentali ad abbandonare definitivamente la loro dipendenza dai combustibili fossili, che lo vogliano o meno. Questa potrebbe non essere una cattiva idea per diversi motivi, ma come medicina è equivalente alla lobotomia o alla mastectomia radicale per i singoli esseri umani. Diciamo che è un tantino estremo come intervento.

È possibile che siano all'opera tutti e quattro questi fattori. In ogni caso, si sta materializzando una potente convergenza di interessi che probabilmente riuscirà a far accettare il tetto al petrolio russo a livello mondiale. Considerando la facilità con cui i cittadini europei sono stati indotti a credere alle cose più assurde nel corso degli ultimi due anni, è improbabile che capiscano cosa gli si sta facendo (e permettetemi di non usare le parole appropriate per il concetto). 

Non che i cittadini americani se la passeranno molto meglio: l'enorme trasferimento di ricchezza dall'Europa agli Stati Uniti andrà tutto nelle tasche degli oligarchi americani. Quanto ai governi europei, sono le strutture che dovrebbero opporsi a questo gigantesco trasferimento di ricchezza, ma sono al soldo di potenze straniere o comunque non possono opporsi. Quindi aderiranno con entusiasmo all'idea, perlomeno ufficialmente.

È questo che mostra la sfera di cristallo? Non necessariamente. Diciamo solo che ci sono ragioni per pensare che quello appena descritto sia uno scenario probabile. Poi, i piani meglio congegnati di uomini e topi alle volte non funzionano per niente. C'è un limite alla forza con cui si può stirare qualcosa qualcosa prima che vada in pezzi o si rivolti all'indietro e ci morda. I cittadini europei continueranno per sempre a essere felici di essere stuprati economicamente dagli Stati Uniti? Il futuro è sempre pieno di sorprese, ma la sfera di cristallo mostra sempre la stessa cosa: il mondo va dove ci sono i soldi.


 

mercoledì 4 marzo 2020

Filtri identitari, nazionalismo e crisi ecologica




Un post di Federico Tabellini

Nei momenti di grande incertezza, negli esseri umani cresce il bisogno d'identità. Gli eventi politici recenti, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, ne sono la prova. Uno spirito anti-globale e localistico ha preso d’assedio le due sponde dell’atlantico. Nonostante la globalizzazione dell’informazione, e forse in parte per sua causa, lo stato-nazione – questo binomio in apparenza inscindibile nel nostro tempo – è riemerso prepotentemente come il frame interpretativo egemone sulla realtà: un vero e proprio manto ideologico che ricopre ogni cosa, alterandone la fisionomia.

Gli stati fanno appello all’identità nazionale per rafforzare la propria coesione interna. Le nazioni che non sono organizzate in stati (la Catalogna, per esempio) rivendicano un riconoscimento istituzionale: vogliono costituirsi come stati. Oggi più che quindici anni fa, vediamo attraverso le lenti distorsive dello stato-nazione, ci sentiamo parte di esso, e in base a esso ci auto-definiamo nelle nostre interazioni con gli altri. Persino chi nel proprio intimo non vede, non sente e non si definisce in rapporto allo stato-nazione, ne è costretto nei propri rapporti sociali da un lessico culturale comune. L’alternativa è l’incomprensione, l’isolamento socio-semantico. Siamo italiani, cinesi, statunitensi o indiani prima che esseri umani. La domanda ‘sei italiano?’ utilizza il verbo essere in quasi tutte le lingue indoeuropee. Se l’io è un individuo, il noi, quando non specificato, è una nazione; il loro è una nazione.

L’identità, è fatto noto, nasce dalla distinzione. Per fare parte di qualcosa, occorre auto-escludersi da una realtà più ampia. La mera somiglianza raramente accende la scintilla identitaria. Tutti siamo umani, solo alcuni sono italiani: per ciò, mentre con la specie umana non intratteniamo una relazione emozionale, essere italiani è un sentimento identitario. Essere italiani è un’esperienza, essere umani una mera constatazione. Sappiamo di essere umani ma sentiamo di essere italiani. E poco importa che essere umani costituisca una realtà tangibile, biologica, laddove essere italiani rappresenti un mero costrutto storico-culturale. I costrutti storico-culturali appaiono spesso più reali della realtà, non è forse vero?

Sì – è vero –, ma cosa c’entra tutto questo con i temi trattati sul blog? C’entra, c’entra eccome. La rinnovata importanza delle identità nazionali si ripercuote sul modo in cui i grandi problemi del presente vengono non solo percepiti, ma anche affrontati (o  ignorati). I problemi locali diventano magicamente problemi nazionali, problemi degli italiani. Lo stato se ne deve assumere la responsabilità legale, certamente, ma sono gli individui ad attribuire ad esso una responsabilità morale. E i problemi globali, o anche solo transnazionali, non avendo un referente identitario chiaro cui fare appello, sono avvertiti come seccature esterne da delegare, o di cui liberarsi al più presto. La colpa è degli indiani, si dice, dei cinesi, o di un altro esterno che, guarda caso, è sempre rinchiuso nei confini semantici dello stato-nazione.

In Italia tanto il voto alle elezioni regionali quanto quello alle europee è di norma ridotto a un terreno di prova per le elezioni nazionali, le uniche che sembrano avere valore. La stampa e i media di massa privilegiano le notizie di portata nazionale, relegando alle pagine interne tanto quelle locali quanto quelle di portata globale, oppure ponendo l’attenzione su loro aspetti di livello nazionale. I problemi degli italiani diventano così più importanti di quelli dei milanesi o degli europei. La crisi ecologica globale, invece, acquista cogenza e riceve la maggiore attenzione solo quando la sempre più frequente alluvione o (inserisci-qui-un-disastro) colpisce la penisola.

