venerdì 7 agosto 2020

Ma è vero che stiamo finendo il pesce? Si, se continuiamo a sovrasfruttare il mare.

Nel recente libro "Il Mare Svuotato," di Ugo Bardi e Ilaria Perissi, fra le tante cose proponiamo anche il "gioco della pesca alla balena."  E' un gioco didattico che illustra il sovrasfruttamento delle risorse. Nell'immagine, vediamo una sessione di prova del gioco. Ilaria, vestita di rosso, gioca il ruolo del mozzo Ishmael, Ugo Bardi, col cappello a tuba, prende la parte del capitano Ahab, Claudia, Gianluca, e Stefano sono altri membri dell'equipaggio. Questo è un gioco, ma purtroppo il sovrasfruttamento delle risorse ittiche avviene per davvero, come potete leggere nell'articolo qui di seguito

 

(riprodotto dal "Fatto Quotidiano" con leggere modifiche)

Il WWF ha recentemente comunicato che a Luglio c’è stato il “Fish Dependence Day,” ovvero, “il limite oltre il quale i consumatori europei terminano virtualmente il consumo di pesce pescato nei mari della regione.” Detto così, ha l’aria di una cosa preoccupante, ma non è che sia chiarissimo cosa sta succedendo. Allora vediamo di spiegare.

Il “Fish Dependence Day” è stato proposto nel 2010 da una fondazione chiamata “NEF” (New Economic Foundation). L’idea è abbastanza semplice: si misura la quantità di pesce pescato in “acque europee”, incluso l’acquacoltura, e la si rapporta al consumo di pesce in Europa. Ne viene fuori che il totale del pesce pescato nei mari Europei (o allevato in Europa) potrebbe soddisfare il consumo soltanto fino a una certa data, ovvero fino ai primi di Luglio – da allora in poi, possiamo considerare che mangiamo tutto pesce importato o pescato in acque internazionali. Per l’Italia, la data fatidica è ancora prima, ai primi di Aprile. E, come vi potete aspettare, la data si sposta all’indietro ogni anno. Il tempo in cui l’Europa produceva abbastanza pesce per il suo consumo interno è ormai remoto, parecchi decenni nel passato e la “forbice” fra consumi e produzione continua ad aumentare.

Ma è veramente un problema se produciamo meno pesce di quello che consumiamo? Che cosa ci impedisce di importarlo? E perché non potremmo semplicemente pescare di più? Ma le cose non sono così semplici. Il Fish Dependence Day è un indicazione di un profondo squilibrio in tutta la questione della pesca a livello mondiale.

Su questo argomento, io e la mia collaboratrice Ilaria Perissi abbiamo scritto un libro intero (“Il Mare Svuotato”, Editori Riuniti 2020), dove trovate descritto come stiamo letteralmente “svuotando il mare” di pesce. E’ per via del “sovrasfruttamento,” ovvero consumare una risorsa naturale a un ritmo superiore a quello con cui si riforma. Succede anche con i conti in banca: se uno preleva più di quanto non deposita, alla fine non rimane più niente. (A Firenze, diciamo, “Leva e non metti fa la spia”).

Questo è quello che sta succedendo col mare. Semplicemente, si sta pescando troppo ovunque e il risultato è che gli stock di pesce si stanno riducendo e tendono a collassare. Avete fatto caso a come sia diventato comune essere punti da una medusa mentre fate il bagno in mare? Ma se avete più di 50 anni, vi ricordate che, quando eravate bambini, il problema delle meduse era molto meno importante. Ma perché tante meduse, oggi? Semplice: i pesci si nutrono di meduse, ma con meno pesci in mare, le meduse hanno potuto riprodursi in tranquillità.

Ma come è possibile che siamo arrivati a questo punto? Governi, scienziati, le agenzie che si occupano di pesca, non avrebbero potuto evitare quello che è successo? In teoria si, ma i politici sono esseri umani e sono sensibili ai ritorni economici che vengono dall’industria della pesca. Il risultato è stato che, spesso, le risorse ittiche sono state sovrastimate, come pure le quote allocate ai pescatori. E’ il caso ben noto, per esempio, della distruzione del merluzzo di Terranova negli anni 1990. Per non parlare degli effetti disastrosi della pesca illegale, dell’inquinamento chimico, della plastica in mare, del riscaldamento globale, e molte altre cose.

E allora? Vuol dire che non dobbiamo mangiare più pesce? No, il pesce è un alimento importante che è stato parte della dieta umana fin dai nostri remoti antenati. Vuol dire però che dobbiamo gestire molto meglio le risorse marine. Già possiamo fare qualcosa di utile mangiando pesce locale, evitando pesce esotico e costoso che viene da lontano. Soprattutto, non dobbiamo dare retta a quelli che ci parlano dell’”Economia Blu” come se fosse un miracolo che risolverà tutti i problemi del mare in modo anche sostenibile. Il mondo reale non ammette miracoli e la crescita economica a tutti i costi non è una cosa buona. Il mare ha ancora grandi risorse, ma dobbiamo lasciarlo un po’ in pace se vogliamo che si riprenda dai danni che ha subito negli ultimi decenni. 



sabato 1 agosto 2020

Siamo virus o cellule cancerogene?


