venerdì 15 febbraio 2019

Un Nuovo Libro di Bruno Sebastiani: "Il Cancro Del Pianeta Consapevole"



Credo che si debba a Konrad Lorenz l'idea che la crescità della società umana sul pianeta Terra è simile per certi versi a una crescita tumorale. Bruno Sebastiani ha esplorato il concetto in svariati post e libri e qui ci descrive l'ultima sua opera.



IL CANCRO DEL PIANETA CONSAPEVOLE

di Bruno Sebastiani


Perché un nuovo libro sul cancro del pianeta? Ho cercato di condensare la migliore risposta a questa domanda in una frase inserita nella quarta di copertina: «Le cellule cancerogene sono consapevoli di essere maligne, cioè di essere apportatrici di una malattia mortale? Sicuramente no. Se lo fossero regredirebbero? Difficile a dirsi, ma laddove possibile il tentativo di renderle consapevoli andrebbe fatto.»

Ebbene, se, sulla base della teoria esposta nel mio primo libro, l’essere umano è da considerare alla stregua di una cellula tumorale che sta distruggendo i tessuti sani del corpo di Gaia, il passo successivo non poteva che essere quello di tentare di renderlo edotto di tale sua natura.

Altro che figlio di dio, re del creato, signore del mondo ecc. ecc.

Abbiamo semplicemente ricevuto da madre natura il “dono non richiesto” (“the unsolicited gift” di koestleriana memoria, ovvero l’abnorme evoluzione del nostro cervello) e lo abbiamo usato a nostro esclusivo vantaggio, invadendo e devastando gli spazi che l’equilibrio creatosi in milioni e milioni di anni aveva riservato a tutte le altre specie animali e vegetali.

Ora siamo vicini al punto di non ritorno, probabilmente lo abbiamo già superato innescando reazioni che finiranno per distruggere anche la nostra specie dopo tutte quelle che abbiamo già annientato, esattamente come accade alle cellule cancerogene negli ammalati di cancro in fase terminale.

Come continuare ad assistere a questo scempio senza lanciare un urlo nel tentativo disperato di aprire gli occhi dei nostri contemporanei?

Se questa è la motivazione che mi ha spinto a scrivere questo nuovo saggio, relativamente al suo contenuto mi sono avventurato in tre distinti territori.

Innanzitutto ho approfondito il tema fondamentale dell’abnorme evoluzione subìta dal nostro encefalo e della sua ulteriore accelerazione di tipo autocatalitico. Nel primo libro (“Il Cancro del Pianeta”, Armando Editore, Roma, 2017) avevo già affrontato l’argomento, ma in modo sintetico. Qui ora, in questo nuovo saggio, gli ho dedicato più spazio ed ho cercato di analizzarlo anche alla luce dei contributi di alcuni autorevoli neuroscienziati.

In secondo luogo ho esplorato i cataclismi che il nostro pianeta ha sopportato nel corso della sua lunga vita per cause “non antropiche”, quali le glaciazioni, gli impatti siderali, le estinzioni di massa. Come noto per i negazionisti queste calamità furono assai più rilevanti di quelle causate dall’uomo, e tale argomento viene sbandierato per sminuire le nostre responsabilità in tema di danni ambientali. La mia analisi giunge a conclusioni ben diverse, ma per poterlo fare in modo puntuale era necessario immergersi in questa materia e sviscerarla sotto ogni angolatura, ad iniziare dall’esame delle devastazioni dei tessuti sani del pianeta da noi già perpetrate per poi passare ad argomentazioni di tipo più teorico-deduttivo.

Infine, nell’ultima parte del libro viene introdotta la figura di un “buon dottore” cosmico, un soggetto immaginario alieno dalla visione antropocentrica del mondo, il quale, osservando la Terra e la sua storia dallo spazio, passa in rassegna i contributi di “chi ha maggiormente spinto sull’acceleratore del progresso” e di “chi si è parzialmente opposto alla diffusione del male”, pervenendo alla rivalutazione di movimenti, correnti di pensiero e autori che hanno messo in guardia, purtroppo con scarso successo, l’umanità dai pericoli insiti nel pensiero razionale e nelle sue conseguenze.

Come si può vedere da questa breve esposizione dei temi trattati ne “Il Cancro del Pianeta Consapevole” (Armando Editore, Roma, 2018), la teoria enunciata nel 2017 nel mio primo libro, alla quale ho poi dato il nome di “cancrismo”, si arricchisce ora di un nuovo capitolo dedicato alla consapevolezza che dobbiamo assumere della nostra natura di cellule tumorali del pianeta Terra.

La bruttezza di questo ruolo è ben rappresentata dall’immagine prescelta per la copertina del libro: un busto dalle braccia protese, completamente ricoperto da bubboni ed ispide escrescenze. La scultura, titolata “Mare Nero”, è opera di Mario Giammarinaro, artista specializzato nel riprodurre i disastri ambientali provocati dall’uomo.

E per quanto riguarda il “da farsi”, il come reagire ad una situazione tanto drammatica? Molti me lo hanno chiesto, ritenendo che ogni teoria debba prevedere una parte “salvifica” e non possa concludersi senza speranza, esattamente come la vittoria dei “buoni” è un must di ogni pellicola cinematografica.

Purtroppo la vita non è un film.

In un prossimo libro che ho già scritto e che sarà pubblicato l’anno prossimo, la speranza apparirà ancor più remota. L’argomento sarà infatti la complessità dell’organizzazione sociale che abbiamo creato e l’ineluttabilità del suo continuo progresso sino alla crisi finale.

Cionondimeno, anche se il vicolo cieco in cui l’evoluzione ci ha sospinto è privo di via di uscita, non possiamo esimerci dal guardare in faccia la realtà e dal riconoscerci come cellule maligne distruttrici di ogni altro organismo dotato di vita.

Ognuno poi, alla luce di tale constatazione, potrà cercare vie di sopravvivenza individuali che soddisfino le proprie aspettative.

Ma questo è un altro discorso, non più di carattere collettivo bensì relativo alla sopravvivenza più o meno felice di ogni singolo essere umano.



domenica 10 febbraio 2019

Paesi emergenti e paesi sommergenti - Agonia del capitalismo? 5

Di Jacopo Simonetta

Quinto di una serie di dieci articoli, già pubblicati su "Apocalottimismo". I precedenti sono reperibili qui: primo, secondo, terzo, quarto.



La crescita economica dei paesi allora detti "del terzo mondo” è cominciata dopo gli anni ’80 del secolo scorso, ma l’esplosione di alcune “economie emergenti” è stato uno dei fenomeni che hanno caratterizzato i primi 20 anni di questo, grazie soprattutto alla globalizzazione.

La vetrina.

L’aspetto positivo e luccicante della faccenda è che circa un miliardo di persone si sono tirate fuori da una secolare miseria per costituire, a loro volta, quella classe media che, abbiamo visto, ha caratterizzato le società occidentali nella seconda metà del XX secolo.

Piketty ne parla in termini decisamente positivi come di un fenomeno di “rattrapage” (recupero) destinato a coinvolgere un numero crescente di paesi. Un giudizio che si basa sull'assunto che livelli di benessere analoghi a quelli occidentali odierni siano un traguardo raggiungibile almeno in teoria da tutti. Anzi, che rappresentino in qualche modo una “normalità” che noi abbiamo raggiunto e che gli altri stanno raggiungendo grazie soprattutto allo sviluppo tecnologico, la specializzazione del lavoro, l’istruzione pubblica.

