Da “New Statesman”. Traduzione di MR
La nostra inesorabile ricerca della crescita economica sta uccidendo il pianeta? Gli scienziati del clima hanno visto i dati e sono giunti a conclusioni incendiarie.
Terra desolata: l'irrigazione su larga scala toglie nutrienti dal suolo, sfregia il territorio e potrebbe alterare le condizioni climatiche al di là della capacità di ripristino. Immagine, Edward Burtynsky, per gentile concessione della Nicholas Metivier Gallery, Toronto/ Flowers, London, Pivot Irrigation #11 High Plai
Di Naomi Klein
Nel dicembre del 2012, un ricercatore dei sistemi complessi dai capelli rosa di nome Brad Werner si è fatto notare fra la folla di 24.000 scienziati della terra e dello spazio all'Incontro Autunnale dell'Unione Geofisica Americana, che si tiene annualmente a San Francisco. La conferenza di quell'anno ha visto la partecipazione di grandi nomi, da Ed Stone del progetto Voyager della NASA, che spiegava una nuova pietra miliare sulla strada verso lo spazio interstellare, al regista James Cameron, che parlava delle sue avventure nei sommergibili di grande profondità.
Ma è stata la sessione di Werner che ha attratto gran parte dell'attenzione. Era intitolata “La Terra è fottuta?” (titolo completo: “La Terra è fottuta? Futilità dinamica della gestione globale dell'ambiente e possibilità di sostenibilità attraverso l'attivismo di azioni dirette”). Di fronte alla sala conferenze, il geofisico dell'Università della California di San Diego ha spiegato alla folla il modello computerizzato avanzato che stava usando per rispondere a quella domanda. Ha parlato di limiti di sistema, perturbazioni, dissipazione, attrattori, biforcazioni e di una gran quantità di altre cose in gran parte incomprensibili a coloro fra noi che non sono iniziati alla teoria dei sistemi complessi. Ma la linea di fondo era abbastanza chiara: il capitalismo globale ha reso l'esaurimento delle risorse così rapido, conveniente e senza barriere che “i sistemi umani terrestri” stanno diventando, in risposta, pericolosamente instabili. Incalzato da un giornalista per una risposta chiara alla domanda “siamo fottuti?”, Werner ha messo da parte il gergo ed ha replicato, “più o meno”.
C'era una dinamica nel modello, tuttavia, che forniva qualche speranza. Werner l'ha denominata “resistenza” - movimenti di “persone o gruppi di persone” che “adottano una determinata serie di dinamiche che non si adatta alla cultura capitalista”. Secondo l'abstract per la sua presentazione, questo include “azione ambientale diretta, resistenza presa al di fuori della cultura dominante, come in proteste, blocchi e sabotaggi da parte di popoli indigeni, lavoratori, anarchici ed altri gruppi di attivisti”. Gli incontri scientifici seri di solito non sono caratterizzati da appelli alla resistenza politica di massa, molto meno all'azione diretta e al sabotaggio. Ma, di nuovo, Werner non ha proprio fatto appello a quelle cose. Stava semplicemente osservando che le rivolte di massa delle persone – insieme alle linee del movimento per l'abolizione, i diritti civili o Occupy Wall Street – rappresentano la fonte più probabile di “attrito” per rallentare una macchina economica che sta scivolando fuori controllo. Sappiamo che i movimenti sociali del passato hanno “avuto una incredibile influenza su … come si è evoluta la cultura dominante”, ha sottolineato. Quindi è ovvio che “se stiamo pensando al futuro della Terra, e al futuro della nostra unione con l'ambiente, dobbiamo includere la resistenza come parte di quelle dinamiche”. E questo, ha sostenuto Werner, non è una questione di opinione, ma “in realtà un problema di geofisica”.
