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venerdì 24 marzo 2023

Crollo della Popolazione in Italia?




Con una lentezza degna di un bradipo insonnolito, l'ISTAT pubblica i dati per la mortalità in Italia per il 2022. E sono dati piuttosto preoccupanti. Siamo arrivati a 713.000 decessi. Ovvero, sono tre anni che superiamo i 700.000 decessi, una cosa mai vista prima nei dati storici. 

Sappiamo tutti che con il graduale invecchiamento della popolazione, ci dovevamo aspettare un altrettanto graduale aumento della mortalità che dovrebbe toccare gli 800.000 decessi al culmine dell'ondata demografica, verso il 2050. Ma gli ultimi tre anni hanno visto un sorprendente balzo in alto del numero dei morti. Le previsioni delle Nazioni Unite (che vedete sul grafico di Our World in Data) davano 629.000 decessi per il 2022, ma abbiamo un eccesso di mortalità di oltre 80.000 unità. In sostanza, non siamo ancora rientrati nella curva, anzi ce ne stiamo allontanando rispetto all'anno scorso, dove l'eccesso di mortalità era sotto i 60.000 decessi.
La cosa è sorprendente in particolare considerando che la mortalità annuale tende a oscillare per un "effetto memoria" di quello che è successo negli anni precedenti. Se in un certo anno c'erano stati parecchi morti per qualche ragione, un'ondata influenzale, per esempio, l'anno dopo la mortalità tendeva a diminuire perché l'anno precedente si era portato via le persone più fragili e vulnerabili. Invece, qui abbiamo un aumento di mortalità consistente che dura da tre anni.
Non è una tendenza soltanto Italiana. Il "gradino di mortalità" si vede anche nei dati globali e in quelli di altri paesi, anche se in alcuni è più debole. Per esempio, per la Svezia, nota sulla stampa italiana come il paese degli sterminatori di vecchi, è molto più basso.
A cosa è dovuto questo gradino di mortalità? Come al solito, la risposta varia a seconda delle opinioni politiche di chi la da, per cui io non mi azzardo a dire niente. Mi limito a notare che, comunque la si voglia vedere, rappresenta un fallimento notevole della gestione della pandemia da parte del sistema sanitario.

Immagine da "Mortality Watch.

martedì 24 novembre 2020

Quanta decrescita e per chi? Una valutazione del progetto ECOESIONE


Seconda puntata dedicata al progetto “Ecoesione” dell’Università di Pisa su conversione ecologica e conflitto. Già pubblicato su Apocalottimismo" il 24/10/2020

Di Jacopo Simonetta

Nella prima puntata abbiamo visto alcune delle ragioni per cui un’ulteriore crescita economica non solo è estremamente improbabile, ma sarebbe anche in netto contrasto con l’imperativo di ridurre il più rapidamente possibile l’impatto dell’umanità sul Pianeta. Sarebbe anche prodromo di maggiore conflittualità sociale poiché, salvo opportuni provvedimenti, con ogni probabilità contribuirebbe ad accrescere ulteriormente le differenze di reddito.

Ma se la crescita ha il potere di mitigare i conflitti sociali, la decrescita ha l’effetto opposto, specialmente se, mentre i più decrescono, alcuni continuano a crescere in ricchezza e potere. Non è certo l’unico fattore in gioco, la struttura demografica è anche più importante nel favorire la violenza, ma resta comunque una delle forzanti importanti di cui occuparsi. 

Ogni società elabora i propri criteri per decidere cosa è giusto e cosa no, ma sempre vi è un limite oltre il quale la classe dirigente cessa di essere considerata una guida e comincia ad essere vista come un parassita. Di qui la seconda domanda che pongo: Quanta decrescita e per chi? 

La decrescita è un concetto alieno, tanto che la parola stessa è un neologismo di assai recente invenzione e gli stessi suoi fautori si affrettano a specificare che, sostanzialmente, si tratta di fare a meno del superfluo, guadagnando però in termini di qualità della vita grazie al venir meno del consumismo compulsivo. Che il consumismo sia una strategia basata sulla cronicizzazione di una stato di frustrazione e solitudine non ho dubbi, ma la questione di quanto sia necessario decrescere per evitare il collasso planetario è parecchio più complicata. Vediamo alcuni dei punti che credo dovrebbero essere tenuti in conto. 

Quanto bisogna decrescere? Una serie di indicatori concordano nel suggerire che l’umanità nel suo complesso abbia superato la capacità di carico del pianeta nei primi anni ’70. Vale a dire che sono circa 50 anni che l’effetto combinato di popolazione, consumi e tecnologia ha superato la “capacità di carico” del Pianeta, avviandone un degrado progressivamente accelerato. Moltissime specie, soprattutto di grande fauna, erano già state eliminate dai nostri antenati fin dal tardo paleolitico, ma fino ai primi anni ’70 questo non aveva messo in forse il permanere sulla Terra di condizioni chimico-fisiche compatibili con la vita. A far data da allora invece si. 

Di qui l’imperativo, ossessivamente ed inutilmente ribadito ad ogni occasione, di riportare gli impatti complessivi, far cui le famigerate “emissioni climalteranti”, entro dei limiti di sicurezza. Ma se cinquant’anni or sono questo sarebbe stato sufficiente, oggi non lo è più perché nel frattempo biosfera, atmosfera e idrosfera sono state pesantemente modificate cosicché, per consentire al pianeta di recuperare, sarebbe oggi necessario riportare l’impatto antropico ben al di sotto di quella soglia.

Tanto per farsi un’idea di larga massima possiamo comunque darci l’obbiettivo di riportare i nostri consumi globali a quelli di 50 anni or sono. Non dovrebbe essere molto traumatico, visto che chi c’era non ha un cattivo ricordo di allora, per non parlare dei miliardi di persone che vivono ben al di sotto dello standard europeo degli anni ’60 e che, quindi, avrebbero un buon margine di miglioramento. Ma non è così semplice. 

Un calcolo preciso sarebbe molto complicato ed aleatorio, ma per farsi un’idea molto approssimativa basta pensare che, da allora, la popolazione è più che raddoppiata, così come i consumi medi pro capite. Ne consegue che, per tornare all’impatto antropico di allora occorrerebbe ridurre ad un quarto i consumi medi attuali. Significherebbe un livello di consumo analogo a quello attuale della Moldavia, per avere un’idea molto approssimativa. Una cosa che non sarebbe certo indolore, soprattutto per noi euro-occidentali, e che ci porta direttamente nel cuore dei possibili conflitti sociali ed internazionali legati a politiche (per ora ipotetiche) di sufficiente riduzione dei consumi.