Di Bruno Sebastiani

In una intervista pubblicata su Le Monde il 20 maggio scorso, Philippe Descola, antropologo francese allievo di Claude Lévi-Strauss e insegnante al Collège de France, ha dichiarato «Nous sommes devenus des virus pour la planète» (qui la traduzione in italiano dell’intervista).
Questa affermazione ricorda da vicino il monologo dell’agente Smith dinanzi a Morpheus nel film Matrix: “[…] ho capito che voi non siete dei veri mammiferi: tutti i mammiferi di questo pianeta d’istinto sviluppano un naturale equilibrio con l’ambiente circostante, cosa che voi umani non fate. Vi insediate in una zona e vi moltiplicate […] C’è un altro organismo su questo pianeta che adotta lo stesso comportamento, e sai qual è? Il virus.
Mentre il discorso dell’agente Smith rientra nel copione di un film di fantascienza, le argomentazioni di Philippe Descola poggiano su serie basi scientifiche.
Evidentemente la consapevolezza della nocività della nostra specie per la biosfera comincia a farsi strada anche in qualche ambiente accademico e ciò è motivo di soddisfazione per me che da anni vado costruendo la teoria secondo cui l’essere umano è “il cancro del pianeta” (il “Cancrismo”).
Sia una definizione (uomo = virus) sia l’altra (uomo = cellula tumorale) rappresentano delle metafore che hanno lo scopo di scuotere la coscienza di tutti i candidi “progressisti” che continuano a predicare la crescita del prodotto interno lordo, della produzione, dei consumi ecc.
Ma, senza scendere troppo nei dettagli della mia teoria piuttosto che in quelli di altre, vorrei soffermarmi sul motivo per cui a mio avviso è più corretto paragonare i nostri simili a cellule maligne di un organismo vivente, anziché a virus.
Il motivo è tecnico e illustrarlo può essere utile per comprendere le basi della mia teoria e il reale significato del cosiddetto “progresso” di cui tanto ci vantiamo.
Mentre i virus sono entità a sé stanti con caratteristiche di parassiti e vengono ospitati all'interno delle unità di base degli organismi viventi, le cellule cancerogene sono cellule ex sane all’interno delle quali si sono verificate, casualmente o a seguito di contatto prolungato con sostanze pericolose (fumo, amianto, inquinamenti di vario genere, ecc.) gravi alterazioni del patrimonio genetico.
Il processo che innesca la malattia è definito “carcinogenesi” e i suoi effetti infausti si possono riassumere in quattro principali manifestazioni:
  • crescita rapida e incontrollata delle cellule malate
  •  invasione e distruzione dei tessuti sani adiacenti
  •  de-differenziazione tra i vari tipi di cellule
  •  migrazione in altri siti del corpo (metastasi)
Queste condizioni che contraddistinguono le varie fasi della malattia si attagliano perfettamente a quanto realizzato da Homo sapiens ai danni della biosfera e questo è il motivo per cui ho preferito paragonare la nostra nocività a quella del tumore maligno, anziché a quella dei virus.
In un articolo che scrissi tempo addietro scesi più nei dettagli di questa analogia.
Ma il motivo che più di ogni altro mi ha indotto a paragonare il nostro processo evolutivo a quello della carcinogenesi (e poi al decorso della malattia tumorale) risiede nell’evidente parallelismo tra la genesi dei tumori e il nostro percorso di “ominazione”.
I primi, secondo la teoria più accreditata, sarebbero originati dalla mutazione del materiale genetico di cellule normali, le quali, a causa dell’alterazione subìta, rigettano l'equilibrio tra proliferazione e morte cellulare programmata (apoptosi), dando inizio a una divisione cellulare incontrollata e alla formazione del tumore.
Qui il discorso si fa tecnico. Senza scendere troppo nei dettagli, mi limiterò a dire che anche a un certo punto della nostra evoluzione intervennero delle modifiche nel nostro patrimonio genetico e ciò consentì l’aumento della massa cerebrale e con esso lo sviluppo dell’intelligenza, ovvero della facoltà di contravvenire agli istinti / leggi di natura e di creare la realtà “artificiale”.
Da qui la proliferazione indiscriminata della nostra specie, la distruzione delle cellule circonvicine, la de-differenziazione di quelle malate e la metastatizzazione in ogni angolo del pianeta.
Nel sito https://ilcancrodelpianeta.wordpress.com/ ho riportato alcuni studi scientifici pubblicati da vari biologi sulle alterazioni genetiche responsabili dell’abnorme aumento della nostra massa encefalica.
Poiché questi studi sono piuttosto ostici per i non addetti ai lavori, ho riportato anche un paio di articoli che descrivono quanto accaduto con linguaggio più accessibile.
Il primo, pubblicato sul Corriere della Sera del 26 febbraio 2015, è di Edoardo Boncinelli, insigne scienziato che ha la rara capacità di esporre anche gli argomenti più complessi in modo facilmente comprensibile.
Il secondo, uscito il 21 agosto 2018 su Wired è di Viola Rita, una delle più promettenti giovani giornaliste scientifiche italiane. Quest’ultimo articolo ha anche il merito di dichiarare già nel titolo che “Il cervello dell’uomo è così grande a causa di un “errore” genetico”.
Infine, sempre a sostegno della tesi che il nostro processo di crescita cerebrale è addebitabile a una o più alterazioni di alcuni geni, mi corre l’obbligo di citare il testo di Pietro Buffa “I geni manipolati di Adamo”.
Pur non condividendo la tesi di fondo del libro (e cioè che saremmo stati geneticamente modificati da alcuni esseri alieni non meglio precisati …), nel capitolo 5, titolato “Dentro il genoma”, vi è il paragrafo “I geni dell’ominazione” che spiega per filo e per segno come poterono verificarsi le alterazioni di cui stiamo parlando.
Alcuni particolari geni […] rimasti immutati durante l’evoluzione dei vertebrati, hanno invece subìto nell’uomo sostanziali cambiamenti […]”
Segue il dettaglio di questi geni (HAR1, HARE5, ARHGAPIIB) e una interessante digressione su come i geni possano mutare, ovvero subire alterazioni.
Le mutazioni spontanee sono eventi del tutto casuali perché sono il risultato di una complessa catena di cause ed effetti che, di fatto, è impossibile ricostruire secondo un modello deterministico. Si tratta di errori di copiatura inseriti durante la replicazione del DNA e dovuti, secondo recenti indagini, a “tremiti quantistici” che normalmente interessano le basi nucleotidiche. Per alcuni microsecondi una base può risultare instabile rispetto alle altre, un tempo brevissimo ma sufficiente perché l’apparato di replicazione del DNA la scambi per un’altra, commettendo un errore di trascrizione”.
Pietro Buffa è un biologo molecolare e il suo linguaggio, seppur adattato a una platea di lettori non specialisti, è abbastanza tecnico (la letteratura scientifica più approfondita sull’argomento è indicata in nota: Isaac J. Kimsey e altri, Visualizing transient Watson–Crick-like mispairs in DNA andRNA duplexes, pubblicato su Nature l’ 11 marzo 2015)
Per quello che interessa a noi è sufficiente aver compreso come in natura, tra i miliardi e miliardi di geni esistenti, sussiste la possibilità di errori casuali, e tali errori possono condurre alle modifiche più varie.
L’evoluzione si occupa poi di mantenere quelle vantaggiose e di respingere le svantaggiose. Ma ciò che è vantaggioso per una specie è svantaggioso per un’altra (salvo casi particolari). La natura, madre imparziale, agisce per l’equilibrio complessivo della biosfera e tende a controbilanciare le spinte eccessivamente espansionistiche, da qualunque parte provengano. Sennonché i tempi di reazione della natura sono ben diversi da quelli dell’uomo, e noi oggi ci troviamo nel bel mezzo di un colossale squilibrio acquisito a nostro vantaggio, in virtù di quelle mutazioni genetiche avvenute nel nostro cervello e stiamo soltanto cominciando a intravvedere i tragici esiti dello sbilanciamento provocato.
La similitudine con ciò che accade nel corpo dell’ammalato di cancro mi pare evidente.
L’organismo del malato soffre, ma chi è in grado di dire se le cellule tumorali soffrano anch’esse o se, invece, cantino vittoria per le quantità sempre maggiori di terreno conquistato?

