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venerdì 8 febbraio 2019

Quattro riforme strutturali per uscire dal declino - Una proposta di Federico Tabellini




(Questo articolo costituisce una rielaborazione originale di temi trattati in maniera più organica e approfondita nel libro Il Secolo Decisivo: Storia Futura di un’Utopia Possibile
Di Federico Tabellini

Usando il termine in senso ampio, possiamo identificare quattro grandi 'crisi' contemporanee: una crisi ambientale ed energetica, una crisi delle diseguaglianze, una crisi culturale e una crisi concernente la stabilità del sistema economico-finanziario. Ne ‘Il Secolo Decisivo’ dimostro come queste crisi siano 1) strettamente correlate e 2) conseguenza fisiologica del modello socio-economico vigente, e non già una sua deriva accidentale.

Da ciò ne deriva che qualsiasi soluzione che voglia essere efficace debba essere 1) multisettoriale e 2) sistemica. In altre parole, risolvere le crisi richiede un approccio organico e comporta necessariamente il superamento dell’attuale modello socio-economico.

Perché il cambiamento sia possibile, è essenziale prendere coscienza dell’impossibilità di risolvere le crisi all’interno del modello che le ha in primo luogo generate. Questa presa di coscienza passa per la messa in discussione di una serie di miti e credenze che lo sostengono. Fra questi spiccano il mito del lavoro quale necessità e dovere (al di là dei suoi effetti in termini di benessere aggregato), il mito dei consumi come sinonimo di benessere e il mito della crescita economica quale unica via per il progresso. Lungi dall’essere meri fattori culturali, questi miti e credenze hanno forti ripercussioni sulla struttura sociale e sono da questa a loro volta rafforzati e perpetuati. Il legame fra struttura e cultura rende estremamente difficile che il cambiamento possa avvenire semplicemente dal basso, attraverso un mutamento negli stili di vita. Per fare un esempio, nel modello vigente la crescita del PIL è necessaria per sostenere i livelli di occupazione, e i consumi sono necessari per sostenere entrambi. Se tutti semplicemente consumassimo e lavorassimo meno, senza implementare al contempo riforme nella struttura economico-istituzionale, la recessione ci farebbe presto cambiare idea.

Un cambiamento strutturale è quindi di vitale importanza, ed è su quest’ultimo che si concentra il mio libro. Le domande da porsi, una volta accettata a livello culturale la necessità di un cambiamento, sono sostanzialmente due:

Com’è possibile passare da un modello basato sulla crescita costante di consumi e produzione a un’economia stazionaria e in equilibrio con gli ecosistemi?
È possibile mantenere economicamente e socialmente stabile un tale modello massimizzando al contempo il benessere degli esseri umani?

Le possibili risposte a queste domande sono molteplici. La mia proposta attinge alla più recente ricerca nei campi di filosofia politica, ecologia, economia ed etica. Ritengo sia fra le più facilmente implementabili sul breve-medio periodo (qualche decennio), perché le riforme preliminari che richiede possono in grande misura essere messe in atto sin da subito. Il loro effetto congiunto renderebbe possibile il passaggio a un modello economico stazionario, dopo una fase iniziale di decrescita materiale necessaria a rientrare nei limiti di sostenibilità ecosistemica che abbiamo da tempo superato. In termini generali, le riforme coinvolgono quattro macro-aree:
  1. I sistemi redistributivi e fiscali degli stati;
  2. Il sistema educativo;
  3. I regimi politico-elettorali;
  4. Il sistema finanziario.
Quello che segue è un elenco sintetico e necessariamente incompleto delle proposte discusse nel libro preliminari alla transizione da un modello economico basato sulla crescita infinita a un modello stazionario stabile.

I sistemi fiscali e redistributivi andrebbero ricalibrati per adattarli a un’economia post-lavorista. In tal modo il progresso tecnologico e l’automatizzazione di produzione e servizi potranno essere messi al servizio dell’uomo, liberando l’umanità dall’assurda ricerca di una non più necessaria (ai fini della massimizzazione del benessere aggregato) piena occupazione. I proventi di un’economia via via più automatizzata e indipendente dal lavoro umano andranno poi redistribuiti attraverso l’istituzione di un reddito di base[1] su vasta scala, continuamente ricalibrato in funzione della congiuntura economica.[2]
L’attuale sistema educativo gerarchico e massificato andrebbe sostituito con un’educazione orizzontale e flessibile, che conceda a ogni studente la libertà di operare scelte autonome, entro certi limiti, circa la propria formazione e sviluppo personale. La scuola dovrà cessare di essere una fabbrica di esseri umani funzionale alla crescita economica, per divenire invece un servizio a disposizione delle persone, finalizzato alla scoperta e allo sviluppo dei talenti e delle vocazioni di ognuno.
L’esaltazione del ‘volere del popolo’ propria delle contemporanee democrazie rappresentative – che troppo spesso si traduce nella tirannia di una maggioranza ignorante manipolata da leader populisti di ogni sorta – dovrebbe essere sostituita da una promozione attiva del dibattito politico a tutti i livelli e dall’istituzione di vincoli conoscitivi al voto, rimpiazzando l’attuale politica dei sentimenti con una politica degli argomenti.
Il sistema finanziario andrebbe riformato e reso indipendente da una crescita costante dell’economia materiale. Ciò richiederà la messa in discussione del modello inflazionista, una riduzione drastica della speculazione finanziaria e un completo superamento del sistema bancario a riserva frazionaria.

Ognuna di queste macro-riforme difficilmente potrà essere implementata senza una parallela implementazione delle altre, per ragioni che è impossibile illustrare in dettaglio in un singolo articolo.[3] Basti qui dire che senza un ripensamento dei sistemi fiscali e redistributivi che metta in secondo piano il lavoro, la crescita economica non potrà che rimanere essenziale per contrastare la disoccupazione tecnologica, non importa quanto superflue e finanche dannose divengano le mansioni svolte dagli esseri umani. Similmente, l’istituzione di un sistema politico basato su discussione e ragionamento – le quali richiedono indipendenza di analisi e tempo per approfondire le ragioni dei propri interlocutori – è impensabile senza una previa riforma del sistema educativo e una liberazione del tempo umano dalle catene del lavoro. Infine, è difficile immaginare che una riforma profonda del settore finanziario (i cui frutti sarebbero visibili solo sul lungo periodo) possa essere implementata con successo in assenza di un sistema politico ed elettorale basato su discussione, contenuti e ragionamento.

Le ragioni che rendono queste riforme necessarie, le possibili modalità della loro implementazione e gli effetti potenziali che potrebbero sortire sulle società umane sono esaminati nel dettaglio nel libro ‘Il Secolo Decisivo: storia futura di un’utopia possibile’. Qualsiasi critica, domanda o commento sui contenuti di questo articolo e/o del libro cui si ispira è assolutamente benvenuta.