Una visione idilliaca cara agli economisti (e non solo: Piketty è uno storico, non un economista), ma che parte dal presupposto che non esistano limiti alla crescita economica globale. Anzi, proprio la straordinaria crescita economica della Cina e quella poco meno spettacolare di parecchi altri paesi “emergenti” vengono spesso portate come prove del fatto che il famigerati “Limiti dello sviluppo” non esistano.




Prima di dare un’occhiata al retrobottega di questa brillante vetrina, osserviamo un dettaglio importante di cui parla Piketty . Dai dati in suo possesso, risulta che I fattori scatenanti del decollo economica cinese sarebbero stati la parziale liberalizzazione del commercio ed il trasferimento massiccio di tecnologie occidentali già mature ed ampiamente ammortizzate. Viceversa, risulta che i finanziamenti esteri siano stati importanti, specie all'inizio, ma non determinanti in quanto la maggior parte degli investimenti sono comunque stati fatti con capitali locali.

Una sorpresa per me e forse anche per altri. Mi sono dunque chiesto da dove questi capitali siano usciti ed una risposta, almeno parziale, la ho trovata nei dati riguardanti il debito cinese, che cresce ritmi allucinanti proprio da quando l’economia ha cominciato a lievitare. Vale a dire che il capitale che ha finanziato e finanzia la crescita cinese è sostanzialmente fatto di debito che potrà essere ripagato solo se il rendimento degli investimenti sarà superiore al tasso di interesse dovuto.

In pratica, esattamente la stessa trappola in cui si è cacciato il capitalismo occidentale, anche se il debito è articolato in modo diverso: se l’economia ristagna o addirittura decresce troppo a lungo, il rischio di una bancarotta generale diventa molto concreto.

Una minaccia che probabilmente la dirigenza cinese, come la nostra, ha sottovalutato troppo a lungo e che pone dei vincoli ferrei alle future strategie economiche e politiche.


Il retrobottega.



Ma torniamo all'altra faccia della medaglia. Abbiamo visto che, anche fatta una prudente tara ai dati ufficiali, alcune economie emergenti sono effettivamente cresciute in maniera spettacolare, specie a partire dal 2000 circa. Una fatto che sembra negare che esistano dei limiti invalicabili allo sviluppo ed al benessere. Ma cosa è successo ne frattempo alle economie già ricche?

Probabilmente non per caso, sono contemporaneamente entrate in una fase di crisi cronica che lo stesso FMI (non proprio un covo di “alternativi”) ha definito “una stagnazione probabilmente secolare”. Che, tradotto in termini comuni, si potrebbe rendere come: “non c’è più trippa per i gatti”. Laddove i gatti siamo noi.

Perché? Io credo che le concause principali siano due.

La prima è che la crescita economica di chicchessia comporta necessariamente un aumento dei consumi di energia e materie prime, il che vuol dire un aumento dei costi diretti ed indiretti legati tanto all'approvvigionamento che allo smaltimento (N.B. un aumento dei costi non sempre si traduce in un aumento dei prezzi). In altre parole, la crescita economica comporta necessariamente un aumento di entropia che occorre scaricare da qualche parte. In estrema sintesi, l’industria è un gioco in cui chi ha le manifatture vince e chi ha le cave e le discariche perde.

Per secoli, i paesi europei hanno costruito la loro crescita economica e demografica grazie ad una superiorità tecnologica ed organizzativa che ci ha permesso di sfruttare buona parte del mondo, importando risorse ed esportando beni di consumo e rifiuti.

Oggi, la Cina e gli altri emergenti sono contemporaneamente esportatori di materie prime e di prodotti finiti, oltre che importatori di rifiuti. Tuttavia, proprio quell'iniezione pressoché gratuita di tecnologia che abbiamo praticato cercando maggiori profitti immediati, ha consentito a questi paesi di spostare l’ago della bilancia commerciale verso l’esportazione di prodotti finiti e l’importazione di materie prime o semi-lavorati, anche da noi. In altre parole, abbiamo fornito ad altri i mezzi per renderci la pariglia.

La seconda ragione è che c’è una differenza abissale fra internazionalizzazione e globalizzazione del commercio.

L’internazionalizzazione comporta infatti la liberalizzazione del passaggio transfrontaliero delle merci, ma non quello delle persone e dei capitali. Poiché quasi tutti i paesi sono avvantaggiati su alcune produzioni e svantaggiati su altre, il commercio internazionale può, almeno in teoria, portare un vantaggio relativo a tutti i partecipanti. Per fare un esempio banale, agli italiani conviene importare le banane dall'Ecuador ed agli ecuadoregni conviene comprare il vino italiano e, se i capitali risultanti da questi traffici non possono essere esportati, dovranno necessariamente essere spesi od investiti in patria. Parimenti, se i lavoratori ed i capitalisti rimangono vincolati al loro paese d’origine, difficilmente si potranno creare fenomeni come il crumiraggio internazionale e l’elusione fiscale. In altre parole, l’internazionalizzazione è un gioco in cui ci sono dei vincenti e dei perdenti parziali, ma con una somma spesso (teoricamente sempre) positiva.

In altre parole, certamente i produttori di banane ecuadoregni faranno fuori i produttori italiani e viceversa per chi fa il vino, ma nel complesso saranno più le persone che se ne avvantaggiano di quelle che ci rimettono.

La globalizzazione comporta invece il libero transito non solo delle merci, ma anche dei capitali e delle persone. Finché questo approccio è stato praticato nel ristretto ambito dell’Europa occidentale ha dato risultati positivi in quanto ha permesso una maggiore crescita delle economie di tutti i paesi, una maggiore libertà di movimento e di scelta per tutti i cittadini senza grossi scompensi, vista la forte affinità di partenza e gli stretti rapporti politici generali. Ancora più importante, il processo ha permesso di creare un’entità politico economica che, sia pure con molte lacune e difficoltà, è in grado di far sentire la sua voce a livello internazionale.

Viceversa, l’applicazione di questi principi fra paesi diversissimi sotto tutti punti di vista (politici, economici, sociali, tecnologici, ecc.) ha creato una situazione in cui ci sono vincenti e perdenti su tutti i fronti. Vale a dire che determinati gruppi sociali hanno avuto tutti o quasi i vantaggi, a scapito di altri gruppi. E non può essere che cosi.

In estrema sintesi, la globalizzazione ha rappresentato l’estremo tentativo del capitalismo per continuare a crescere. Da questo punto di vista ha certamente funzionato, ma ad un prezzo molto alto: accelerare ed ampliare tutte le retroazioni tendenti a distruggere sia la funzionalità della Biosfera, sia la coesione sociale. Due fenomeni le cui conseguenze si cominciano appena a vedere e che, congiuntamente, non mancheranno di dare un fiero colpo al capitalismo. Se sarà totale o parziale non lo possiamo sapere, ma se fra 30 o 40 anni il capitalismo sarà ancora vivo, sarà certamente molto diverso da come è oggi. Quantomeno, è probabile che i prossimi decenni vedranno un drastico cambio della guardia ai massimi livelli del potere. Un processo del resto già in pieno svolgimento di cui Trump, Bolsonero, Salvini e tanti altri sono gli araldi.