mercoledì 29 luglio 2020

Un olobionte felice è un olobionte che si prende cura del proprio microbioma


Un olobionte chiaramente infelice impegnato nello sterminio del suo microbioma. Una cattiva idea.



L'epidemia di biofobia sta ancora imperversando in tutto il mondo, con persone che si lavano continuamente le mani con sostanze velenose convinte di fare qualcosa di buono, o costrette dalla legge a farlo.

Non è una buona idea, Il microbioma cutaneo è prezioso per noi, tra l'altro è la prima vera barriera contro le infezioni. Alcune persone stanno riconoscendo il problema, come è descritto in un recente articolo su " The Guardian "

Ecco un estratto:
Anche se non hai ancora letto a proposito del nostro microbioma - i trilioni di microbi che conducono vite simbiotiche con gli umani, colonizzando la nostra pelle e il nostro intestino - potresti aver notato scritte un po' vaghe come "delicato sui microbiomi" stampato su bottiglie di gel doccia. Questo perché i microbiologi - e le ditte - stanno imparando sempre di più sulla complessa relazione che abbiamo con i nostri germi. Questi includono i loro ruoli da protagonista nello sviluppo del nostro sistema immunitario, proteggendoci dagli agenti patogeni (creando sostanze antimicrobiche e competendo con loro per spazio e risorse) e diminuendo la probabilità di condizioni autoimmuni come l'eczema. Quindi, c'è una crescente consapevolezza che rimuoverli, insieme agli oli naturali di cui si nutrono, o bagnarli con prodotti antibatterici, potrebbe non essere l'idea migliore dopo tutto.
Prenditi cura del tuo microbioma e sii un olobionte felice!




(scappellata: Miguel Martinez -- tradotto dal blog "The Proud Holobionts")

