Post di Mauro Bonaiuti, originariamente pubblicato sul "Fatto"
Anche il non economista potrà a questo punto intuire che qualcosa di potenzialmente molto pericoloso si intravede in questa rappresentazione del prossimo futuro. La possibilità di realizzare investimenti profittevoli è infatti la molla fondamentale dell'attività capitalistica e dire che per convincere gli imprenditori ad investire sarà necessario offrire loro tassi di interesse negativi, sostenendo inoltre che questo non è uno spiacevole e temporaneo inconveniente ma “un inibitore sistemico dell'attività economica”, significa riconoscere implicitamente che il capitalismo è ormai un sistema entrato nel reparto geriatrico e che per mantenerlo attivo è necessario offrirgli dosi di droga finanziaria almeno costanti (ma di fatto crescenti).
Ecco
la
fine della crescita
ovvero: tecnocrazia
stadio supremo del capitalismo?
Mauro Bonaiuti
Il fatto
Il 14
novembre scorso - davanti alla platea degli esperti del Fondo
Monetario Internazionale, riunito per la sua 14 riunione annuale,
–
Larry Summers, uno dei più scaltri e influenti economisti
americani,
ex Segretario del Tesoro, ha pronunciato un discorso per molti
versi
eccezionale in cui, per la prima volta in contesto ufficiale, si è
parlato esplicitamente di "stagnazione secolare" o come
qualcuno l'ha ribattezzata di “Grande stagnazione": a cinque
anni dalla Grande Recessione - dice Summers - nonostante il panico
si
sia dissolto e i mercati finanziari abbiano ripreso a salire, non
c'è
alcuna evidenza di una ripresa della crescita in Occidente. Il
discorso di Summers è stato ripreso da varie testate economiche
(Financial Times, Forbs, e in Italia da Micromega e la Repubblica)
oltre che dal premio Nobel Paul Krugman, che già da qualche tempo
andava sostenendo tesi assai simili dal suo blog sul New York
Times.
Nonostante
il
discorso di Summers e la conferma di Krugman abbiano ovviamente
provocato molte reazioni, le loro affermazioni non hanno ricevuto
sostanziali smentite, soprattutto da parte dei responsabili delle
istituzioni economiche americane e occidentali. Insomma, la
notizia è
ufficiale: l'età della crescita potrebbe essere davvero finita e
parlarne non è più eresia. Come ex-eretico, dunque, sento
l'urgenza
di intervenire su un tema che avevo anticipato nel mio ultimo
libro
La grande transizione seppure partendo da premesse molto
diverse da quelle di Summers e Krugman.
L'analisi
del
problema
Chiariamo
per cominciare come Summers e Krugman giungono alle loro
conclusioni.
Va detto innanzitutto che, nonostante qualche cenno al
rallentamento
dell'innovazione e della crescita demografica, le ragioni profonde
del declino delle economie occidentali avanzate restano sullo
sfondo.
Il punto di partenza di Summers è pragmatico. Poichè i flussi
finanziari rappresentano ormai le interconnessioni indispensabili
al
funzionamento del sistema economico, il collasso della finanza del
2007 ha comportato una sostanziale paralisi del sistema. È un po
come se, argomenta Summers, in un sistema urbano venisse
d'improvviso
a mancare l'80% della corrente elettrica. Tutte le attività ne
risulterebbero paralizzate. Quando tuttavia la corrente elettrica
viene ripristinata, ci si aspetterebbe un ripresa dell'attività
economica su livelli maggiori di quelli anteriori alla crisi:
questa
ripresa non c'è stata. Come si spiega questa ripresa deludente?
Secondo Summers e Krugman, le trasformazioni strutturali del
sistema
hanno portato il tasso di interesse naturale, cioè il tasso che
mantiene in equilibrio i mercati finanziari e garantisce
condizioni
prossime alla piena occupazione, a divenire stabilmente negativo.
Per
quanto incredibile possa sembrare, i due grandi economisti ci
stanno
dicendo che, per convincere le imprese ad investire in misura
sufficiente da garantire la piena occupazione, bisognerà non solo
offrire loro denaro a costo zero, ma addirittura far sì che
possano
renderne meno di quanto è stato prestato.
In altre
parole, dunque, Summers e Krugman ci stanno dicendo che le
condizioni
strutturali del sistema economico sono tali per cui le imprese si
aspettano mediamente che il valore di ciò che viene prodotto e
venduto sia inferiore al costo di produzione (una volta dedotto
una
sorta di profitto normale). Naturalmente questo potrebbe sembrare
un
problema innanzitutto delle imprese, se non fosse che viviamo
ormai
in una “società di mercato” e dunque i redditi nelle loro
diverse forme, e con essi la nostra vita materiale in quasi ogni
sua
forma, dipendono ormai interamente dalla possibilità che la
macchina
economica continui a funzionare.