Chi deve decrescere fra classi. Una così drastica riduzione dei consumi medi può avere effetti estremamente diversi a seconda di come vengono ripartiti fra le classi sociali, dal momento che anche nei paesi più poveri ci sono ricchi e ricchissimi. Anzi, è proprio in questi stati che le disparità di reddito raggiungono l’apice (ad oggi, la UE ha uno dei livelli di sperequazione minori al mondo). 

Secondo la vulgata, per risolvere la situazione sarebbe sufficiente tassare pesantemente i super-redditi e super patrimoni per ridistribuire il denaro fra i poveri, ma ancora una volta non è così semplice. 

Innanzitutto, se ci fidiamo di Piketty che parla dell’Europa, per quanto spropositati, i super redditi sono troppo pochi per fornire un gettito fiscale adeguato ai bisogni. Bisognerebbe quindi estendere le super-tasse ad un buon 10-20% della popolazione, vale a dire all’intera classe dirigente. La probabilità che ciò avvenga è estremamente ridotta, malgrado questo porterebbe indubbi vantaggi proprio all’élite in termini di recupero di credibilità e di legittimità. 

Inoltre, proprio i patrimoni ed i redditi maggiori sono i più difficili da accertare e “catturare”, come dimostrato dal fatto che un miliardario come Trump non solo può impunemente eludere le tasse in un paese assai severo con gli evasori, ma addirittura diventarne il capo.

Comunque, anche immaginando una “Robin Tax” efficace, non è affatto detto che la ridistribuzione del reddito verso il basso sia compatibile con lo scopo dichiarato di ridurre gli impatti antropici. E’ infatti certamente vero che i ricchi consumano e inquinano più dei poveri, ma stimare quanto non è così semplice come Oxfam sostiene con la sua pubblicazione che è perfettamente condivisibile sul piano politico, ma che ha ben poco valore su quello scientifico. 

Anzi, uno dei meccanismi automatici che portano alla crescita spropositata dei massimi patrimoni, mentre quelli relativamente modesti rendono poco, è proprio il fatto che i grandissimi capitalisti possono devolvere in consumi solo una piccola parte dei loro redditi, cosicché ne reinvestono una percentuale tanto maggiore, quanto più grande è il patrimonio accumulato. Un classico anello a retroazione positiva; uno dei tanti annidati nel cuore del capitalismo. 

Inoltre, dal punto di vista ambientale, il risultato sarebbe diverso a seconda di come la ricchezza vaisse distribuita. Per esempio, se super-tassassimo alcune persone ed imprese europee per distribuire il ricavato fornendo trasporti pubblici gratuiti i consumi diminuirebbero. Viceversa, se lo distribuissimo sotto forma di “ecoincentivi” per l’acquisto di auto elettriche i consumi presumibilmente aumenterebbero.

Comunque, al di là delle questioni di dettaglio, rimane il fatto che ridurre di molto il potere d’acquisto di poche persone per aumentare di poco quello di molte probabilmente manterrebbe i consumi costanti. 

Anzi c’è il rischio che li incrementi e, con essi, probabilmente, anche la natalità. Per dirla con un aforisma: la sostenibilità si persegue impoverendo i ricchi, non arricchendo i poveri. Un fatto che in molto subodorano e che cementa quindi una singolare alleanza proprio fra i ricchi (che non vogliono rinunciare ai loro privilegi) e molti poveri e medi (che non vogliono rinunciare al sogno di arricchirsi o, perlomeno, di mantenere lo status quo).

Chi deve decrescere fra stati. E’ perfettamente vero che noi occidentali, chi più chi meno, abbiamo sfruttato ignobilmente altri popoli e paesi per lungo tempo. Ed è vero che, anche se la palma della maggiore potenza coloniale mondiale sta passando in mano cinese, una parte consistente del nostro residuo benessere deriva ancora da accordi commerciali a noi favorevoli. Sono quindi giustificate le rivendicazioni di altri paesi e il desiderio di una parte degli europei di porre fine a questa situazione, ma difficilmente si tenta di analizzare a fondo le implicazioni di una simile operazione. 

Noi occidentali siamo stati, complessivamente, i più ricchi e potenti del mondo per talmente tanto tempo da credere che questo sia un fatto naturale ed irreversibile. Non è stato così in molti periodi della storia e non è scritto da nessuna parte che debba restare così per sempre. Anzi, abbiamo ben visto che nel giro di appena 20 anni abbiamo perso parecchie posizioni. Anche questo è un fattore di tensione e di possibile conflitto, stavolta su di un piano internazionale, ma c’è un problema anche maggiore: una rapida decrescita comporterebbe una riduzione del peso politico, economico e militare dello stato, in un contesto di crescente conflittualità non solo con paesi e governi tradizionalmente ostili, ma anche fra paesi che vantano decenni di ottimi rapporti. 

Si possono pensare dei sistemi per gestire la questione riducendo i rischi, ma occorre che il problema sia tenuto ben presente e analizzato senza nascondersi il fatto che molti degli stati nostri vicini sono destinati, comunque, ad attraversare fasi di violenza estrema e che non è assolutamente detto che questo non ci coinvolga, in un modo o nell’altro. Come non è assolutamente detto che le potenze maggiori decidano di non approfittare della nostra debolezza, come noi approfittiamo di quella altrui. In particolare mi preoccupano sia gli USA che la Cina che, impegnate nello scontro per la supremazia mondiale, stanno facendo di tutto per colonizzare l’Europa ancor più di quanto non abbiano già fatto.

Impatti su settori irrinunciabili. Quando si parla di abbandono del petrolio, si parla di energia per uso domestico, di agricoltura, trasporti ed altro, ma vi sono interi settori vitali di cui non si parla mai. Qui mi limiterò a citarne uno solo: la sanità. Oggi, soprattutto in Europa ma non solo, praticamente chiunque ha accesso ad un livello di cure che un re od un miliardario di soli 50 anni fa neppure si immaginava e questa è considerata una delle conquiste principali ed irrinunciabili del progresso. Solo che tutto ciò di cui vive il sistema sanitario (medicinali, ospedali, materiali di tutti i generi, protesi ecc.) proviene direttamente o indirettamente dal petrolio e non ci sono alternative possibili, neppure in prospettiva. 

