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sabato 25 gennaio 2020

Il "Dilemma Ostetrico"


Un Post di Bruno Sebastiani

Il parto nella specie umana è un evento assai più traumatico di quanto sia negli altri animali, compresi quelli a noi più simili, scimpanzè o gorilla, le cui femmine partoriscono senza aiuti e con relative poche difficoltà.

Perché questa differenza, che implica per la nostra specie dolore e necessità di assistenza al parto?

Lasciamo per un attimo in sospeso la risposta a questa domanda in quanto le difficoltà alla nascita non sono l’unico elemento che ci differenzia dagli altri animali.

Una delle caratteristiche proprie della nostra specie è infatti la non autosufficienza alla vita autonoma dei giovani nati. Essi dipendono per anni dalle cure parentali, contrariamente a quanto accade nella generalità del regno animale.

Gli inglesi hanno inventato il termine “altriciality” per significare la necessità biologica di nutrire e prendersi cura dei giovani per una lunga durata.

A noi occorre ben un anno e anche più per imparare a camminare e circa due per mangiare con le nostre mani. Ciò dipende dal fatto che il nostro cervello alla nascita ha solo il 30 % delle dimensioni di quello adulto, contro percentuali ben più alte del restante regno animale.

Perché questa differenza a nostro “svantaggio”? Qui entra in gioco il cosiddetto “dilemma ostetrico” ovverosia il compromesso biologico impostoci da due opposte pressioni sviluppatesi nel corso del nostro processo evolutivo: da una parte la riduzione delle dimensioni del canale del parto nel bacino umano conseguente alla adozione della locomozione bipede e dall’altra la comparsa di crani sempre più grandi parallelamente alla crescita del volume della neocorteccia, comparsa che avrebbe richiesto una più ampia area pelvica per consentire il passaggio dei nascituri.

Cosa si è inventata la Natura per risolvere questo dilemma? Quale il compromesso? Possiamo riassumerlo in tre punti:

1 – fissazione della durata della gestazione per la nostra specie a 266 giorni, tempo limite per consentire il passaggio della testa dei nascituri dal canale del parto. Il fatto stesso che tale durata sia un tempo limite spiega le difficoltà e i dolori connessi all’evento. Una durata maggiore avrebbe reso impossibile il passaggio di calotte craniche ulteriormente accresciute;

2 – conformazione “malleabile” del cranio dei neonati tramite suture delle “ossa piatte” della calotta in tessuto fibroso non ancora ossificato e quindi flessibili ("zone molli" o fontanelle). Ciò permette alle ossa frontali di scivolare una sull’altra durante la compressione del parto e, dopo la nascita, di accogliere il volume crescente della corteccia frontale per circa due anni, allorquando si fondono completamente nella sutura metopica in coincidenza con il rallentamento dell’espansione cerebrale;

3 – affidamento dello sviluppo incompleto del bambino (conseguente alla necessità di dover transitare “anzitempo” dal canale del parto), alle cure parentali, ovvero alle ben note attenzioni che ogni mamma e ogni papà della nostra specie rivolgono ai loro figli nei primi anni di vita.

Un corollario al punto 1 è che le difficoltà al passaggio dal canale del parto sono state in passato all’origine dell’alto tasso di mortalità dei nascituri, tasso drasticamente ridotto con l’introduzione del taglio cesareo, attualmente praticato in un’elevata percentuale di casi.

Altra precisazione da fare è che, secondo studi recenti, la nascita “precoce” avverrebbe perché dopo quasi nove mesi le esigenze metaboliche del feto rischiano di superare le capacità della madre di soddisfare il proprio fabbisogno energetico e quello del bambino. Questa precisazione nulla toglie al fatto che per risolvere il problema la Natura abbia dovuto scendere a compromessi con se stessa.


* * *

Se questo è il “dilemma ostetrico” (espressione coniata nel 1960 dal bio - antropologo americano Sherwood L. Washburn), come interpretarlo alla luce della teoria evoluzionista e in particolare all’interpretazione che vede nello sviluppo del cervello umano una infausta anomalia (leggi Cancrismo)?

Indubbiamente il fatto che la Natura si sia trovata di fronte a un “dilemma” e lo abbia dovuto risolvere facendo ricorso ad un “compromesso biologico” (nascita anticipata contro affidamento del neonato alle cure dei genitori) sta a significare che nel corso della nostra evoluzione si sono verificati degli eventi contrastanti con l’armonia che regnava nel mondo animale.

È ben noto che i rivolgimenti della biosfera sono stati infiniti e di grande rilievo. Ma nel periodo in cui ci siamo affacciati alla vita come uomini (staccandoci gradualmente dalle scimmie antropomorfe) nella foresta regnava un equilibrio che consentiva a tutte le specie di vivere e sopravvivere nel rispetto delle leggi di natura.

Poi alcune mutazioni consentirono alla nostra specie di sviluppare un cervello molto più “potente” di tutti gli altri, tanto potente da consentirci di contravvenire alle leggi che avevano fino ad allora regolato la convivenza tra le specie.

Tanto potente da dover accrescere le dimensioni del cranio destinato ad ospitarlo e da dover abbreviare la nostra gestazione per consentire a questa testa più ampia di transitare dal canale del parto. Con la conseguente precocità alla vita di cui abbiamo parlato.

Anche il “dilemma ostetrico” si spiega così alla luce della teoria cancrista: lo sviluppo del nostro cervello (della nostra intelligenza e di tutto ciò che ne consegue) ha rappresentato un fatto abnorme nel panorama dell’evoluzione, un fatto destinato a stravolgere l’equilibrio della biosfera sino ai tragici esiti attuali.

Un fatto tutto interno alla Natura (nulla che conosciamo la travalica) ma un fatto negativo per l’armonia del Tutto, come capita quando il cammino evolutivo imbocca vie senza sbocco.

L’analogia più calzante che viene alla mente in proposito è quella con le neoplasie maligne che conducono alla distruzione l’organismo che le ospita.

Ecco dunque che il “dilemma ostetrico” aggiunge un ulteriore tassello a quella teoria che sto cercando di illustrare con i miei libri e con i miei scritti.