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[1] Si utilizza qui il termine nella sua accezione classica, come reddito concesso a ogni individuo adulto indipendentemente da ogni prova dei mezzi. Il reddito di base è universale in quanto concesso a ogni individuo, a prescindere dalla sua condizione sociale ed economica.

[2] Si vedano i capitoli 3 e 6 del libro ‘Il Secolo Decisivo’ per la discussione di un possibile meccanismo di ricalibrazione.

[3] Si rimanda al libro per una loro analisi approfondita.

giovedì 1 dicembre 2016

La banca, la crisi, e le pentole





Sono andato più di una volta a sentire le presentazioni pubbliche dove la banca dove ho messo i miei risparmi fa parlare degli esperti di finanza. Pur nei limiti di questo tipo di cose, spesso ho trovato che questi esperti mi hanno dato delle utili dritte, raccontando cose che poi si sono verificate sul serio.

Così, l'altra sera sono andato a sentire un'altra di queste presentazioni. Vi dirò francamente, è stata un disastro totale. Non che non ce l'avessero messa tutta. C'era il loro mega-presidente, un professore universitario, due giornalisti finanziari, tutti belli incravattati e microfonati. E sono riusciti a dare l'impressione di essere dei venditori di pentole a una sagra di paese.

Il problema è che le banche sono sempre vissute su questa idea che ti regalano qualcosa, un po' come Babbo Natale. Tu gli dai 1000 lire, dopo un po' di tempo te ne rendono 2000. Vi ricordate quando c'erano i buoni postali "fruttiferi"? Ma ora, tutto è cambiato: siamo ai tassi negativi. Ed è difficile per la banca spiegare ai clienti come mai se tu gli dai 1000 euro, dopo un po' loro te ne rendono 500. E' come accorgersi che Babbo Natale non solo non ti ha portato regali, ma ti ha anche svaligiato il frigorifero.

E così, in questa presentazione il mega-presidente e gli altri non han trovato di meglio che rifugiarsi nei discorsi che fanno i nostri presidenti del consiglio negli ultimi 15 anni che, ogni anno, si trovano a dire "si, quest'anno è andata malissimo, ma l'anno prossimo la crescita ritornerà". Quindi, si sono lanciati a spiegare che, se in Italia le cose vanno male, nel resto del mondo c'è crescita, quindi le cose vanno bene. E hanno fatto vedere una mappa del mondo dove tutti i paesi in crescita erano in verde, con solo l'Italia e pochi altri in rosso. Veniva voglia di chiedergli se non fosse allora il caso di investire in Iraq (bello verde) oppure nella banca di Aleppo, in Siria (anche quella, bella verde).

Poi, tutta la storia è stata che l'attuale crisi è soltanto un'oscillazione momentanea, che l'economia è sempre cresciuta e quindi per forza tutto riprenderà a crescere. Dunque ci vuole fiducia e "far lavorare i propri soldi". Questo veniva dimostrato con dei grafici dove si faceva vedere la crescita a lungo termine di vari fondi, senza mai preoccuparsi di specificare se i dati erano corretti per l'inflazione oppure no. E poi, hanno detto, da qui al 2050 la popolazione aumenterà a 11 miliardi e ci saranno 3 miliardi e mezzo di persone in più che consumeranno e produrranno benessere. Il tutto condito con dei filmati in cui si vedeva una famigliola benestante, padre, madre e figlioletto, talmente lisci e azzimati che sembravano l'ultimo modello di androide dal film "Io Robot".

La cosa peggiore è stata quando il Mega-Presidente si è messo a raccontare che non ci sono limiti alla crescita e che già negli anni '70 avevano previsto la fine del petrolio in trent'anni, ma che abbiamo trovato dei nuovi pozzi. Non solo, ma ora possiamo estrarre più petrolio dagli stessi pozzi di prima. E poi scaveremo altri buchi per terra e avremo tanta energia che non sapremo cosa farne, come dimostrato dai bassi prezzi del petrolio. E con questa energia desalinizzeremo l'acqua e irrigheremo zone che ora non sono coltivate e daremo da mangiare a quei tre miliardi e mezzo di persone in più. Non solo questo, ma avremo bistecche sintetiche che non producono gas serra (lo giuro, l'ha detto!). A questo punto, qualcuno sul palco ha detto che lui non le vorrebbe mangiare, al che hanno detto che la gente nei paesi in via di sviluppo sarà ben contenta di mangiarle (giuro che hanno detto anche questo!!!)

Bene, non vi so dire come è andata a finire, a un certo punto non ne ho potuto più e sono andato via. Magari alla fine hanno veramente tirato fuori una batteria di pentole in vendita. Ho visto molta altra gente che lasciava la sala, un poco (tanto?) perplessa. In effetti, l'atmosfera che aleggiava sul pubblico mi è parsa un tantino cupa, nonostante l'ottimismo sul palco.

Poi, non è che voglio dir male di queste persone che stavano sul palco e non credo volessero imbrogliare nessuno. Se chiedete a me, ho l'impressione che credessero veramente a quello che dicevano. Ma la faccenda dei tassi negativi è stata dirompente un po' per tutti, incluso per i dirigenti delle banche. E quindi, ci troviamo tutti a navigare senza bussola in un mondo che cambia continuamente e in cui quelli che dovrebbero essere al timone ne sanno meno dei passeggeri che vorrebbero essere traghettati verso qualche porto sicuro. Che ci volete fare? Da qualche parte finiremo per arrivare, magari con una batteria di pentole nuove in cucina.










venerdì 13 marzo 2015

Come fanno gli imperi a cacciare gli orsi? Il controllo delle risorse naturali dall'antica Roma ai giorni nostri

DaResource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi




Cacciare l'orso russo si sta rivelando un'impresa molto difficile per l'impero globale. (Immagine da homesweethome). 


Probabilmente conoscete la barzelletta che comincia con questa domanda: “come fanno gli economisti a cacciare gli orsi?” La risposta è: “non lo fanno, ma sono convinti che se gli orsi vengono pagati bene si cacceranno da soli”. E' una buona illustrazione dello straordinario potere dei soldi. Non funziona tanto bene con gli orsi ma, se ben pagate, le persone si impegneranno in ogni sorta di attività disdicevoli e spiacevoli, compreso cacciare ed uccidere altri esseri umani.

La domanda sugli orsi può essere trasposta ad un'altra situazione. Sapete che gli imperi sono grandi strutture dedite alla raccolta di risorse dalla periferia per accumularle al centro. Ciò è, ovviamente, svantaggioso per la periferia. Così, come fanno le élite imperiali a convincere le persone che vivono nelle periferie a cedere loro le proprie risorse? La risposta è simile a quella della barzelletta sugli economisti e gli orsi: pagandole bene.