La
tentazione tecnocratica
Anche il non economista potrà a questo punto intuire che qualcosa di potenzialmente molto pericoloso si intravede in questa rappresentazione del prossimo futuro. La possibilità di realizzare investimenti profittevoli è infatti la molla fondamentale dell'attività capitalistica e dire che per convincere gli imprenditori ad investire sarà necessario offrire loro tassi di interesse negativi, sostenendo inoltre che questo non è uno spiacevole e temporaneo inconveniente ma “un inibitore sistemico dell'attività economica”, significa riconoscere implicitamente che il capitalismo è ormai un sistema entrato nel reparto geriatrico e che per mantenerlo attivo è necessario offrirgli dosi di droga finanziaria almeno costanti (ma di fatto crescenti).
Su questo
ultimo punto Krugman è esplicito: “Ora sappiamo che l'espansione
del 2003-2007 era sostenuta da una bolla speculativa. Lo stesso si
può dire della crescita della fine degli anni '90 (legata alla
bolla
della new-economy). Nello stesso modo anche la crescita degli
ultimi
anni dell'Amministrazione Reagan fu guidata da una ampia bolla nel
mercato immobiliare privato”. La conclusione è chiara: “no
buble no growth” cioè senza speculazione finanziaria non c'è
più crescita, e lo stesso Summers avverte che i provvedimenti
presi
per regolamentare i mercati finanziari potrebbero essere
controproduttivi, rendendo ancora più alti i costi di
finanziamento
per le imprese.
Naturalmente
Krugman
e Summers si guardano bene dal trarre conclusioni
pessimistiche sulla salute di lungo termine del capitalismo, come
evitano con cura di allargare l'analisi sulle cause del malessere
economico fino a comprendere tutti quei costi sociali ed
ambientali
che non rientrano nel calcolo degli indicatori economici
tradizionali.
Tuttavia,
anche limitando l'analisi a questi aspetti economici, lo scenario
presentato è estremante serio e foriero di conseguenze. Questo
quadro si chiarisce
ulteriormente
analizzando
le proposte di
intervento pensate
dai
due economisti, che
indicano
come sarebbe concretamente possibile rianimare
un'economia
nelle nuove condizioni di tasso di interesse naturale stabilmente
negativo.
La
prima proposta suona come una revisione in salsa tecnocratica
dei
tradizionali incentivi
keynesiani
alla spesa. Secondo
Krugman si
potrebbe decidere,
ad esempio, di dotare tutti gli
impiegati
di Google Glass (una sorta di
occhiale multimediale) e altri strumenti
che
consentono di essere perennemente connessi ad
internet.
Anche se poi ci si accorgesse che si tratta di una spesa inutile,
questa decisione politica sarebbe comunque positiva in quanto
costringerebbe le imprese ad investire... Ovviamente sarebbero
preferibili
spese
“produttive”,
ma nello
scenario
attuale non si può andare tanto per
il
sottile: anche spese
improduttive
sono
meglio di niente.
Ma questo
evidentemente non può bastare. Di fronte a un tasso di interesse
naturale stabilmente negativo occorre spingersi oltre. Per Krugman
un
modo ci sarebbe: “si potrebbe ricostruire l'intero sistema
monetario, eliminare la cartamoneta e pagare tassi di interesse
negativi sui depositi.” Traducendo per i non economisti questo
significherebbe niente meno che togliere la possibilità ai
cittadini
di comprare e vendere attraverso la moneta cartacea (che per
definizione non costa nulla) e rendere forzose la transazioni con
carta di credito, appoggiata necessariamente su conti correnti sui
quali sarebbe tecnicamente possibile un prelievo forzoso di alcuni
punti percentuali l'anno. In questo modo si costringerebbe la
gente a
spendere di più (la ricchezza infatti si deprezza restando
immobilizzata su un conto in cui si paga un interesse invece di
riceverlo) consentendo inoltre di allettare, con il ricavato, le
imprese recalcitranti ad effettuare nuovi investimenti. Un'altra
soluzione proposta prevede di alimentare un tasso di inflazione
crescente che porterebbe agli stessi risultati, riducendo
progressivamente il potere di acquisto dei cittadini in modo
ancora
più subdolo e surrettizio.
Se
queste sono le idee che sorgono alla “coscienza di un liberale”
(per riprendere il titolo della rubrica di Krugman) per far
fronte
all'incapacità ormai cronica
del capitalismo di crescere, non è difficile immaginare cosa, a
partire dalla stessa lettura della realtà, potrebbe venire in
mente
a chi, per tradizione, ha
sempre auspicato risposte
tecnocratiche e autoritarie alle crisi
del capitalismo. E' evidente che,
una
volta imbracciata questa logica, tutto si giustifica, e
anche le normali
libertà, come quella di decidere come e dove impiegare i propri
risparmi, divengono sacrificabili
sull'altare di qualche punto percentuale
di
PIL. La prospettiva è
chiara: tutti, volenti o nolenti,
credendoci o meno, si dovrà
partecipare
al
nutrimento forzoso –
per via finanziaria – della macchina
capitalista.