Il doppio binario con cui si considera lo stato-nazione e qualsiasi altra entità politica fa sì che una riforma sgradita a livello europeo spinga ampie frange della popolazione a voler mandare all’aria l’intera Unione, laddove la medesima riforma a livello nazionale provocherebbe al più la richiesta di un cambio nella gestione dello stato. Dai problemi sovra-nazionali si scappa, solo i problemi nazionali vengono affrontati – spesso male, ma questo è un altro discorso. Tale atteggiamento è uno dei principali fattori alla base della paralisi politica di fronte alle grandi sfide globali del nostro tempo, crisi ecologica in primis. (E la colpa del fallimento, superfluo ribadirlo, è sempre dell’altro, e l’altro è sempre, immancabilmente, uno stato-nazione).

Vuoi un esempio? Eccone qua uno: accecati dalla nostra visione stato-centrica del mondo, dimentichiamo che i cinesi, pur contribuendo per un quarto alle emissioni globali di Co2, inquinano assai meno degli statunitensi, che concorrono per un ‘mero’ 15%. Eh sì, perché i cinesi sono 1 miliardo e 400 milioni, gli statunitensi ‘solo’ 320 milioni. Però a noi usare gli stati come metro di giudizio fa assai comodo. Utilizzare le emissioni pro capite come metro di giudizio farebbe ricadere la responsabilità sui nostri consumi, sui nostri stili di vita insostenibili. Utilizzare gli stati ci permette di andare in piazza a protestare contro il riscaldamento climatico dopo un pranzo veloce al MacDonald. Grazie alla loro visione stato-centrica del mondo, gli statunitensi possono illudersi di essere virtuosi. Loro (il ‘popolo americano’, non i singoli americani) inquinano meno dei cinesi! E gli australiani? Hanno le più alte emissioni pro capite al mondo dopo l’Arabia Saudita, ma ci sono solo 25 milioni di australiani. Un altro popolo virtuoso. 

Se solo avessimo il coraggio di scostarci per un istante dagli occhi le nostre preziose lenti identitarie, il mondo ci apparirebbe diverso, assai diverso. Chissà, potremmo persino arrivare a condannare gli australiani più dei cinesi, i tedeschi più degli italiani, gli italiani più degli indiani. Ma sarebbe un errore. Perché non è questo il punto. Non il principale, almeno. Il punto è che sono gli individui che inquinano, non i popoli. Ciò non vuol dire che i governi nazionali, in quanto nucleo del potere politico globale, non abbiano la responsabilità più grande di avviare il cambiamento. Significa però che la ripartizione dell’onere di quel cambiamento non può avere come punto di riferimento esclusivo gli stati. Dividere la popolazione mondiale per le emissioni globali e vedere di quanto sono superiori a un livello di emissioni pro capite sostenibile per il pianeta, e usare quel numero come referente individuale, ha più senso che parlare delle emissioni della Cina, dell’India e degli Stati Uniti. È anche probabile che ci faccia passare dalla parte del tort… ah! Hai visto com’è facile? Ci sono quasi cascato anch'io. Stavo parlando ancora di noi-italiani; mi stavo rimettendo le lenti davanti agli occhi. Invece proviamo a guardarci come individui, e a giudicarci come tali, e a usare un plurale (se proprio dobbiamo) che trascenda i confini immaginari delle nazioni. Un plurale inclusivo, che responsabilizzi tutti in egual misura, senza discriminare secondo la categoria più idiota di tutte: il luogo di nascita. Dovremmo farlo a maggior ragione in questo momento d’incertezza, di crisi identitaria (espressione paradossale, visto che l’identità l’alimenta, la crisi).

Noi europei, che in gran parte non sentiamo di esserlo, ripudiamo l’Europa invece di renderla, come sarebbe auspicabile, il fulcro  di uno sforzo comune e coordinato verso il cambiamento. Ci rifugiamo nei nazionalismi, quando ciò di cui avremmo disperatamente bisogno è un meta-nazionalismo che ponga al centro l’essere umano. Un eco-umanismo globalizzato che ci faccia vedere il mondo in termini di individui (presenti e futuri) e specie – non solo quella umana, ma anche le numerose altre che stiamo distruggendo giorno per giorno –, anziché in termini di nazioni. Un meta-nazionalismo che ci faccia sentire più europei che italiani, e più umani che europei. E che ci faccia vedere in faccia la realtà.

Come dici? Non riesci proprio a vederla? Guarda qua, l’ho compressa in una frase e ripulita per bene dalle incrostazioni sovraniste, che di questi tempi quelle si appiccicano ovunque come la muffa. Ecco, sta qui sotto:

‘Il futuro dell’Europa conta più del futuro dell’Italia, e il futuro del pianeta infinitamente più di entrambi.’

Abbiamo fatto l’Italia, abbiamo fatto gli italiani. Ora è tempo di fare l’Europa e gli europei, e l’umanità soprattutto, e gli esseri umani.

giovedì 3 marzo 2016

La geopolitica dei gasdotti: finale senza fine


Guest post di Tatiana Yugay,
Docente presso la Plekhanov Russian University of Economics / РЭУ Плехановa Mosca








 

Questa è la parte finale di una serie di post sui gasdotti russi. Vorrei ringraziare il mio caro amico, Ugo Bardi per l'opportunità di publicare i miei post nel suo famoso blog!


E' passato abbastanza tempo dall'uscita del mio post precendente sui gasdotti in Europa. Volevo scrivere sul nuovo progetto Turkish Stream che dovrebbe sostituire il South Stream ma la sua sorte era cosi' incerta.