Questo punto ha bisogno di alcune spiegazioni e, come spesso accade, il passato ci da una guida per il presente. Consideriamo quindi il caso dell'Impero Romano, il cui ciclo conosciamo molto bene. I Romani avevano un metodo ben sviluppato e verificato per costruire l'impero. Per prima cosa, attaccavano e sconfiggevano un regno confinante. Poi procedevano a sterminare o rendere schiavi le élite locali. A quel punto, le sostituivano con una nuova élite parzialmente o completamente romanizzata per governare il territorio, da quel momento in poi chiamato “provincia”.

La caratteristica critica del sistema era che non poteva essere gestito solo dalla forza bruta, sarebbe stato troppo costoso. Così i Romani dovevano convincere le élite locali a fungere da esattori delle tasse per loro conto. Un'impresa non facile, in linea di principio, visto che le élite locali avrebbero potuto pensare che sarebbe stato più conveniente per loro tenere per sé tutte le tasse. Di tanto in tanto, infatti, le province si ribellavano per recuperare l'indipendenza. Per esempio, la sollevazione ebraica iniziata nel 66 D.C. in Palestina ha quasi avuto successo ed ha scosso l'impero dalle fondamenta. Ma, nel complesso, le provincie sono rimaste notevolmente silenziose fino alla fine dell'Impero Romano. Gli orsi erano stati accuratamente domati.

Come hanno fatto i Romani a tenere insieme il loro Impero così bene e per così lungo tempo? E' stata, ovviamente, una questione di controllo. Le entità che chiamiamo 'stati' (e le loro versioni più aggressive chiamate 'imperi') esistono perché il centro può controllare la periferia. Questo controllo assume varie forme ma, fondamentalmente, è il risultato del sistema finanziario: i soldi. Ai tempi dei Romani, le élite delle province venivano pagate con moneta romana per fungere da esattori delle tasse e potevano guadagnare valuta romana in altri modi, per esempio arruolandosi nell'esercito romana. Con la valuta Romana, avevano accesso ad ogni sorta di lussi disponibili nell'Impero e, in particolare, al gigantesco emporio di beni e servizi che era la stessa Roma. Era più sicuro per loro accettare la situazione piuttosto che imbarcarsi nell'idea difficile e rischiosa di cominciare una guerra contro il grande Impero Romano. In un certo senso, l'orso veniva pagato per cacciare sé stesso.

Il sistema ha funzionato bene per diversi secoli, finché l'impero poteva coniare soldi. Come ho sostenuto in un mio post precedente, la caduta dell'Impero Romano non è stata tanto una questione di perdita di risorse, ma di perdita di controllo. Quando i Romani hanno esaurito l'oro e l'argento delle loro miniere spagnole, hanno perso la capacità di creare valuta e non hanno potuto mantenere in funzione il sistema finanziario. Senza sistema finanziario non avevano modo di controllare il flusso di risorse dalla periferia al centro. I granai dell'Africa e dell'Asia che avevano fornito il cibo per i Romani collassarono per mancanza di manutenzione e, senza cibo sufficiente per la sua popolazione, l'Impero non è potuto sopravvivere. Se non paghi bene l'orso, quello ti mangia.

Ed eccoci tornati al nostro tempo: l'orso è vivo e vegeto, ruggisce ai confini Orientali dell'impero globale. In passato, per un po' è sembrato che l'orso potesse essere convinto a cacciare sé stesso. L'élite russa sembrava essere felice di essere pagata per avere accesso ai lussi che l'impero globale poteva fornire ed ha accettato di diventare parte del sistema finanziario globalizzato. Ma, ad un certo punto, l'orso ha mostrato i denti ed ha ringhiato, rifiutando di essere domato.

Cosa non ha funzionato? Un problema che possiamo identificare è che se i Romani si assicuravano che le forze militari di un regno sconfitto venissero schiacciate ed eliminate prima di trasformarlo in una provincia; l'orso veniva accuratamente reso innocuo prima di essere domato. Nel caso moderno, tuttavia, non è così facile sconfiggere un orso nucleare che conserva un considerevole potenziale di combattimento.

Ma il fattore principale che ha mantenuto l'orso russo vivo e arrabbiato potrebbe essere uno molto più fondamentale. L'impero globale – proprio come l'Impero Romano molto tempo fa – ha bisogno di un sistema finanziario pienamente funzionante se vuole continuare ad espandersi. Quando il sistema finanziario Romano è collassato, l'impero è collassato a sua volta. Ora, il sistema finanziario globale non sembra in buona salute, a dir poco, ed un nuovo collasso finanziario, dopo quello del 2008, potrebbe essere dietro l'angolo. In queste condizioni, è difficile pensare che l'orso possa essere pagato per cacciare sé stesso. Questo dev'essere stato colto anche nelle capitali dell'impero globale. Quindi assistiamo ad un tentativo tardivo di uccidere l'orso strangolandolo – distruggendolo usando le sanzioni economiche. Tuttavia, considerando che la Russia controlla risorse minerali che sono vitali per l'impero, strangolare l'orso (anche ipotizzando che sia possibile) potrebbe non essere la strategia migliore, per la verità.

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Una versione della barzelletta dell'orso, ma con gli elefanti (h/t Marie Odile) 





I MATEMATICI cacciano gli elefanti andando in Africa, sbattendo fuori qualsiasi cosa che non sia un elefante e cacciando un esemplare di quello che rimane.

I MATEMATICI SCAFATI tenteranno di provare l'esistenza di almeno un unico elefante prima di procedere al punto 1 come esercizio subordinato.

I PROFESSORI DI MATEMATICA proveranno l'esistenza di almeno un unico esemplare di elefante per poi lasciare il rilevamento e la cattura di un elefante vero come esercizio ai propri studenti.  

GLI SCIENZIATI DEL COMPUTER cacciano elefanti esercitando l'Algoritmo A: 1. Va in Africa. 2. Comincia dal Capo di Buona Speranza. 3. Vai verso nord in modo ordinato, attraversando il continente alternativamente verso est e verso ovest. 4. Durante ogni attraversamento, a. Cattura ogni animale che vedi, b. Confronta ogni animale preso ad un elefante conosciuto. c. Fermati quando trovi una corrispondenza. 

GLI SCIENZIATI DEL COMPUTER SCAFATI modificano l'Algoritmo A mettendo un elefante conosciuto al Cairo per assicurarsi che l'algoritmo venga concluso. 

I PROGRAMMATORI DEL LINGUAGGIO ASSEMBLY preferiscono eseguire l'Algoritmo A trascinandosi per terra.