In un'ottica di rapida e radicale decabonizzazione, sarebbero anche altri i settori socialmente vitali ad andare in forte crisi. Diciamo che l’intero sistema di welfare (Sanità, sussidi, pensioni, ecc.), già fortemente sotto stress, diventerebbe impossibile da mantenere. 

Si potrebbe pensare di conservare una modesta estrazione petrolifera per soddisfare questi e gli altri bisogni per i quali non vi sono alternative, ma non sarebbe possibile; perlomeno non in un’economia di mercato perché, venendo meno le economie di scala, i costi diventerebbero impossibili.

Impatti demografici. Senza qui indugiare su di un tema così complesso, ignorare o trattare sulla base di comodi luoghi comuni uno dei fattori principali in gioco, anzi IL fattore principale in gioco, è come pensare di cucinare una torta usando zucchero e lievito, ma senza farina. Vale quindi la pena di ricordare che la sovrappopolazione non è un fatto assoluto, bensì relativo in quanto dipende certamente dal numero di persone, ma anche dalla struttura della popolazione, dalle condizioni economiche, dal livello tecnologico e dalla capacità di carico del territorio in questione. Il ultima analisi, è il rapporto fra impatti antropici complessivi ed ambiente che determina lo stato di sovrappopolamento. 

Tendenzialmente, la crescita economica, anche se “verde”, favorisce la natalità, riduce la mortalità e favorisce l’immigrazione. Il contrario di solito avviene quando la crescita finisce, ma gli effetti reali sono difficili da prevedere perché dipendono anche da molti altri fattori politici, sociali e culturali. 

Resta comunque il fatto che, di solito, la crescita demografica segue quella economica con un'inerzia che tende ad erodere i vantaggi raggiunti, generando situazioni di stress sociale particolarmente gravi se associati ad un vistoso “bubbone giovanile”. Masse di giovani senza reali sbocchi professionali sono infatti un viatico sicuro per un elevato grado di turbolenza e di conflittualità, finanche estrema come già stiamo vedendo in molti dei paesi maggiormente prolifici, alcuni molto vicini a noi.
 

Comunque, modifiche sensibili nelle condizioni di vita hanno sempre conseguenze demografiche, anche se si riescono ad evitare scoppi di violenza. Per fare un esempio pratico, l’aspettativa di vita in Italia è oggi di circa 83 anni, mentre nei citati anni ’70 era di 72; quella odierna della Moldavia è di 76. Ciò non significa che qui accadrebbe lo stesso che là, oppure che si torni indietro nel tempo, ma la correlazione fra consumi e aspettativa di vita è stretta e ben motivata. Certo, se volendo essere cinici, una riduzione della vita media sarebbe un considerevole vantaggio economico sia per i governi che per i giovani, ma politicamente la questione è improponibile, tanto è vero che si evita accuratamente anche solo di farvi cenno.

Uno dei libri più straordinari mai scritti è “I Limiti della Crescita” che dopo 50 anni non solo non è invecchiato affatto, ma anzi è più di attualità che mai. Decenni di verifiche e controlli sui dati reali hanno infatti confermato oltre ogni possibile dubbio l’esattezza dell’impostazione di quel lavoro e che quello che oramai stiamo vivendo sono le prime fasi di un collasso dell’intera civiltà industriale mondiale. Questo significa che una brutale decrescita non è più una scelta, ma un fatto ineluttabile e nasconderselo non ci aiuterà a sopravvivere.

La buona notizia è però che, anche se oramai è troppo tardi per evitare il “Picco di Tutto”, siamo ancora in tempo a mitigare i danni del “rientro” entro quei limiti che abbiamo cercato di esorcizzare negandoli, con l’unico risultato di sfracellarci contro di essi alla massima velocità possibile.

Ma, si obbietta spesso, se si ammette che il collasso sia ormai inevitabile (fatto sul quale molti peraltro dissentono energicamente), a che pro darsi da fare? E’ una strana obbiezione perché è proprio quando la nave affonda che c’è il massimo di lavoro da fare, non quando la crociera procede tranquilla.

Di questo parleremo nel terzo ed ultimo episodio.