venerdì 24 aprile 2020

Antivaccinismo e dintorni


Demetrio Cosola, La vaccinazione nelle campagne, 1894

Guest Post di Bruno Sebastiani

Parlare di natalismo / antinatalismo o di diete vegane / onnivore è come entrare in una cristalleria in sella a un elefante. Comunque ti muovi fai danni.
Eppure io ci ho provato, con due specifici articoli (“È meglio essere nati o sarebbe stato meglio non essere mai nati” e “Carne o non carne? Siamo animali vegetariani o onnivori?”) e, tutto sommato, credo di essermela cavata abbastanza bene, limitando al minimo i danni (solo qualche bicchiere rotto, e di scarso valore).
Incoraggiato da queste esperienze positive ho deciso di inoltrarmi in un altro campo minato, quello dei vaccini.
L’argomento è quanto mai di attualità, tenuto conto dell’emergenza sanitaria in corso e della speranza che tanta parte della popolazione ripone in un vaccino prossimo venturo, in contrasto con la chiassosa minoranza no-vax.
L’argomento è oltremodo spinoso, perché implica l’estrinsecazione di giudizi di valore non solo sui vaccini in se stessi, ma anche su tutte le grandi scoperte che in campo medico hanno consentito di aumentare la speranza di vita di miliardi di persone.
Una questione veramente scottante, ancor più delicata se si tiene conto che il tema della salute è uno dei pochi intorno al quale vi è consenso unanime da parte di tutti, forze politiche, componenti culturali, movimenti religiosi ecc.
Persino i no-vax si oppongono ai vaccini in quanto li ritengono inutili o, peggio, pericolosi per la salute, non già perché salvando vite umane contribuiscono alla sovrappopolazione del pianeta.
Eccoci dunque subito giunti al nocciolo della questione: i no-vax perseguono lo stesso fine dei “vaccinisti”, ovvero la maggior salute possibile per il maggior numero possibile di esseri umani. Solo che lo perseguono in modo diverso, mettendo in risalto i rischi, veri o presunti, connessi alla somministrazione dei vaccini.
In quegli aggettivi, veri o presunti, si cela la sostanza dell’argomento, che quindi è di natura esclusivamente e squisitamente scientifica.
Se fosse acclarato che i vaccini contribuiscono alla difesa dello stato di salute della popolazione senza eccezione alcuna e che, a contrariis, in assenza dei medesimi tale stato di salute decadrebbe fatalmente, la querelle sarebbe risolta, nessuno più si dichiarerebbe no-vax.
Ma le eccezioni esistono, non potrebbe essere diversamente.
Cionondimeno l’efficacia dei vaccini è dimostrata statisticamente in modo più che ampio. Malattie come il vaiolo, la poliomielite, la difterite, il tetano sono state debellate pressoché totalmente grazie alla vaccinoprofilassi. Altre affezioni sono tenute validamente sotto controllo con la vaccinoterapia.
Dopodiché tra i milioni, miliardi di vaccinazioni eseguite, qualche “incidente di percorso” si è verificato in passato e certamente si verificherà in futuro.
I nostri organismi non sono tutti uguali e i singoli preparati vaccinali non sono sempre perfetti al 100%. Come in tutte le cose umane vi è sempre un margine di errore e di imprevedibilità.
Così pure sappiamo che gli interessi economici dettano legge anche nel campo della salute e le industrie farmaceutiche non sono certamente degli istituti filantropici.
Ma attaccarsi a queste “microfessure” del sistema per mettere in discussione la solidità dell’intero edificio rappresenta, da parte dei no-vax, una posizione estrema, sinceramente indifendibile.
Un conto è la critica contingente di singoli aspetti, un altro la negazione della efficacia dei vaccini tout court.
Il discorso potrebbe dunque chiudersi qui.
Ma sarebbe un’occasione sprecata.
Credo infatti che il variegato e combattivo mondo antinatalista, vegano, animalista, antispecista, no vax ecc. meriti una considerazione tutta particolare per l’impegno e la passione con cui affronta le sue battaglie.
Ne parlo come di un unico schieramento perché ritengo che le idee e le azioni di tutti questi “attivisti – estremisti” siano collegate da un sottile filo rosso, anche al di là degli intendimenti dei diretti interessati.
Un loro denominatore comune è certamente la critica alla società industriale e consumista. Un altro è l’avversione per la dittatura dell’economia. Un altro ancora è la forte repulsione per l’opera di devastazione della natura compiuta da Homo sapiens.
Ce ne è abbastanza per tentare di fare un discorso onnicomprensivo.
Quali sono i punti di forza e quelli di debolezza di questo mondo, così variegato e combattivo?
Il punto di forza è sostanzialmente uno: la crisi di valori che sta attraversando il modello di vita occidentale, oramai divenuto il modello di riferimento per tutta la popolazione mondiale.
I punti di debolezza sono diversi.
In primo luogo la negatività del punto di forza, ovvero il fatto che le varie frange dello schieramento si riconoscono nella critica al modello industriale-consumista ma non hanno alle spalle una comune ideologia né un metodo di analisi storica condiviso.
Vi è così un ecologismo marxista, un altro cristiano, un altro anarco-primitivista e così via.
Inoltre, alla frammentazione ideologica se ne aggiunge un’altra di tipo contenutistico.
Vi è chi difende i diritti degli animali, chi si oppone ai vaccini, chi è contro la sovrappopolazione, chi lotta contro l’alta velocità, chi protegge determinate specie animali in pericolo di estinzione, chi si oppone alla deforestazione, chi si batte per i diritti dei più deboli, chi è contro la vivisezione ecc. ecc.
Non che le singole posizioni siano in contrasto le une con le altre, ma di fatto l’impegno dei singoli si esplica su una pluralità di fronti e, come ben sa chi si occupa di strategia militare, per vincere le battaglie occorre concentrare l’attacco in un determinato punto dello schieramento avversario, evitando di disperdere le forze in mille direzioni.
Infine un altro punto di debolezza, forse il più rilevante, di questo mondo è la contiguità con movimenti e personaggi di dubbia credibilità, professionalmente dediti al sensazionalismo, alla ricerca delle cause occulte e della dietrologia ad ogni costo, i complottisti a oltranza, quelli delle scie chimiche, dei cerchi nel grano, dell’uomo che non è mai sceso sulla luna, dei servizi segreti che hanno abbattuto le torri gemelle ecc. ecc. (per carità di patria ometto di parlare di terrapiattismo!)
Signori: non c’è bisogno di cercare spiegazioni strambe a una realtà che sta di fronte ai nostri occhi e che è ben visibile sia da chi contesta questo sistema sia da chi lo sostiene.
Per fornire un canone interpretativo basato unicamente sul buon senso e quindi alla portata di ogni intelletto ho sviluppato il Cancrismo, la teoria secondo cui il nostro comportamento su questa terra è analogo a quello delle cellule tumorali nel corpo dell’ammalato di cancro.
L’immagine non deve spaventare. L’analogia ha unicamente lo scopo di far aprire gli occhi ai candidi speranzosi in un futuro migliore.
Assumendo come punto di partenza la nocività di Homo sapiens quale diretta conseguenza dello sviluppo del suo cervello che gli ha consentito di contravvenire alle leggi di natura, tutta la storia del genere umano può essere riletta in ottica regressista.
Ogni progresso dell’indagine filosofica, delle scienze, della tecnica anziché rappresentare un successo di cui vantarsi è da intendere come un avanzamento nell’edificazione di un mondo artificiale sempre più avulso dall’armonia naturale della biosfera.
Questi progressi hanno consentito proprio quella crescita numerica indifferenziata della popolazione che è all’origine della malattia del pianeta.
In tale ottica tutto trova la sua logica spiegazione.
Non è il mangiar carne il delitto, ma il mangiarla in quantità industriale, costringendo miliardi di poveri animali a una vita del tutto innaturale.
Del mangiar vegetali nessuno ha mai detto che sia un delitto, ma io soggiungo che invece lo è aver iniziato a coltivare i campi per procurarseli artificialmente e in gran quantità.
Non è l’aver tanti figli il delitto, ma l’aver alterato il rapporto nascite / morti innescando l’aumento iperbolico della popolazione.
La rivoluzione agricola è la prima responsabile di questo stato di cose, dopodiché qui si inserisce nuovamente il discorso dei vaccini, insieme a quello degli antibiotici e dei tanti farmaci salvavita di cui ci gloriamo. Sono i secondi responsabili del grande balzo della sovrappopolazione, unitamente alle nuove condizioni igienico sanitarie e organizzative della società contemporanea.
Da notare che la necessità di particolari presìdi sanitari, tra cui i vaccini, deriva dal fatto che la diffusione di molte malattie avviene per contagio, ed è quindi favorita dal concentramento di molti esseri in spazi ristretti, situazione tipica delle città.
Prova ne sia che per arginare la diffusione della recente pandemia si è fatto ricorso al distanziamento sociale e all’isolamento, situazione in cui vivevano abitualmente gli uomini primitivi e anche gran parte dell’umanità in epoca pre-urbana.
Dobbiamo dunque predicare l’abolizione dell’agricoltura, dei vaccini e di ogni altra cura medica?
Ovviamente no. Ci siamo incamminati su una via che non può essere percorsa a ritroso e non è in nostro potere di esseri intelligenti il comportarci come se non avessimo l’intelligenza, che è la causa di ogni male.
L’unica cosa che possiamo fare è di cercare di tirare un po’ i freni, di modo che la nostra folle corsa verso il collasso rallenti e consenta a qualche generazione in più di esseri viventi di godere del poco che resta di quello che un tempo era chiamato paradiso terrestre.
Per ogni approfondimento sul Cancrismo vi rinvio al sito de “Il cancro del pianeta”.

sabato 7 luglio 2018

Una Nuova Rivoluzione Culturale?



Un contributo di Bruno Sebastiani

PER UNA NUOVA RIVOLUZIONE CULTURALE

Osservazioni a margine della teoria “uomo=cancro del pianeta”




La visione del mondo secondo cui l’essere umano è superiore ad ogni altro essere vivente nasce decine di migliaia di anni or sono, nel momento in cui nella mente dell’uomo si sviluppa la coscienza. La motivazione di questa superiorità risiede nella maggiore capacità “elaborativa” del cervello umano rispetto a quello di ogni altro animale, ma questa spiegazione si affermò solo poche migliaia di anni fa, con i primi filosofi.

Sino ad allora prevalse il convincimento che fosse stato il creatore dell’Universo in persona ad investire l’uomo della funzione di re del mondo, e questa idea continuò ad esercitare il suo fascino anche in seguito, fino ai giorni nostri. La superiorità di cui ci vantiamo è multiforme, non riguarda solo le capacità intellettive. Spazia dalle emozioni ai sentimenti, dall’etica all’estetica, dalla politica all’arte e così via.

Una delle sue più efficaci sintesi è stata messa in rima da Dante nel XXVI canto dell’Inferno: “… fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”, versi che rinviano anch’essi all’investitura divina. Ma questa superiorità è talmente ampia, indiscussa ed indiscutibile che nel tempo si è estesa anche al regno di cui saremmo stati nominati signori, oltreché alla già citata nostra origine ai vertici della creazione. Il regno (la Terra) fu dunque immaginato al centro dell’Universo e noi ci fantasticammo forgiati direttamente dalle mani di Dio.