Quanto
detto è sufficiente a capire su quale sentiero si potrebbe
incamminare il “riformismo neo-keynesiano” (con l'appoggio degli
ex neoliberisti alla Summers) nell'era dei rendimenti
decrescenti. Il
tutto è tanto più serio in quanto ci troviamo di fronte non ad
una
crisi congiunturale, per quanto grave, ma ad un processo di
rallentamento strutturale e, sopratutto, progressivo. E qui
veniamo
al secondo punto fondamentale.
Rendimenti
decrescenti e l'impossibile ritorno al passato
Anche
se si decidesse che il funzionamento della macchina economica è
l'interesse supremo cui tutto è sacrificabile, dove ci porterebbe
questa scelta? Cosa dire della base materiale ed energetica su cui
fondare il rilancio della crescita? Su questo naturalmente i due
economisti non spendono una sola parola. Perché è evidente che per
quanto affidato alla finanza, un ritorno della crescita significa
nuove risorse naturali da utilizzare, prodotti da vendere per poi
gettare rapidamente, tutto per tenere in movimento - da una bolla
speculativa all'altra - la macchina economica globale.
Qui si
evidenzia la differenza incolmabile tra il keynesismo
terminale
di Krugman e il rilancio del sistema industriale immaginato,
(peraltro con ben altre finalità) negli anni Trenta da Keynes.
Quello che gli economisti tardo keynesiani sembrano non capire è
quanto il contesto sia completamente mutato rispetto all'età della
crescita: dove possiamo oggi costruire case o infrastrutture per
rilanciare occupazione e consumi, dove trovare nuove risorse
energetiche e materie prime a buon mercato, come creare nuovi
consumatori offrendo loro modelli di vita capaci di trasformare in
pochi anni intere società?
Se, come
credo, le economie capitalistiche avanzate sono entrate già da
quaranta anni in una fase di rendimenti decrescenti questo non
dipende solo dalla riduzione nella produttività degli investimenti
delle multinazionali. Siamo di fronte ad un fenomeno di ben più
vasta portata che comprende la riduzione della produttività
dell'energia (EROEI), dell'estrazione mineraria, dell'innovazione,
delle rese agricole, dell'efficienza dell'attività della pubblica
amministrazione (sanità, ricerca, istruzione), oltre che di una
sostanziale riduzione della produttività legata al passaggio da
un'economia industriale a una fondata sostanzialmente sui servizi.
E
sopratutto, cosa che manca completamente nell'analisi di Summers e
Krugman, si tratta di un fenomeno evolutivo e dunque incrementale.
I
rendimenti
decrescenti, inoltre, non comportano solo una riduzione dei
rendimenti dell'attività economica quanto, piuttosto, un generale
aumento del malessere sociale, e questo a causa dell'aumento di
svariati costi, di natura sociale ed ambientale, legati sopratutto
alla crescente complessità della megamacchina tecnoeconomica, che
ricadono come “esternalità” sulle famiglie e sulle comunità e
che non rientrano nel calcolo degli indici economici. Occorrerà
dunque ragionare in termini ben più ampi, non solo in termini di
PIL, ma della capacità delle politiche di generare benessere e
occupazione stabili (e in condizioni di sostenibilità ecologica e
non solo economica).
In
conclusione, benché sia un fatto di per sé eccezionale che i
sostenitori dello status quo (sia di ispirazione neoliberista che
keynesiana) siano disposti ad ammettere, pragmaticamente, la “fine
della crescita”, questi non sono disposti a riconoscere che le
loro
proposte per tenere in vita il sistema sono ormai entrate in rotta
di
collisione con la libertà democratica (oltre che, da tempo, con la
sostenibilità ecologica). Insomma dove il capitalismo è una cosa
seria, come negli Stati Uniti, si riconoscere pragmaticamente il
problema, e ci si attrezza per affrontarlo. Credo tuttavia che il
problema dovrebbe cominciare ad interessare anche quelli che,
nella
vecchia Europa come in Italia (e sono moltissimi, a sinistra, ma
anche nelle reti e nell'associazionismo di base) credono ancora
alla
possibilità di un capitalismo addomesticato, ad un modello di
"mercato regolato" che dovrebbe produrre insieme
occupazione, giustizia sociale e sostenibilità ambientale.
Dal
nostro
punto di vista il passaggio non traumatico dalla “grande
stagnazione” ad una società sostenibile richiede un ripensamento
ben più profondo e radicale dei valori e delle regole di
funzionamento della nostra società, una “grande transizione” che
si lasci alle spalle questo modello economico e i problemi –
sociali, ecologici, economici – creati dall'ineliminabile
dipendenza del capitalismo dalla crescita.