venerdì 24 luglio 2020

La adattabilità del genere umano


Osservo in questi giorni il nuovo look degli spot pubblicitari che passano in TV. Oltre al rinnovato green-washing di cui mi sono già occupato (articolo “Il Green business che ci aspetta”) vedo un grande sfoggio di mascherine e di slogan inneggianti alla ripartenza dell’Italia. In pieno lockdown il ritornello era “io resto a casa”, ora è tornata la speranza e, con l’invito a mantenere il distanziamento sociale, si assiste a spot che mostrano ogni genere di attività lavorativa in corso di riapertura.
Fin qui nulla di strano. In fondo la pubblicità e la televisione rispecchiano i comportamenti della società, esattamente come i comportamenti della società sono influenzati dalla pubblicità e dalla televisione, similmente al classico girotondo del cane che si morde la coda.
Ma l’osservazione di questo stato di cose può offrire lo spunto per considerazioni di più ampio respiro.
Così come stiamo superando una pandemia che ci ha costretti all’isolamento sociale per tre lunghi mesi, in passato l’umanità ha superato crisi ben più micidiali.
Ricorderò solo alcune delle emergenze più gravi che hanno afflitto i nostri antenati:
  • le glaciazioni. L’ultima, Wurm, interessò il pianeta tra 110.000 e 12.000 anni fa. Nel periodo che va dalla metà del XIV alla metà del XIX secolo la Terra fu caratterizzata da un clima freddo denominato PEG, piccola era glaciale
  • le pandemie. Andando a ritroso nel tempo, il genere umano è stato afflitto dal virus dell’Hiv/Aids (tra i 25 e 35 milioni di morti), dall’influenza Spagnola (tra i 40 e i 50 milioni di morti), dal Vaiolo (oltre 50 milioni di morti), dalla Peste e dal Colera (oltre 200 milioni di morti), solo per citare le malattie più letali
  • le guerre. Inutile qui fare il riassunto degli eventi e del numero di morti di cui è pieno ogni manuale di storia.
Ebbene, nonostante tutti questi eventi catastrofici e i tanti altri che per brevità ho omesso di annoverare, la popolazione umana ha continuato a crescere a dismisura, raggiungendo il ritmo parossistico di riproduzione che ben conosciamo.
Che interpretazione dare a questa realtà? Una e una sola: l’abnorme evoluzione patìta dal nostro encefalo (conseguenza di alterazioni casuali intervenute ai danni di alcuni geni) ci ha messi in grado di superare gli ostacoli che la natura ha posizionato via via sul nostro cammino, consentendoci di proseguire lungo il nostro folle itinerario distruttivo anziché fermarci, come sarebbe accaduto in assenza di quella abnorme evoluzione.
Scienza, tecnica, industriosità e lavoro sono riusciti nell’intento di farci sopravvivere a ogni disastro naturale e artificiale. Non solo. Ci hanno consentito di dilagare in ogni angolo del pianeta.
L’autoriflessione, altra peculiarità del genere umano derivata da quella abnorme evoluzione, ci consente inoltre di modificare le nostre piccole abitudini quotidiane in modo da adattarci ad ogni nuova consuetudine impostaci dalle circostanze esterne.
Per la verità questa è una caratteristica che abbiamo in comune anche con gli altri animali. Basti pensare a come questi ultimi si siano adattati per secoli a vivere nelle gabbie degli zoo, a esibirsi nei circhi o a lottare nelle arene.
È dunque l’istinto a sospingere ogni essere vivente a modificare il proprio stile di vita, pur di sopravvivere in ogni nuova situazione imposta dal destino.
Ma in noi questa adattabilità è mediata dalla autoriflessione, che ci induce a comprendere e condividere le nuove realtà in cui veniamo a trovarci e, quindi, a viverle più coscientemente.
Il nuovo look degli spot televisivi cui accennavo in apertura è la riprova più evidente di questa realtà.
La “plasticità” del nostro cervello, e quindi del nostro corpo, ci consentirà di affrontare prove ben più impegnative di Covid19. Mi riferisco ai disastri ecologici e alla distruzione dell’ambiente naturale che stiamo compiendo. Il collasso non avverrà di colpo e la lunga agonia che attende i nostri pronipoti sarà assai graduale.
Ad ogni effetto negativo per l’uomo causato dagli squilibri nella biosfera, verranno poste in atto contromisure che controbilanceranno per un certo periodo l’effetto di cui trattasi. Ma poi queste contromisure comporteranno a loro volta nuovi squilibri che causeranno nuovi effetti negativi, in una catena di azioni e reazioni sempre più stringente.
E nel corso di questa lotta disperata per la sopravvivenza, a ogni tappa l’essere umano modificherà i suoi comportamenti per adattarsi alle nuove situazioni.
Altro che isolamento e distanziamento sociale! Bisognerà cambiare le abitudini alimentari (finché ci sarà cibo), modificare il modo di viaggiare (torneranno in auge i cavalli?), vestirsi diversamente e imparare a coltivare parchi e giardini.
Non amo avventurarmi nel campo della fantascienza, ma qualche volta le immagini terrificanti del futuro che ci aspetta possono essere utili per indurci a tirare i freni di un veicolo che sta correndo a folle velocità.
Le mascherine e i nuovi slogan degli spot televisivi ci facciano riflettere su come potrà essere il nostro domani.

mercoledì 22 luglio 2020

A cosa servono i modelli? Pillole di ottimismo di Sara Gandini e Ugo Bardi



 
Questo post è il risultato di una collaborazione con Sara Gandini, direttrice dell’unità "Molecular and Pharmaco-Epidemiology" presso il dipartimento di Oncologia Sperimentale dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano (IEO). E' un grande onore per me avere la possibilità di collaborare con una persona di tale livello scientifico. E' anche un grande piacere notare come Sara trovi il tempo e la voglia di dedicarsi alla divulgazione scientifica, cosa che tutti gli scienziati dovrebbero fare ma che, purtroppo, molti ancora considerano al di sotto della loro dignità professionale. (e poi non si lamentino se qualcuno protesta).
 
Dal sito Facebook Pillole di Ottimismo

Covid, i modelli predittivi servono? Ecco cosa è andato storto.

 Di Ugo Bardi e Sara Gandini.