Oggi sappiamo che le cose non sono andate così. Ma per abbattere questi falsi convincimenti sono state necessarie due gigantesche rivoluzioni culturali, che hanno letteralmente scosso dalle radici la visione del mondo secondo cui l’essere umano è superiore ad ogni altro essere vivente.

La prima di queste rivoluzioni prese avvio nel 1543 con la pubblicazione del trattato astronomico di Niccolò Copernico “Sulle rivoluzioni dei corpi celesti”. Fino ad allora resisteva saldo nella coscienza dell’umanità il convincimento espresso nel 350 a.C. da Aristotele nell’opera “De caelo”: “… il centro della terra e quello del Tutto si trovano a coincidere … È chiaro dunque che la terra si trova necessariamente posta al centro, ed è immobile …”.

Questa teoria, il geocentrismo, era poi stata avvalorata ne “L’Almagesto” di Claudio Tolomeo intorno al 150 d.C., da cui il nome di Sistema Tolemaico dato alla dottrina secondo la quale la Terra è ferma e il Sole, la Luna e gli altri pianeti le girano attorno. È evidente la funzionalità di una simile teoria all’antropocentrismo, che vede l’uomo signore e padrone dell’Universo.

Ma la ragione evolve, e, a dispetto anche della considerazione che essa ha di se stessa, a un certo punto della storia la verità emerge. Faticosamente. Le intuizioni di Copernico non furono infatti sufficienti a ribaltare d’emblée la visione del mondo tradizionale.

Il rogo di Campo de’ Fiori in cui perì nel 1600 Giordano Bruno e il processo a Galileo Galilei con la sua conseguente abiura forzata del 1633 ci fanno capire quanto sia stato irto di difficoltà il cammino che consentì il diffondersi della semplice constatazione che la Terra è un pianeta come gli altri e che, come gli altri, gira intorno al Sole.

Nella Sentenza pronunciata dal Tribunale del Sant’Uffizio contro Galileo l’accusa di eresia si basa esplicitamente sul fatto “d’haver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e Divine Scritture, ch’il sole sia centro della terra e che non si muova da oriente ad occidente, e che la Terra si muova e non sia centro del mondo”.

Ma infine, nonostante tutto, la dottrina copernicana si dimostrò veritiera ed iniziò ad aprire gli occhi dell’uomo sulle sue reali dimensioni: non siamo al centro dell’Universo, abitiamo solo uno dei tanti pianeti che girano intorno al Sole. E più avanti abbiamo capito che di astri come il Sole ne esistono a milioni! Resisteva però il convincimento che Dio avesse generato direttamente tutta la realtà per asservirla all’essere umano. Egli, l’Onnipotente, aveva creato la luce, il cielo, la terra, l’acqua, le piante e gli animali e poi, separatamente, l’uomo, a “sua immagine”.

Per intaccare la saldezza di tale convincimento occorse una seconda grande rivoluzione culturale, e questa avvenne a metà Ottocento.Fu Charles Darwin a darle avvio pubblicando nel 1859 “L’Origine delle Specie”, in cui delineò la teoria evoluzionistica, destinata ad affermarsi in tutto il mondo scientifico nel giro di qualche decennio.

In base a questa teoria l’uomo non sarebbe stato creato direttamente da Dio, a “sua immagine e somiglianza”, ma discenderebbe nientemeno che dalle scimmie. E così pure tutti gli altri esseri viventi si sarebbero evoluti con estrema lentezza e gradualità da qualche forma di vita primigenia, superando ogni nuova condizione esistenziale grazie a multiformi processi di selezione naturale.

Fortunatamente per il grande biologo e naturalista britannico il tribunale dell’inquisizione ai suoi tempi non aveva più il potere di due secoli prima e il clima storico culturale era completamente cambiato. Ciononostante non mancarono (e non mancano tuttora) i fieri avversari delle teorie darwiniste, nostalgici di un creazionismo che ai loro occhi sancisce in modo più convincente la superiorità dell’essere umano su ogni altra creatura.

Eppure l’evoluzionismo, pur avendo smantellato il creazionismo biblico, quello, tanto per intenderci, di Dio che plasma l’uomo con la polvere del suolo e la donna con una costola di Adamo, non esclude un “creazionismo remoto”, che, con le conoscenze da noi oggi acquisite, potrebbe situarsi prima del Big Bang.

Inoltre non contesta la superiorità dell’essere umano nei confronti di ogni altro essere vivente. Anzi, il termine stesso di evoluzione sottintende quello di sviluppo, di crescita, di incremento, tutti concetti che indirizzano il pensiero verso l’idea della preminenza di chi sta in cima alla scala, e non vi è alcun dubbio che quella posizione anche per Darwin spetti all’essere umano.

E allora come si spiega l’interminabile serie di disastri ambientali che dalla Rivoluzione Industriale in avanti hanno costellato il percorso della storia e che, soprattutto, fanno temere il peggio per gli anni a venire?

Certo, noi occidentali del XXI secolo viviamo all’apice della prosperità, e le porte del benessere sembrano schiudersi anche per molti figli del Celeste Impero. Ma il conto di questo banchetto deve ancora essere pagato, e non sappiamo fino a quando riusciremo a rinviare il redde rationem, avuto soprattutto presente che il numero degli abitanti del pianeta continua ad aumentare nelle aree più povere e depresse.

Da queste considerazioni nasce l’esigenza di una nuova grande rivoluzione culturale che abbatta definitivamente il mito della superiorità della razza umana su ogni altra specie vivente, al fine di demolire l’illusione di una impossibile crescita senza limiti.

E poiché la ragione evolutasi nel cervello dell’uomo si è dimostrata senza dubbio l’arma più potente nella battaglia per la vita di darwiniana memoria, ad essa è necessario far ricorso anche per questa terza grande rivoluzione culturale. A tal fine molto umilmente ho tentato di imbastire una teoria che a mio avviso contiene alcuni spunti degni di riflessione.

In un saggio di recente pubblicazione (“Il Cancro del Pianeta”, Armando Editore) ho immaginato che la nostra intelligenza anziché essere una scintilla divina o una mirabile opera della natura sia un tragico errore del processo evolutivo della vita, una via “svantaggiosa” imboccata casualmente dalla natura, che ben presto la abbandonerà per far ritorno a forme di vita meno distruttive per l’ambiente.

In pratica l’intelligenza umana sarebbe il frutto di un’abnorme evoluzione patìta dal nostro cervello, evoluzione che ci ha consentito di piegare a nostro vantaggio le leggi della natura, di squilibrare, sempre a nostro vantaggio, il delicato ed ultra complesso sistema di congegni e meccanismi biologici formatisi spontaneamente in milioni e milioni di anni, e ci ha consentito di farlo in un battibaleno, in poche migliaia di anni, un’inezia di tempo cosmico; ma che non ci ha consentito, né mai ci consentirà, di creare un nuovo equilibrio altrettanto solido come quello che abbiamo distrutto.

E per far meglio comprendere questa amara realtà a Homo sapiens, tanto orgoglioso della sua presunta superiorità, cosa di meglio che paragonare la sua azione distruttrice a quella delle cellule che danno origine alla malattia oggi più temuta, il cancro?

Le analogie sono molte, ad iniziare dalla indiscriminata proliferazione delle cellule tumorali, alla distruzione che esse operano ai danni dei tessuti sani dell’organismo e così via, fino a quando, nel tragico epilogo, le cellule malate e quelle sane periscono insieme.

Non ha grande importanza che la correlazione abbia basi scientifiche o meno. Ciò che conta è che faccia intendere all’essere umano come il progresso di cui va tanto orgoglioso altro non sia per la biosfera se non una malattia che tutto distrugge. Questo morbo minaccia di far sparire la vita in una nuova estinzione di massa, indotta questa volta non da eventi esogeni, ma dall’errore commesso dalla stessa natura, da quella via svantaggiosa imboccata casualmente e che presto sarà abbandonata, come ogni errore che si produce nel corso del processo evolutivo.

Ecco delineata per sommi capi la teoria che a mio modesto avviso potrebbe scuotere le coscienze degli intellettuali più avveduti, contribuendo forse a rallentare, se non a interrompere, la marcia che ci vede procedere diritti verso il precipizio, come i bambini che seguirono il pifferaio magico, l’incantatore che nel nostro caso indossa i panni del progresso infinito ed illimitato.


mercoledì 21 ottobre 2020

"Sapere di non sapere" o "Sapere di non poter sapere"?