Come ho scritto in precedenza, il primo dicembre 2014 la Russia ha dichiarato la rinuncia al progetto South Stream, perche l’UE aveva posto troppi ostacoli, principalmente tramite il terzo pacchetto energetico (TEP). Però, subito dopo, i presidenti Putin e Erdoğan hanno annunciato al vertice di Ankara della possibile costruzione di un gasdotto, che terminerebbe al confine greco-turco, garantendo l’accesso del gas russo al mercato europeo.

L’accordo per la grande opera firmato a dicembre tra Gazprom e la turca Botas Petroleum Pipeline Corporation, prevedeva appunto la costruzione di una condotta che doveva passare sempre sotto il Mar Nero, partendo dallo stesso punto del South Stream, ma con arrivo in Turchia invece che in Bulgaria. La capacità di questo tubo avrebbe dovuto trasportare 63 miliardi di metri cubi all’anno. Ma questa capacità era la stessa del cancellato South Stream.



Foto 1 PipeLines

Sembrerebbe che un'alleanza del gas tra Russia e Turchia seguisse naturalmente dalle dinamiche delle relazioni commerciali ed economiche. Secondo Nicolò Sartori, esperto nell'ambito della sicurezza energetica dell'Istituto degli Affari Internazionali di Roma, negli ultimi anni “la Turchia è diventata il secondo mercato di destinazione per il gas russo al di fuori dello spazio ex-sovietico, alle spalle della Germania e prima dell’Italia. Si tratta di un volume pari a quello di tutto il mercato dell’Europa centro-orientale e dei Balcani. Al contempo, la Turchia dipende in modo sostanziale da Mosca per i suoi approvvigionamenti energetici. I 27 miliardi di metri cubi annui, importati e forniti dalla Russia rappresentano il 56% dei consumi totali di gas di Ankara”.

Questo ambizioso progetto sarebbe vantaggioso per entrambe le parti. Da un lato, Gazprom sarebbe rafforzata nella sua posizione nel crescente mercato del gas turco. Inoltre, avrebbe permesso al colosso energetico Russo di raggiungere altri mercati (Italia, Balcani ed Europa centro-orientale). Del resto, la Turchia potrebbe realizzare il suo sogno geoeconomico di diventare un polo energetico per l'Europa perche la Russia voleva fornire il gas fin alla porta dell'Unione europea, al confine tra Turchia e Grecia per non cadere sotto la giurisdizione del Terzo pacchetto energetico. Erano in vista anche altri progetti comuni, favorevoli per la Turchia.

Come sostiene Nicolò Sartori, “La luna di miele energetica annunciata da Putin, avrebbe pertanto trasformato la Turchia nell’hub del gas russo, permettendo al contempo a Mosca la potenziale capacità di diversificare le sue esportazioni verso l’Ue, alla luce della crisi con Kiev”.

Tuttavia, dopo il clamoroso annuncio dell'intesa tra Russia e Turchia le cose hanno cominciato di insabbiarsi. Infine, dopo l’abbattimento del caccia-bombardiere Su-24 delle Forze aeree russe nei cieli della Siria é stato chiaro che anche il Turkish Stream non si farà più.

Dal punto di vista economico era assolutamente incomprendibile come la Turchia potesse mettere a rischio un progetto a lungo termine così vantaggioso per entrambe le parti. Anche le informazioni scioccanti che la Turchia rivende il petrolio siriano prodotto nel territorio controllato dal Daesh (ISIS), non hanno completamente spiegato perchè Erdogan abbia preferito i benefici immediati agli interessi a lungo termine. [I filmati e foto divulgati dal ministero della Difesa della Russia mostravano le lunge file di autocisterne con petrolio di contrabbando, proveniente dai territori controllati dal Daesh, che entravano effettivamente in Turchia].

Purtroppo, la geopolitica ha le sue proprie ragioni che non sempre coincidono con le considerazioni di opportunità economica. Come ha raccontato Eugenio Di Rienzo, storico, professore ordinario dell'Università di Sapienza, a Sputnik-Italia, “la Turchia é ritornata ad avere il vecchio sogno di Impero Ottomano. Cioè di riconquistare se non territorialmente ma almeno come l'egemonia tutti i territori che appartenevano all'Impero Ottomano. La filosofia politica di Erdogan è diretta al ritorno ad un controllo del Medio Oriente territorialmente avvalendosi di una parte della Siria e una parte dell'Iraq e facendo fuori una possibilità di un Kurdistan indipendente. E così la Turchia vuole diventare nel Medio Oriente la grande potenza sunnita per poi naturalmente entrare in rotta di collisione con l'Iran sciita. Purtroppo questo sogno folle di ritornare a questo impero — sembra un sogno di Grande Dittatore del film di Chaplin — trova la complicità con gli Stati Uniti”.

Tutto sommato, la Turchia sta usando Daesh come la sua arma e i raid aerei russi hanno scongiurato l’avverarsi di questo incubo geopolitico.

Subito doppo il tragico avvenimento, Nicolò Sartori ha scritto “Quanto accaduto potrebbe avere un forte impatto anche sull’architettura energetica regionale, basata su un crescente ruolo della Turchia come hub del gas, anche in virtù della partnership strategica promossa dal Cremlino nel tentativo di uscire dall’impasse con l’Unione europea per via della questione ucraina».

Dopo l'abbattimento dell'aereo, la Russia ha annunciato delle sanzioni economiche pesanti contro la Turchia. Nondimeno, il 2 dicembre 2015, il ministro dello Sviluppo economico russo Alexey Ulyukayev affermava che il decreto governativo riguardante misure economiche speciali contro la Turchia non si applica per ora ai grandi progetti di investimento come il Turkish Stream.