GLI INGEGNERI DI HARDWARE cacciano gli elefanti andando in Africa, catturando animali grigi in modo aleatorio e fermandosi quando qualcuno di questi pesi il 15% in più o in meno di qualsiasi elefante osservato in precedenza. 

GLI ECONOMISTI non cacciano gli elefanti, ma credono che se gli elefanti vengono pagati bene, si cacceranno da soli. 

GLI STATISTICI cacciano il primo animale che vedono N volte e lo chiamano elefante. 

I CONSULENTI non cacciano elefanti e potrebbero non aver mai cacciato niente in assoluto, ma possono essere assunti a cottimo per consigliare chi lo fa. 

I CONSULENTI DELLE OPERAZIONI DI RICERCA possono anche misurare la correlazione del cappello e il colore della pallottola all'efficienza delle strategie di caccia all'elefante, se qualcun altro identificasse gli elefanti. 

I POLITICI non cacciano elefanti, ma divideranno gli elefanti che cacciate voi con le persone che hanno votato per loro.

GLI AVVOCATI non cacciano elefanti, ma seguono le mandrie discutendo su chi possiede lo sterco che lasciano per terra.

GLI AVVOCATI DEI SOFTWARE affermeranno che possiedono una mandria intera dall'aspetto di uno dei loro escrementi.

I VICE PRESIDENTI DI INGEGNERIA, RICERCA E SVILUPPO cercano strenuamente di cacciare gli elefanti, ma il loro personale è impostato per impedirglielo. Quando il vice presidente riesce a cacciare gli elefanti, il personale cercherà di assicurarsi che tutti i possibili elefanti vengano completamente cacciati anticipatamente prima che il vice presidente li veda. Se succede che un vice presidente vede un elefante, il personale: (1) si complimenterà con la vista acuta del vice presidente e (2) si ingrandirà per impedire che si ripeta. 

I MANAGER SENIOR impostano politiche a lungo termine di caccia all'elefante sulla base dell'assunto che gli elefanti sono proprio come topi di campagna, ma con voci più profonde.

GLI ISPETTORI DELLE ASSICURAZIONI DI QUALITA' ignorano gli elefanti e cercano gli errori che hanno fatto gli altri cacciatori mentre caricavano la jeep. 

I VENDITORI non cacciano gli elefanti, ma passano il loro tempo a vendere gli elefanti che non hanno preso loro, per la consegna due giorni prima dell'apertura della stagione.

I VENDITORI DI SOFTWARE spediscono la prima cosa che prendono e compilano una fattura per un elefante.   

I VENDITORI DI SOFTWARE acchiappano i conigli, li dipingono di grigio e li vendono come elefanti desktop. 

martedì 4 marzo 2014

Ecco la Fine della Crescita

Post di Mauro Bonaiuti, originariamente pubblicato sul "Fatto"




Ecco la fine della crescita

ovvero: tecnocrazia stadio supremo del capitalismo?

Mauro Bonaiuti

Il fatto

Il 14 novembre scorso - davanti alla platea degli esperti del Fondo Monetario Internazionale, riunito per la sua 14 riunione annuale, – Larry Summers, uno dei più scaltri e influenti economisti americani, ex Segretario del Tesoro, ha pronunciato un discorso per molti versi eccezionale in cui, per la prima volta in contesto ufficiale, si è parlato esplicitamente di "stagnazione secolare" o come qualcuno l'ha ribattezzata di “Grande stagnazione": a cinque anni dalla Grande Recessione - dice Summers - nonostante il panico si sia dissolto e i mercati finanziari abbiano ripreso a salire, non c'è alcuna evidenza di una ripresa della crescita in Occidente. Il discorso di Summers è stato ripreso da varie testate economiche (Financial Times, Forbs, e in Italia da Micromega e la Repubblica) oltre che dal premio Nobel Paul Krugman, che già da qualche tempo andava sostenendo tesi assai simili dal suo blog sul New York Times.

Nonostante il discorso di Summers e la conferma di Krugman abbiano ovviamente provocato molte reazioni, le loro affermazioni non hanno ricevuto sostanziali smentite, soprattutto da parte dei responsabili delle istituzioni economiche americane e occidentali. Insomma, la notizia è ufficiale: l'età della crescita potrebbe essere davvero finita e parlarne non è più eresia. Come ex-eretico, dunque, sento l'urgenza di intervenire su un tema che avevo anticipato nel mio ultimo libro La grande transizione seppure partendo da premesse molto diverse da quelle di Summers e Krugman.

L'analisi del problema

Chiariamo per cominciare come Summers e Krugman giungono alle loro conclusioni. Va detto innanzitutto che, nonostante qualche cenno al rallentamento dell'innovazione e della crescita demografica, le ragioni profonde del declino delle economie occidentali avanzate restano sullo sfondo. Il punto di partenza di Summers è pragmatico. Poichè i flussi finanziari rappresentano ormai le interconnessioni indispensabili al funzionamento del sistema economico, il collasso della finanza del 2007 ha comportato una sostanziale paralisi del sistema. È un po come se, argomenta Summers, in un sistema urbano venisse d'improvviso a mancare l'80% della corrente elettrica. Tutte le attività ne risulterebbero paralizzate. Quando tuttavia la corrente elettrica viene ripristinata, ci si aspetterebbe un ripresa dell'attività economica su livelli maggiori di quelli anteriori alla crisi: questa ripresa non c'è stata. Come si spiega questa ripresa deludente? Secondo Summers e Krugman, le trasformazioni strutturali del sistema hanno portato il tasso di interesse naturale, cioè il tasso che mantiene in equilibrio i mercati finanziari e garantisce condizioni prossime alla piena occupazione, a divenire stabilmente negativo. Per quanto incredibile possa sembrare, i due grandi economisti ci stanno dicendo che, per convincere le imprese ad investire in misura sufficiente da garantire la piena occupazione, bisognerà non solo offrire loro denaro a costo zero, ma addirittura far sì che possano renderne meno di quanto è stato prestato.

In altre parole, dunque, Summers e Krugman ci stanno dicendo che le condizioni strutturali del sistema economico sono tali per cui le imprese si aspettano mediamente che il valore di ciò che viene prodotto e venduto sia inferiore al costo di produzione (una volta dedotto una sorta di profitto normale). Naturalmente questo potrebbe sembrare un problema innanzitutto delle imprese, se non fosse che viviamo ormai in una “società di mercato” e dunque i redditi nelle loro diverse forme, e con essi la nostra vita materiale in quasi ogni sua forma, dipendono ormai interamente dalla possibilità che la macchina economica continui a funzionare.