Raffaello Sanzio, La Scuola di Atene, 1509 - 1511

 

Post di Bruno Sebastiani

 

Il titolo di questo articolo può sembrare un gioco di parole o uno scioglilingua. L’antinomia che sottintende ha invece l’ambizione di far emergere una verità fondamentale per la nostra storia passata e futura.

Vediamo dunque di esaminare partitamente le due frasi e cosa si cela dietro ad ognuna di esse.

Il “sapere di non sapere”, come noto, è l’insegnamento base del metodo socratico. Il filosofo ateniese, secondo la testimonianza che ci ha lasciato Platone, dichiarò davanti ai suoi accusatori:

“[…] di cotest’uomo [un tale che aveva fama di sapiente, NdA] ero più sapiente io: in questo senso, che l’uno e l’altro di noi due poteva pur darsi non sapesse niente né di buono né di bello; ma costui credeva sapere e non sapeva, io invece, come non sapevo, neanche credevo sapere; e mi parve insomma che almeno per una piccola cosa io fossi più sapiente di lui, per questa che io, quel che non so, neanche credo saperlo.” (Apologia, 21c, in Platone, Opere, vol. I, Laterza, Bari 1967)

Questa consapevolezza di sapere di non sapere è stata storicamente all’origine della sete di sapere, che Socrate seppe coltivare tanto abilmente mediante la “maieutica”, il metodo che conduceva i suoi interlocutori ad accorgersi della propria ignoranza e a riconoscere la verità, di contro alle proprie precedenti false presunzioni.

A buon diritto si può ritenere che questo metodo sia stato il primo pilastro del sapere scientifico. Se uno sa di non sapere cerca di accrescere le sue conoscenze cautamente, dando credito solo a prove provate. Da qui trasse origine l’abiura dei miti fantasiosi ai quali tutti i popoli primitivi si erano sempre affidati per dare un significato alle realtà che il loro intelletto non era in grado di spiegare.

Il nuovo modo “razionale” di osservare i fenomeni della natura diede concretamente avvio allo sviluppo di scienza e tecnica, il cui percorso di crescita era stato fino ad allora di tipo prevalentemente empirico.

Il “sapere di non sapere” accelerò dunque in modo decisivo il cammino dell’uomo verso quel progresso materiale di cui oggi stiamo vivendo lo stadio terminale, pre-agonico per il mondo della natura.

In questo momento, tanto tragico quanto decisivo per la prosecuzione della nostra avventura sulla Terra (e per quella di tanti altri esseri viventi da noi assurdamente compromessi), è quanto mai opportuno a mio avviso ripensare a quella locuzione e vedere come avrebbe dovuto essere formulata per limitare i danni che il nostro intelletto ha causato alla biosfera (e per ridurne i futuri).

Il “non sapere” cui si fa cenno è infatti privo di condizioni. Possiamo non sapere come si costruisce una casa, come si progetta una centrale nucleare, come si assembla una bomba atomica. Ma il non saperlo implica che possiamo anche impararlo, e quindi poi saperlo fare, come di fatto si è verificato. E se abbiamo imparato a costruire case, centrali nucleari e bombe atomiche, perché non dovremmo essere in grado di impiantare microchip nel cervello, colonizzare Marte o divenire immortali?

Sennonchè c’è anche il risvolto della medaglia, e cioè l’insieme dei problemi che la nostra dissennata opera di devastazione del pianeta pone oggi sotto gli occhi di tutti.

Sapevamo di non sapere, abbiamo immaginato che il sapere ci avrebbe resi onnipotenti, l’abbiamo in parte raggiunto e messo in pratica senza tener conto dei limiti delle nostre capacità cognitive.

Il nostro cervello ha subìto una evoluzione tanto abnorme quanto eccezionale rispetto a ogni altro essere vivente, ma le sue capacità elaborative sono rimaste infime rispetto alla complessità del mondo della natura.

Vi è anche un elemento dimensionale da prendere in considerazione: siamo minuscoli organismi abbarbicati su una briciola di materia che vaga nell’immensità dello spazio. Anche senza far ricorso a elaborati concetti filosofici, come possiamo immaginare che nella nostra scatola cranica risieda un sistema informatico in grado di padroneggiare l’intero universo?

La riprova dell’impossibilità di un siffatto padroneggiamento ci deriva proprio dai danni irreparabili che abbiamo causato all’ambiente e che ci stanno conducendo all’ecocatastrofe. Ogni avanzamento della nostra condizione materiale ha sempre generato squilibri nel mondo della natura, dapprima minimi, poi via via sempre maggiori fino ai livelli di guardia ora raggiunti. Tutto ciò a causa delle limitate capacità del nostro intelletto, non in grado di intervenire positivamente sugli ingranaggi ultra sofisticati della biosfera.

Quale avrebbe dovuto essere quindi la corretta locuzione che, in alternativa al “sapere di non sapere”, avrebbe potuto limitare i danni che stiamo procurando al pianeta?

Avremmo dovuto essere consapevoli della limitatezza delle nostre possibilità intellettive e avremmo dovuto coltivare il “sapere di non poter sapere”.

Ciò ci avrebbe indotto a minimizzare i nostri interventi nel corpo vivo della natura consigliandoci di accontentarci di quel poco (in realtà molto!) che la natura dispensa equamente a tutti i suoi figli.

Non avremmo dovuto desiderare di accaparrarci la fetta più grossa delle risorse della Terra, schiavizzando o portando all’estinzione le altre specie viventi, non fosse altro per non innescare quel processo distruttivo che alla lunga condurrà anche alla nostra autodistruzione.

Tutto questo ragionamento prescinde dall’altro elemento che ci ha sospinti su questa strada, e cioè quella “volontà di potenza” di nietzschiana memoria, che a mio avviso altro non è che la sublimazione dell’istinto di conservazione prodotta dall’abnorme evoluzione del cervello verificatasi nell’uomo.

Ma di questo elemento avremo occasione di parlare in altra sede.

Avendo citato Nietzsche mi sembra invece opportuno riportare il pensiero introduttivo di “Su Verità e Menzogna in senso extramorale” che il filosofo tedesco scrisse nel 1873, a soli 29 anni:

In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della “storia del mondo”: ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire.”

Un’ultima notazione di tipo personale.

Dal 2018 all’inizio del 2020 ho tenuto su Neuroscienze.net una rubrica dal titolo “I limiti dell’intelligenza”, il cui obiettivo era di argomentare come il nostro cervello, per quanto abnormemente evoluto e superiore in potenza elaborativa a quello di ogni altro essere vivente, non potesse oltrepassare una determinata soglia cognitiva, relativamente elevata ma in assoluto infima.

Terminata la collaborazione con quel sito, ho provveduto a inserire i quattordici articoli pubblicati nel mio blog personale, in modo da renderli liberamente disponibili a chiunque.

Questo l’indirizzo dove reperirli: https://ilcancrodelpianeta.wordpress.com/2019/10/06/i-limiti-dellintelligenza/.

Con il presente scritto ho tentato di riassumere il senso di ciò che ho inteso dire nei vari articoli di quella rubrica, tanto breve quanto a durata, ma tanto densa quanto a significato.

sabato 20 giugno 2020

Cancrismo e libero arbitrio


Annibale Carracci - Ercole al bivio (indeciso tra virtù e vizio)