domenica 12 luglio 2020

Gli Amish, il "popolo semplice" che rifiuta il progresso


Tutti abbiamo sentito parlare degli Amish, per lo più come di una comunità folcloristica che vive in America rispettando usi e tradizioni di alcuni secoli fa.
Sappiamo che rifiutano il progresso, che si spostano usando calessi trainati da cavalli e che si vestono in modo eccentrico.
In genere le nostre conoscenze di questo popolo non vanno molto più in là.
Credo invece che la loro stessa esistenza e resistenza in pieno XXI secolo meritino un doveroso approfondimento, non fosse altro come testimonianza del fatto che è possibile vivere consumando poco e rispettando la natura nel bel mezzo degli Stati Uniti d’America, e non in una remota landa della foresta pluviale brasiliana.
A chi volesse effettuare questo approfondimento consiglierei di leggere il libro di Jacques Légeret “Amish, una comunità fuori dal tempo” (Claudiana Editrice) e quello di Andrea Borella “Amish” (Xenia Edizioni). Nel web sono disponibili anche numerosi siti sull’argomento e qualche film (tra cui il famoso “Witness” del 1985).
Il quadro risultante è di estremo interesse.
Innanzitutto, i numeri. Stiamo parlando di una popolazione di oltre 300 mila individui, distribuita in decine di Stati USA. La gran parte in Indiana, Ohio e Pennsylvania (qui si trova uno dei nuclei più consistenti, nella contea di Lancaster, a soli 250 km. da New York).
Non sono numeri eclatanti, ma sufficienti a far ritenere gli Amish qualcosa di ben diverso da un semplice fenomeno di costume. Il loro tasso di crescita demografica, oltretutto, è assai elevato, uno dei maggiori in assoluto: ogni coppia Amish mette al mondo una media di 7 – 8 figli.
Ma che non si tratti di un semplice fenomeno di costume lo testimonia anche tutta la storia degli Amish che affonda le sue origini nell’Europa di fine XVII secolo e, ancor prima, nel movimento anabattista del XVI secolo.
Non è il caso qui di scendere nei dettagli di queste origini, basti dire che l’anabattismo nacque dal rifiuto di elargire il battesimo ai neonati, riservando la celebrazione di questo sacramento ai soli adulti consenzienti.
Al giorno d’oggi, nella nostra società secolarizzata, questa controversia può apparire banale, ma all’epoca fu sufficiente a scatenare una vera e propria persecuzione contro i sostenitori di questa tesi (e di altre, tra cui l’egualitarismo e il disconoscimento delle autorità ecclesiastiche) e contro i vari movimenti che nacquero dalle scissioni prodottesi in seno all’anabattismo.
Una di queste, promossa da un vescovo svizzero di nome Jacob Ammann, diede vita al movimento Amish.
I seguaci Ammann, come quelli di Menno Simons (i Mennoniti), per sfuggire alle persecuzioni emigrarono a partire dal 1720 nel Nuovo Mondo, quell’America che era ancora una colonia inglese, ma nella quale vi erano enormi spazi in cui insediarsi.
Negli anni successivi l’ondata migratoria proseguì, al punto che in Europa non rimase nessun Amish.
Nelle nuove terre, il movimento si mantenne coeso, conservando tutta una serie di tradizioni religiose e sociali, a partire da una particolare lingua, il Pennsyilvania Dutch, sviluppatasi nell’America del XVIII secolo a seguito dell’immigrazione di decine di migliaia di persone di lingua tedesca.
La fonte principale di sostentamento di questo popolo è sempre stata l’agricoltura, attività nella quale gli Amish eccellono; nel praticarla utilizzano attrezzi e tecniche di secoli addietro e questa particolarità mi consente di introdurre l’argomento che vorrei maggiormente approfondire nel limitato spazio di un articolo, e cioè il rifiuto della modernità e del consumismo da parte degli Amish.
Per dissodare i campi usano un aratro trainato da un cavallo. “Per gli Amish soltanto il lavoro con il cavallo permette all’uomo di “rispettare” la terra, perché il trattore “schiaccia” troppo il suolo e non rispetta l’equilibrio divino.” (Jacques Légeret, cit., p. 129) Anche l’uso di fertilizzanti e pesticidi è ridotto al minimo. Ovunque possibile sono privilegiati i rimedi naturali.
Analogo discorso vale per tutte le altre attività produttive, relativamente alle quali gli attrezzi e le procedure manuali sono preferiti a quelli automatici.
Ma il rifiuto della modernità e della mondanità è ben più radicale, giunge a rigettare l’uso dell’elettricità pubblica. Per illuminare le case usano candele o lampade a olio o altri combustibili, per riscaldarsi accendono camini e stufe.
Se devono utilizzare per motivi particolari e inderogabili una fonte di energia elettrica, fanno ricorso a piccoli generatori autonomi che installano a una certa distanza dalla casa.
La mancanza del collegamento alla rete elettrica comporta il non utilizzo di televisione, radio e computer.
Ma la rinuncia a questi strumenti non è una questione puramente tecnica. In una delle periodiche riunioni per valutare l’impatto delle nuove tecnologie sulla vita della comunità, i maggiorenti Amish con potere decisionale tanti anni fa stabilirono che portare nelle case dei fedeli i messaggi della radio (e poi quelli della televisione, e poi ancora quelli di internet) avrebbe costituito un grave pericolo per la saldezza dei principi religiosi e morali del popolo Amish.
Essi temono i contatti con il mondo esterno, vedono come la vita degli “inglesi” (così chiamano gli americani e tutti gli altri stranieri) sia stressante, piena di preoccupazioni, banale, e cercano il più possibile di restarne lontani.
Non usano tutti quegli elettrodomestici e strumenti che funzionano con la corrente elettrica, dalla lavatrice alla lavapiatti, dall’aspirapolvere al frullatore, né quelli che funzionano con motore a scoppio, a iniziare dall’automobile fino alla gran parte degli strumenti agricoli.
La rinuncia all’automobile ha tanti significati: il non volersi allontanare dalla propria comunità, il dispregio per il mito della velocità, il non voler competere con chicchessia relativamente al modello di veicolo posseduto e così via.
Laddove vi sia una grave necessità di raggiungere luoghi lontani, gli Amish possono prendere il treno, l’autobus o un’auto a noleggio con conducente.
Conoscono le tecnologie più moderne e non escludono, in casi eccezionali, di farvi ricorso, ma non intendono utilizzarle nella quotidianità, ritenendosi soddisfatti di ciò che hanno e della vita che conducono.
Potrei elencare tante altre particolarità interessanti del popolo Amish, ma lo scopo di questo articolo è un altro, rispondere alla seguente domanda: è possibile esportare il modello sociale e comportamentale degli Amish in altri contesti, in modo da rallentare la folle corsa verso il disastro che contraddistingue la nostra era?
Gli Amish sono l’esempio di come sia possibile vivere bene consumando poco (e avendo quindi un’impronta ecologica assai leggera) nel bel mezzo del Paese più consumista del mondo.
Da noi e in tanti altri Paesi esistono movimenti che predicano la cosiddetta decrescita, ma hanno scarso seguito nonostante propongano uno stile di vita ben meno rigoroso di quello degli Amish.
Perché questa illogicità? A mio avviso i motivi sono due.
1) Il fattore religioso. Tutta la vita degli Amish ruota intorno alla fede in Dio, al rispetto delle tradizioni religiose ereditate dagli antenati e alla lettura e interpretazione della Bibbia condivise dalla comunità;
2) Il fattore sociologico. La rinuncia alle comodità offerte dal progresso tecnologico affrontata all’interno di un gruppo omogeneo di persone che parlano la stessa lingua, vestono i medesimi abiti e condividono le stesse abitudini, è più facilmente sostenibile di altre rinunce, magari più blande, ma da affrontare individualmente all’interno di una società che non le condivide.
Come fare dunque per convincere l’uomo contemporaneo a consumare meno e ad assumere uno stile di vita analogo a quello del popolo Amish?
Riportare in auge il vecchio Dio è impresa impossibile. Una volta che la ragione ha scalzato la fede, a quest’ultima rimane ben poca voce in capitolo e viene ascoltata da un numero sempre più ristretto di persone. Per mantenersi in vita, la fede deve scendere a compromessi continui, accettando le novità tecnologiche imposta dalla società dei consumi (con la solita scusa che non è lo strumento in sé a essere cattivo, ma l’uso che se ne fa …).
Dunque la ragione ha prevalso e l’“isola” Amish può sopravvivere proprio in quanto “isola”.
Ma l’assunzione di stili di vita meno consumistici non è un “optional”. Se vogliamo che la nostra specie (insieme alle altre) viva un po' più a lungo su questo pianeta, volenti o nolenti dovremo rinunciare a tanti gingilli tecnologici che oggi ci appassionano.
E se la riflessione individuale non è sufficiente a portarci in questa direzione, allora forse una teoria come il Cancrismo può aiutarci nell’intento.
Avere la consapevolezza di rappresentare per la biosfera una sorta di malattia, di disfunzione, può essere la molla in grado di far scattare in noi il desiderio di devastare meno l’ambiente e di preservare un po' di più la natura.
Ma questo è un altro discorso, da sviluppare in altra sede.

giovedì 11 giugno 2020

Una nuova speranza? Come evitare di andare in overshoot






Guest post di Jacopo Simonetta



Ci sono due cose che sono indispensabili agli umani per affrontare le difficoltà: avere una speranza e poter vedere un senso in ciò che accade, di conseguenza in ciò che si fa.