La tentazione tecnocratica

Anche il non economista potrà a questo punto intuire che qualcosa di potenzialmente molto pericoloso si intravede in questa rappresentazione del prossimo futuro. La possibilità di realizzare investimenti profittevoli è infatti la molla fondamentale dell'attività capitalistica e dire che per convincere gli imprenditori ad investire sarà necessario offrire loro tassi di interesse negativi, sostenendo inoltre che questo non è uno spiacevole e temporaneo inconveniente ma “un inibitore sistemico dell'attività economica”, significa riconoscere implicitamente che il capitalismo è ormai un sistema entrato nel reparto geriatrico e che per mantenerlo attivo è necessario offrirgli dosi di droga finanziaria almeno costanti (ma di fatto crescenti).

Su questo ultimo punto Krugman è esplicito: “Ora sappiamo che l'espansione del 2003-2007 era sostenuta da una bolla speculativa. Lo stesso si può dire della crescita della fine degli anni '90 (legata alla bolla della new-economy). Nello stesso modo anche la crescita degli ultimi anni dell'Amministrazione Reagan fu guidata da una ampia bolla nel mercato immobiliare privato”. La conclusione è chiara: “no buble no growth” cioè senza speculazione finanziaria non c'è più crescita, e lo stesso Summers avverte che i provvedimenti presi per regolamentare i mercati finanziari potrebbero essere controproduttivi, rendendo ancora più alti i costi di finanziamento per le imprese.

Naturalmente Krugman e Summers si guardano bene dal trarre conclusioni pessimistiche sulla salute di lungo termine del capitalismo, come evitano con cura di allargare l'analisi sulle cause del malessere economico fino a comprendere tutti quei costi sociali ed ambientali che non rientrano nel calcolo degli indicatori economici tradizionali.

Tuttavia, anche limitando l'analisi a questi aspetti economici, lo scenario presentato è estremante serio e foriero di conseguenze. Questo quadro si chiarisce ulteriormente analizzando le proposte di intervento pensate dai due economisti, che indicano come sarebbe concretamente possibile rianimare un'economia nelle nuove condizioni di tasso di interesse naturale stabilmente negativo.

La prima proposta suona come una revisione in salsa tecnocratica dei tradizionali incentivi keynesiani alla spesa. Secondo Krugman si potrebbe decidere, ad esempio, di dotare tutti gli impiegati di Google Glass (una sorta di occhiale multimediale) e altri strumenti che consentono di essere perennemente connessi ad internet. Anche se poi ci si accorgesse che si tratta di una spesa inutile, questa decisione politica sarebbe comunque positiva in quanto costringerebbe le imprese ad investire... Ovviamente sarebbero preferibili speseproduttive, ma nello scenario attuale non si può andare tanto per il sottile: anche spese improduttive sono meglio di niente.

Ma questo evidentemente non può bastare. Di fronte a un tasso di interesse naturale stabilmente negativo occorre spingersi oltre. Per Krugman un modo ci sarebbe: “si potrebbe ricostruire l'intero sistema monetario, eliminare la cartamoneta e pagare tassi di interesse negativi sui depositi.” Traducendo per i non economisti questo significherebbe niente meno che togliere la possibilità ai cittadini di comprare e vendere attraverso la moneta cartacea (che per definizione non costa nulla) e rendere forzose la transazioni con carta di credito, appoggiata necessariamente su conti correnti sui quali sarebbe tecnicamente possibile un prelievo forzoso di alcuni punti percentuali l'anno. In questo modo si costringerebbe la gente a spendere di più (la ricchezza infatti si deprezza restando immobilizzata su un conto in cui si paga un interesse invece di riceverlo) consentendo inoltre di allettare, con il ricavato, le imprese recalcitranti ad effettuare nuovi investimenti. Un'altra soluzione proposta prevede di alimentare un tasso di inflazione crescente che porterebbe agli stessi risultati, riducendo progressivamente il potere di acquisto dei cittadini in modo ancora più subdolo e surrettizio.

Se queste sono le idee che sorgono alla “coscienza di un liberale” (per riprendere il titolo della rubrica di Krugman) per far fronte all'incapacità ormai cronica del capitalismo di crescere, non è difficile immaginare cosa, a partire dalla stessa lettura della realtà, potrebbe venire in mente a chi, per tradizione, ha sempre auspicato risposte tecnocratiche e autoritarie alle crisi del capitalismo. E' evidente che, una volta imbracciata questa logica, tutto si giustifica, e anche le normali libertà, come quella di decidere come e dove impiegare i propri risparmi, divengono sacrificabili sull'altare di qualche punto percentuale di PIL. La prospettiva è chiara: tutti, volenti o nolenti, credendoci o meno, si dovrà partecipare al nutrimento forzoso – per via finanziaria – della macchina capitalista.

Quanto detto è sufficiente a capire su quale sentiero si potrebbe incamminare il “riformismo neo-keynesiano” (con l'appoggio degli ex neoliberisti alla Summers) nell'era dei rendimenti decrescenti. Il tutto è tanto più serio in quanto ci troviamo di fronte non ad una crisi congiunturale, per quanto grave, ma ad un processo di rallentamento strutturale e, sopratutto, progressivo. E qui veniamo al secondo punto fondamentale.

Rendimenti decrescenti e l'impossibile ritorno al passato

Anche se si decidesse che il funzionamento della macchina economica è l'interesse supremo cui tutto è sacrificabile, dove ci porterebbe questa scelta? Cosa dire della base materiale ed energetica su cui fondare il rilancio della crescita? Su questo naturalmente i due economisti non spendono una sola parola. Perché è evidente che per quanto affidato alla finanza, un ritorno della crescita significa nuove risorse naturali da utilizzare, prodotti da vendere per poi gettare rapidamente, tutto per tenere in movimento - da una bolla speculativa all'altra - la macchina economica globale.

Qui si evidenzia la differenza incolmabile tra il keynesismo terminale di Krugman e il rilancio del sistema industriale immaginato, (peraltro con ben altre finalità) negli anni Trenta da Keynes. Quello che gli economisti tardo keynesiani sembrano non capire è quanto il contesto sia completamente mutato rispetto all'età della crescita: dove possiamo oggi costruire case o infrastrutture per rilanciare occupazione e consumi, dove trovare nuove risorse energetiche e materie prime a buon mercato, come creare nuovi consumatori offrendo loro modelli di vita capaci di trasformare in pochi anni intere società?

Se, come credo, le economie capitalistiche avanzate sono entrate già da quaranta anni in una fase di rendimenti decrescenti questo non dipende solo dalla riduzione nella produttività degli investimenti delle multinazionali. Siamo di fronte ad un fenomeno di ben più vasta portata che comprende la riduzione della produttività dell'energia (EROEI), dell'estrazione mineraria, dell'innovazione, delle rese agricole, dell'efficienza dell'attività della pubblica amministrazione (sanità, ricerca, istruzione), oltre che di una sostanziale riduzione della produttività legata al passaggio da un'economia industriale a una fondata sostanzialmente sui servizi. E sopratutto, cosa che manca completamente nell'analisi di Summers e Krugman, si tratta di un fenomeno evolutivo e dunque incrementale.