Molte decisioni prese per fronteggiare l’epidemia di Covid-19 sono state basate su modelli predittivi. Questi modelli sono stati criticati per non aver preso in considerazione una serie di variabili che avrebbero migliorato le previsioni, ma anche per non avere tenuto in conto il benessere della comunità nel suo complesso, non solo la salute dei singoli, ma anche il benessere sociale ed economico della società intera. Che cosa è andato storto? È mancata l’intelligenza collettiva che arriva dal coinvolgimento di tutta la comunità scientifica e i politici hanno preferito affidarsi ad una ‘epidemiologia difensiva’ basata sullo scenario peggiore, alle volte a spese del reale benessere della popolazione.
 


Molto tempo fa, i nostri antenati aruspici cercavano di prevedere il futuro esaminando il fegato di una pecora. C’erano poi varie sibille, profetesse e pitonesse che facevano del loro meglio basandosi sulle stelle, le foglie degli alberi, il volo degli uccelli, o chissà che altro. Oggi, tendiamo a non dare molta retta a questo tipo di approccio alle previsioni però, pur con tutto il rispetto per la scienza moderna, va detto che la previsione del futuro rimane una cosa molto difficile e che, certe volte, la scienza non sembra fare molto meglio dell’antica pitonessa di Delfi.

Questo è vero soprattutto considerando come si tende a usare modelli per descrivere quei sistemi che chiamiamo “complessi” che hanno come caratteristica principale quella di sorprenderti sempre. Per questi sistemi, non c’è un’equazione semplice che li descriva, come c’è invece per esempio, per il moto dei corpi celesti nello spazio. Immaginatevi cercare un’equazione che descriva, per esempio, il vostro gatto. Non facile, di certo! Tuttavia, non è che il comportamento di un gatto sia del tutto imprevedibile. Provate ad agitare la scatola dei croccantini e sapete benissimo cosa succede. Si tratta di capire che non bisogna avere la pretesa di fare previsioni quantitative a lungo termine quando sappiamo bene che tutto può cambiare alla svelta.

Un buon esempio della difficoltà che abbiamo nel prevedere il futuro si è visto con i modelli epidemiologici applicati alla pandemia di coronavirus, che sono risultati spesso troppo ottimisti o troppo pessimisti. Tanto per fare un paio di esempi, il modello di IHME (Institute for Health Metrics and Evaluation) in Aprile, prevedeva meno di 20.000 vittime dell’epidemia in Italia mentre, a oggi, il numero reale è stato di 35.000. Al contrario, Greco riporta come “Il modello [dell’Imperial College di Londra] prevedeva in Italia oltre mezzo milione di morti per Covid-19 se non si fosse preso alcun provvedimento, e “soltanto” 283 mila decessi applicando, come di fatto è stato fatto, “il più rigido lockdown.” Per fare un altro esempio, per la Svezia il modello di IHME era arrivato a prevedere quasi 20.000 morti in Aprile, mentre il numero reale si è assestato a poco oltre 5000.
Sulla base di questi e altri risultati Guido Silvestri è arrivato al punto di proporre che bisognerebbe promettere che tali modelli non saranno più usati per prendere decisioni politiche. Si riferiva ai modelli che sono stati usati per prevedere l’andamento di COVID-19 in Italia con la “riapertura” e che non hanno tenuto sufficientemente conto di fattori come “la stagionalità dei coronavirus, la migliorata capacità di gestire COVID-19 dal punto di vista medico/epidemiologico, e la herd immunity, a cui potrebbero contribuire la cross-reactivity con altri coronavirus umani”. Altrettanto critico è stato l’epidemiologo Donato Greco su Scienza in Rete dove ha descritto il fallimento del modello dell’Imperial College che è stato alla base delle decisioni politiche che sono state prese in Italia e in altri paesi. Donato Greco sottolinea l’importanza di prendere decisioni che riguardano il benessere della comunità tenendo conto non solo della salute dei singoli, ma anche del benessere sociale ed economico della società intera.

Mentre con il coronavirus i modelli hanno semplicemente “dato i numeri.” Se volete la nostra opinione, che su dati e modelli ci traffichiamo da un pezzo, questi modelli non hanno aiutato perché dipendono da dati e assunzioni in larga parte non verificabili, da una parte hanno tenuto fuori dal quadro aspetti importanti, come ad esempio le enormi differenze geografiche che si osservano anche per la mortalità da influenza stagionale, dall’altra hanno inserito troppi parametri che rendono difficile interpretare i modelli. E il risultato è un po’ quello che succede quando uno va a vedere un museo tipo il Louvre a Parigi. Dopo che hai visto centinaia di quadri e sculture, non capisci più nemmeno cosa stai vedendo.

Ora, non è che i modelli non siano utili per prevedere il futuro, ma vanno capiti. Vi ricordate quando il ministro Francesco Boccia chiedeva alla comunità scientifica “certezze inconfutabili” sull’epidemia? Evidentemente, pensava che gli scienziati potessero vedere il futuro nel fegato di qualche pecora e venirsene fuori spiattellando il volere degli Dei, ma non funziona così. Il ministro non aveva capito nulla di come funzionano i modelli. Ma non era solo un problema del ministro. Succede spesso che, invece di usare i modelli come fonte di informazione e comprensione della realtà, i politici li strumentalizzano per supportare programmi di “epidemiologia difensiva” che soffre dello stesso problema della “medicina difensiva,” ovvero la volontà di agire principalmente con lo scopo difendersi da possibili rischi giuridici, alle volte a spese del reale benessere del paziente. Così l'epidemiologia difensiva segue la strategia di adottare lo scenario peggiore come se fosse esente da rischi. Ma ogni scelta comporta effetti sulle persone che sono non meno importanti e non meno drammatici dell’impatto diretto del virus. Questo problema è descritto in una recente “Pillola di Ottimismo.”