Conclusioni 5


La globalizzazione, fortemente voluta dalle élite di tutto il mondo, ha provocato, o perlomeno accelerato, un parziale cambio della guardia in sella al capitalismo in cui le classi povere del mondo e quelle medie occidentali sono stati perdenti, mentre i grandi capitalisti globali e la nuova classe media dei paesi “emersi” sono stati i vincenti.

Ma il vero perdente è stato un altro ed è la Biosfera. La rapida crescita economica dei paesi emergenti ha provocato ovviamente un parallelo aumento dei consumi. Cioè un brusco aumento nella distruzione delle risorse primarie e degli ecosistemi, contemporaneamente ad un parallelo aumento di tutti i tipi di inquinamento a tutti i livelli.

Ne valeva la pena? I vincenti pensano di si, mentre i perdenti vorrebbero a loro volta vincere. Come dire che abitiamo una casa i cui inquilini fanno a gara ad arricchirsi vendendo le tegole del tetto e le pietre delle fondamenta.

venerdì 8 febbraio 2019

Quattro riforme strutturali per uscire dal declino - Una proposta di Federico Tabellini




(Questo articolo costituisce una rielaborazione originale di temi trattati in maniera più organica e approfondita nel libro Il Secolo Decisivo: Storia Futura di un’Utopia Possibile
Di Federico Tabellini

Usando il termine in senso ampio, possiamo identificare quattro grandi 'crisi' contemporanee: una crisi ambientale ed energetica, una crisi delle diseguaglianze, una crisi culturale e una crisi concernente la stabilità del sistema economico-finanziario. Ne ‘Il Secolo Decisivo’ dimostro come queste crisi siano 1) strettamente correlate e 2) conseguenza fisiologica del modello socio-economico vigente, e non già una sua deriva accidentale.

Da ciò ne deriva che qualsiasi soluzione che voglia essere efficace debba essere 1) multisettoriale e 2) sistemica. In altre parole, risolvere le crisi richiede un approccio organico e comporta necessariamente il superamento dell’attuale modello socio-economico.

Perché il cambiamento sia possibile, è essenziale prendere coscienza dell’impossibilità di risolvere le crisi all’interno del modello che le ha in primo luogo generate. Questa presa di coscienza passa per la messa in discussione di una serie di miti e credenze che lo sostengono. Fra questi spiccano il mito del lavoro quale necessità e dovere (al di là dei suoi effetti in termini di benessere aggregato), il mito dei consumi come sinonimo di benessere e il mito della crescita economica quale unica via per il progresso. Lungi dall’essere meri fattori culturali, questi miti e credenze hanno forti ripercussioni sulla struttura sociale e sono da questa a loro volta rafforzati e perpetuati. Il legame fra struttura e cultura rende estremamente difficile che il cambiamento possa avvenire semplicemente dal basso, attraverso un mutamento negli stili di vita. Per fare un esempio, nel modello vigente la crescita del PIL è necessaria per sostenere i livelli di occupazione, e i consumi sono necessari per sostenere entrambi. Se tutti semplicemente consumassimo e lavorassimo meno, senza implementare al contempo riforme nella struttura economico-istituzionale, la recessione ci farebbe presto cambiare idea.

Un cambiamento strutturale è quindi di vitale importanza, ed è su quest’ultimo che si concentra il mio libro. Le domande da porsi, una volta accettata a livello culturale la necessità di un cambiamento, sono sostanzialmente due:

Com’è possibile passare da un modello basato sulla crescita costante di consumi e produzione a un’economia stazionaria e in equilibrio con gli ecosistemi?
È possibile mantenere economicamente e socialmente stabile un tale modello massimizzando al contempo il benessere degli esseri umani?

Le possibili risposte a queste domande sono molteplici. La mia proposta attinge alla più recente ricerca nei campi di filosofia politica, ecologia, economia ed etica. Ritengo sia fra le più facilmente implementabili sul breve-medio periodo (qualche decennio), perché le riforme preliminari che richiede possono in grande misura essere messe in atto sin da subito. Il loro effetto congiunto renderebbe possibile il passaggio a un modello economico stazionario, dopo una fase iniziale di decrescita materiale necessaria a rientrare nei limiti di sostenibilità ecosistemica che abbiamo da tempo superato. In termini generali, le riforme coinvolgono quattro macro-aree:
  1. I sistemi redistributivi e fiscali degli stati;
  2. Il sistema educativo;
  3. I regimi politico-elettorali;
  4. Il sistema finanziario.
Quello che segue è un elenco sintetico e necessariamente incompleto delle proposte discusse nel libro preliminari alla transizione da un modello economico basato sulla crescita infinita a un modello stazionario stabile.

I sistemi fiscali e redistributivi andrebbero ricalibrati per adattarli a un’economia post-lavorista. In tal modo il progresso tecnologico e l’automatizzazione di produzione e servizi potranno essere messi al servizio dell’uomo, liberando l’umanità dall’assurda ricerca di una non più necessaria (ai fini della massimizzazione del benessere aggregato) piena occupazione. I proventi di un’economia via via più automatizzata e indipendente dal lavoro umano andranno poi redistribuiti attraverso l’istituzione di un reddito di base[1] su vasta scala, continuamente ricalibrato in funzione della congiuntura economica.[2]
L’attuale sistema educativo gerarchico e massificato andrebbe sostituito con un’educazione orizzontale e flessibile, che conceda a ogni studente la libertà di operare scelte autonome, entro certi limiti, circa la propria formazione e sviluppo personale. La scuola dovrà cessare di essere una fabbrica di esseri umani funzionale alla crescita economica, per divenire invece un servizio a disposizione delle persone, finalizzato alla scoperta e allo sviluppo dei talenti e delle vocazioni di ognuno.
L’esaltazione del ‘volere del popolo’ propria delle contemporanee democrazie rappresentative – che troppo spesso si traduce nella tirannia di una maggioranza ignorante manipolata da leader populisti di ogni sorta – dovrebbe essere sostituita da una promozione attiva del dibattito politico a tutti i livelli e dall’istituzione di vincoli conoscitivi al voto, rimpiazzando l’attuale politica dei sentimenti con una politica degli argomenti.
Il sistema finanziario andrebbe riformato e reso indipendente da una crescita costante dell’economia materiale. Ciò richiederà la messa in discussione del modello inflazionista, una riduzione drastica della speculazione finanziaria e un completo superamento del sistema bancario a riserva frazionaria.

Ognuna di queste macro-riforme difficilmente potrà essere implementata senza una parallela implementazione delle altre, per ragioni che è impossibile illustrare in dettaglio in un singolo articolo.[3] Basti qui dire che senza un ripensamento dei sistemi fiscali e redistributivi che metta in secondo piano il lavoro, la crescita economica non potrà che rimanere essenziale per contrastare la disoccupazione tecnologica, non importa quanto superflue e finanche dannose divengano le mansioni svolte dagli esseri umani. Similmente, l’istituzione di un sistema politico basato su discussione e ragionamento – le quali richiedono indipendenza di analisi e tempo per approfondire le ragioni dei propri interlocutori – è impensabile senza una previa riforma del sistema educativo e una liberazione del tempo umano dalle catene del lavoro. Infine, è difficile immaginare che una riforma profonda del settore finanziario (i cui frutti sarebbero visibili solo sul lungo periodo) possa essere implementata con successo in assenza di un sistema politico ed elettorale basato su discussione, contenuti e ragionamento.