Post di Bruno Sebastiani

Il pensiero umano, sin da quando ha iniziato a elaborare concetti astratti, si è diviso tra chi ritiene che Homo sapiens possa agire liberamente e chi lo nega.
Agli animali sarebbe preclusa questa possibilità poiché il loro cervello non elabora concetti astratti e il loro comportamento è guidato unicamente dall’istinto.
Già da questa introduzione appare chiaro come la diatriba sul “libero arbitrio” poggi sul fatto che il nostro cervello ha patìto una evoluzione abnorme, sconosciuta a ogni altra specie vivente.
E poiché, sin dal suo apparire, questa evoluzione abnorme è stata glorificata come l’evento più importante nella storia della biosfera, ne consegue che anche il libero arbitrio da allora è stato considerato condizione preminente rispetto alla “schiavitù” dell’istinto, tipica del mondo animale.
Le principali religioni, e in particolare le più diffuse, Cristianesimo e Islam, considerano il libero arbitrio una caratteristica imprescindibile della natura umana.
Questa attribuzione ha una sua ben precisa ragion d’essere: è l’espediente escogitato da profeti e teologi per giustificare la presenza del male nel mondo.
Come sarebbe stato possibile credere in un Dio perfettissimo che avesse creato degli esseri malvagi? L’ostacolo è stato aggirato dicendo che Dio aveva creato l’uomo (il “re del mondo”) tanto perfetto da essere libero, in grado cioè di decidere autonomamente del suo destino.
Salvo arrabbiarsi, lui, Dio, quando la scelta dell’uomo cade sul male anziché sul bene. E allora perché non “inclinarlo” verso il bene sin dall’inizio, impedendogli di fare il male?
Se è veramente onnipotente avrebbe potuto farlo!
In realtà il mondo della natura, come già detto, non gode di questa libertà. E, per di più, non conosce il concetto di bene e di male. O meglio. Il bene in ottica evoluzionista è ciò che tende a preservare la vita dell’individuo e a perpetrare quella della specie. Il male è ciò che vi si contrappone. Ciò all’interno di un complicatissimo sistema di pesi e contrappesi che mantiene la vita nel suo insieme in una perenne condizione di equilibrio instabile.
Ogni specie tende a espandersi ed è frenata in questa sua attività dalla capacità espansiva delle specie circonvicine, in un intreccio di territorialità e di convivenza che coinvolge tanto il mondo vegetale quanto quello animale.
La foresta con i suoi grovigli di piante, grida di animali, volo di uccelli, ombre, luci, vento e quant’altro è la rappresentazione vivente (o meglio: lo era) di questo mondo tanto complesso e tanto autoregolantesi.
Poi, come sappiamo, a un primate crebbe il volume del cervello e con esso la capacità di elaborazione delle idee.
Questo evento spostò gradualmente l’ago della bilancia a favore del primate in questione, divenuto nel frattempo “homo habilis”, poi “erectus” e infine “sapiens”.
Le specie circonvicine non furono più in grado di contrastare l’avanzata di questa specie, e iniziarono fatalmente a ritirarsi.
Ma la specie “homo” avrebbe potuto decidere di non espandersi ai danni delle specie circonvicine? Questa è la domanda fondamentale in merito alla questione del libero arbitrio.
Siamo tutti consapevoli di poter scegliere liberamente se andare al cinema o se restare a casa a guardare, la televisione.
Ma avremmo potuto scegliere di rinunciare all’utilizzo della parte superiore del nostro cervello, la neocorteccia, la quale, essendo intimamente connessa agli strati inferiori ove risiedono gli istinti primordiali, non poteva che sbilanciare a nostro vantaggio i delicati equilibri della natura?
Ebbene la risposta è no.
No in via teorica, per il semplice motivo che il cervello, sebbene tripartito, è tutt’uno (per un approfondimento su questo argomento si veda il primo capitolo del mio libro “Il cancro del pianeta consapevole” dal titolo “L’evoluzione abnorme del cervello”).
No in via empirica, in quanto tutta la storia del genere umano sta a dimostrare come dalle prime pietre levigate agli ultimi ritrovati della tecnica, ogni scoperta, invenzione, applicazione elaborata dal nostro cervello sia sempre stata usata per accrescere il nostro potere nei confronti del mondo della natura.
Tutto ciò premesso, vi è da dire che l’evoluzione umana, dopo aver conseguito a livello biologico l’abnorme evoluzione del cervello (la carcinogenesi), ha proseguito il suo cammino a livello culturale.
La ragione, frutto dell’evoluzione di primo tipo, si è dimostrata di gran lunga l’arma più potente nella lotta per la vita di darwiniana memoria, tanto potente da riuscire a modificare anche le proprie capacità elaborative.
Sinora lo ha fatto a proprio esclusivo vantaggio. Non solo. Lo ha fatto esaltando questa sua caratteristica, glorificando queste sue capacità: è il mito del continuo progresso che ha sospinto la ruota della storia sino al punto in cui ci troviamo.
Potrà la ragione modificare questo iter? Potrà assurgere al “libero arbitrio” e utilizzare se stessa contro se stessa?
Finora i segnali in questa direzione sono scarsi, diffusi solo a livello personale, del tutto insignificanti a livello socio - politico.
Il “servo arbitrio” impera a ogni latitudine. Tutti i popoli vogliono “progredire”, accrescere la produzione di ogni genere di beni, aumentare i consumi, arricchirsi, espandersi.
Questa è l’evoluzione culturale condizionata dagli istinti primordiali di sopravvivenza.
Contro questo modello c’è chi invoca la decrescita, la chiusura degli allevamenti intensivi, la rinuncia alla deforestazione e alle grandi monocolture, ma si tratta di una esigua minoranza, la cui predicazione, oltretutto, si scontra con il livello di complessità raggiunto dall’organizzazione sociale dell’impero del cancro del pianeta.
Una minoranza che esercita il libero arbitrio. È l’unico esempio che abbiamo.
Ed è per dare una voce più vigorosa a questa minoranza che nasce il Cancrismo.
Le idee possono muovere il mondo? Preferisco non pronunciarmi su ciò che accadrà in futuro, ma se esiste una tale possibilità, richiede senz’altro di poggiare su basi solide, su idee coerenti e ben strutturate intorno a una metafora fondante di sicuro impatto emotivo.
La metafora, l’immagine che io propongo è quella della cellula sana che si trasforma in cellula tumorale e si espande indefinitamente nel corpo dell’ammalato.
Lo choc provocato da questa immagine è del tutto voluto: intende smuovere le coscienze di quanti più umani è possibile dalla passiva accettazione degli impulsi originati a livello di cervello limbico e rettiliano per accedere finalmente ad uno spiraglio di libero arbitrio.
Se ciò non accadrà (e difficilmente accadrà), sarà la natura prima o poi a intervenire, presentandoci il conto del sontuoso banchetto sin qui consumato ai danni di tutte le altre specie vegetali e animali. C’è solo da augurarsi di non essere presenti nel momento in cui sul pianeta si scatenerà questo “redde rationem”.
Ma, visto che sto scrivendo queste pagine in tempo di pandemia, riflettiamo sul fatto che anche questo evento ha potuto verificarsi a causa della distruzione di tanti habitat naturali da noi causata, dalla nostra eccessiva concentrazione in spazi ristretti (le megalopoli) e dai numerosi mezzi di comunicazione che hanno trasformato il pianeta in un villaggio globale.
Le poche settimane di forzata inattività umana sono bastate alla natura per riprendersi qualche spazio che le era stato tolto.
Non so cosa accadrebbe se questo confinamento della nostra specie dovesse prolungarsi per mesi o anni.
A fianco di una espansione di tante specie vegetali e animali ai nostri danni, assisteremmo all’inceppamento della macchina sociale, con tutte le conseguenti gravi problematiche.
Ma cosa accadrà una volta superata l’emergenza sanitaria? Se tutti riprenderanno le loro abituali attività, proseguiremo la nostra folle corsa verso il baratro.
Vale dunque la pena di fare un estremo tentativo per conquistare realmente il libero arbitrio e volgere l’uso della ragione contro se stessa.
Il Cancrismo non vuol essere un “divertissement” letterario, ma una vera e propria rivoluzione culturale in questa direzione.

venerdì 30 aprile 2021

La bellezza salverà il mondo

 

Di Bruno Sebastiani

La frase di Dostoevskij “La bellezza salverà il mondo” (L’Idiota, parte III, capitolo V) è stata interpretata in un’infinità di modi e ha fornito spunto per un gran numero di dibattiti.

Diego Fusaro, nel corso di una conferenza tenutasi a San Pellegrino Terme nel 2015 (ora presente su Youtube), ha dissertato egregiamente su questa pluralità di impieghi che ne è stata fatta.

Io qui vorrei fornire la mia interpretazione personale, non necessariamente coincidente con quella del grande romanziere russo, sempre che Dostoevskij ne abbia avuta una e non abbia posto la locuzione in bocca ai suoi personaggi unicamente come “frase a effetto” (nel corso della narrazione l’argomento non viene approfondito).

In un recente post su Facebook ho scritto: “È tempo di utilizzare l’arte per divulgare la consapevolezza della nocività del genere umano per la Terra. Le idee faticano a farsi strada, e allora proviamo a dipingere, cantare, fotografare, declamare, scolpire, rappresentare in ogni modo questa nostra negatività per il pianeta, ciascuno con le proprie abilità.

Ecco questa per me è la “bellezza” che può, anzi deve, tentare di frenare la nostra folle corsa verso il baratro. Chiamiamola “bellezza”, “estetica” o “arte”, qualunque sia il suo nome fa riferimento a categorie del pensiero distinte e distanti da “ragione”, “logica” e “scienza”. E se queste ultime sono indubitabilmente le responsabili dell’estremo degrado ambientale in cui ci troviamo, perché non utilizzare nella nostra azione di contrasto le facoltà della mente non coinvolte nell’attuale ecocidio, quelle che nel corso della storia hanno invano tentato di arginare la crescente marea scientista?

Queste facoltà si esprimono con il linguaggio dell’arte: pittori e scultori hanno sempre tratto ispirazione dal mondo della natura, poeti e musicisti si sono sempre rivolti a quella “categoria dello spirito” che si chiama “sentimento”.