I modellisti dovrebbero quindi sottrarsi al gioco di presentare le proiezioni ottenute dai modelli come se fossero certezze in modo tale che ai politici non sia più consentito scaricare la responsabilità sui modelli o sugli scienziati stessi. Al contrario i ricercatori dovrebbero mettere in chiaro le ipotesi da cui si parte, e le misure di precisione, quindi di variabilità delle stime che si fanno, inclusi i limiti intrinsechi in ogni lavoro. In particolare, una grave limitazione dei modelli epidemiologici è stata quella di non tentare di quantificare gli effetti collaterali dei rimedi proposti sulla base dei risultati delle simulazioni: danni alla salute causati dal lockdown, dal trascurare altre forme di malattie, dalla depressione causata dall’isolamento delle persone anziane e molti altri effetti. Questo problema non è stato capito né dai politici né dal pubblico

Su questo punto, è uscito recentemente su Nature un articolo interessante che presenta un manifesto per le migliori pratiche per la modellazione matematica responsabile: Cinque semplici principi per aiutare la società a richiedere la qualità di cui ha bisogno dalla modellistica:
-attenzione alle assunzioni
-attenzione all’arroganza
-attenzione al contesto
-attenzione alle conseguenze
-attenzione a tutti gli aspetti sconosciuti
-attenzione a usare i modelli per porre domande non per dare risposte

Nelle conclusioni gli autori spiegano che questo testo non auspica la fine della modellistica quantitativa, né modelli apolitici, ma una divulgazione completa, schietta e responsabile. Soprattutto bisogna fare in modo che i modelli siano discussi all’interno della comunità scientifica in modo che si crei una intelligenza collettiva che includa come scrive Donato Greco “l’incertezza, i rischi, gli effetti collaterali, quindi l’assunzione di responsabilità pesanti”. Per questo, quanto più ricca è “l’Intelligence” più appropriate saranno le scelte che questa emergenza richiede.

Alla fine dei conti, ricordiamoci che se è vero che il futuro non si può prevedere, è anche vero che per il futuro si può sempre essere preparati.

https://covid19.healthdata.org/italy
https://www.scienzainrete.it/…/scar…/donato-greco/2020-05-11
http://maddmaths.simai.eu/comu…/risposta-di-guido-silvestri/
https://www.ilfattoquotidiano.it/…/coronavirus-il-…/5769710/
https://www.facebook.com/pillolediottimismo/posts/143815370692276
https://www.nature.com/articles/d41586-020-01812-9