Le ragioni che rendono queste riforme necessarie, le possibili modalità della loro implementazione e gli effetti potenziali che potrebbero sortire sulle società umane sono esaminati nel dettaglio nel libro ‘Il Secolo Decisivo: storia futura di un’utopia possibile’. Qualsiasi critica, domanda o commento sui contenuti di questo articolo e/o del libro cui si ispira è assolutamente benvenuta.

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[1] Si utilizza qui il termine nella sua accezione classica, come reddito concesso a ogni individuo adulto indipendentemente da ogni prova dei mezzi. Il reddito di base è universale in quanto concesso a ogni individuo, a prescindere dalla sua condizione sociale ed economica.

[2] Si vedano i capitoli 3 e 6 del libro ‘Il Secolo Decisivo’ per la discussione di un possibile meccanismo di ricalibrazione.

[3] Si rimanda al libro per una loro analisi approfondita.

domenica 3 febbraio 2019

Guerra e sovrappopolazione.

di Jacopo Simonetta

La guerra sta tornando d’attualità. Molti ne parlano e si chiedono se dove scoppierà la prossima "Grande Guerra".  Ovviamente, non è possibile fare previsioni, ma si possono valutare i livelli di rischio, tenuto conto di una serie di parametri fra cui la demografia che, però, viene spesso trattata con superficialità.  Il "numero" non sempre "è potenza" e può anzi essere una fatale debolezza; dipende non tanto da quanta gente c'è, bensì da come la crescita demografica si interseca con quella economica, oltre che con i parametri politici, tecnologici e militari.   Vediamo di fare un poco di chiarezza, cominciando a capire che cos'è la "sovrappopolazione", perché non è così banale come potrebbe sembrare.

La sovrappopolazione negli altri animali.

Negli altri animali le cose sono relativamente semplici, almeno sul piano concettuale.  La sovrappopolazione è il fenomeno che si verifica quando il numero di capi supera la capacità di carico del territorio; vale a dire la locale disponibilità di risorse (cibo, acqua, rifugio, tranquillità, ecc.).  Normalmente negli ecosistemi naturali non ci sono problemi con i rifiuti che sono risorse per altri elementi della biocenosi.

Di solito, le popolazioni non superano la soglia della propria sostenibilità perché ne sono impedite dalla crescente efficacia di una serie di retroazioni negative (peggiore alimentazione, peggiori rifugi, maggiore predazione, epidemie, ecc.).
Se la popolazione si mantiene a lungo vicino alla capacità di carico, una parte dei giovani emigra, in cerca di nuovi territori.  Di solito muoiono presto, ma alle volte fondano nuovi nuclei vitali e l’areale della popolazione si espande.   Il ritorno del lupo in gran parte d’Europa ha seguito questo schema, grazie alla presenza di vaste superfici boschive ed all'abbondanza di ungulati selvatici.

Talvolta però, inconsuete combinazioni di eventi, o la particolare biologia di alcune specie, portano a superare la fatidica soglia, causando un degrado dell’ecosistema.   La conseguenza è sempre una morìa che è tanto più grave quanto più è ritardata.   Anche le leggendarie “migrazioni” dei lemming sono in realtà delle ecatombe perché quasi nessuno degli individui che partono sopravvive abbastanza da riprodursi.   Nelle locuste migratrici poi, lo sciame migrante è addirittura composto da individui sterili.

Il punto importante è che, per ogni giorno in cui la popolazione rimane al di sopra della propria capacità di carico, l’ambiente si degrada riducendo la capacità di carico stessa. Spostando cioè al ribasso il livello di equilibrio che si dovrà necessariamente raggiungere.

Come dire che più precoce e più rapido è il colpo di falce, minore è il numero dei morti necessario per salvare la popolazione.

Questo lo sanno tutti ed è per questo che parlare di sovrappopolazione umana è così allergenico.

La sovrappopolazione umana.

Nella nostra specie la dinamica ecologica accennata sopra rimane valida, ma ad essa si sommano molte altre variabili che complicano notevolmente il quadro.  Vediamo i principali ordini di fattori coinvolti.

Risorse.  Lo abbiamo in comune con le altre specie, ma per noi è molto più complesso in quanto la nostra vita dipende da un economia e da una tecnologia senza precedenti che richiedono un flusso continuo di praticamente qualunque cosa esista ed in particolare di energia.   Cioè la nostra specie è l’unica ad essere letteralmente “onnivora” e questo ci rende una vera e propria “mina vagante” all'interno della Biosfera.

Discariche.  Al contrario degli altri animali, molto spesso per noi il principale fattore limitante non è la carenza di risorse, bensì l’inquinamento provocato dal loro consumo.  Il Global Warming ed il buco nello ozono sono dei casi ben noti, ma certamente non i soli.

Cultura e religione.  Le credenze considerate identitarie hanno un forte impatto sulle scelte umane, compresi il comportamento riproduttivo e la predisposizione alla violenza.  Possono cambiare, ma solo se vengono sostituite con una diversa fede (anche laica) altrettanto profondamente sentita.   Diversamente dagli altri animali, fra la propria vita e la propria identità culturale, spesso l’uomo sceglie la seconda, magari senza rendersene conto.

Struttura sociale.  In particolare, il grado di autonomia delle donne nel decidere di se stesse ha un forte impatto sulla natalità che risulta minore nelle società meno discriminatorie nei confronti delle femmine.   Invece, la longevità degli anziani dipende soprattutto da fattori economici e ambientali.  La possibilità di migrare dipende, infine, da un complesso di fattori politici e militari; tutti fattori che hanno molto a che fare anche con la predisposizione alla violenza.

Dinamica e struttura demografica.  Rispetto alle altre grandi scimmie, l’uomo è potenzialmente molto longevo, cosa che gli consente di avere tassi di crescita demografica molto rapidi malgrado la relativamente bassa natalità e la lunghezza del periodo prepuberale.   Un’altra caratteristica, questa, che contribuisce a rendere la nostra specie particolarmente destabilizzante.

Il punto qui fondamentale è però che, quando la popolazione comprende una maggioranza di giovani, la società è strutturalmente turbolenta e facilmente vira alla violenza anche estrema.   Secondo Gaston Bouthoul (padre della "polemologia") il cosiddetto “bubbone giovanile” è l’unico ingrediente comune a tutte le guerre conosciute.  Diciamo che costituisce una condizione necessaria, ma non sufficiente allo scoppio di conflitti che abbiano impatti demografici significativi.

Economia. La crescita economica scatena la crescita demografica, fra le due si attiva quindi una retroazione positiva che dura finquando gli altri fattori lo consentono.  Prima o poi la crescita economica però rallenta e finisce, mentre la crescita demografica continua ancora per qualche tempo, erodendo il benessere acquisito nella fase precedente e generando quindi miseria, paura e rabbia. Cioè creando i presupposti per scoppi di violenza di vario genere.  Esattamente quello che sta accadendo a noi proprio adesso.