Molti
scienziati sono stati spinti dalle loro scoperte fatte nella ricerca a
scendere in
strada. Fisici,
astronomi, medici e
biologi sono stati l'avanguardia dei
movimenti contro le armi nucleari, l'energia nucleare, la
guerra, la
contaminazione chimica e
il creazionismo. E
nel novembre 2012 Nature ha
pubblicato un commento del filantropo della finanza e
dell'ambiente Jeremy Grantham
che esorta gli scienziati ad unirsi a questa tradizione e a “farsi arrestare se necessario”, perché
il cambiamento climatico “non è l'unica crisi delle nostre vite, è anche la crisi dell'esistenza
della nostra specie”. Alcuni scienziati non hanno bisogno di essere convinti. Il padre della moderna scienza del clima, James Hansen, è un attivista formidabile, essendo stato arrestato circa mezza dozzina di volte per la sua resistenza all'estrazione di carbone tramite “
mountaintop removal” e agli oleodotti per le sabbie bituminose (ha persino lasciato il suo lavoro alla NASA quest'anno, in parte per avere più tempo per l'attivismo). Due anni fa, quando sono stata arrestata fuori dalla Casa Bianca ad un'azione di massa contro l'oleodotto per le sabbie bituminose Keystone XL, ona delle 166 persone in manette quel giorno era un glaciologo di nome Jason Box, un noto esperto mondiale della fusione della calotta glaciale della Groenlandia. “Non avrei potuto conservare la mia autostima se non fossi andato”, ha detto Box allora, aggiungendo che “solo votare non sembra essere sufficiente in questo coso. Devo anche essere un cittadino”.
Ciò è lodevole, ma ciò che sta facendo Werner con la sua modellazione è diverso. Lui non sta dicendo che la sua ricerca lo ha portato ad agire per fermare una particolare politica, sta dicendo che la sua ricerca mostra che tutto il nostro paradigma economico è una minaccia alla stabilità ecologica. E infatti sfidare quel paradigma economico – attraverso movimenti di massa che spingono in senso contrario – è la migliore possibilità per l'umanità di evitare la catastrofe.
Roba pesante. Ma non è solo. Werner fa parte di un gruppo piccolo ma sempre più influente di scienziati la cui ricerca sulla destabilizzazione dei sistemi naturali – in particolare del sistema climatico – li sta portando a conclusioni analogamente trasformative e rivoluzionarie. E per ogni rivoluzionario stretto che abbia mai sognato di rovesciare l'ordine economico attuale a favore di uno che sia meno probabile che spinga i pensionati italiani ad impiccarsi in casa, questo lavoro dovrebbe interessare in modo particolare. Perché rende l'abbandono quel sistema crudele in favore di qualcosa di nuovo (e forse, con molto lavoro, migliore) non più una questione di mera preferenza ideologica, ma piuttosto di una necessità esistenziale di tutta la specie.
A condurre il gruppo di questi nuovi rivoluzionari scientifici è uno dei maggiori esperti di clima della Gran Bretagna, Kevin Anderson, il vice direttore del Cetro Tyndall per la Ricerca sul Cambiamento Climatico, che si è rapidamente affermato come una delle pricipali istituzioni nel Regno Unito per la ricerca climatica. Di fronte a tutti, dal Dipartimento per lo Sviluppo Internazionale al Comune di Manchester, Anderson ha passato più di un decennio a tradurre pazientemente le implicazioni della scienza del clima più aggiornata a politici, economisti e attivisti. In un linguaggio chiaro e comprensibile, delinea una rigorosa road map per la riduzione delle emissioni, una che fornisce una possibilità decente per mantenere le temperature al di sotto dei 2°C, un obbiettivo che la maggioranza dei governi ha determinato che allontanerebbe la catastrofe. Ma negli ultimi anni i saggi e le presentazioni di Anderson sono diventate più allarmanti. Con titoli come “Cambiamento climatico: andare oltre il pericoloso... Numeri brutali e tenue speranza”, sottolinea che le possibilità di rimanere entro un qualche livello di temperatura sicuro stanno rapidamente diminuendo. Con la sua collega Alice Bows, un'esperta di mitigazione del clima al Centro Tyndall, Anderson evidenzia che abbiamo perso così tanto tempo in stallo politico e politiche climatiche deboli – tutti mentre il consumo globale (e le emissioni) sono cresciuti a dismisura – che ora siamo di fronte a tagli così drastici che sfidano la logica di base del dare la priorità alla crescita del PIL su tutto il resto.
Anderson e Bow ci informano che lo spesso citato obbiettivo di mitigazione a lungo termine – un 80% di taglio di emissioni al di sotto dei livelli del 1990 entro il 2050 – è stato scelto puramente per ragioni di opportunità politica e “non ha basi scientifiche”. Questo perché gli impatti climatici non vengono solo da ciò che emettiamo oggi e domani, ma dalle emissioni complessive che si accumulano in atmosfera nel tempo. E avvertono che concentrandosi su obbiettivi di tre decenni e mezzo nel futuro – piuttosto che su ciò che possiamo fare per tagliare nettamente e immediatamente il carbonio – c'è un rischio serio che permetteremo alle nostre emissioni di continuare ad aumentare negli anni a venire, buttando quindi troppo del nostro “bilancio di carbonio” per i 2°C e mettendoci in una posizione impossibile più avanti durante questo secolo. Che è il motivo per cui Anderson e Bow sostengono che, se i governi dei paesi sviluppati sono seri riguardo al volere raggiungere l'obbiettivo concordato a livello internazionale di mantenere il riscaldamento al di sotto dei 2°C e se le riduzioni devono rispettare un qualche principio di equità (fondamentalmente che i paesi che che hanno emesso carbonio per quasi due secoli devono tagliare prima dei paesi in cui più di un miliardo di persone non ha ancora l'elettricità), quindi le riduzioni devono molto più profonde e devono arrivare molto prima.