Andrew Korybko, commentatore politico presso l'agenzia Sputnik, presenta nel suo post “Washington’s “Destabilization Agenda”: A Hybrid War to Break the Balkans?” una ipotesi interessante e nello stesso tempo verosimile. Lui ricorda tutta la catena degli avvenimenti che precedevano l'abbattimento del caccia-bombardiere russo. Prima era la cancellazione del South Stream. E poi dopo l'accordo tra Russia e Turchia sul Turkish Stream avevano ebbero luogo i tentativi di rivolta quasi “Color Revolution” inspirati dagli Usa in Macedonia nel maggio 2015. Anche i disordini in Grecia dopo il referendum sull'austerita' erano provocati allo scopo di spostare Tsipras per sostituire il Balkan Stream con il progetto Eastring patrocinato dagli Usa. Il Balkan Stream doveva essere collegato al Turkish Stream per portare il gas russo al Sud Europa.

Nondimeno, i Balcani si sono mostrati resistenti alle trame americane. Al parere di Korybko, l'abbattimento del Su-24 fu provocato dagli Usa per lanciare l'effetto domino che in fin dei conti ha causato la rovina della cooperazione energetica tra Russia e Turchia.

Tuttavia, Korybko arriva ad una conclusione piuttosto ottimista sul fatto che il progetto Turkish Stream non'è definitivamente annullato, ma è accantonato temporaneamente. Ma quali sarebbero le condizioni della ripresa del progetto? Secondo l'analista, uno scenario più probabile sarebbe che le masse popolari o i rappresentanti militari sconvolti potranno rovesciare il regime di Erdogan.

Korybko prevede che la Cina avrà un ruolo importante nel dare un nuovo respiro al Balkan Stream perché il Balkan Stream sarà un componente decisivo nella infrastruttura del Balkan Silk Road combinata da Cina. “Il Partenariato strategico russo-cinese è destinato a rivoluzionare il continente europeo con un infuso di influenza multipolare lungo il corridoio balcanico, che avrebbe dovuto supportare il Balkan Stream e Via della Seta dei Balcani” (Per approfondire leggi: Washington’s “Destabilization Agenda”: A Hybrid War to Break the Balkans?).

Intanto, nel mondo dei gasdotti non è tutto completamente oscuro. Mentre nel corridoio meridionale tutti i lavori sono sospesi, è emerso di nuovo il progetto Nord Stream-2 in nord Europa. Come indica Nicolò Sartori, “l’azione turca porti non solo al definitivo congelamento di Turkish Stream - a vantaggio della Germania che vedrebbe la strada spianata per il suo Nord Stream-2 - ma anche un chiaro ridimensionamento del ruolo della Turchia nelle strategie del Cremlino”.

Il progetto Nord Stream-2 prevede la realizzazione di due rami di gasdotti con una capacità totale di 55 miliardi di metri cubi di gas ogni anno che porterà energia dalle coste della Russia fino a quelle tedesche attraverso il Mar Baltico. Il patto sociale tra gli investitori del progetto della joint venture “New European Pipeline AG”, che si occuperà della costruzione del gasdotto, è stato firmato il 4 settembre scorso.



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Si può immaginare che nell'attuale situazione internazionale, la realizzazione di un nuovo progetto di gasdotto debba incontrare una strenua resistenza da parte delle forze europee e di oltreoceano. Non è sorprendente che contro Nord Stream-2 sono schierati gli stessi personaggi che cercavano di impedire la costruzione di Nord Stream nel 2006 - con Slovacchia e la Polonia capofila e sostenuti dalla Repubblica ceca, Ungheria, Romania, Estonia, Lettonia, Lituania e Grecia. Il gruppo di paesi dell'Europa orientale ha inviato la lettera alla Commissione europea chiedendo di bloccare il Nord Stream-2. Sostengono che la costruzione del gasdotto va contro le politiche di diversificazione e di sicurezza energetica dell'UE. Secondo la petizione, il gasdotto Nord Stream-2 permetterà alla Germania di dominare il mercato europeo del gas.

Comunque, il Presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker ha detto che il progetto non dovrebbe essere considerato come una questione politica, ma come una questione commerciale.

In questo contesto, l'esperto tedesco Alexander Rahr presunta, “Dobbiamo dire francamente che c'è una guerra in Europa: la guerra energetica. Sette paesi, tra i quali la Polonia, hanno inviato una lettera alla Commissione europea con una la richiesta di non permettere questa costruzione. È un attacco alla Germania, le cui attività sono coinvolte nella costruzione del gasdotto, che considerano economicamente molto importante”.

Le autorità russe e tedesche sono adamanti sul fatto che il progetto ha significato puramente commerciale, non politico. Secondo presidente Putin, “Il progetto ha l'obiettivo di garantire il fabbisogno energetico, prima di tutto, al Nord Europa considerando anche i cali di produzione nel Regno Unito e in Norvegia e contemporaneamente l'incremento della domanda di energia in questa parte d'Europa. Non c'è assolutamente l'intenzione di privare qualcuno delle opportunità di transito”, per questo “chiedo di mettere da parte qualsiasi speculazione politica”.

“Il progetto di gasdotto Nord Stream-2 è in assoluto un progetto economico, commerciale, è sicuramente vantaggioso per la Germania e tutta l'Europa, è utile per la Russia” ha detto il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov nella conferenza stampa sui risultati della politica estera della Russia nel 2015. Lavrov dice “se saremo pragmatici, penseremo ai nostri propri interessi nazionali, che non violano gli obblighi internazionali, il risultato sarà sempre positivo e raggiungibile”.