Tecnologia.  La tecnologia non consente di ricreare le risorse distrutte, ma consente di usarne di nuove e/o di sfruttare con maggiore efficienza quello che resta.  Il suo effetto è quindi quello di aumentare la capacità di carico umana, ma a costo di erodere lo spazio ecologico delle altre specie.   Migliore è la tecnologia disponibile, più ampia è la nostra nicchia ecologica, a scapito di tutte le altre.
Inoltre, la tecnologia evolve in tempi inimmaginabilmente più rapidi di quelli dell’evoluzione biologica, col risultato di fare della nostra specie un’entità sempre e comunque aliena e sovversiva di biocenosi che, al contrario, sono di solito costituite da popolazioni coevolutesi le une in funzione delle altre per tempi lunghissimi.

Finora, il progresso tecnologico è proceduto a passo di carica grazie alla sinergia fra esso ed un flusso crescente di energia netta per alimentare la tecnologia stessa.  Una sinergia che però sta entrando in crisi con l’irreversibile degrado quali-quantitativo delle fonti energetiche.  Questo apre scenari nuovi e preoccupanti circa la competizione per le risorse rimaste e, in una prospettiva leggermente più lunga, per il livello tecnologico delle società del prossimo futuro.

Comunque, il punto fondamentale  è che se cresciamo tanto da far collassare i servizi ecosistemici vitali (tutti dipendenti da specie non umane), ci condanniamo da soli all'estinzione. Quale che sia la tecnologia di cui disponiamo.

Tutti questi ordini di fattori sono interdipendenti ed è perciò che non è possibile stabilire a priori quanta gente può vivere pacificamente in una determinata regione o sulla Terra intera.  Si può però capire quando il nostro impatto è eccessivo osservando una serie di indicatori.  Peggioramento delle condizioni ambientali, aumento della turbolenza sociale e dei flussi migratori, peggioramento dell’economia, governi più autoritari, minore natalità e/o maggiore mortalità, disoccupazione, tendenza alla disgregazione delle società complesse in strutture più semplici, miseria, ecc.  sono tutti sintomi di sovrappopolazione.

Attenzione che nessuno di questi è specifico della sovrappopolazione e non necessariamente tutti sono presenti, ma quando alcuni di questi si manifestano, sarebbe doveroso drizzare le antenne.  Anche perché, se si supera la soglia, si rientra necessariamente in quella dinamica di rincorsa al ribasso fra popolazione e capacità di carico, già vista per le specie non umane.

E la guerra in tutto ciò?

Dunque la sovrappopolazione è uno stato patologico ricorrente in cui la quantità di individui x consumi x tecnologia (la leggendaria formula I=PAT) inizia a produrre dei cambiamenti ambientali avversi tipo erosione, estinzioni, inquinamento, turbolenza sociale, estrema povertà, ecc.   Di solito questo avviene al termine di una fase di rapida crescita demografica, quindi con un gran numero di giovani che hanno ben poche prospettive, cosa che rende la società particolarmente soggetta alla violenza.  Non tutte le guerre sono state provocate dalla sovrappopolazione e non tutte le crisi demografiche si sono risolte con una carneficina, ma di solito una fase di violenza estrema è la valvola di sfogo di queste situazioni.

Anche le migrazioni sono sempre state connesse con guerre (in senso lato), tranne nei pochi casi in cui le società d’arrivo si trovavano ad avere il problema opposto: una popolazione insufficiente a sfruttare pienamente le opportunità di crescita del momento.   Ed una cosa non esclude l’altra.  Ad esempio, in passato i governi di alcuni stati hanno incoraggiato l’arrivo di grandi masse di migranti che sono stati utilizzati per sviluppare le opportunità economiche del momento e, contemporaneamente, eliminare le popolazioni indigene che facevano ostacolo.  La colonizzazione degli USA è il caso più celebre, ma la colonizzazione della Siberia, di vaste regioni del Sud-america, dell’Australia e di molte altre zone hanno seguito uno schema analogo.  Diciamo che la storia delle civiltà è anche la storia dell’eliminazione delle civiltà precedenti. In questo, la civiltà industriale non ha inventato assolutamente nulla, ma ha accelerato ed ampliato gli effetti di questo tipo di dinamica.

Questo, in soldoni, il quadro, solo che oggi ci troviamo di fronte ad una crisi di sovrappopolazione molto atipica per due peculiarità:

1 – Per la prima (e probabilmente ultima) volta nella storia la crisi riguarda l’intero pianeta contemporaneamente e non esistono oramai degli spazi relativamente liberi.  Né spazi geografici, né politici, né economici (se non in misura minimale).

2 – Una parte dei paesi sta vivendo una situazione classica di impatto fra popolazione in rapida crescita e capacità del territorio.   Altri stanno ugualmente impattando contro i propri limiti, ma con una natalità ridotta da tempo ed un’età media assai superiore.  Insomma, mentre alcuni paesi soffrono per un classico “bubbone giovanile”, altri soffrono per un “bubbone senile”, ma in entrambi i casi vi è più gente e più consumo di quanto le condizioni ambientali possano reggere.

Il “bubbone senile”sembra più gestibile in quanto destinato a risolversi da solo in tempi non lunghissimi, specialmente se, come di solito accade, il declino economico provoca una riduzione dell’aspettativa di vita.  In ogni caso, le società con un'età media più avanzata sono meno portate alla violenza,a parità di altre condizioni.

Viceversa, il “bubbone giovanile” rappresenta un pericolo molto grave per tutti.  In assenza di una rapida crescita economica, analoga a quella che ha permesso di gestire il “baby boom” occidentale e cinese degli anni ’60, una qualche forma di violenza estrema è inevitabile.  Quello che sta accadendo in tutti i paesi arabi ed in molti di quelli africani è emblematico.  Certo, come sempre ci sono anche altri ingredienti specifici di ogni particolare conflitto: interessi economici, ingerenze straniere, inimicizie storiche e molti altri, ma lo ”stato di sovrappopolazione” è l’ingrediente che costituisce la massa critica che altri fattori fanno poi detonare.

Se questo approccio è corretto, è molto improbabile che le grandi potenze scatenino la tanto temuta nuova guerra mondiale.  Presumibilmente, continueranno, ad usare la guerra come strumento per perseguire i loro scopi , ma sempre in un'ottica di conflitto locale, come del resto stanno facendo.  Sommosse e tumulti ci sono e ci saranno, specie a seguito di bruschi peggioramenti economici, ma porteranno a governi più repressivi e ad uno stretto controllo della popolazione, piuttosto che a vere rivoluzioni o guerre civili.

Certo, è possibile uno scontro diretto USA – Cina per il predominio sul mondo, ma lo ritengo assai improbabile sia per ragioni demografiche, sia perché il livello di rischio sarebbe troppo elevato per entrambi.

Viceversa, ci sono due potenze nucleari, India e Pakistan, che hanno tutte le caratteristiche per essere molto pericolose: estrema sovrappopolazione, bubbone giovanile, crisi economica, grande potere politico delle forze armate, forti tensioni interne, storica inimicizia e confini contesi.    Certo, è possibile che questi paesi tornino a scontrarsi senza coinvolgerne altri, oppure che la tensione sfoci in guerre interne, ma il rischio di un’ennesima carneficina in questo settore è comunque molto alto ed avrebbe conseguenze globali, anche se, speriamo, solo economiche.