Nella mia raffigurazione della mente umana il sentimento non è altro che l’istinto sublimato dalla ragione, laddove per istinto intendo tutto ciò che ci deriva direttamente dalla natura, senza alcuna intermediazione di tipo “culturale” o “razionale”.

La ragione, sempre secondo la teoria che sostengo, è invece quel “surplus” di intelletto procuratoci da occasionali alterazioni geniche verificatesi nel corso dell’evoluzione, “surplus” da noi utilizzato per dar vita al mondo “artificiale” giustapposto a quello “naturale” (come la neocorteccia è sovrapposta al cervello limbico e a quello rettiliano …).

Se la ragione ha causato i guai che ben conosciamo, dalla sovrappopolazione all’esaurimento delle risorse (ecc. ecc.), è purtuttavia vero che solo la ragione può tentare di porre rimedio a tali guai, essendoci preclusa la via del ritorno allo stato di natura dalle troppe modifiche intervenute nel tempo ai danni del nostro organismo e dei nostri assetti sociali.

Ma ogni tentativo di riparazione prima di essere intrapreso deve essere desiderato.

Ed ecco il ruolo dell’arte: rappresentare la bellezza del mondo della natura e la mostruosità del mondo artificiale al punto da eccitare i sentimenti umani verso il desiderio della riparazione.

L’atto estetico va poi razionalizzato e tradotto in pratica riparatoria. Ma, senza la scintilla per l’innesco del processo “revisionista”, nulla di veramente decisivo può prendere avvio.

Qualcuno osserverà che molti uomini di buona volontà e tanti potenti del mondo hanno già preso coscienza della necessità di modificare i nostri comportamenti nei confronti dell’ambiente, come dimostrano numerose iniziative individuali e svariati accordi internazionali.

C’è il dubbio che tali prese di coscienza nascondano talvolta altrettante operazioni di facciata, destinate a consentire la prosecuzione dell’attuale modus vivendi a cuor leggero, con la coscienza risciacquata nella tinozza della green economy.

Ma pur senza voler pensare male e dando credito alla buona volontà dei singoli e delle istituzioni, appare evidente come le iniziative sin qui intraprese siano del tutto insufficienti a riparare i danni causati all’ambiente. La prova più macroscopica è fornita dalle difficoltà incontrate a raggiungere gli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi del 2015, a proposito del quale è interessante notare come il maggior contributo alla riduzione delle emissioni dei gas serra è stato fornito non tanto dalle iniziative degli Stati firmatari quanto dallo stop alle attività produttive imposto dalla dilagante pandemia.

Comunque sia, lo stimolo che le opere d’arte possono offrire alle moltitudini e alle classi dirigenti è sempre della massima importanza, anche laddove la spinta al cambiamento appaia sinceramente avviata: essa infatti va convintamente sostenuta contro i rigurgiti egoistici di specie che non mancano mai di manifestarsi.

Al fine di dare il buon esempio, come promotore della teoria cancrista ho rivolto un appello agli amici artisti che condividono con me la convinzione della nostra nocività per la biosfera e ho creato un’apposita pagina del mio blog con alcuni contributi illustrativi al riguardo. Un primo manipolo di pittori, poeti e musicisti ha già risposto all’appello, e precisamente:

-        Mario Giammarinaro, pittore (con le sue maree nere ha denunciato i danni dell’inquinamento)

-        Massimo D’Arcangelo, ecopoeta (“Il cancro del Pianeta siamo noi / ma il messaggio è omesso / vietato, nascosto alle masse”)

-        Maicol MP, musicista (L’uomo come cancro del Mondo)

-        Andrea Rayquaza Di Sanzo, cantautore rap (Autodistruzione)

-        Marco Sclarandis, scrittore e poeta (Mai ci parlerà l’aragosta)

-        Mario Famularo, poeta (“quest’uomo senza pace / è il cancro della terra”)

-        Cristina De Biasio, pittrice (tra le sue opere: Nuovo mondo, dopo l’estinzione umana)

-        Gabriele Buratti (Buga), pittore, fotografo e scultore (“Dal linguaggio rupestre a quello freddo e inumano dei codici a barre, la semiologia ha fatto un salto che allontana sempre più l'uomo dal mistero del sacro impadronendosi del nostro immaginario collettivo attraverso il mondo dell'economia.”)

Sono consapevole che i pochi nomi citati siano quantitativamente un’inezia rispetto al gran numero di artisti che stanno tentando di raffigurare i danni da noi procurati alla natura.

Ma l’elemento che mi preme mettere in rilievo è l’importanza dell’unificazione degli sforzi in vista di un fine comune. Il singolo artista segue la sua ispirazione e, poiché ogni vero artista non può che essere in buona fede, certamente la sua rappresentazione del mondo rispecchia la drammatica situazione che stiamo vivendo.

Il rischio è che sia interpretata come la visione di un pittore, poeta o musicista isolato, come lo sfogo di una singola anima afflitta dal tormento per il brutto che avanza.

Il che non significa che ogni opera d’arte debba esprimere afflizione e sofferenza. Anzi. L’inno alla vita, la gioia per la natura che rifiorisce, l’esaltazione dell’amore per tutti gli esseri viventi sono altrettanti potenti eccitatori da contrapporre all’avidità del guadagno, al freddo calcolo della ricerca scientifica, alle brutalità compiute ai danni del mondo animale e vegetale.

Ma in un caso o nell’altro (esaltazione del bello o denigrazione del brutto) ciò che conta è l’obiettivo da raggiungere e cioè la graduale conversione dell’umanità a nuovi stili di vita.

Altre forze spingeranno nella medesima direzione e purtroppo saranno violente, come quelle che la natura offesa scatenerà sotto forma di tempeste, uragani, innalzamento dei mari e così via.

Anche per tentare di prevenire queste catastrofi è opportuno che il maggior numero possibile di persone si convinca quanto prima della necessità del cambiamento e, se gli argomenti razionali non sono in grado di generare questo convincimento, l’arte, o meglio, l’azione congiunta di tutti gli artisti, può forse ottenere risultati migliori, può forse “salvare il mondo”.

Mi faccio quindi interprete del pensiero (vero o presunto) di Fedor Dostoevskij e chiedo a tutti gli uomini che hanno orientato la loro attività in campo artistico (compresi gli autori teatrali e cinematografici, i fotografi, gli architetti, i romanzieri, i compositori musicali, i writers ecc.) di riconoscersi in questo comune sforzo di cambiamento globale.

Oggi forse il ruolo dell’arte appare offuscato rispetto ai secoli passati, come se la sua voce fosse sovrastata dal frastuono del traffico metropolitano, cionondimeno mi auguro che pittori, poeti e musicisti prendano sempre più coscienza del loro ruolo di “grilli parlanti” capaci di smuovere la coscienza collettiva dell’umanità e che promuovano questo nuovo romanticismo all’insegna del motto “la bellezza salverà il mondo”.