I rendimenti decrescenti, inoltre, non comportano solo una riduzione dei rendimenti dell'attività economica quanto, piuttosto, un generale aumento del malessere sociale, e questo a causa dell'aumento di svariati costi, di natura sociale ed ambientale, legati sopratutto alla crescente complessità della megamacchina tecnoeconomica, che ricadono come “esternalità” sulle famiglie e sulle comunità e che non rientrano nel calcolo degli indici economici. Occorrerà dunque ragionare in termini ben più ampi, non solo in termini di PIL, ma della capacità delle politiche di generare benessere e occupazione stabili (e in condizioni di sostenibilità ecologica e non solo economica).

In conclusione, benché sia un fatto di per sé eccezionale che i sostenitori dello status quo (sia di ispirazione neoliberista che keynesiana) siano disposti ad ammettere, pragmaticamente, la “fine della crescita”, questi non sono disposti a riconoscere che le loro proposte per tenere in vita il sistema sono ormai entrate in rotta di collisione con la libertà democratica (oltre che, da tempo, con la sostenibilità ecologica). Insomma dove il capitalismo è una cosa seria, come negli Stati Uniti, si riconoscere pragmaticamente il problema, e ci si attrezza per affrontarlo. Credo tuttavia che il problema dovrebbe cominciare ad interessare anche quelli che, nella vecchia Europa come in Italia (e sono moltissimi, a sinistra, ma anche nelle reti e nell'associazionismo di base) credono ancora alla possibilità di un capitalismo addomesticato, ad un modello di "mercato regolato" che dovrebbe produrre insieme occupazione, giustizia sociale e sostenibilità ambientale.

Dal nostro punto di vista il passaggio non traumatico dalla “grande stagnazione” ad una società sostenibile richiede un ripensamento ben più profondo e radicale dei valori e delle regole di funzionamento della nostra società, una “grande transizione” che si lasci alle spalle questo modello economico e i problemi – sociali, ecologici, economici – creati dall'ineliminabile dipendenza del capitalismo dalla crescita.





martedì 24 gennaio 2012

A che punto siamo con la crisi

Guest post di Antonio Turiel da "The Oil Crash". 
Traduzione di Massimiliano Rupalti






Immagine da scitizen.com




20 Dicembre 2011
di Antonio Turiel


Cari lettori,

Ancora una volta facciamo l'inventario dei fatti rilevanti associati alla crisi energetica, ed al processo di degenerazione economica e sociale ad esso associato, accaduti durante l'anno che sta per finire. Mettendo insieme tutti i fatti si ottiene una prospettiva più chiara di come stanno rapidamente accelerando i problemi e meno rapidamente la presa di coscienza rispetto alle cause ultime dei problemi stessi. Dato che la lista è lunga, passo a riassumerla senza ulteriori indugi:

  • La primavera araba. Le tensioni nel prezzo degli alimenti, già sufficientemente evidenti durante la seconda metà del 2010, si sono acutizzate enormemente all'inizio dell'anno. Una politica malintesa di liberalizzazione dei prezzi ha portato al fatto che in molti paesi del nord Africa e del Medio Oriente il prezzo di molti alimenti di base (olio, farina, zucchero) crescesse di prezzo anche fino al 50%, praticamente dalla sera alla mattina. Ciò, in paesi in cui l'alimentazione rappresenta il 70% del reddito, era semplicemente insostenibile. Il primo paese dove si è verificata un'esplosione sociale è stata la Tunisia, seguita dall'Egitto, dalla Libia, Yemen, Barhein, Siria... In ogni paese la rivolta ha assunto caratteristiche diverse: così, in Tunisia la rivolta è stata principalmente popolare, mentre in Egitto l'esercito ha avuto un ruolo importante nel processo di transizione. In Libia si è scatenata la guerra civile e in Yemen la repressione è durata mesi, ma alla fine il presidente è caduto. Il Barhein è stato occupato dell'Arabia Saudita (e continua ad esserlo, anche se nessuno ne parla) e in Siria la repressione, sempre più violenta, non accenna a fermarsi. La sincronia delle rivolte e la caduta dei regimi autoritari che perduravano da vari decenni, tutti allo stesso tempo, indicano che le cause probabilmente comuni sono più esterne che interne, cosa che rafforza l'idea che il costo della vita insostenibile ha portato molti alla disperazione e alla rivoluzione: sono le rivolte della fame, delle quali abbiamo già parlato. Alcuni paesi hanno riconosciuto il potenziale pericolo ed hanno messo in atto programmi per l'assistenza alla propria popolazione più svantaggiata, come nel caso del Marocco e dell'Arabia Saudita. Nel caso di quest'ultimo paese, i piani di assistenza sociale posti in atto per neutralizzare il malcontento comportano costi finanziari tali che l'Arabia Saudita, principale esportatore mondiale, non può più permettersi che il prezzo di un barile di petrolio scenda al di sotto dei 95$. Questo secondo un' analisi di Paul Horsnell, capo ricercatore sulle materie prime della Barclays Capital. Ma, per contro, sappiamo che il prezzo di un barile di petrolio non dovrebbe superare gli85-90$ per evitare di cadere in una nuova recessione. Quindi non avremo una situazione agevole da ora in avanti e giustamente, ora che l'Europa si ritira dall'Iraq, suonano tamburi di guerra intorno all'Iran. Intanto, i prezzi dei generi alimentari rimangono alti ed i problemi di fornitura non sono stati affatto risolti.

  • La diminuzione di 1Mb/d (milione di barili/g)delle riserve.
    Come mette in evidenza l'ultimo Oil Market Report della Agenzia Internazionale dell'Energia (IEA) da più di un anno e mezzo il mondo sta consumando approssimativamente un milione di barili giornalieri (1 Mb/d) di petrolio in più di quelli che produce (vedere a pag. 55). Ciò è possibile perché si stanno riducendo le riserve industriali (quelle che le imprese conservano per garantirsi le normali operazioni) e quest'estate si è utilizzata anche una piccola parte delle riserve strategiche (quelle che sono conservate dalle nazioni per far fronte a possibili interruzioni nelle forniture). Il problema è precedente alle rivolte in Nord Africa e nel Medio Oriente ed è stato aggravato dalle stesse, specialmente la guerra civile in Libia, che ha comportato la perdita temporanea di 1,5 Mb/d che la Libia esportava (e dei quali per il momento se ne sono recuperati solo 0,6 Mb/d). A parte le violente interruzioni conseguenza delle rivolte, è ovvio che c'è un problema strutturale con la produzione e la fornitura di petrolio, nonostante la presunta capacità di riserva dell'OPEC (i barili che potrebbe produrre in un breve lasso di tempo ma che tengono di riserva per controllare i prezzi): esattamente quando è cominciata la guerra in Libia, era evidente l'incapacità dell'OPEC, in particolare dell'Arabia Saudita, di compensare questo deficit. L'Arabia Saudita ha tentato di camuffare la sua impotenza con dichiarazioni pompose, ma la cosa certa è che i movimenti in quel paese (ne abbiamo discusso nel post "La minaccia saudita") mostrano che stiamo già entrando nel cambio di era.