Il secondo “hot spot”  di livello globale è naturalmente il Medio Oriente.   I motivi sono abbastanza analoghi a quelli visti sopra e uno stato di guerra per procura fra Iran ed Arabia Saudita è già in corso da molti anni.  Ultimamente sta vincendo l’Iran, ma i giochi sono aperti e c’è la possibilità di un coinvolgimento delle grandi potenze l’una contro l’altra.   Inoltre, in zona si trovano altre due potenze regionali pesantemente sovrappopolate, con un vistoso bubbone giovanile ed una politica sempre più aggressiva: Israele e Turchia.  Accanto c'è l'Egitto che coniuga una situazione demografica esplosiva, un'economia disastrata ed una forza armata di tutto rispetto. In pratica, un "gioco dei 5 cantoni" che può sfuggire di mano in qualunque momento scatenando una carneficina.

Esistono ancora una moltitudine di focolai di guerra, attuali e potenziali, specialmente in Africa, nonché in America centrale e meridionale, ma nessuno di questi ha, credo, la potenzialità per svilupparsi in una nuova guerra globale, anche se la certezza del futuro si può avere solo dopo che questo è diventato il passato.  E neanche sempre.

Concludendo

La sovrappopolazione è uno stato patologico che deriva da uno squilibrio tra crescita demografica ed altri fattori, principalmente economici ed ecologici.  Non può durare a lungo e prima si risolve, migliore è la vita di coloro che sopravvivono alla crisi.  Esistono molti modi per rientrare entro la capacità di carico, ma una certa dose di violenza è inevitabile.   Quanto lunga ed intensa sia però questa fase dipende da una moltitudine di fattori ed ogni crisi ha la sua esclusiva combinazione di "ingredienti". Tuttavia quando si è in presenza di un pronunciato "bubbone giovanile" la probabilità di giungere a conflitti sanguinosi e distruttivi è molto elevata.

L'analisi dei dati demografici degli ultimi decenni suggerisce però un moderato ottimismo. Finora, infatti, in tutti i paesi in cui la percezione del futuro si è fatta fosca, la natalità diminuisce.  Parallelamente, dove la crisi economica arriva ad intaccare i servizi sanitari e le pensioni, la mortalità torna ad aumentare.  Ne consegue una riduzione della popolazione che può diventare relativamente rapida, anche in assenza di grandi catastrofi.  Anzi, specialmente in assenza di grandi catastrofi che, finora, hanno sempre innescato dei “baby boom” di reazione, appena le condizioni lo consentono.

E' quindi legittima la speranza di poter evitare il collasso della biosfera e l’estinzione della nostra specie, soprattutto se i governi si adoperassero per salvaguardare i presupposti per la vita nel futuro: biodiversità, suoli, acqua.

Non potremo però evitare la violenza, specie nei paesi con popolazioni molto giovani.  Dobbiamo quindi lavorare per evitare che maturino i presupposti per essere coinvolti in rivolte e guerre particolarmente sanguinose, ma anche attrezzarsi per vincere quelle che risultassero inevitabili.

lunedì 28 gennaio 2019

Saluti dalle Balenottere.



Ugo Bardi come il Capitano Ahab and Mihaela Sima (coordinatrice del convegno) come Moby Dick in un piccolo pezzo teatrale per il "II simposio sulla sostenibilità nei campus universitari", tenuto a Firenze il 12 Dicembre 2018. Notate il "sonar" sulla testa di Mihaela -- è così che le balene si orientano!




Un raccontino un po' natalizio segnalato da Elena Corna. Ne approfitto anche per segnalarvi anche che  mio nuovo libro "Il Mare Svuotato,"  che stiamo scrivendo in collaborazione io e Ilaria Perissi. Dovrebbe uscire a fine anno con Editori Riuniti.


UB


Lezione sotto il mare


Stefano Benni, Lezione sotto il mare, in La grammatica di Dio, 2007.

A un miglio di profondità, nell'Oceano Pacifico, nella fossa di Buenas Umbras, era in corso uno strano assembramento di balene. Un capodoglio enorme, più di venti metri, pinneggiava in surplace.

Almeno una ventina di giovani balenottere gli stavano di fronte, in fila per quattro. Qual era il mistero di questo anomalo branco? Nessun mistero: era una scuola, il capodoglio era il maestro e le venti balenottere le allieve. La lezione si teneva in ultrasuoni e il titolo era: Capolavori della letteratura cetacea.

- Care scolare,- disse il maestro - parleremo oggi di quello che è ritenuto il libro più importante della nostra storia. E cioè Il diavolo zoppo. Voi lo conoscete bene, vero?

Le balenottere annuirono scodando, senza molta convinzione.

- Come sapete, il libro è stato scritto nell'anno dei sette iceberg, da un capodoglio albino di nome Mobius Benedick. Egli fu perseguitato tutta la vita da un baleniere al quale, in leale duello marino, aveva staccato una gamba. Ovviamente a provocare, come sempre, era stato l'umano. Ma costui, gonfio d'odio, si mise a perseguitare Mobius per tutti gli oceani.... Qualcuno sa come si chiamava questo baleniere?

- Crab? - suggerì una balenottera rotonda.

- No - sospirò il maestro.

- Lo so...Calab... no, anzi, Akab - disse una balenotta tigrata

- Brava Rigutina, così suona il suo nome nella lingua degli uomini. Ebbene, il racconto di Mobius Benedick inseguito da Akab, le sue riflessioni sulla morte e sulla caducità dell'esistenza, le avventure e i colpi di scena, fino al tragico finale, fanno di questo libro un capolavoro pelagico che non può mancare nell'archivio ultrasonico di nessuna balena. Ora, sapete dirmi come gli umani chiamavano Mobius Benedick, il nostro niveo, grande scrittore? Tu, Pinnamozza, là in fondo, mi stai ascoltando o fai merenda di meduse? Sai rispondere?

- Ehm...ecco...

- Cosa stavo dicendo?

- Dunque...parlava di iceberg... e di un marinaio con un occhio solo.

- Uffa Pinnamozza, come al solito non sei stata attenta...e io so perchè...La tua membrana sta ascoltando un altro ultrasuono... dimmi cos'è.

- Ma veramente, signor maestro...

- Dimmelo!

- Stavo ascoltando Ventimila baci sotto il mare, ovvero la storia di Balenonzolo e Balenadia, una bella storia d'amore...

- E tu Pinnablù?

- Io... stavo ascoltando una raccolta di barzellette sui trichechi.

- E tu Codaforata?

- Io ascoltavo musica, i Killerwhales, un gruppo di heavy-ocean molto tosto...

Vuol sentire anche lei, professore?

Il maestro sospirò con grandi bolle, poi disse: - Va bene, intervallo, tutte in superficie.

E mentre le balenottere gioiose correvano verso l'aria per schizzarsi e giocare, pensava: Ma che senso ha ancora studiare Mobius Benedick? E' sempre più difficile far leggere queste giovani bestie. E soprattutto, ne vale la pena?