La cancelliera tedesca, Angela Merkel presume che il progetto di raddoppio del gasdotto Nord Stream “è una proposta di business economico”; bisogna “garantire un quadro legale” e non escludere l'Ucraina come Paese di transito. Il vice-cancelliere Sigmar Gabriel ha osservato che il progetto potrebbe essere economicamente vantaggioso non solo per la Germania, ma anche per la Francia e gli altri Stati membri dell'UE, ma per la sua attuazione è necessario che ci siano le “condizioni politiche”. Quest'ultima clausola è ovviamente al fine di dimostrare che la Germania è preoccupata per la sicurezza energetica dell'Unione europea, in particolare dall'Europa dell'Est.

Durante la sua visita a Mosca il 29 gennaio 2016, il primo ministro finlandese Juha Sipila ha affermato che la Finlandia considera il progetto Nord Stream-2 da un punto di vista pragmatico, non politico. “Questo è un progetto commerciale per la Finlandia, e noi siamo pragmatici verso di essa.”

La posizione dell'Italia sul Nord Stream-2 è abbastanza ambigua. La questione del gasdotto Nord Stream-2 è stata sollevata durante il vertice Ue dal presidente del governo Matteo Renzi. A suo parere, è strano che un anno dopo la chiusura del South Stream che ha danneggiato la Bulgaria e alcune società italiane, la questione del Nord Stream-2 è sia stata adottata “in assoluto silenzio.” “L'Italia e la Bulgaria non capiscono perché il South Stream non è possibile realizzare per la UE, mentre il North Stream-2, che porta in Germania, è possibile”.

Gianni Petrosillo, giornalista ed esperto presso conflittiestrategie.it, scrive in maniera fin troppo ironica, “Renzi sembra l’unico a non capire un tubo. Cioè a non comprendere l’importanza delle rotte strategiche dei gasdotti, delle possibili alleanze internazionali veicolate dagli approvvigionamenti degli idrocarburi e degli scambi nel settore energetico che producono vantaggi al sistema politico ed economico di un Paese. La sua dichiarazione riportata qualche giorno fa dal Messaggero lascia letteralmente di stucco: “Siamo in una fase di riflessione, la questione richiede molto tempo per arrivare a eventuale maturazione. Soprattutto non si può perdere la faccia per due tubi…”. Petrosillo presume, “Evidenziati questi scenari, l’offerta russo-tedesca dovrebbe essere colta al volo dalla nostra classe dirigente, così come la possibilità di riaprire il discorso sul South Stream. Insomma, meglio “perdere la faccia per due tubi” (con chi poi?) che finire intubati per deperimento e per false credenze ambientalistiche che potrebbero portarci ad una completa rovina.”

La ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi, ha notato che “l'Italia importa dalla Russia, il principale fornitore del nostro Paese, tra il 45 e il 50% della domanda annuale di gas nazionale e questo spostamento di flussi richiederebbe anche nuovi investimenti sulla rete interna europea e sulla connessioni tra gli Stati membri necessari anche per mantenere le attuali forniture europee all'Ucraina e analoghi problemi sorgerebbero anche per alimentare i Paesi dell'area balcanica, nei casi in cui la rotta ucraina dovesse essere abbandonata”.

Uno dei voci piu' influenti dell'Italia - Romano Prodi, l'ex presidente del Consiglio italiano ed l’ex presidente della Commissione europea, ha scritto l'articolo sul Nord Stream-2 su Il Messaggero. Da un lato, Prodi tratta con la comprensione la decisione russa di bypassare l'Ucraina. Egli scrive, “Esistono naturalmente ragioni fondate perché la Russia cerchi di evitare il passaggio ucraino: infinite sono state infatti le controversie sui prezzi e sui diritti di passaggio. Io stesso, come Presidente della Commissione Europea, mi sono recato più volte a Kiev per cercare di porre fine al vero e proprio furto di gas che veniva messo in atto, ovviamente con il tacito permesso e forse con l’attiva cooperazione delle autorità, facendo buchi nel grande tubo e spillando il gas come si fa con il vino da una botte.”

D'altra parte, Prodi propone un piano che, purtroppo, è quasi impossibile da realizzare in questa fase di confronto tra l'Unione europea e la Russia a causa dell'Ucraina. “La soluzione è quella che da tempo propongo, cioè un’impresa comune per la gestione dei gasdotti che attraversano l’Ucraina. Un’impresa posseduta per un terzo dalla Russia, un terzo dal governo ucraino e un terzo da soggetti europei, in modo che russi ed europei si sentano garantiti nei loro interessi e gli ucraini siano correttamente controllati.”

Gli analisti italiani capiscono benissimo che accanita opposizione al progetto Nord Stream-2 non ha il carattere principalmente economico, ma sopratutto politico. Elena Veronelli scrive nel Fatto quotidiano, “Si fa più agguerrita e ingarbugliata la partita sul gas russo che sta spaccando il Vecchio Continente. Berlino va a braccetto con Mosca ma al tempo stesso chiede all’Europa di mantenere la linea dura e prolungare le sanzioni contro il Cremlino. Roma accusa di doppiogiochismo e incoerenza la cancelliera tedesca Angela Merkel e blocca di fatto il rinnovo delle sanzioni. Il ‘casus belli’ è il raddoppio del Nord Stream”.