sabato 29 febbraio 2020

Il potere della parola


Un Post di Bruno Sebastiani


Sin dalla più remota antichità è ben noto il potere della parola parlata e ancor più di quella scritta.
“Verbo”, “Logos” sono due tra le definizioni che meglio descrivono questo concetto.
Il linguaggio verbale articolato è prerogativa unica della nostra specie. Ha potuto svilupparsi a seguito della abnorme evoluzione intervenuta nella scatola cranica del genere Homo.
Man mano che aumentava il numero dei neuroni, delle sinapsi e dei relativi collegamenti all’interno della neocorteccia, le nostre capacità verbali andavano affinandosi e articolandosi in parole, frasi, ragionamenti.
Da allora l’organizzazione sociale dell’umanità si è sviluppata come ben sappiamo. Ma quello che vorrei sottolineare con questo mio intervento è che la gran parte dei ragionamenti di Homo sapiens si è basata su alcune parole chiave dal significato comunemente e universalmente accettato.
Una di queste è proprio la parola “uomo” e tutte le sue derivazioni: umanità, umano e, ovviamente, anche il suo femminile, donna, e i suoi dintorni, famiglia, figli, nipoti, genitori, e le sue estensioni, umanesimo, persona ecc. A tutti questi vocaboli è convenzionalmente attribuito valore più che positivo, sacro. La supremazia del genere Homo è un diritto acquisito e conclamato. L’essere supremo stesso, dio (altra parola chiave), ci ha investiti di tale diritto, che nessuno può e deve contestare.
Questa idea, questa visione del mondo, ruota intorno alla parola “uomo”, che rappresenta il perno, l’asse portante di tutta la costruzione ideologica che abbiamo edificato per giustificare il nostro dominio nei confronti di ogni altro essere vivente.
Una serie di altri sostantivi (e relativi aggettivi) beneficiano di un valore altrettanto positivo in quanto intimamente connessi alla condizione umana: intelletto, ragione, coscienza e così via, (intelligente, raziocinante, cosciente ecc.).
In opposizione a queste “parole chiave” dall’intrinseco valore positivo, all’interno del vocabolario ne sono rintracciabili altre dall’intrinseco valore negativo.
“Bestia”, “animale”, “belva” sono le più generiche, “asino”, “maiale”, “serpe” ecc. le più specifiche.
Inutile dire che la valenza contraria trae origine dall’assenza di quelle qualità tipicamente “umane” che attribuiscono valore positivo a tutto ciò che ruota intorno al concetto di Homo.
E se agli esseri “bruti” viene talvolta riconosciuta qualche caratteristica positiva (fedeltà, perseveranza, acutezza) è solo perché le stesse appartengono anche al genere umano.
In presenza di questo stato di cose, che possibilità di diffusione può avere una teoria che attribuisca valore negativo a quel ben dell’intelletto che accrescendosi ci ha sospinti fuori dallo stato di natura? Pressoché nulla, perché alla parola Homo e a tutti i suoi derivati è collegato un’intrinseca e imprescindibile accezione positiva.
Questo è il grande potere della parola, contro il quale è impossibile battersi.
Proviamo allora ad aggirare l’ostacolo.
Sostituiamo la parola “uomo” con la parola “cellula”.
Quest’ultima è “l'unità morfologico-funzionale degli organismi viventi” (Wikipedia).
E noi uomini, mutatis mutandis, non siamo forse -insieme a tutti gli altri esseri viventi- le unità morfologico-funzionali di un organismo più ampio denominato biosfera?
Senza scomodare l’ipotesi Gaia di lovelockiana memoria, è ben intuitivo il fatto che ogni essere vivente non è isolato, non è fine a se stesso, ma si mantiene in vita solo in quanto appartiene a un sistema composto da miriadi di altri esseri tra loro interagenti. Potremmo forse vivere se non ci fossero le piante e gli animali ad alimentarci? Lo stesso discorso vale per ogni altro vivente, e dunque non solo è plausibile ma è anche ben accettabile l’idea di considerarci cellule tra le cellule, piccole unità morfologico-funzionali del fenomeno “vita”, tipico del pianeta Terra.
Quale vantaggio è ottenibile definendoci “cellule” anziché “uomini”? Che il sostantivo “cellula” non trascina con sé quel pesante fardello di significanze sacre e inviolabili indissolubilmente legate al secondo termine.
Potremo forse così compiere in modo indolore quell’atto di estraniazione indispensabile per far emergere la negatività di quanto accaduto nel nostro cervello a seguito della sua abnorme crescita.
Anche le cellule nascono, si alimentano, si riproducono e muoiono. Ma nessuno ha mai pensato di attribuire loro quell’aurea di sacralità connessa ad ogni essere umano.
Senza questi piccoli mattoncini non ci sarebbe alcun essere vivente, così come senza piante e animali non ci sarebbe vita sulla Terra.
Osservandoci come cellule anziché come uomini riusciremo forse a comprendere la limitatezza delle nostre dimensioni, tanto materiali quanto “spirituali”. Riusciremo anzi a comprendere come questo ultimo genere di dimensioni sia solo un frutto onirico partorito dalla nostra mente a seguito del suo abnorme sviluppo (sulla limitatezza delle nostre capacità intellettive vedasi l’articolo “La nostra intelligenza tra microcosmo e macrocosmo”).
E poi, guardandoci intorno, riusciremo forse a compiere l’ulteriore passo verso la comprensione del fatto che da cellule “sane” ci siamo tristemente trasformati in cellule “malate”, anzi in cellule “maligne”.
La devastazione del pianeta, la nostra espansione territoriale ai danni di ogni altro genere di cellule “sane” sulla Terra (tanto vegetali quanto animali) potrà forse essere più agevolmente compresa nella sua drammatica realtà.
Cellule, non uomini, e per di più cellule malate, non sane.
Il potere della parola “uomo” e dei suoi derivati va disinnescato, pena la impossibilità di comprendere la realtà.

venerdì 9 novembre 2018

La De-differenziazione: Una Riflessione di Bruno Sebastiani.


Un contributo di Bruno Sebastiani. Partendo da una riflessione di Konrad Lorenz, nota come il tessuto sociale, urbano e linguistico della nostra società stia gradualmente perdendo differenziazione. Una caratteristica tipica delle neoplasie maligne, ovvero dei tumori. L'analogia è interessante e per molti versi corretta, ma è anche vero che si potrebbe arguire il contrario notando la frammentazione in isole culturali separate del Web. Insomma, sta succedendo di tutto e il contrario di tutto in un mondo che evolve sempre più rapidamente verso nessuno sa dove.


Di Bruno Sebastiani.


Warren M. Hern nel suo articolo del 1989 “Why Are There So Many of Us” (da me tradotto e pubblicato in https://ilcancrodelpianeta.wordpress.com/2018/08/31/perche-siamo-cosi-tanti/), enumera le quattro caratteristiche principali delle neoplasie maligne:

  1. Crescita rapida e incontrollata
  2. Invasione e distruzione dei tessuti sani adiacenti
  3. De-differenziazione
  4. Metastasi a diversi siti

Successivamente passa ad esaminare il comportamento del genere umano su questo pianeta e ritrova tutte e quattro le caratteristiche in modo sorprendentemente analogo.

Relativamente alle prime due l’analogia è palese: è sotto gli occhi di tutti come negli ultimi tempi l’uomo si sia moltiplicato in modo iperbolico ed abbia sottomesso o distrutto ogni bioma a lui circostante.

Anche la quarta caratteristica è facilmente ascrivibile al modo di procedere della nostra specie che costruisce strade e mezzi di comunicazione per raggiungere i punti più remoti della Terra ove portare la cosiddetta “civiltà”. Sulla mia pagina Facebook ho proposto sette post “tematici” dedicati alle grandi metastasi. Chi volesse consultarli li trova ora riepilogati nel blog https://ilcancrodelpianeta.wordpress.com/grandi_metastasi/.

La terza caratteristica – la de-differenziazione - merita un discorso un po’ più approfondito, non essendo di per sé evidente come le altre.

Senza scendere in descrizioni eccessivamente particolareggiate, ricordiamo che le cellule dei corpi viventi non sono tra loro tutte uguali, ma, in base agli organi e ai tessuti di cui fanno parte, hanno una propria morfologia.

Non nascono differenziate. Come sappiamo, lo sviluppo degli esseri viventi più complessi procede dall’incontro di due sole cellule (i gameti) che sono all’origine dell’embrione. Ed è qui, nello stato embrionale, che prende avvio il processo di differenziazione cellulare, cioè la maturazione da una forma primitiva o indifferenziata a una forma matura o differenziata, con funzioni specializzate, processo che le cellule di un organismo pluricellulare multiforme subiscono per ripartirsi i compiti.

Se questo è lo stato naturale delle cose, sappiamo anche che la mutazione del materiale genetico di cellule normali è all’origine dei tumori.

Ebbene, le cellule che subiscono la mutazione carcinogenetica, oltre a replicarsi in modo incontrollato e ad invadere i tessuti sani, perdono gradualmente la loro particolarità morfologica, ovvero la differenziazione che madre natura aveva loro assegnato per svolgere i compiti propri degli organi di appartenenza.

Diventano de-differenziate, ovvero vanno rassomigliandosi tutte le une alle altre, perdono ogni loro caratteristica distintiva.

Ecco come il grande etologo Konrad Lorenz descrive questo processo:
«I cancerologi, per caratterizzare una delle proprietà fondamentali del tumore maligno, parlano di immaturità. Quando una cellula respinge tutte quelle proprietà che le permettevano di integrarsi in un determinato tessuto organico … essa ‘regredisce’ necessariamente a una fase filogeneticamente o ontogeneticamente più antica; essa si comporta cioè come un organismo unicellulare o come una cellula embrionale, e incomincia a riprodursi senza riguardo per la totalità dell’organismo. Più si accentua la regressione, più il tessuto di nuova formazione si distingue da quello normale, più maligno sarà il tumore. Un papilloma che conserva ancora molte proprietà dell’epidermide normale, pur invadendo come verruca la sua superficie, è un tumore benigno; un sarcoma, che è formato da cellule mesodermiche tutte uguali e completamente indifferenziate, è un tumore maligno.» (K. Lorenz, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, Adelphi, Milano, 1974, p. 84)

Per determinare la gravità dei tumori è stata elaborata una apposita ‘scala’ o ‘grading’ che misura il grado di aggressività delle neoplasie in base al loro grado di differenziazione cellulare.