Poi emerse, e guardando un'isola lontana pensò: Che solitaria fatica insegnare i classici! Chissà se gli umani stanno meglio...

martedì 22 gennaio 2019

Agricoltura: progetti per l'acqua non per i tubi


di Silvano Molfese




Fig. n. 1 - Nevosità media annua in Italia (1921-1960) (*)

Una trentina di anni addietro Vandana Shiva riportava l’imperativo “fa progetti per l’acqua non per i tubi”; l’Autrice richiamava l’attenzione sul ciclo dell’acqua e sui principi del prelievo idrico sostenibile:
“La falda acquifera si abbassa quando il tasso di prelievo dell’acqua sotterranea è superiore al tasso di ricostituzione dei depositi di acqua sotterranea per percolazione. Per assicurare un’offerta continua di acqua sotterranea, il prelievo dovrebbe essere limitato al tasso netto di approvvigionamento della falda acquifera. Se il prelievo è invece superiore si inizia a estrarre l’acqua delle riserve sotterranee, e si verifica una siccità del sottosuolo anche se non c’è siccità dovuta a cause meteorologiche. “(1)
Se ai prelievi idrici eccessivi si aggiungono gli effetti del cambiamento climatico si arriva ad una miscela dirompente per la società: è quello che è successo in Siria. Nel Medio Oriente sono note le ingerenze delle potenze mondiali e, le drammatiche sofferenze della popolazione siriana, vengono attribuite solo agli scontri in atto per gli interessi strategici nella regione.
Pochi sanno che in Siria, negli anni settanta, i contadini furono stimolati dal regime siriano ad aumentare le produzioni per raggiungere l’autosufficienza agricola; ma non furono valutate le disponibilità di acqua per le crescenti superfici coltivate sicché, per fronteggiare la scarsità idrica, cominciarono a scavare pozzi andando a profondità sempre maggiori, 100-200 metri. 
Tuttavia non bastò: andarono oltre fino a raggiungere i 500 m in profondità, ma, perdurando la siccità, tutto ciò non servì a nulla e a milioni  scapparono dalle terre inaridite per ammassarsi nelle città.
Nel 2010 la Russia bloccò le esportazioni cerealicole dopo l’intensa e prolungata ondata di calore a seguito della quale le produzioni cerealicole calarono di circa  40 milioni di tonnellate (circa il doppio della produzione cerealicola italiana) e il prezzo mondiale del grano subì un forte quanto improvviso rialzo. (2) In quelle condizioni agli inizi del 2011, in Siria, bastò poco per incendiare gli animi di una consistente fetta della popolazione già provata da anni di carestia.  (3) 

Anche in Italia la situazione si sta facendo preoccupante: a metà giugno del 2017 l’associazione degli enti di bonifica (Anbi) lanciò l’allarme sulla situazione delle falde nelle province dell’Emilia-Romagna pubblicando addirittura uno schema eloquente sull’abbassamento delle falde in Emilia-Romagna (http://www.reggioreport.it/2017/06/falde-a-secco-verso-la-catastrofe/)
In precedenza, era il 2010, era stato lanciato un allarme in Sicilia sull’abbassamento delle falde: il livello dell’acqua nei pozzi era sceso di circa un centinaio di metri in una trentina di anni ed il numero di pozzi era aumentato di oltre il 50%: (http://palermo.repubblica.it/cronaca/2010/07/22/news/acqua_l_allarme_degli_esperti_le_falde_sono_scese_di_70_metri-5755814/)  (**)
La penisola italiana è caratterizzata mediamente da precipitazioni elevate, quasi mille mm di pioggia all’anno (4) e, fino a metà del secolo scorso, di queste precipitazioni una parte minore ma significativa era neve: sciogliendosi lentamente, la neve favorisce l’assorbimento dell’acqua da parte del terreno; in altre parole è come avere una cisterna naturale all’aria aperta.
In seguito all’aumento della temperatura media è diminuita la nevosità: su Alpi, pianura Padana e sul restante arco appenninico cade meno neve  rispetto a qualche decennio fa. A tal proposito c’è uno studio http://www.nimbus.it/meteoshop/Estratti/Nimbus/7707_NeviPadane.pdf relativo all’Italia settentrionale, segnalatomi da Luca. Mercalli, che documenta il calo nevoso.
Quelle condizioni vantaggiose che caratterizzavano l’Italia fino a qualche decennio addietro stanno venendo meno: un assaggio di quel che ci aspetta lo abbiamo avuto nel 2017 con un lungo periodo siccitoso.

Nel 2017 per la siccità i fichi sono seccati sulla pianta


Le principali produzioni agricole sono diminuite; mi sono limitato a riportare i dati produttivi del triennio 2015-2017  (tabella n. 1) per alcuni cereali e per la soia: le rese nel 2017, rispetto alle rese medie del biennio precedente sono calate del 5% per il frumento, a ciclo autunno-primaverile; i cali nelle rese sono stati maggiori per i seminativi a ciclo primaverile-estivo.

(Per il mais un calo dell’8% come resa può sembrare quasi insignificante: con un’ ipotetica resa media del biennio 2015-2016 di 102 quintali per ettaro, su una superficie di oltre 660 mila ettari, riferita al 2017, ciò equivale ad una perdita di 5,3 milioni di quintali di granella.)


I dati della tabella n. 2 sono significativi: in un solo anno, il 2017, si è concentrato oltre un quarto del deficit idrico del decennio 2008 – 2017; le rese del mais sono calate notevolmente anche nel 2012 dopo due anni consecutivi di un consistente deficit idrico iniziato nel 2011 e che, sommato a quello del 2012, ha raggiunto  i 547 mm .



Al danno la beffa: dopo la siccità, sono cadute piogge concentrate ed intense nel 2018: in questa situazione si ha l’erosione dei suoli in pendio e l’allagamento dei campi in pianura, prima che l’acqua raggiunga rapidamente il mare. Ovviamente in queste condizioni l’acqua disponibile nel terreno per le piante tende a diminuire con il passare degli anni.

Per il settore agricolo, visto che i prelievi di acqua dalle falde eccedono gli apporti idrici alle falde stesse, è improponibile sia scavare a maggiori profondità che fare altri pozzi; si possono adottare alcuni accorgimenti agronomici, noti da tempo, per favorire l’infiltrazione di acqua nel suolo e limitare le perdite di acqua come: ridurre il numero e la profondità delle lavorazioni, aumentare la sostanza organica nel terreno, mantenere la copertura vegetale.

 Il terreno pacciamato riflettendo la luce riduce un po’ l’evaporazione dell’acqua dal suolo.

Per i terreni in pendio, dove possibile, sarebbero opportuni i terrazzamenti o, in alternativa, la sistemazione a lunette e conche adatta ai fruttiferi; sarebbe necessario conservare delle fasce inerbite tra i seminativi seguendo le curve di livello; tutte le lavorazioni dovrebbero essere fatte possibilmente seguendo le predette curve; per favorire l’infiltrazione di acqua nel terreno, un accorgimento adatto ai prati-pascoli, consiste nel tracciare dei solchetti mentre per i seminativi si può fare la ripuntatura del terreno: queste operazioni vanno eseguite parallelamente alle curve di livello. Nelle zone pianeggianti si dovrà smaltire rapidamente l’acqua in eccesso riducendo le distanze tra i fossi che delimitano i campi per ridurre i rischi di ristagno idrico. 

Siccome il cambiamento climatico si manifesta con effetti che possono aggravarsi inesorabilmente in pochi anni, è condizione necessaria adottare le misure idonee per adattarsi alla nuova realtà ma ciò non è sufficiente. 
Dobbiamo ridurre drasticamente i consumi di combustibili fossili entro pochi anni, e per fare ciò dovremo abbandonare il sistema economico adottato, causa fondamentale del riscaldamento globale: i gas serra sono agenti causali.
Le diverse società umane sparse nel mondo hanno prosperato per secoli senza petrolio ma non possono sopravvivere senza acqua.