Mentre i progetti South Stream e Turkish Stream sono decisamente sospesi a tempo indefinito se non abbandonati per sempre, l'Italia può entrare nel gioco del Nord Stream-2 attraverso il gruppo Eni. Gli business esperti italiani sostengono che “il gasdotto Nord Stream-2 rappresenterebbe un ottimo progetto potenziale per Saipem che ha già realizzato i gasdotti del Nord Stream per un valore complessivo di oltre 1 miliardo di euro e potenzialmente con margini di guadagno ampiamente a doppia cifra”, commentano gli analisti di Equita. Anche per gli analisti di Icbpi qualsiasi coinvolgimento di Saipem nel progetto Nord Stream-2 sarebbe “molto positivo per il gruppo italiano, che ha visto svanire il contratto South Stream da 2,4 miliardi di euro nel corso del 2015, contratto che avrebbe dovuto essere sostituito da uno di dimensioni simili per il progetto Turkish Stream, anche questo abbandonato”.

Dietro la discordia europea è possibile distinguere anche la mano degli Usa. Come ritiene Andrea Indini, “contro Berlino... si sono recentemente schierati anche gli Stati Uniti. Che, come fa notare l'Huffington Post, puntano al Vecchio Continente per esportare il gas naturale.”

E' chiaro che l'arbitro supremo della battaglia tra i giganti e i nani dell'Europa è sempre la Commissione Europea con il suo temibile Terzo pacchetto energia. Secondo Sergey Pravosudov, l'esperto russo, “Il Nord Stream-1 al suo tempo rientrava nelle norme del terzo pacchetto energetico. E adesso la posizione di Gasprom è la stessa che per quel progetto é disponibile alla costruzione di due ulteriori linee. Ma molti altri europei lo considerano come un progetto del tutto nuovo e a Gazprom gli serve ottenere tutti i permessi che per ora ritardano la sua realizzazione”.

Danila Bochkarev, Senior Fellow presso il East West Institute (Bruxelles), scrive, “La situazione è ulteriormente complicata dalle rivendicazioni, che sostengono che la legge energetica dell'UE potrebbe essere applicata anche al fondo marino del Baltico. Se questa opzione diventerà la realtà, il Nord Stream-2 sarà costretto a mantenere il 50% della sua capacità riservata ai fornitori non-Gazprom sia in sottomarino offshore e condotte a terra”.

Ciò nonostante, egli presume che esiste “un elegante soluzione a questo problema... che richiede meno tempo e i sforzi, rispetto ai tentativi di ottenere una deroga alle norme energetiche esistenti dell'UE”. Siccome la Russia “ha già liberalizzato le sue esportazioni di GNL e nessuno puo' impedire a Mosca di prenotare il 50% del gasdotto Nord Stream-2 per le forniture non-Gazprom”. L'esperto sostiene che tale decisione sarà vantaggiosa per tutte le parti interessate: 1) il progetto sarà pienamente compatibile con il diritto comunitario; 2) Gazprom avrà la sua quota garantita di forniture di gas (minimo 27,5 miliardi di metri cubi) e potrebbe anche condividere le spese di costruzione del gasdotto con i fornitori di gas indipendenti russi; 3) la partecipazione dei fornitori non Gazprom permetterà di esportare più gas russo verso l'Europa e di conseguenza aumentare i ricavi del governo.

Così, come un infinito serial tv quello dei gasdotti russi in Europa ha la possibilità di concludersi con un Happy end. Il Nord Stream-2 puo' essere pienamente conforme alle norme del terzo pacchetto energetico e anche la parte importante del South\Turkish Stream puo' incarnarsi nel Balkan Silk Road.



I post precedenti

La geopolitica dei gasdotti

La geopolitica dei gasdotti: Nord Stream













mercoledì 3 giugno 2015

La geopolitica dei gasdotti

Guest post di Tatiana Yugay

Tatiana Yugay insegna economia mondiale, relazioni economiche internazionali, e teoria economica presso l'Università Statale di Mosca, Russia. Si può anche essere interessati a visitare il suo blog "Santatatiana" dove descrive i suoi viaggi per l'Italia Medievale.


Nota: la prof. Yugay terrà un seminario sulla geopolitica dei gasdotti a Firenze Venerdì 5 Giugno al polo di Novoli delle scienze sociali, edificio D6, aula 102, ore 11. Ingresso libero per tutti gli interessati. (La prof. Yugay parlerà in Italiano)


 
Diamo un'occhiata alla mappa dell'Europa e la Russia. Si vedrà che, da un lato, molti paesi europei sono quasi totalmente privi di idrocarburi, e dall'altra — la parte orientale della Russia ha enormi riserve di petrolio e gas.


Picture credit http://www.grida.no

Infatti, il tallone d'Achille dell'UE è la sua dipendenza energetica: oltre la metà del suo fabbisogno è coperto dalle importazioni di idrocarburi. Mentre il ricorso al gas soddisferà fino al 25% del consumo energetico dell'Unione sino al 2050, il costo delle importazioni di combustibili fossili dovrebbe salire a circa 500 miliardi di euro già nel 2030.

La Russia sarà ancora il più grande esportatore al mondo di energia fino al 2035, ha detto BP nella sua relazione annuale Energy Outlook. La produzione di gas naturale in Russia è impostata per essere la seconda più grande al mondo, dopo gli Stati Uniti, arrivando a 75 miliardi di piedi cubi al giorno nel 2035.

Secondo la teoria classica dei vantaggi assoluti di Adam Smith, i paesi esportano i prodotti che producono a costi inferiori (nella produzione di cui hanno un vantaggio assoluto), ed importano quei beni che vengono prodotti in altri paesi a costi inferiori (un vantaggio per la produzione appartiene ai loro partner commerciali). Questa semplice regola è la pietra angolare di tutto il sistema del commercio internazionale. Sembrerebbe che non ci dovrebbe essere posto per la geopolitica; solo gli interessi economici puri.