sabato 18 luglio 2020

Liti eccellenti. Gli esseri umani sono sempre degli attaccabrighe


Rubens, "La testa di Medusa", 1617

di Bruno Sebastiani

Recenti fatti di cronaca … religiosa mi offrono lo spunto per fare qualche riflessione sulla miseria della natura umana.
Non mi riferisco a beghe parrocchiali di basso livello o a bisticci tra confraternite per il posto da occupare in processione.
No, qui mi riferisco alla contesa che ha visto recentemente coinvolti nientemeno che il fondatore ed ex-priore della Comunità di Bose, Fratel Enzo Bianchi (e suoi seguaci), e l’attuale priore, Fratel Luciano Manicardi (e suoi seguaci).
A chi abbia un minimo di dimestichezza con il dibattito politico, culturale, religioso italiano il fatto non sarà passato inosservato, non fosse altro per la posizione pubblica di alto livello di Enzo Bianchi, definito dal Messaggeroeditorialista di punta del quotidiano La Repubblica, amico personale di Eugenio Scalfari e di tantissimi intellettuali, autore super gettonato di libri di teologia e storia del cristianesimo, uomo di punta dell'ecumenismo mondiale”.
E che la contesa fosse ai massimi livelli è testimoniato anche dal fatto che il Vaticano ha inviato per un mese intero tre “visitatori apostolici” nel monastero a indagare sulla vicenda.
C’è da immaginare che le giornate dei tre “super–ispettori” siano trascorse tra interrogatori più o meno amichevoli ed esame di ogni documento utile a far luce sulla querelle.
La sentenza è stata a dir poco eclatante: Fr. Bianchi dovrà abbandonare il monastero da lui fondato e con lui tre dei suoi più stretti collaboratori. Ancor più eclatante se si tiene conto che è stata avallata da Papa Francesco in persona e che porta la dicitura di “definitiva” e “inappellabile”.
Non entro nel merito della sentenza nè di tutta la vicenda, i cui i reali termini non sono neppure di pubblico dominio, ma risultano ben occultati dietro a frasi del tipo “sempre obbediente, nella giustizia e nella verità” o “invochiamo una rinnovata effusione dello spirito”.
Lo scopo del mio interessamento non concerne la vicenda in sé ma ciò che rivela dell’animo umano, delle sue miserie e meschinerie, al di là delle parole altisonanti, degli sguardi alteri, penetranti, della fama e dell’odore di santità.
È ben noto che situazioni conflittuali esistono a ogni livello nel mondo degli affari, della politica, dello sport ecc. Ci si poteva illudere che il mondo dello “spirito” fosse immune da questa tara. Ora questa illusione è venuta meno.
Non sarà per caso che ciò è accaduto perché in Occidente siamo intrisi di competitività, di materialismo e di utilitarismo?
Per rispondere a questa domanda provo a volgere lo sguardo altrove, ma ritrovo casi di conflittualità esasperata anche in movimenti che si ispirano alla religiosità orientale, la più pacifica del mondo.
Il movimento creato da Paramhansa Yogananda, la Self-Realization Fellowship, alcuni anni dopo la morte del fondatore si spaccò in due tronconi a causa dell’insanabile contrasto tra le “madri” che dirigevano il movimento e Swami Kriyananda, nato James Donald Walters. Quest’ultimo si separò per fondare una nuova comunità denominata Ananda, presente in vari paesi tra cui Stati Uniti, Italia, e India. La vicenda sfociò anche in spiacevoli vicende giudiziarie. Nonostante che Kriyananda sia morto nel 2013, esiste ancora un sito con tutta la documentazione delle malefatte del santone, probabilmente gestito dalla fazione avversa (vedi http://www.anandauncovered.com/IndexITA.htm), anche perché il movimento fondato da Kriyananda è tuttora vivo e vegeto, presente in varie parti del mondo con il nome di Ananda (in Italia ad Assisi).
Altre liti eccellenti che agitarono l’ambiente dei guru si verificarono tra i seguaci di Osho. Su queste vicende è stato realizzato un docufilm con interviste ai diretti protagonisti. Si intitola “Wild Wild Country” ed è reperibile anche su Netflix.
Potrei trovare molti altri esempi di questo tipo di contrasti tra personaggi “insospettabili”, cioè uomini o donne che predicano amore e fratellanza e che poi si dividono su questioni di potere o, peggio, di interessi personali.
Che morale trarre da queste vicende?
Una e una sola. Nessuno di noi, vivente o vissuto, può ritenersi “diverso” da ogni altro contemporaneo. Questo perché il cervello di ogni uomo ha struttura analoga a quello di ogni altro. Qualche neurone in più, qualcuno in meno, qualche connessione inter-sinaptica in più, qualcuna in meno. Tutto ciò influisce sul livello di intelligenza, di capacità di analisi, di sintesi, di abilità oratoria, ma poi il cervello limbico e quello rettiliano, al di sopra dei quali si è sviluppata la neocorteccia, reclamano la loro parte di influsso, che si estrinseca in prepotenti istinti di autoconservazione, di predominio, di sopravvivenza. Tutto ciò può forse essere tradotto con la locuzione “volontà di potenza” di nietzschiana memoria?
Come si inserisce questa riflessione nella teoria cancrista che da anni vado elaborando?
È un tassello in più che dimostra come, pur con tutta la buona volontà possibile, non avremmo potuto esimerci dal devastare il pianeta.
Se neppure tra le ovattate mura di un chiostro conventuale è possibile sfuggire al demone della prepotenza e della sopraffazione, come si può immaginare che Homo sapiens, una volta in possesso dell’arma suprema della ragione, avrebbe potuto astenersi dall’usarla contro ogni altra realtà per trarne i massimi benefici a proprio vantaggio?

martedì 14 luglio 2020

Ci sentiamo unici e speciali, ma lo siamo veramente?


Di Fabio Vomiero


Sono almeno 50.000 anni e cioè da quando la specie Homo sapiens ha iniziato a differenziarsi culturalmente dagli altri primati in modo evidente e sensibile (espressione pittorica astratta, manufatti creativi ecc.), che l'uomo stesso, in un modo o nell'altro, si sente un essere unico e speciale.

Del resto, questa particolare percezione di sè, che si traduce poi spontaneamente in un umanesimo autoreferenziale di impostazione antropocentrica, è sempre stata ben strutturata e rappresentata nell'ambito di quasi tutte le culture, religioni e filosofie.

Ma mentre sul concetto di "unicità" non c'è alcun problema di carattere interpretativo, ogni specie infatti è certamente unica rispetto a tutte le altre, su quello di "speciale" si potrebbe invece dibattere a lungo, senza probabilmente riuscire mai a trovare un accordo unico e condiviso.

Ma perchè, in effetti, l'uomo dovrebbe essere così speciale rispetto alle altre specie animali, per esempio... Perchè è più intelligente? Perchè possiede un'autocoscienza? Può darsi, ma che cosa sono allora l'intelligenza e la coscienza... E come è possibile riuscire a stabilire dei criteri di demarcazione tra uomo e animali tali da giustificare una presunta "superiorità" umana... E chi avrebbe il diritto eventualmente di deciderlo...

Il problema nasce dal fatto che, seppure in un contesto culturale e sociale ancora dominato da posizioni fortemente antropocentriche, i risultati della recente ricerca scientifica nei campi principalmente della biologia evolutiva, neuroscienza, psicologia cognitiva, etologia umana, sociobiologia, stanno invece mostrando una prospettiva completamente diversa.

Gli animali più simili a noi, infatti, principalmente i primati e gli altri mammiferi, ma in parte anche gli uccelli e i pesci, oltre che a condividere con noi il codice genetico, la morfologia e il funzionamento cellulare e grandi tratti di anatomia, fisiologia e strutture nervose, condividono anche alcune abilità cognitive e certi aspetti comportamentali che esprimono una qualche forma di coscienza.

Tutte le evidenze, infatti, inducono oggi a pensare alla coscienza non più come a uno schema unico e fisso esclusivo della specie umana, ma piuttosto come a una proprietà di espressione di una serie di facoltà mentali e intellettive che possano manifestarsi in modi e livelli diversi in più specie anche filogeneticamente lontane.