Bibliografia
(1) Vandana Shiva, 1988 – Sopravvivere allo sviluppo. ISEDI,  246 e 257
(2) Brown L.R.,  2011 – Un mondo al bivio. Edizioni Ambiente. 31-32  
(3) Wendle J., 2016 – Siria, i rifugiati del clima. Le Scienze, 571, 68-73
(4) Natali F. et al., 2009 - Italian Journal of Agrometeorology 55 (3) 2009



(*) Pubblicazione n. 26 del Servizio Idrografico Italiano, “La nevosità in Italia nel quarantennio 1921-1960” edita dall’Istituto Poligrafico dello Stato nel 1971. Ripresa da  http://www.nimbus.it/liguria/rlm15/neve.htm
Ho riportato la nevosità media italiana riferita al quarantennio 1921 -1960; per fare un confronto con il passato basta osservare la presenza di neve che (non) cade attualmente. 

(**) Stranamente sono disponibili pochi dati sull’abbassamento delle falde.

Avvertenza
La rete delle stazioni agrometeorologiche del MIPAAFT ha il pregio di misurare parametri di interesse agronomico, come l’ evapotraspirazione; le stazioni sono distribuite nelle principali aree agricole di tutte le regioni italiane: tale reticolo copre poco le zone montane e di alta collina e questo spiega la discrepanza di questi valori meteo con quelli presentati da Natali F. et al


Glossario
L’evapotraspirazione è “la perdita di acqua, da parte del terreno con copertura vegetale, attraverso i processi contemporanei di evaporazione dalla superficie del suolo e di traspirazione da parte delle piante.”  (Giardini L.,  1982  Agronomia generale. Patron editore, 18)
La sistemazione a lunette e conche si fa pareggiando la superficie intorno all’albero dando forma semicircolare a valle e pendenza leggermente inclinata verso monte creando una specie di conca con il fianco della parete.


martedì 15 gennaio 2019

Epistemologia di un Impero morente: la crescita può durare per sempre ?

Da "Cassandra's Legacy". Traduzione dall'Inglese di

DI UGO BARDI



Recentemente, Michael Liebreich ha pubblicato un articolo dal titolo “The Secret of Eternal Growth” (Il segreto dell’eterna crescita). Ho pensato e ripensato all’idea se fosse appropriato spendere del tempo a parlare di un altro miscuglio di leggende, inclusa quella che è ormai un classico, gli “errori” che il Club di Roma si dice abbia fatto nel suo rapporto del 1972, “Rapporto sui limiti dello sviluppo”.  Alla fine, ho deciso che valeva la pena fare questo post, non tanto perché il post di Liebreich è sbagliato o ridicolo, ma perché illustra un punto essenziale della nostra civiltà: chi, e come, prende le decisioni ? E su che basi ?

Alla fine, penso che abbiamo un problema di epistemologia, la domanda sulla natura della conoscenza. Per poter prendere decisioni, si deve sapere cosa si sta facendo, almeno in linea di principio. In altre parole, è necessario un “modello” di realtà per essere in grado di agire. Fu Jay Forrester, padre della dinamica dei sistemi e artefice del “Rapporto sui limiti dello sviluppo” , a evidenziarlo. (World Dynamics, 1971, p. 14)

“Tutti utilizzano dei modelli, sempre. Ogni persona nella sua vita pubblica e privata ricorre a dei modelli per prendere decisioni. L’immagine mentale del mondo, che possiede ciascun individuo nella mente, è un modello. Uno non ha una famiglia, un’azienda, una città, un governo o un paese nella sua testa, ma solo idee selezionate e rapporti che usa per rappresentare il sistema reale.”

La grande domanda è da dove vengono queste “idee selezionate”. La mia impressione è che nella mente dei nostri leader ci sia un accozzaglia di idee e concetti innestati dai messaggi casuali che vengono dai media. I nostri leader non usano modelli quantitativi per prendere decisioni, ma solo sensazioni e capricci. È così che nasce un’idea come Make America Great Again.

Il punto è che sembra esistere una certa convergenza di idee e concetti nella mediasfera. In qualche modo, il consenso tende a comparire e ad essere rafforzato dalla ripetizione. Così i capi mondiali tendono a presumere l’esistenza di verità evidenti di per sé, come ad esempio che la crescita economica sia sempre una cosa buona.

L’articolo di Liebreich è un buon esempio di questo processo. Abbiamo un articolo scritto da una persona influente: è collaboratore anziano del Bloomberg, e anche ingegnere. Ciò che è più deprimente è il fatto che sia basato su idee raffazzonate, interpretazioni superficiali, mezze verità e leggende. Per esempio, leggiamo nell’articolo che:

“… un gruppo di ambientalisti preoccupati che si fanno chiamare Club di Roma invitò uno dei decani del nuovo campo della simulazione al computer, Jay Forrester, a creare una simulazione del mondo dell’economia e la sua interazione con l’ambiente. Nel 1972 la sua meravigliosa scatola nera produsse un altro best-seller, “Rapporto sui limiti dello sviluppo”, che si proponeva di dimostrare che quasi ogni combinazione dei parametri economici finisce non solo con un rallentamento della crescita, ma con un fallimento e il collasso. Questa scoperta, così congeniale al modello dei commissari, derivava completamente da errori nella sua struttura, come segnalato da un giovanissimo professore di economia di Yale, William Nordhaus.”

Notare come Leibreich fornisce un riferimento bibliografico al “Rapporto sui limiti dello sviluppo”, ma nessuno agli “errori nella struttura” segnalati dal “giovanissimo” William Nordhaus. La verità è che nel 1973 Nordhaus scrisse un articolo criticando Forrester e Forrester rispose con un altro articolo, difendendo il suo approccio. È assolutamente legittimo pensare che Nordhaus abbia ragione e Forrester torto, ma non che i cosiddetti “errori” nel modello siano un fatto assodato. Ho discusso questa storia nel mio libro, The Limits to Growth Revisited e in un recente post su “Cassandra’s legacy”. In sostanza, Liebreich riporta una leggenda senza troppo preoccuparsi di verificarla.

Ci sono molte altre cose in Liebreich che possono essere criticate in termini di errori, attacchi personali, interpretazioni sbagliate, e altro (si veda anche il giudizio critico da parte di Tim Jackson). Ma il punto è come le idee siano lanciate nella mediasfera e lì galleggino, per essere raccolte dalle menti umane come i virus dell’influenza che fluiscono nell’aria. Qui la tesi di Leibreich sembra avere una certa influenza perché è presentata sapientemente: in pratica ci dice che si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Dice che il genere umano può continuare a crescere e diminuendo anche il suo impatto sull’ambiente. È come dire a qualcuno dipendente dall’eroina che l’eroina fa bene alla salute e va bene continuare ad usarla perché il processo tecnologico renderà possibile avere lo stesso effetto, o addirittura maggiore, con una dose minore. Questo è ciò che un tossicodipendente vuole sentirsi dire, ma non funziona così il mondo.

La stessa cosa è vera per i nostri leader e per tutti noi. Tendiamo a fare scelte sulla base di ciò che ci piace, non in base a come stanno le cose. La malattia dell’Impero, infine, è solo una pessima epistemologia.