Tuttavia, il gas non è solo una merce. Ha una serie di caratteristiche speciali che lo rendono una merce politicizzata. Prima di tutto, si tratta di una risorsa rara, anche se questo concetto è molto relativo. In alcune regioni è abbondante, in altri, al contrario, esso è mancante. Inoltre, il progresso della scienza e della tecnologia porta alla scoperta di nuovi campi e nuovi modi per estrarre il gas. Questi esempi sono la produzione di gas nel Mare del Nord e l'estrazione di gas di scisti negli Stati Uniti. Al momento, stiamo assistendo alla situazione opposta, quando non sono rare le risorse minerarie, ma la necessità per loro. Nuovi produttori di gas entrano in forte concorrenza con i fornitori tradizionali. Nel contesto della crisi economica la domanda di gas è ridotta. Per sostenere i loro produttori i governi stanno iniziando a utilizzare gli strumenti politici.

Il gas naturale, tuttavia, è diverso da altre fonti energetiche. Sopratutto è una fonte di energia più pulita degli altri combustibili fossili. Essendo un gas, è un bene che non viaggia molto facilmente ed è costoso da trasportare. Le proprietà fisiche del gas richiedono i metodi speciali della trasportazione. A livello moderno della scienza e della tecnologia, ci sono due modi di trasporto: 1) il gas naturale è fornito dal sistema di condotte e 2) il gas naturale e convenzionale liquefatto (LNG, liquefied natural gas) è trasportato da navi speciali. Il trasporto del LNG richiede la costruzione di impianti speciali di liquefazione e rigassificazione presso i punti di partenza e di destinazione, e una flotta di navi speciali.

La Russia tradizionalmente utilizza per le forniture di gas il sistema di condotte in Europa. L’esportazione di gas russo verso i mercati europei è cominciata alla fine degli anni ’60. Nel 1967 era entrato in funzione il gasdotto «Bratstvo» (Fratellanza), che attraverso l’Ucraina e la Slovacchia trasporta il gas fino in Germania, Austria e Italia. Il «Bratstvo» può trasportare oltre 100 miliardi di metri cubi di gas all’anno e resta tuttora il principale gasdotto per l’esportazione di gas russo verso l’Europa centro-occidentale.

Picture credit http://www.gazprom.com/

Oggi la rete dei gasdotti della compagnia statale russa Gazprom è la più vasta al mondo. Si estende per 160.400 chilometri (quattro volte la circonferenza equatoriale della Terra), dall’isola di Sakhalin nell’Estremo oriente fino alle porte della Germania, ed è in continua espansione. Per pompare il gas lungo la fitta rete di gasdotti, Gazprom mantiene in funzione 215 stazioni di compressione, con una capacità totale di circa 42.000 Megawatt.

A prima vista, per la costruzione di un sistema delle tale complessita e  lunghezza, i principali compiti sono di ingegneria e logistica. Da un punto di vista economico, è necessario calcolare come fornire il più alto volume di gas ai consumatori europei in modo costo-efficace. Purtroppo, la saggezza economica non funziona nel settore del gas. Cinque anni fa Ben Aris ha scritto, “I gasdotti e gli oleodotti sono veri e propri strumenti politici quando sono in fase di pianificazione ma, una volta costruiti, sono l’equivalente geopolitico di un matrimonio”. Lui sperava che la costruzione dei gasdotti rivali potesse rompere “il monopolio russo».

Poiché le condotte collegano i fornitori e i consumatori di gas nel lungo termine, è qui che entrano in gioco gli interessi geopolitici. Per prima cosa, i paesi consumatori sono naturalmente  preoccupati dell'eccessivo affidamento a un monopolio nella fornitura di gas. Pertanto, essi cercano di diversificare le forniture di gas, che è, se si continua l'analogia di Aris, un modo per spostarsi dalla monogamia alla poligamia. Da parte sua, il fornitore di gas impegna enormi capitali per la costruzione del gasdotto e deve essere sicuro che l'elevata domanda di gas rimarrà per lungo tempo per recuperare i suoi costi.

In secondo luogo, un ruolo crescente è svolto dagli stati di transito del gas. Fornendo il loro territorio per la costruzione di infrastrutture per il gas, tali paesi vogliono trarre il massimo vantaggio dalla loro posizione privilegiata, per ottenere un prezzo speciale sul gas e tasse sul transito. Solitamente la contrattazione inizia nella fase di decisione sulla costruzione e spesso continua durante la fase di esercizio della condotta. E a volte vediamo un vero e proprio ricatto da parte del paese di transito e anche l'uso illegale di gas sottratto dal gasdotto.

In terzo luogo, gli interessi dei fornitori e consumatori sono identici solo quando si ha la fornitura di un flusso di gas ininterrotto verso la destinazione. Questo dipende in larga misura dalla situazione politica ed economica nei paesi di transito. Infine, i contratti per la costruzione dei gasdotti internazionali sono spesso sotto pressione politica da parte di paesi che non sono formalmente coinvolti nei progetti, ma hanno gli interessi geopolitici ed economici nella regione. A questo punto la geopolitica dei gasdotti viene fuori alla grande.

