Sin dalla più remota antichità è ben noto il potere della parola parlata e ancor più di quella scritta.
“Verbo”, “Logos” sono due
tra le definizioni che meglio descrivono questo concetto.
Il linguaggio verbale
articolato è prerogativa unica della nostra specie. Ha potuto svilupparsi a
seguito della abnorme evoluzione intervenuta nella scatola cranica del genere Homo.
Man mano che aumentava il
numero dei neuroni, delle sinapsi e dei relativi collegamenti all’interno della
neocorteccia, le nostre capacità verbali andavano affinandosi e articolandosi
in parole, frasi, ragionamenti.
Da allora l’organizzazione
sociale dell’umanità si è sviluppata come ben sappiamo. Ma quello che vorrei
sottolineare con questo mio intervento è che la gran parte dei ragionamenti di Homo
sapiens si è basata su alcune parole chiave dal significato comunemente e
universalmente accettato.
Una di queste è proprio la
parola “uomo” e tutte le sue derivazioni: umanità, umano e, ovviamente, anche
il suo femminile, donna, e i suoi dintorni, famiglia, figli, nipoti, genitori,
e le sue estensioni, umanesimo, persona ecc. A tutti questi vocaboli è
convenzionalmente attribuito valore più che positivo, sacro. La supremazia del
genere Homo è un diritto acquisito e conclamato. L’essere supremo stesso,
dio (altra parola chiave), ci ha investiti di tale diritto, che nessuno può e
deve contestare.
Questa idea, questa
visione del mondo, ruota intorno alla parola “uomo”, che rappresenta il perno,
l’asse portante di tutta la costruzione ideologica che abbiamo edificato per
giustificare il nostro dominio nei confronti di ogni altro essere vivente.
Una serie di altri
sostantivi (e relativi aggettivi) beneficiano di un valore altrettanto positivo
in quanto intimamente connessi alla condizione umana: intelletto, ragione,
coscienza e così via, (intelligente, raziocinante, cosciente ecc.).
In opposizione a queste “parole
chiave” dall’intrinseco valore positivo, all’interno del vocabolario ne sono
rintracciabili altre dall’intrinseco valore negativo.
“Bestia”, “animale”, “belva”
sono le più generiche, “asino”, “maiale”, “serpe” ecc. le più specifiche.
Inutile dire che la
valenza contraria trae origine dall’assenza di quelle qualità tipicamente “umane”
che attribuiscono valore positivo a tutto ciò che ruota intorno al concetto di Homo.
E se agli esseri “bruti”
viene talvolta riconosciuta qualche caratteristica positiva (fedeltà,
perseveranza, acutezza) è solo perché le stesse appartengono anche al genere
umano.
In presenza di questo
stato di cose, che possibilità di diffusione può avere una teoria che
attribuisca valore negativo a quel ben dell’intelletto che accrescendosi ci ha sospinti
fuori dallo stato di natura? Pressoché nulla, perché alla parola Homo e
a tutti i suoi derivati è collegato un’intrinseca e imprescindibile accezione
positiva.
Questo è il grande potere
della parola, contro il quale è impossibile battersi.
Proviamo allora ad
aggirare l’ostacolo.
Sostituiamo la parola “uomo”
con la parola “cellula”.
Quest’ultima è “l'unità
morfologico-funzionale degli organismi viventi” (Wikipedia).
E noi uomini, mutatis
mutandis, non siamo forse -insieme a tutti gli altri esseri viventi- le unità
morfologico-funzionali di un organismo più ampio denominato biosfera?
Senza scomodare l’ipotesi
Gaia di lovelockiana memoria, è ben intuitivo il fatto che ogni essere vivente
non è isolato, non è fine a se stesso, ma si mantiene in vita solo in quanto
appartiene a un sistema composto da miriadi di altri esseri tra loro
interagenti. Potremmo forse vivere se non ci fossero le piante e gli animali ad
alimentarci? Lo stesso discorso vale per ogni altro vivente, e dunque non solo è
plausibile ma è anche ben accettabile l’idea di considerarci cellule tra le
cellule, piccole unità morfologico-funzionali del fenomeno “vita”, tipico del
pianeta Terra.
Quale vantaggio è
ottenibile definendoci “cellule” anziché “uomini”? Che il sostantivo “cellula” non
trascina con sé quel pesante fardello di significanze sacre e inviolabili
indissolubilmente legate al secondo termine.
Potremo forse così
compiere in modo indolore quell’atto di estraniazione indispensabile per far
emergere la negatività di quanto accaduto nel nostro cervello a seguito della
sua abnorme crescita.
Anche le cellule nascono,
si alimentano, si riproducono e muoiono. Ma nessuno ha mai pensato di
attribuire loro quell’aurea di sacralità connessa ad ogni essere umano.
Senza questi piccoli
mattoncini non ci sarebbe alcun essere vivente, così come senza piante e
animali non ci sarebbe vita sulla Terra.
Osservandoci come cellule anziché
come uomini riusciremo forse a comprendere la limitatezza delle nostre
dimensioni, tanto materiali quanto “spirituali”. Riusciremo anzi a comprendere
come questo ultimo genere di dimensioni sia solo un frutto onirico partorito
dalla nostra mente a seguito del suo abnorme sviluppo (sulla limitatezza delle
nostre capacità intellettive vedasi l’articolo “La
nostra intelligenza tra microcosmo e macrocosmo”).
E poi, guardandoci
intorno, riusciremo forse a compiere l’ulteriore passo verso la comprensione
del fatto che da cellule “sane” ci siamo tristemente trasformati in cellule “malate”,
anzi in cellule “maligne”.
La devastazione del
pianeta, la nostra espansione territoriale ai danni di ogni altro genere di
cellule “sane” sulla Terra (tanto vegetali quanto animali) potrà forse essere
più agevolmente compresa nella sua drammatica realtà.
Cellule, non uomini, e per
di più cellule malate, non sane.
Il potere della parola “uomo”
e dei suoi derivati va disinnescato, pena la impossibilità di comprendere la
realtà.