Il sistema di grading più utilizzato prevede 4 gradi possibili:

GX Grado non determinato
G1 Ben differenziato (grado basso): < 25% di cellule non differenziate
G2 Moderatamente differenziato (grado intermedio) < 50% di cellule non differenziate
G3 Scarsamente differenziato (grado alto) 50-75% di cellule non differenziate
G4 Indifferenziato (grado alto) cioè anaplastico: > 75% di cellule non differenziate
(fonte Wikipedia)

Questo per quanto riguarda i tumori.

E per quanto riguarda gli esseri umani?

Non stiamo andando verso la più completa indifferenziazione di tutte le caratteristiche che un tempo costituivano gli elementi distintivi di ogni raggruppamento antropico e, all’interno del medesimo, di ogni ceto o casta sociale?

Il discorso è delicato. Sappiamo che i fautori del “progresso senza fine” sbandierano questo livellamento come uno dei risultati più positivi dell’avanzata della ragione, della marcia trionfale della cosiddetta civiltà.

Per ottenerlo si sono combattute guerre e sono scoppiate sanguinose rivoluzioni. Poi, da un certo punto in avanti, il livellamento è iniziato e progredisce a ritmo crescente.

Ma vediamo separatamente quali erano gli elementi principali che connotavano la differenziazione degli esseri umani, quando non erano cellule malignamente aggressive come oggi.

1.    Innanzitutto la differenziazione dei tratti somatici (altezza, dimensione corporea, colore della pelle, taglio degli occhi ecc. ecc.), in una parola tutte quelle caratteristiche che un tempo venivano definite “razziali”.
2.    Oltre all’aspetto fisico, l’elemento che maggiormente distingueva e separava i vari gruppi umani era il linguaggio. All’interno di ogni popolazione, di ogni etnìa, di ogni tribù si comunicava con idiomi specifici, comprensibili solo dagli appartenenti al gruppo. Ciò innalzava delle vere e proprie barriere all’interscambio di informazioni e contribuiva a preservare la specificità dei singoli raggruppamenti.
3.    Infine le varie popolazioni si differenziavano in base alle tradizioni, agli usi, ai costumi, ai rituali, alle credenze religiose, alle superstizioni, al modo di abbigliarsi e di ornarsi, a tutto l’insieme di elementi che le culture locali avevano elaborato e tramandato in migliaia e migliaia di anni.

Ebbene, come nel tumore maligno i tratti caratteristici delle singole cellule vanno scomparendo per lasciare il posto ad un unico tipo di cellula indifferenziata, così nel tumore planetario di cui l’uomo è cellula cancerogena si verifica un analogo processo attraverso:

1.    L’omologazione dei tratti somatici
2.    L’abolizione delle barriere linguistiche
3.    L’abbattimento di ogni tradizione e cultura autoctona

Vediamo punto per punto come avviene il processo e perché è destinato a proseguire sino al suo tragico esito finale.

1.    L’omologazione dei tratti somatici

Nonostante il colore della pelle e le caratteristiche fisiche collettive siano tra gli elementi che contraddistinguono gli esseri umani in modo più evidente, la loro omologazione rappresenta per il cancro del pianeta un elemento di minore importanza rispetto ai restanti due di cui parleremo. Un uomo può essere bianco, nero o giallo, ma se parla inglese, veste in giacca e cravatta, guarda le serie TV, passa gran parte del suo tempo su Facebook e mangia hamburger e pop corn è pronto a contribuire in modo aggressivo (passivamente o attivamente) all’opera di distruzione della biosfera.

Ciò premesso vi è da dire che il rimescolamento dei popoli, iniziato già da qualche secolo ma in corso di intensificazione avanzata, condurrà inevitabilmente all’omologazione anche fisica degli appartenenti alla famiglia umana.

La tendenza ad uniformare l’aspetto corporeo riguarda oggi persino i rappresentanti dei due sessi, che in numero sempre maggiore tendono a nascondere le differenze che un tempo venivano messe in risalto e a ostentare i tratti comuni. Ma questo è un fenomeno più culturale che fisico, conseguente a quell’abbattimento delle tradizioni di cui parleremo più sotto.

2.    L’abolizione delle barriere linguistiche

Il grande tumore planetario, di cui siamo gli agenti inconsapevoli, trova un grave ostacolo al suo avanzamento nelle barriere linguistiche che da sempre hanno separato i vari popoli.

La malattia per progredire richiede un’organizzazione sociale la più coesa possibile. Il suo ideale sarebbe che l’orbe terracqueo fosse governato da un’Autorità unica mondiale tramite organi di comando gerarchicamente disciplinati e capillarmente diffusi.

Questa visione orwelliana si completerebbe con la diffusione di un unico linguaggio universale. Questo era l’obiettivo di chi ideò l’Esperanto, ma all’epoca (seconda metà dell’Ottocento) i tempi non erano maturi, e il tentativo fallì.

Oggi l’omologazione linguistica ha fatto passi da gigante. Secondo Ethnologue.com delle 7.000 lingue parlate nel mondo solo 359 sono veramente globali, parlate da milioni di persone. Le altre sono a rischio estinzione. Pare che scompaia una lingua ogni due settimane. E il 94% della popolazione mondiale parla il 6% delle lingue esistenti, mentre il restante 6% degli umani comunicano attraverso il 94% delle altre lingue.

All’interno dei circa 200 Stati nazionali esistenti al mondo, costituitisi durante l’800, dopo la fine della prima guerra mondiale e dopo la seconda con la decolonizzazione, le autorità statali hanno provveduto a far tabula rasa della enorme pluralità di dialetti e idiomi locali esistenti. Gli strumenti di eradicazione sono stati molteplici, dall’istruzione obbligatoria, al servizio militare, alla pubblica amministrazione, finchè poi è intervenuta la televisione che, parlando sempre e solo la lingua ufficiale dello Stato, ha definitivamente rimosso l’uso delle parlate locali nelle nuove generazioni.

Ora esistono ancora importanti barriere ma già l’inglese si profila all’orizzonte come lingua universale, in conseguenza della capillare diffusione dell’impero coloniale britannico.
Il World Wide Web gioca in tal senso un ruolo importante. Permane il problema del cinese e dell’arabo, ma il processo di omologazione linguistica è avviato e non potrà che progredire.

3.    L’abbattimento delle tradizioni e culture autoctone

Parallelamente all’uniformazione dei linguaggi si è susseguita quella di mode, costumi e tradizioni.

In questo caso gli strumenti più efficaci di livellamento sono stati i mezzi di comunicazione di massa, dapprima i giornali e le riviste illustrate, poi il cinema e la televisione.

Ma già l’istruzione obbligatoria e il trasferimento dei funzionari statali e non statali (compresi i preti) da regione a regione, da città a città, avevano fortemente contribuito ad estinguere gran parte delle tradizioni folcloristiche paesane.

Lo spopolamento delle campagne e l’emigrazione di massa hanno poi assestato alle culture locali gravi colpi, finchè anche in questo caso la rete globale dei computer ha inferto il colpo mortale.

Oramai quasi tutti ci vestiamo allo stesso modo, mangiamo cibi standardizzati, seguiamo gli stessi ritmi lavorativi e abitiamo in case pressochè identiche le une alle altre, sia che si viva in città sia che si viva in campagna o in montagna.

Due marchi tra tutti, McDonald e Ikea, insieme a mille altri, danno l’idea di come le nostre abitudini alimentari e abitative si stiano ormai omologando a livello mondiale.

Le grandi religioni, prima di divenire esse stesse obsolete, avevano già iniziato a spazzare i miti locali, a volte anche inglobandoli.

Ora il processo di omologazione ha quasi raggiunto il suo obiettivo, e cioè renderci il più possibile simili gli uni agli altri. In tal modo sarà più semplice nonché inevitabile giungere all’istituzione di un Governo Unico Mondiale.

La previsione è terrificante, ma ha una sua logica. Solo un’Autorità globale potrà gestire i problemi globali che ci aspettano e per farlo avrà bisogno di una platea di sudditi sufficientemente omogenea.

Questa impressionante ‘macchina da combattimento’ sarà in grado di completare l’opera di devastazione dell’intera ecosfera, esattamente come il tumore maligno riesce a distruggere tutti i tessuti sani dell’ammalato di cancro,

Le cellule de-differenziate sono le più maligne e aggressive di tutte, e noi uomini siamo decisamente incamminati su quella strada.

Dobbiamo prendere atto di questa realtà e divenire ‘cellule maligne consapevoli’, così come ho cercato di suggerire nella mia nuova opera “Il Cancro del Pianeta Consapevole”.