Viceversa, ostinarsi a vivere nelle proprie illusioni è esattamente ciò che può trasformare una crisi in una trappola mortale.

In fondo è esattamente questo che ci ha portati nella situazione attuale: ostinarci a credere che una qualunque combinazione di arrangiamenti tecnologici, politici, economici e culturali avrebbe potuto garantire ad un numero indefinito di persone di vivere un’eccellente e lunga vita, mentre la “Natura” prosperava tutto intorno a noi.

Eppure sappiamo molto bene da almeno 50 anni che non può essere così e anche perché. Sapevamo anche, approssimativamente, quando il collasso della nostra civiltà sarebbe cominciato e perché, ma i nostri sogni erano troppo più belli e quasi solo di questi si è parlato e tuttora si parla nei vari “Earth Summit”, COP x, y, z, eccetera. Questa, alla fin fine, è la causa del loro completo fallimento.

Ora che il temuto "Picco di tutto" è passato ed il conseguente collasso sistemico è cominciato (durerà a lungo, non mettetevi fretta), esiste ancora spazio per la speranza?

Secondo me si, ma solo a condizione di trovare un senso a ciò che accade e che accadrà e stavolta lo dobbiamo trovare nella realtà dei fatti e non nei sogni. La pandemia in corso può essere un buon punto di partenza.

Il Covid-19 ha infatti sparso il panico a tutti i livelli ed in praticamente tutti i paesi, ma non è tanto il virus di per sé a rappresentare un pericolo per l’umanità, mentre lo sono eccome il panico con le sue conseguenze economiche e politiche. In pratica, una malattia che probabilmente ucciderà alcune centinaia di migliaia, forse qualche milione di persone nel mondo, ha già innescato processi che rischiano di portarne alla tomba decine di milioni nel breve termine, forse miliardi nel giro di alcuni decenni. Come è stato possibile?

E’ accaduto perché alla fine del XVIII secolo una combinazione di eventi unica nella storia ha reso temporaneamente possibile una crescita economica, tecnologica e demografica che in due secoli ha surclassato di parecchi ordini di grandezza quella verificatasi nei 50.000 anni precedenti (cioè da quando è approssimativamente cominciata la diffusione planetaria della nostra specie).

Il risultato è stato esattamente quello a suo tempo previsto: il degrado delle risorse e dell’ambiente hanno condotto lo sviluppo economico in un vicolo cieco in cui siamo ora contemporaneamente minacciati dal collasso economico e da quello ecosistemico.

In estrema sintesi, una qualunque economia funziona come una pompa che aspira risorse dall'ambiente, ci fa qualcosa che poi riscarica nell'ambiente stesso. Maggiore è l’energia che possiamo applicare alla pompa, maggiore è la quantità di beni e servizi che si possono produrre, dunque maggiore è la popolazione che può vivere e maggiore è il livello tecnologico che si raggiunge. Questo, a sua volta, consente di aumentare i flussi di energia e di materia, dunque la produzione di beni e servizi che, alla fine, diventano comunque rifiuti e via di seguito.

Finché il sistema economico è piccolo rispetto alla Biosfera, il gioco funziona, ma via via che l’economia cresce, la qualità delle risorse si degrada e la disponibilità di servizi ecosistemici si riduce, mentre la popolazione aumenta.

Se una tendenza alla crescita eccessiva si trova in tutte le economie, il capitalismo ha fatto di questa il suo fondamento. Il sistema capitalista è infatti strutturato su una ridondanza di retroazioni positive, senza alcun freno al suo interno. Anzi, con efficaci sistemi per ritardare l’effetto frenante del degrado ambientale e della sovrappopolazione. I principali di questi sistemi sono lo sviluppo tecnologico, il debito e la globalizzazione. Il loro effetto combinato è stato amalgamare tutte le economie del mondo in un’unica mega-macchina spaventosamente efficace nell'estrarre risorse dalla Terra e produrre beni o servizi di ogni sorta, ma che funziona solo se riesce a mantenere un costante tasso di crescita dei flussi di merci, persone e denaro attraverso l’intero Pianeta. E' sufficiente che il tasso di crescita rallenti ed il sistema va in affanno. Se l'economia si contrae in misura significativa, come sta accadendo, entra in una crisi strutturale dai risultati del tutto imprevedibili perché le stesse retroazioni che auto-alimentano la crescita, possono auto-alimentare la decrescita. Detto in termini fisici, ciò che mantiene funzionale la rete economica globale è un tasso costante di aumento nella dissipazione di energia. Cosa che, alla fine, è la causa prima ed ultima del degrado del Pianeta con tutte le conseguenze del caso.

Nel nostro caso, abbiamo il problema ulteriore che la produzione industriale, anche di cibo, è efficiente solo entro una ristretta variazione dei flussi; se questi si riducono eccessivamente, la produzione si ferma del tutto. In pratica, possiamo produrre molto o nulla, non siamo attrezzati per il "poco" e questo rischia di rimbalzarci di colpo da una crisi di sovrapproduzione ad una di carenza.

Già molte società del passato hanno degradato il proprio ambiente fino a provocarne il collasso, ma finora il fenomeno era rimasto delimitato a specifiche regioni. L’energia dei combustibili fossili, e soprattutto del petrolio, ha invece permesso alla nostra civiltà di crescere fino a minare la struttura portante della Biosfera a livello planetario, scatenando fenomeni come la catastrofe climatica, l’estinzione di massa, l’alterazione di tutti i cicli bio-geo-chimici e molto altro ancora.