Risultati che fino a qualche decennio fa sarebbero stati impensabili, ma che recentemente hanno invece spinto una commissione di illustri scienziati a concordare addirittura la Dichiarazione di Cambridge sulla coscienza, un documento del 2012, in cui si afferma che «... il peso delle prove indica che gli esseri umani non sono gli unici a possedere i substrati neurologici che generano la coscienza. Anche animali non umani, ivi compresi tutti i mammiferi e gli uccelli e molte altre creature, per esempio i polpi, possiedono tali substrati».

Si potrebbero riportare, infatti, decine di esempi di comportamenti animali che suggeriscono azioni intenzionali e coscienti, tuttavia, senza entrare nel merito dei lavori scientifici, possiamo almeno dare qualche indicazione generale sul tipo di evidenze che sono state raccolte.

Innanzitutto si è dimostrato che è il cervello a produrre le facoltà mentali, nell'uomo come negli altri animali, concetto niente affatto scontato visto ancora il diffuso convincimento in base al quale l'uomo sarebbe costituito invece da un corpo materiale e da una mente (o anima) immateriale (dualismo cartesiano). Si è anche capito che i comportamenti simili presenti in specie diverse sono in realtà spesso influenzati dagli stessi meccanismi ormonali e dagli stessi neurotrasmettitori, e ancora, che alcune specie animali oltre che a possedere abilità cognitive in certi casi superiori a quelle dei nostri bambini di età prescolare, mostrano di essere dotati anche di stati emozionali e sentimentali di tipo simil-umano, amicizia, paura, sofferenza, gratitudine, gioia, gelosia, tristezza, lutto, empatia, solidarietà, in particolare nel caso delle specie a spiccata vocazione sociale.

Riguardo invece la capacità di costruire manufatti e di utilizzare utensili, nonchè di modificare l'ambiente a proprio vantaggio, argomenti generalmente riportati come esempi di esclusività umana, basta soltanto ricordare l'uso di diversi utensili anche da parte degli scimpanzè, oppure guardare ai nidi degli uccelli, alle dighe dei castori, alla geometrica complessità degli alveari, ai comodi giacigli costruiti dai gorilla. E che dire inoltre dei termitai, queste sorprendenti strutture ingegneristiche alte alcuni metri, la cui architettura, fatta di stanze e cunicoli, permette un ottimo ricircolo dell'aria e quindi il mantenimento di una temperatura ottimale costante.

Si tratta semplicemente di istinto? E che cos'è allora l'istinto... Come facciamo a riconoscere il sottile confine che esiste tra istintualità e intenzionalità... E in fondo, non siamo anche noi degli animali in parte istintuali? E se non sono l'intelligenza, la coscienza e la capacità di utilizzare utensili a renderci speciali, in che cosa consiste allora l'evidente diversità umana che comunque ci rende l'unica specie apparentemente capace di un pensiero astratto simbolico e di una vita mentale estremamente complessa?

Ovviamente si tratta della classica domanda da un milione di dollari, tuttavia si può plausibilmente supporre che queste proprietà emergenti uniche e speciali siano state acquisite da Homo sapiens nel corso della sua storia evolutiva in seguito a qualche particolare e fortunata combinazione co-evolutiva tra genetica, linguaggio e socializzazione, che in qualche modo è riuscita poi a gettare le basi per una rapida e inarrestabile evoluzione culturale.

Una volta infatti selezionati i caratteri per l'adattamento alla fonazione e acquisita una predisposizione cognitiva al linguaggio articolato in seguito alla mutazione di alcuni geni regolatori tipo il FOXP2, il resto non è così difficile da immaginare. Abbozzi strutturali che generano abbozzi culturali, e conquiste culturali che a loro volta retroagiscono sul sistema stimolando ulteriormente la plasticità neuronale e la comparsa di nuove abilità cognitive in un continuo processo autopoietico di selezione e adattamento culminato infine nella straordinaria encefalizzazione degli esseri umani.

Se si considerano inoltre, una modalità di comunicazione sempre più complessa e raffinata in grado di trasformare un protolinguaggio gestuale in un linguaggio codificato e la determinante acquisizione della capacità di insegnamento intenzionale che amplifica esponenzialmente la trasmissione dei saperi, il quadro teorico è così delineato.

Se tutto questo è vero, allora anche molti comportamenti umani che sembrano dettati da una qualche forma variabile e soggettiva di "libero arbitrio" potrebbero invece essere più semplicemente spiegati su basi biologiche, come peraltro sarebbe suggerito dal semplice fatto che, molto spesso, si tratta di schemi comportamentali sostanzialmente rintracciabili anche in altre specie animali.

Per esempio l'ambizione al comando, la ricerca del potere, l'esibizione di sè, le risposte alle provocazioni, la competizione, la subordinazione, la diffidenza nei confronti del diverso e dell'estraneo, l'adulterio, l'accaparramento egoistico di beni, la predisposizione ad alimentarsi oltre il necessario, lo scontro per la conquista del territorio e per il controllo delle risorse, le dipendenze, ma anche la solidarietà e la cooperazione all'interno del gruppo, il bisogno di curare i rapporti sociali, le cure parentali e molto altro ancora.

In altre parole, pare proprio che al di sotto della plurimillenaria polvere di un umanesimo per certi versi un pò naif, esista invece un evidente continuum biologico tra le specie, che, senza sminuirlo, rende l'essere umano molto meno speciale di quanto comunemente si creda.