Per avere una possibilità del 50% di raggiungere l'obbiettivo dei 2°C (che, i due scienziati e molti altri avvertono, comporta comunque il dover affrontare una serie di impatti climatici enormemente dannosi), i paesi industrializzati devono cominciare a tagliare le loro emissioni di gas serra di qualcosa come il 10%all'anno – e devono cominciare ora. Ma Anderson e Bow vanno oltre, sottolineando che questo obbiettivo non può essere raggiunto con la serie di modeste tassazioni del carbonio o
le soluzioni green-tech normalmente sostenute dai grandi gruppi verdi. Queste misure aiuteranno certamente, per essere sicuri, ma non sono semplicemente sufficienti:
un 10% di diminuzione delle emissioni, anno dopo anno, è virtualmente
senza precedenti da quando abbiamo iniziato a potenziare
le nostre economie col carbone. Di fatto, tagli al di sopra del 1% all'anno “sono stati storicamente associati solo con la recessione economica o la sommossa”, come ha detto l'economista Nicholas Stern nel suo rapporto del 2006 per il governo britannico.
Anche dopo che l'Unione Sovietica è collassata, riduzioni di questa durata e profondità non si sono verificate (i paesi dell'ex Unione Sovietica hanno visto riduzioni medie annue di circa il 5% su
un periodo di 10 anni). Non si sono verificate dopo il crollo di Wall Street nel 2008 (i paesi ricchi hanno visto circa
un 7% di diminuzione delle emissioni fra il 2008 e il 2009, ma
le loro emissioni di CO2 si sono rifatte alla grande nel 2010 e
le emissioni di Cina ed India hanno continuato ad aumentare). Solo subito dopo il grande crollo del mercato nel 1929 gli Stati Uniti, per esempio, hanno visto
le emissioni diminuire per diversi anni consecutivi di più del 10% all'anno, secondo i dati storici del Centro di Analisi delle Informazioni su Biossido di Carbonio. Ma quella è stata la peggiore crisi economica dei tempi moderni. Se vogliamo evitare quel tipo di carneficina mentre raggiungiamo i nostri obbiettivi di emissione basati sulla scienza, la riduzione di carbonio dev'essere gestita con attenzione attraverso ciò che Anderson e Bows descrivono come “radicali ed immediate strategie di decrescita negli Stati Uniti, nell'Unione Europea e in altri paesi ricchi”. Che va bene, eccetto per il fatto che si da il caso che abbiamo
un sistema economico che idolatra la crescita del PIL su
tutto il resto, a prescindere dalle conseguenze umane o ecologiche e in cui la classe politica neoliberista ha completamente abdicato alla sua responsabilità di gestire qualsiasi cosa (visto che il mercato è il genio invisibile al quale
tutto deve essere affidato).
Quindi ciò che Anderson e Bows stanno in realtà dicendo è che c'è ancora tempo per evitare il riscaldamento catastrofico, ma non all'interno delle regole del capitalismo per come sono costruite ora. Il che potrebbe essere il migliore argomento che abbiamo mai avuto per cambiare quelle regole. In
un saggio del 2012 apparso sull'influente rivista scientifica Nature Climate Change, Anderson e Bows hanno lanciato una specie di guanto di sfida, accusando molti dei loro compagni scienziati di non fare chiarezza sul tipo di cambiamenti che richiede il cambiamento climatico all'umanità. Su questo vale la pena citare per esteso la coppia:
. . . sviluppando gli scenari di emissione gli scienziati hanno ripetutamente e gravemente sottostimato le implicazioni delle loro analisi. Quando si tratta di evitare un aumento di 2°C, “impossibile” viene tradotto in “difficile ma fattibile”, mentre “urgente e radicale” emerge come “impegnativo” - tutto ciò placa il dio dell'economia (o, più precisamente, della finanza). Per esempio, per evitare di superare il tasso massimo di riduzione di emissioni dettato dagli economisti, vengono assunti picchi precedenti di emissioni “impossibili”, insieme alle nozioni ingenue sulla “grande” ingegneria e i tassi di dispiegamento delle infrastrutture a basso tenore di carbonio. Ancora più preoccupante, man mano che i bilanci delle emissioni diminuiscono, il fatto che la geoingegneria venga proposta sempre di più per assicurare che il diktat degli economisti rimanga indiscusso.