Tecnicamente, questa situazione si definisce “overshoot”. Un termine che in ecologia indica quando una determinata popolazione supera la “capacità di carico” del territorio in cui vive (solitamente indicata con “K”). Cioè quando la popolazione supera la capacità del territorio di sostentarla a tempo indeterminato. In pratica, lo possiamo considerare un sinonimo di “sovrappopolazione” perché, con buona approssimazione, se c’è sovrappopolazione, c’è degrado dell’ambiente e, di solito, viceversa.

Tuttavia, l’impatto delle popolazioni umane (solitamente indicato con “I”) non dipende solo dalla loro consistenza, bensì da una combinazione di fattori demografici, economici e tecnologici. Per poter parlare di sovrappopolazione, occorre poi tener conto anche dei fattori ambientali e di come questi variano in rapporto alla nostra presenza.

In pratica, siamo in overshoot ogni volta che I supera K:

I > K

Una condizione che non può durare a lungo perché, quali che ne siano le cause, quando una popolazione supera la capacità di carico, il suo habitat comincia a degradarsi, costringendo la popolazione stessa, prima o poi, a diminuire. E “prima o poi” è esattamente il punto su cui focalizzare l’attenzione perché “rientrare nei ranghi” è inevitabile, ma le cose possono andare molto diversamente a seconda di quanto tempo ci si impiega.

Se, infatti, il declino di “I” è più rapido del degrado del suo ambiente, si potrà tornare ad un relativo equilibrio abbastanza presto e ad un livello demografico elevato. Se, invece, il declino di “I” è più lento di quello di "K", lo stato di sovrappopolamento perdura a lungo e l’equilibrio non sarà raggiunto che più tardi e più in basso. Tanto più tardi e tanto più in basso quanto più a lungo la popolazione rimane in overshoot.




Figura 1 Se gli impatti diminuiscono più rapidamente della capacità di carico la popolazione si salva, altrimenti si estingue.

Questi due semplici grafici illustrano ad un tempo il senso di ciò che accade e quale deve essere la strategia per uscirne il prima ed il meglio possibile.

La diminuzione di “I” dipende infatti da una combinazione di declino demografico, riduzione dei consumi e della tecnologia. Tutto ciò comporta certamente sofferenze e morti, ma lungi da essere la malattia, è invece metà della medicina.

L’altra metà della cura è sostenere “K”, il che vuol dire, in sintesi, conservare/ripristinare il funzionamento degli ecosistemi e proteggere la biodiversità.
All'interno di questa meta-strategia rientrano infinite combinazioni di provvedimenti in tutti i campi che dovrebbero essere modulati in base alle molteplici situazioni locali, ma in ogni caso abbiamo una “pietra di paragone”:

Tutto ciò che contribuisce a ridurre I e/o a sostenere K ci avvicina ad una possibile salvezza; tutto il resto ce ne allontana.

Per esempio, su I si può agire riducendo i redditi eccessivi, la mobilità intercontinentale, i consumi di energia e di risorse primarie o la natalità; oppure abbandonando determinate tecnologie, per citare solo alcune azioni possibili che non sono però valide ovunque nella stessa misura. Per fare un esempio banale, in alcuni paesi è più urgente ridurre i consumi, mentre in altri la natalità.

Contemporaneamente, su K si può agire proteggendo boschi e paludi, o ampliando i parchi nazionali, rinaturalizzando porzioni di territorio (rewilding), fermando il consumo di suolo, eccetera. La rapidità con cui abbiamo visto piccoli, ma interessanti miglioramenti nonappena la quarantena ci ha costretti a ridurre temporaneamente il nostro impatto sostiene la speranza. Certo, la strategia non può essere quella di tenere metà dell’umanità agli arresti, ma abbiamo visto che la Biosfera non ha ancora esaurito la sua resilienza e questa è la migliore notizia che fosse possibile avere.

In estrema sintesi, la sostenibilità non è una scelta, bensì un'ineluttabile destino. La scelta è come arrivarci, ma i nostri gradi di libertà diminuiscono col tempo. Oramai le occasioni per evitare la fine della nostra civiltà le abbiamo lasciate passare, accecati dei nostri sogni; ora possiamo in una qualche misura governare il collasso, oppure continuare a bruciare tutto quello che ci rimane, sperando di riportare indietro le lancette della storia. Ci adatteremo comunque, ma lo possiamo fare in modo stupido, subendo i colpi del Fato senza capire; oppure attivamente, accettando l’inevitabile e cercando di portare la barca fuori dalla tempesta il prima possibile.

sabato 1 febbraio 2020

Aurelio Peccei precursore del Cancrismo?