  • Il disastro di Fukushima.
    Come sapete già, l'11 di Marzo del 2011 un forte terremoto e un successivo tsunami hanno distrutto una buona parte della costa orientale del Giappone. Le vittime dirette di entrambi i disastri sono quasi 16.000, e la distruzione di numerose fabbriche sicuramente sta causando una certa scarsità di elementi di alta tecnologia su scala mondiale. Tuttavia, la maggior parte della gente ricorda principalmente il disastro della centrale nucleare di Fukushima-2 che, come conseguenza del terremoto, lo tsunami e la perdita di raffreddamento hanno portato alla fusione dei nuclei dei tre reattori che erano attivi al momento del sisma. Questo incidente nucleare giunge mentre si cominciavano a spegnere gli echi dell'ultimo incidente di gravità analoga, quello di Cernobyl in Ucrania di 25 anni prima, ed ha riaperto il dibattito sull'opportunità di continuare con l'energia nucleare. La Germania ha deciso di decommissionare immediatamente una parte delle proprie centrali nucleari più vecchie, mentre in altri paesi si annunciano moratorie. Tutto questo porta la IEA a dire, nel suo World Energy Outlook del 2011(di cui abbiamo dato un'eco qui), che non ci sono grandi piani di espansione per l'energia nucleare nel mondo, più che altro c'è una certa tendenza alla contrazione in Europa Occidentale (senza tener conto del picco di produzione dell'uranio, del quale la IEA sembra essere ancora meno consapevole che di quello del petrolio). Tutto questo aumenterà la pressione sulle altre materie prime energetiche, specialmente in Giappone.

  • Rapporto HSBC.
    Il 22 Marzo del 2011 la banca di investimenti HSBC (la decima al mondo per dimensione) fece uscire il suo rapporto "Energía nel 2050: le restrizioni di accesso al combustibile pregiudicheranno le notre proiezioni di crescita?" (in inglese). Il rapporto è abbastanza Business As Usual (BAU), ma conclude che c'è una tendenza reale all'aumento dei prezzi del petrolio e che ciò presuppone un rischio per la stabilità economica mondiale.
 




 


  • Joan Puigcercós. 
    Poco prima di lasciare la presidenza della Sinistra Repubblicana di Catalogna, Joan Piugcercòs è stato intervistato, nel marzo di quest'anno, in un programma di grande audience (in Catalogna) della rete catalana TV3. In questo programma (quí il link al vídeo) parla col presentatore di Peak Oil e delle sue gravi conseguenze per l'economia (fino al minuto 33). Un piccolo passo in più verso il riconoscimento del problema per la Spagna.

  • François Fillon. 
    Il primo ministro francese ha riconosciuto, il 5 aprile scorso davanti all'Assemblea Nazionale francese, che “la produzione di petrolio può solo diminuire”, come riferisce Crisis Energética (blog di Aspo-Spain). Niente pare essere dato per scontato a queste latitudini, nonostante nel paese d'oltralpe ci sia un certo dibattito (peraltro abbastanza ben smorzato).
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  • Jeremy Grantham.
    Il cofondatore di GMO, uno dei fondi d'investimento più grandi del mondo, ed autentico “squalo” di Wall Street, si è fatto un bel bagno di realtà quest'anno. Nella sua lettera trimestrale agli investitori del mese di Aprile li ha introdotti al concetto di “Peak Everything” o la Grande Scarsità, come ha commentato Juan Carlos Barba da questo stesso blog. Nella lettera di Luglio ha abbondato ancora di più riguardo ai concetti di limiti della crescita e sulla necessità di cambiare filosofia di investimento (anche questo è stato commentato, più brevemente, su questo blog). La lettera trimestrale che avrebbe dovuto uscire ad Ottobre è stata posticipata ed è appena uscita: la newsletter più breve mai scritta (da lui, è sottinteso). Nota: il link sarà in funzione fino alla pubblicazione seguente, dopo di che dovrete registrarvi al sito del GMO (è gratuito) per poter continuare ad accedervi.

  • Congresso di Barbastro.
    Nel Maggio di quest'anno si è celebrato il Primo Congresso Internazionale "Picco del petrolio: realtà o finzione?" a Barbastro. Non è la prima conferenza tematica di livello internazionale sul tema in Spagna (c'è stato anche il convegno ASPO del 2008 a Barcellona), ma era un buon momento per tastare il polso della consapevolezza nazionale sul problema...che è poca. Il congresso ha tenuto un livello molto buono, con presentazioni molto interessanti. Potete trovare una descrizione dettagliata dello stesso nel post "Barbastro nello specchietto retrovisore" ed anche in un artícolo di Crisis Energética.

  • Los indignados (gli indignati). 

    Con sorpresa di tutti, una manifestazione di protesta convocata da un incombente movimento cittadino, il 15M (che prende il nome dalla data di convocazione della prima manifestazione il 15 Maggio 2011) riesce ad aggregare qualcosa di diffuso ed esteso, la sensazione di rabbia nella società contro il progressivo processo di esclusione sociale al quale ci vediamo sottomessi (primi segni della temuta Grande Esclusione, probabilmente). La convocazione è un successo e nelle principali capitali spagnole scendono varie migliaia di persone che protestano contro i tagli e la regressione nel benessere sociale, contro l'usura delle ipoteche e le magre prospettive di lavoro. Alla Porta del Sole di Madrid, alcuni dei manifestanti, probabilmente ubriachi dell'emozione di verificare la buona risposta della città alla convocazione e con la voglia di andare oltre, di fare qualcosa di più, decidono di non muoversi dal posto e campeggiare lì, nel luogo più emblematico della Spagna, il punto da cui partono tutte le strade spagnole, il Chilometro Zero. Le autorità li tollerano un paio di giorni, ma il lunedì notte la polizia municipale di Madrid sgombera in malo modo le poche decine di persone accampate. Tempismo sbagliato: la stessa notte una moltitudine di 10.000 persone si ammassa nella piazza ed in altre città si verificano reazioni simili. Il movimento diventa conosciuto come quello degli indignati (prendendo probabilmente spunto dal piccolo libro di Stéphane Hessel). L'occupazione delle piazze ha avuto una recrudescenza quando a Barcellona la polizía tentò di sgomberare la Piazza di Catalogna con grande forza, e, a partire da quel momento, il movimento ha languito per poi isolarsi nelle assemblee di quartiere (nelle quali temo partecipi meno gente, quella più impegnata). Ma sono ancora lì come una catasta di legna in attesa di una nuova scintilla. E' quello che temono i politici tradizionali e che potrebbe essere la nostra ultima speranza.
 