In altre parole, per sembrare ragionevoli all'interno dei circoli economici neoliberisti, gli scienziati hanno drammaticamente ammorbidito
le implicazioni della loro ricerca. Dall'agosto 2013, Anderson è stato disposto ad essere ancora più franco, scrivendo che abbiamo perso il treno del cambiamento graduale. “Forse al tempo dell'Earth Summit del 1992, o anche al cambio di millennio, i livelli di mitigazione di 2°C potevano essere raggiunti attraverso cambiamenti evolutivi significativi
all'interno dell'egemonia politica ed economica. Ma il cambiamento climatico è
un problema cumulativo! Ora, nel 2013, noi che ci troviamo in nazioni (post)industriali che emettono molto abbiamo di fronte una prospettiva molto diversa. La nostro attuale e collettiva dissolutezza in fatto di carbonio ha sperperato qualsiasi opportunità di “cambiamento evolutivo” che poteva permettersi dal nostro bilancio precedente (e maggiore) di carbonio per i 2°C. Oggi, dopo due decenni di bluff e bugie, il bilancio rimanente per i 2°C richiede
un cambiamento rivoluzionario
della egemonia politica ed economica” (grassetto suo). Probabilmente non ci dovremmo sorprendere del fatto che alcuni scienziati del clima sono
un po' impauriti dalle implicazioni radicali anche della loro stessa ricerca. La maggior parte di loro stava silenziosamente facendo il suo lavoro misurando carote di ghiaccio, provando modelli climatici globali e studiando l'acidificazione dell'oceano solo per scoprire, come dice l'esperto climatico e scrittore australiano Clive Hamilton. “stavano involontariamente destabilizzando l'ordine politico e sociale”.
Ma ci sono molte persone che sono ben consapevoli della natura rivoluzionaria della scienza del clima. E' per questo che alcuni dei governi che hanno deciso di buttare i loro impegni climatici in favore dell'estrazione di più carbonio hanno dovuto trovare modi sempre più delinquenziali di mettere a tacere e intimidire gli scienziati delle loro nazioni. In Gran Bretagna, questa strategia sta diventando più evidente, con Ian Boyd, il consigliere scientifico capo del Dipartimento per l'Ambiente, il Cibo e gli Affari Rurali, che scrive di recente che gli scienziati dovrebbero evitare “di suggerire che
le politiche siano giuste o sbagliate” e dovrebbero esprimere i loro
punti di vista “lavorando coi consiglieri integrati (come me) e essendo la voce della ragione, piuttosto che del dissenso, nell'arena pubblica”. Se volete sapere dove porta questo, guardate cosa succede in Canada, dove vivo. Il governo conservatore di Stephen Harper ha reso efficace il bavaglio agli scienziati ed ha chiuso progetti di ricerca cruciali che, nel luglio del 2012,
un paio di migliaia di scienziati e sostenitori hanno tenuto
un funerale ironico a Paliament Hill ad Ottawa, piangendo la “morte delle prove”. I loro cartelli dicevano: “Niente scienza, niente prove, niente verità”.
Ma la verità viene fuori comunque. Il fatto che la ricerca dei profitti e della crescita BAU stia destabilizzando la vita sulla Terra non è più una cosa di cui dobbiamo leggere sulle riviste scientifiche. I primi segni si stanno svelando davanti ai nostri occhi. E
un numero sempre maggiore di noi sta rispondendo di conseguenza: bloccando l'attività del fracking a Balcombe, interferendo con
le preparazioni delle trivellazioni nell'Artico in acque russe (a costi personali tremendi), portando a giudizio gli operatori delle sabbie bituminose per aver violato la sovranità degli indigeni e innumerevoli altre azioni di resistenza grandi e piccoli. Nel modello computerizzato di Brad Werner, questo è “l'attrito” necessario per rallentare
le forze della destabilizzazione. Il grande attivista Bill McKibben li chiama “anticorpi” che emergono per combattere la “febbre alta” del pianeta. Non è una rivoluzione, ma è
un inizio. E ci potrebbe far guadagnare giusto il tempo sufficiente per immaginare
un modo di vivere su questo pianeta che sia nettamente meno fottuto.