Un Post di Bruno Sebastiani

Nel dibattito a più voci raccontato da Ugo Bardi in un recente post (registrazione reperibile su Youtube), il biologo Enzo Pennetta attacca le tesi di Bardi e del Club di Roma di cui è esponente rammentando, con tono accusatorio, come tale Club sia stato fondato da Aurelio Peccei “il quale definiva l’umanità un cancro del pianeta” (parole testuali).
Avendo io dedicato al Cancrismo tre miei libri e decine di articoli, ho rizzato subito le antenne e sono andato alla ricerca dei riscontri di tale affermazione.
Dapprima ho trovato in rete (nel sito “bastabugie.it”!) un articolo di Antonio Gaspari dal titolo: “Club di Roma, ieri la bomba demografica, oggi i cambiamenti climatici, ma il nemico è sempre lo stesso: l'umanità”, sottotitolo “Un Club poco raccomandabile”.
Nel mio libro “Il Cancro del Pianeta” (Armando Editore, Roma 2017, pp. 180-181) mi ero già imbattuto nel Gaspari, cattolico intransigente e antiambientalista a tutto campo, il quale ebbe l’infelice idea di scrivere un libro su “Le bugie degli ambientalisti” prima dell’emanazione dell’enciclica “Laudato sì”, nella quale papa Francesco confermava tutte le preoccupazioni degli ambientalisti sullo stato di salute del pianeta.
Ma, tralasciando questo “incidente di percorso” del Gaspari, nell’articolo sopra citato egli accusa Peccei in base a due sue affermazioni:
Fu lui a coniare il termine ‘uomo cancro del pianeta’ e per questo venne spesso indicato come ‘profeta di sventure’. Nel suo libro ‘Cento pagine per l'avvenire’ Peccei ha scritto dell'umanità che ‘Si tratta di una proliferazione esponenziale che non si può definire che cancerosa....’ e in un intervista a la Repubblica del 31 dicembre 1980, il fondatore del Club di Roma sentenzia ‘Gli uomini continuano a vivere sul pianeta come i vermi sulla carogna: divorandola. Sanno che alla fine moriranno, ma continuano a divorarla’”.
Poi l’ira del Gaspari si estende a tutto il Club di Roma.
Senza pudore, nel report ‘The First Global Revolution’ del 1991 il club di Roma racconta: ‘Cercando un nuovo nemico contro cui unirci, pensammo che l'inquinamento, la minaccia dell'effetto serra, della scarsità d'acqua, delle carestie potessero bastare... Ma nel definirli i nostri nemici cademmo nella trappola di scambiare i sintomi per il male. Sono tutti pericoli causati dall'intervento umano... Il vero nemico, allora, è l'umanità stessa’
Per quanto riguarda la primogenitura del termine “uomo cancro del pianeta” credo che la questione sia aperta e attendo contributi da parte dei lettori. Per parte mia so che nel 1954 Alan Gregg ne parlò al meeting annuale dell’American Association for the Advancement of Science (AAAS) e Emile Cioran nel suo libro “L’inconveniente di essere nati” del 1973 scrisse: “Alberi massacrati. Sorgono case. Facce, facce dappertutto. L’uomo si estende. L’uomo è il cancro della terra.”
Il testo di Peccei è del 1981; ignoro se avesse ipotizzato la metafora incriminata in scritti o discorsi precedenti. Ma il problema non è la primogenitura della medesima, bensì in che contesto, con quali accezioni e in che termini Peccei ne abbia parlato.
Per approfondire la questione sono andato alla fonte, leggendo il libro citato (“Cento Pagine per l’Avvenire”, del 1981, ristampato nel 2018 da Giunti Editore) e uno precedente, “La qualità umana”, del 1976, ristampato nel 2014 da Lit Edizioni.
Non sono riuscito a rintracciare l’intervista del 31 dicembre 1980 su Repubblica, in quanto l’archivio digitale di questo giornale decorre dal 1984.
Dirò subito che debbo ringraziare Enzo Pennetta e Antonio Gaspari per avermi fatto scoprire la grande anima inquieta di Aurelio Peccei.
Essi certamente non hanno letto i suoi scritti, ché altrimenti si sarebbero resi conto dello spessore umano e culturale degli stessi e non li avrebbero liquidati spregiativamente come hanno fatto.
Ma iniziamo la disamina da quella che è stata l’accusa che mi ha indotto ad approfondire la questione, e cioè l’aver descritto l’uomo come cellula tumorale maligna della biosfera.
Effettivamente a pag. 66 della nuova edizione di “Cento Pagine per l’Avvenire” vi è un paragrafo dal titolo “Metastasi cancerosa della popolazione”. Al di là di questa definizione, che si riferisce al fenomeno della sovrappopolazione, a mio avviso vi sono altri punti in cui Peccei è stato maggiormente tentato da quella folgorazione intellettuale secondo cui la nostra specie, lungi dal costituire il punto più elevato del processo evolutivo, rappresenta un errore del medesimo.
È dunque in uno slancio di creatività eccezionale o in un momento di smarrimento che la Natura produce la sua ultima grande specie, quella cui abbiamo dato il nome di homo sapiens? È questi il suo capolavoro, o invece non è che un refuso sfuggito al controllo della selezione immediata, oppure ammesso con la condizionale nel grande flusso della vita?” (ivi, p. 56)
Come non ricordare su questo tema quanto ebbero a scrivere Goethe, Dostoevskij e Nietzsche?
Il piccolo dio del mondo (l’uomo, n.d.a.) […] vivrebbe un po’ meglio se tu (Dio, n.d.a.) non gli avessi dato il riflesso della luce celeste, ch’egli chiama ragione e usa soltanto per essere più bestia di ogni bestia.” (J.W. Goethe, Faust, Prima parte, Prologo in cielo)
“[…] aver coscienza di troppe cose è una malattia, una vera e propria malattia. Per i bisogni dell’uomo sarebbe d’avanzo una comune coscienza umana, ossia la metà, la quarta parte di quella che tocca a un uomo evoluto del nostro infelice diciannovesimo secolo […] sono fermamente convinto che non soltanto una coscienza eccessiva, ma la coscienza stessa è una malattia.” (F. Dostoevskij, Ricordi dal sottosuolo, Milano, Rizzoli, 1975, p. 25)
Temo che gli animali vedano nell’uomo un essere loro uguale che ha perduto in maniera estremamente pericolosa il sano intelletto animale: vedano cioè in lui l’animale delirante, l’animale che ride, l’animale che piange, l’animale infelice.” (F. Nietzsche, La gaia Scienza, aforisma 224)
Pennetta e Gaspari intendono sbarazzarsi in modo sbrigativo e superficiale anche di questi tre colossi del pensiero? O di fronte alle loro affermazioni sono disposti a riconsiderare i propri giudizi? Ma non è questo l’argomento che intendo trattare.
Vorrei invece far notare che le frasi di Peccei sopra riportate terminano con un punto di domanda e sono seguite da una frase che, se non rappresenta una assoluzione con formula piena per il genere umano, ne è quantomeno una assoluzione con formula dubitativa:
Io propongo tuttavia di dare provvisoriamente un giudizio a favore dell’uomo, tenendo conto che un milione di anni è probabilmente un periodo troppo corto, in confronto ai cicli dell’evoluzione, per trarre conclusioni definitive.” (A. Peccei, Cento pagine per l’avvenire, cit. p. 56)
Più avanti Peccei torna a parlare della possibile nocività di Homo sapiens, ma sempre all’interno di frasi rette da verbi al condizionale e costruite in forma dubitativa.