  • Rivolte a Londra. 
    All'inizio di Agosto alcune proteste inizialmente pacifiche per la morte, a causa di colpi d'arma da fuoco (provenienti dalla polizia), di un piccolo criminale sono degenerati, dopo alcuni scontri iniziali con la polizia, nelle agitazioni più importanti, a Londra e nelle altre grandi città inglesi, degli ultimi decenni. Le agitazioni hanno potuto essere soffocate solo grazie ad un gran dispiego di forze di polizia per le strade, dopo una grande distruzione di proprietà e saccheggi generalizzati e si sono concluse con più di 3.000 arresti. Sulle cause di tale esplosione su scala tanto grande, gli esperti indicano la disillusione per le scarse prospettive di futuro in un paese dove le grandi regalie del petrolio stanno cessando ma hanno permesso di dare sussidi a tre generazioni di disoccupati sotto lo stesso tetto. Il maggior timore è che di fronte ad una nuova onda recessiva queste rivolte si ripropongano, aggravate.
  

  • Peter Voser. 
     L'amministratore delegato della Shell, Peter Voser, in un'intervista al Financial Times il 21 di settembre, ha ammesso che i pozzi di petrolio attualmente in produzione declinano ad un ritmo medio del 5% annuo e che nei prossimi dieci anni servirebbe mettere in produzione (non semplicemente trovare le riserve) l'equivalente di 4 Arabie Saudite, circa 36 Mb/d, semplicemente per mantenerci al livello di produzione attuale (che, come sappiamo, ci porta ad una crisi senza fine). Un'impresa tale è semplicemente impossibile. Ovviamente si metteranno in produzione nuovi pozzi ma non potranno compensare completamente questo declino, quindi è chiaro che, se è vero quello che dice il Sig. Voser, durante i prossimi anni vedremo cambiamenti radicali nelle nostre vite.

  • Occupy Wall Street. 
    Da certi movimenti iniziali di malcontento in Febbraio a Madison contro le politiche radicali del governatore del Wisconsin, il movimento di protesta di strada negli Stati Uniti è andato via via prendendo impulso e in settembre il movimento assume una dimensione completamente diversa con il marchio “Occupa Wall Street”. La classe media si sente sempre più indifesa, spossessata ed in pericolo e comincia a mostrare una certa reazione. Come in Spagna, il movimento è minoritario ma si percepisce che l'appoggio popolare è abbastanza ampio. Con maggiore o minore eco, le proteste si riproducono in tutto il mondo occidentale, dal Giappone alla Russia, recentemente Francia, Italia, Grecia ovviamente, ecc, e forse di minore entità, al momento, in Germania.

  • Colpi di Stato in Grecia ed Italia. 
    Durante tutto l'anno i problemi finanziari dei paesi periferici dell'Europa non hanno fatto che aggravarsi: l'anno scorso è stato necessario “salvare” la Grecia e l'Irlanda; quest'anno Portogallo e Italia e la Spagna è sull'orlo di esserlo (quello del “salvataggio”, lo abbiamo già spiegato, è mero sarcasmo). Con una grande contestazione di piazza, manifestazioni e disordini continui quasi ogni giorno per protestare contro le misure di austerità e tagli che sono aumentati, il primo ministro greco Yorgos Papandreu, il 30 ottobre, ha annunciato che avrebbe convocato un referendum per dare al popolo greco l'opportunità di esprimere se è d'accordo con il pacchetto di misure di austerità che il loro Governo vorrebbe applicare. I mercati reagiscono molto male a tale annuncio e in meno di una settimana Papandreu ha lasciato la guida del Governo greco e dall'Europa – è tutto dire – veniva imposto un governo di coalizione fra i due grandi partiti (di segno opposto) e condotto da Lucas Papademos, ex-Goldman Sachs e col profilo del tecnocrate. Non passa nemmeno una settimana che il gran prestigiatore, il maestro dell'elusione, il primo ministro italiano Silvio Berlusconi viene spinto a dimettersi, dal momento che l'Italia ha avuto bisogno dell'aiuto deciso dell'Unione Europea. Il nuovo primo ministro, Mario Monti, dal profilo accademico e tecnocratico, è un altro ex-Goldman Sachs. Il messaggio non può essere più chiaro: la democrazia è alla portata solo (almeno nominalmente) di coloro che se la possono pagare. Come se ci fosse qualche dubbio.

  • WEO (World Energy Outlook) 2011. 
    Abbiamo già commentato qui il difficile puzzle rappresentato dall'ultimo rapporto annuale della IEA. In mezzo ad avvertimenti minacciosi sul fatto che non ci basti il tempo per far fronte al pericolo dei cambiamenti climatici, il WEO del 2011 ci mostra uno scenario di stagnazione della produzione di petrolio convenzionale con tendenza al ribasso e combinato con cinque casi di studio, cinque “sottoscenari nello scenario”, quattro dei quali con possibilità inquietanti per il futuro. E soprattutto gli investimenti necessari da effettuare nei prossimi anni nel settore energetico sono, a dire della stessa IEA, grandiosi: 38 miliardi di dollari in 25 anni.
  • Scarsità mondiale di diesel. 
    Mentre sto scrivendo, il mondo si trova sotto l'effetto di una intensa crisi di scarsità, già reale, di diesel. C'è probabilmente scarsità di prodotti da raffinazione dovuta al fatto che una parte dei petroli non convenzionali, coi quali si supplisce alla caduta della produzione del petrolio convenzionale, non sono adatti per produrre il diesel in modo competitivo. E' solo questione di tempo e questa crisi, che condiziona tutti i paesi fuorché l'Europa ed il Nord America, finirà per arrivare anche lì. Dato che una parte considerevole del parco dei veicoli privati e tutto il trasporto ed i macchinari sono diesel, la sua mancanza potrebbe provocare problemi a cascata di una certa importanza.

  • Rapida degenerazione della condizione finanziaria europea.
    Tutti questi eventi avvengono sotto il segno di un degrado accelerato delle condizioni di finanziamento del debito pubblico nell'Unione Europea, di fronte alle quali i leader politici sono incapaci di trovare una soluzione e prendono solo misure destinate a ridurre il debito. La domanda che aleggia ora è quando cadrà la Spagna ed avrà bisogno di essere salvata.


Saluti,
AMT