Fin dai primi anni '80, i gasdotti dell'URSS erano diventati l'oggetto di una pressione politica senza precedenti da parte degli Stati Uniti. Per esempio, il secondo gasdotto sovietico Urengoy - Pomary - Uzhgorod è stato costruito dall'Unione Sovietica nel 1983 per la fornitura di gas naturale dai giacimenti nel nord della Siberia occidentale ai consumatori in Europa centrale e occidentale. La capacità effettiva è 28 miliardi di metri cubi all'anno. La lunghezza totale del gasdotto è  4451 km. La lunghezza sul territorio dell'Ucraina è di 1160 km. La sua costruzione aveva coinciso con l'avvento al potere di un fanatico anti-comunista Reagan nel 1981. Il nuovo presidente iniziò una crociata economica contro l'Unione Sovietica. In condizioni di estrema segretezza era stato sviluppato un piano integrale per minare il potere economico e militare dell'Unione Sovietica. Alla fine degli anni '90, Roger W. Robinson, Jr. , ex direttore senior per gli affari economici internazionali del Consiglio di sicurezza nazionale (1982-1985), ha aperto il velo di segretezza.

Secondo Robinson, l'azione era iniziata con la formazione del "gruppo interdipartimentale di alto livello per la politica economica internazionale" (Senior Interagency Group on International Economic Policy, SIG IEP). Prima di tutto, il gruppo aveva esaminato le fonti di afflussi in valuta estera dell'URSS. Era stato scoperto che l'Unione Sovietica aveva ricevuto circa l'80% del fatturato estero da quattro fonti: il petrolio, il gas, le armi e l'oro, con gli idrocarburi che avevano generato circa il 66% di questo importo.  Sulla base di questo rapporto, Reagan era deciso a colpire le forniture di petrolio e di gas verso l'Europa. Gli analisti americani contavano sul fatto che che le minori entrate in valuta estera avrebbero limitato la politica interna ed estera dell'Unione Sovietica. Gli Stati Uniti si erano opposti alla costruzione del gasdotto dalla Siberia verso l'Europa occidentale e in collusione con l'Arabia Saudita avevano abbassato i prezzi del petrolio sei volte, fino a 9-10 dollari al barile, verso la fine degli anni 1980. La produzione saudita era passata da ~ 2MBD (milioni di barili / giorno) a 6 mbd in un arco d'un anno del 1985.

Il piano di Reagan includeva l'attuazione della cosiddetta "triade strategica commerciale." In particolare, questo  significava limitare fortemente l'accesso di Mosca a: 1) mercati del gas naturale in Europa occidentale; 2) accordi di prestito ufficialmente agevolati; e 3) tecnologie sofisticate statunitensi e occidentali per uso militare.

Gli Stati Uniti non potevano vietare esplicitamente la costruzione di un gasdotto che doveva passare esclusivamente sul territorio dell'URSS. Essi hanno fatto ricorso a metodi indiretti, mettendo un embargo sulle attrezzature chiave e la tecnologia degli Stati Uniti per petrolio e gas che non erano disponibile altrove e effetuando una forte pressione sui paesi europei. Infatti, l'amministrazione di Reagan aveva imposto sanzioni alle imprese europee che volevano fornire attrezzature e tecnologie, che erano prodotte da licenze statunitensi. Questo significava l'applicazione delle leggi degli Stati Uniti verso l'Europa sul principio di extraterritorialità. Questo principio era stato utilizzato per la prima volta durante il conflitto sul gasdotto siberiano.

Gli Stati Uniti avevano stabilito il controllo dell'importazione per tutte le imprese dell'Europa occidentale, il che significava una rapida crescita delle sanzioni economiche. Questo controllo di importazione, quando identificato per un'azienda. le chiudeva completamente i mercati degli Stati Uniti, compresi i mercati finanziari.

Nonostante questo, cinque aziende provenienti da Germania, Francia, Italia e Regno Unito avevano continuato a rifornire l'Unione Sovietica. Il risultato delle sanzioni adottate dagli Stati Uniti era stato il fallimento delle tre società. Di conseguenza, l'Europa era stata costretta a obbedire ai dettami degli Stati Uniti.

In  aggiunta, nel maggio del 1983, prima dell'incontro al vertice economico a Williamsburg, l'Agenzia Internazionale per l'Energia ha firmato un accordo sulla questione del gas. Il documento dichiarava l'intenzione dell'Europa di evitare la dipendenza da un unico fornitore, con un chiaro riferimento all'Unione Sovietica. Il documento annunciava anche la necessita del'accelerazione dello sviluppo del giacimento Troll in Norvegia. In tal modo, gli Stati Uniti  avevano chiesto all'Europa di pagere un "premio per la sicurezza", nel senso di prezzo del gas norvegese aumentato e degli investimenti per velocizzare la costruzione degli impianti per LNG.

Come risultato, gli Stati Uniti erano riusciti a rimandare la messa in servizio della prima linea del gasdotto trans-siberiano  per due anni e mezzo, e cancellare la seconda linea del gasdotto. Il costo per Mosca della perdita della seconda parte del gasdotto siberiano sarebbe stato di circa $ 10-15 miliardi di dollari all'anno, senza contare i costi di un ritardo di due anni per portare la prima parte on-line.

La strategia dell'amministrazione Reagan, progettata per 5 - 10 anni, era iniziata nel 1982. E il 23 dicembre del 1991, due giorni prima dal'annuncio della dissoluzione dell'Unione Sovietica, Gorbaciov ha annunciato un default su 96 miliardi di dollari di debiti in valuta estera.

Questo vecchio episodio della guerra fredda può servire come un libro scolastico per capire l'attuale fase di confronto tra la Russia e l'Occidente. Veronica Krasheninnikova, direttrice del Centro per gli studi internazionali e giornalismo MIA "Russia Today", dice: “Trenta anni dopo l'inizio dello sviluppo della strategia di Reagan per soffocare l'Unione Sovietica, nel 2012, Barack Obama sembra aver messo a punto un piano simile - questa volta contro la Russia”.
(continua)