Già ci siamo chiesti se l’Homo sapiens, rispetto al maestoso fluire dell’evoluzione, non rappresenti, tutto considerato, un fenomeno deviante; se non sia un capriccio della Natura, o un tentativo ambizioso andato male, un errore di fabbricazione che gli aggiustamenti che assicurano il rinnovarsi della vita si incaricheranno a tempo debito di eliminare o di rettificare in qualche modo.” (ivi, p. 66)
Le nostre capacità tecniche ci hanno forse posti su un piedistallo troppo alto? Siamo per caso una specie di geni […] O al contrario […] non ci siamo forse trasformati in mostri […] che finiranno per restare vittime del loro stesso malsano operare? Visto il caos formidabile che abbiamo creato, è difficile difendere la tesi del genio. La tesi opposta […] non si può invece escludere così facilmente. […] Questo carattere farebbe parte del suo codice genetico [che] lo condannerebbe quindi a continuare la sua epopea imperiale e sanguinosa […] l’uomo non avrebbe alcuna possibilità di sfuggire al giogo della sua intelligenza unica, che gli dei o il caso hanno tuttavia voluto cieca.” (ivi, pp. 80-81)
Frasi pesanti come macigni, frammiste a tante altre che denotano l’eccezionale irrequietudine intellettuale di Aurelio Peccei.
Ma sempre seguite da una nota di speranza.
Pur riconoscendo che questa tesi ha dei punti validi, io sono portato a dare una risposta meno pessimista a questi interrogativi cruciali sulla natura e sul destino dell’uomo. La condizione umana è grave, ma può essere migliorata – a certe condizioni.” (ivi, p. 81
È un apprendistato difficile quello che ci aspetta […] reso ancor più arduo dal fatto che il tempo gioca inesorabilmente contro di noi. Ma da qui a dire che l’essere umano è modellato geneticamente in modo tale da non poter cambiare e che di conseguenza si condanna da solo, il passo è grande. L’uomo può salvarsi; sta a noi trovare il modo.” (ivi, p. 82)
E anche seguite dalla consapevolezza delle difficoltà che ci aspettano:
“[…] l’umanità dovrà compiere uno sforzo supremo, eroico, lottare psicologicamente contro se stessa.” (ivi, p. 177)
Di questi sforzi supremi, eroici, tutta la vita di Aurelio Peccei è costellata. Già mentre ricopriva importanti incarichi in primarie aziende (dalla Fiat alla Olivetti, di cui fu amministratore delegato) contribuì alla nascita di associazioni, fondazioni, organizzazioni tutte rivolte ad accrescere nell’umanità la consapevolezza della necessità di un cambiamento radicale di direzione. Leggendo i libri citati ci si può rendere conto di quanto vasta e multiforme sia stata l’opera di Peccei in tal senso. “La Qualità Umana”, in particolare, è una sorta di autobiografia.
Al termine della sua attività lavorativa “ufficiale” poté dedicarsi a tempo pieno a questa missione, il cui esito principale fu la nascita del Club di Roma, con la pubblicazione del primo storico rapporto su “I Limiti dello Sviluppo” e di quelli editi negli anni successivi.
In questa enorme mole di attività si può peraltro intravvedere il dilemma che per tutta la vita deve aver assillato l’animo di questo grande uomo.
Egli fu dirigente industriale, apprezzò la serietà e l’efficienza delle più qualificate imprese private, soprattutto se poste a confronto con l’inefficienza di tanta amministrazione pubblica. Deprecò il fatto che il governo del mondo fosse frantumato in un numero eccessivo di nazioni ed auspicò un nuovo ordine mondiale basato su autorità sovranazionali in grado di aiutare il genere umano a superare le difficoltà economiche e produttive sempre più diffuse.
Avrebbe voluto che amministratori dotati di un’efficienza di tipo “privatistico” governassero il pianeta in modo da sanare tutte le storture esistenti. A pag. 187 di “Cento Pagine per l’Avvenire” fornisce una serie di esempi: la conservazione dell’ambiente; la sradicazione della fame e della malnutrizione, la realizzazione di valide politiche multinazionali dell’energia e di pianificazioni planetarie intersettoriali.
Ma certamente non gli sfuggiva il fatto che questi interventi migliorativi della condizione umana avrebbero comportato, se realizzati, un aumento dei consumi e una ulteriore erosione delle risorse già abbondantemente saccheggiate.
Per tale motivo pose vigorosamente l’accento sulla necessità di ridurre drasticamente la pressione demografica, tema ampiamente ripreso nel Rapporto su “I Limiti dello Sviluppo”.
Auspicò una riconciliazione dell’essere umano con l’ambiente: “A mio giudizio il vero fine dell’avventura umana è di arrivare a creare un mondo in cui le migliori qualità umane possano svilupparsi appieno, in un clima di comprensione reciproca e di simbiosi con la Natura.” (ivi, p. 210, da notare l’uso costante della N maiuscola per il sostantivo natura).
Accanto a questo encomiabile auspicio considerò sempre centrale il ruolo dell’uomo nella biosfera, e quindi rimase saldamente antropocentrico.
L’uomo deve cambiare per poter rimanere al centro della ribalta: “Un modo di pensare fondamentalmente nuovo è indispensabile. Per salvare l’uomo, esso deve trasformarlo, metterlo in condizione di far fronte agli imperativi del nostro tempo […] solo un nuovo umanesimo può compiere il quasi miracolo della rinascita spirituale dell’uomo.” (ivi, pp. 218-219)
Se l’uomo può trasformarsi -pur con difficoltà- in senso positivo, non può essere assimilato a una cellula maligna della biosfera, e Peccei non può essere ascritto alla schiera dei precursori del Cancrismo.
Cionondimeno egli prese attentamente in considerazione l’idea del nostro intelletto come causa dello squilibrio del mondo naturale. I brani qui riportati sono del 1981, e gli anni ’80 dello scorso secolo sono indicati in più di un passaggio come decisivi ai fini del cambiamento di rotta.
Sarebbe interessante sapere se Peccei a quarant’anni di distanza avrebbe mutato la sua opinione sulle possibilità di trasformazione dell’essere umano, tenuto conto che in tale lasso di tempo nessuna modifica migliorativa è intervenuta, ma anzi la distruzione della Natura è ampiamente proseguita.
Ciò ovviamente non si potrà mai sapere, essendo il nostro autore morto nel 1984.
Ma un interessante parallelo può essere fatto con quanto dichiarato nel 2012 alla rivista Format da Dennis Meadows, il coordinatore del Gruppo di Lavoro del MIT che redasse nel 1972 -su incarico del Club di Roma- il rapporto su “I Limiti dello Sviluppo”.
Ecco alcuni passi di quella intervista dal titolo significativo: “Non possiamo più fare niente”:
MEADOWS: Supponiamo di avere il cancro e che questo cancro causi febbre, mal di testa ed altri dolori. Non sono questi il problema reale, è il cancro il problema! Comunque, proviamo a curarne i sintomi. Nessuno spera di sconfiggere il cancro con quelle cure. I fenomeni come il cambiamento climatico o le carestie sono semplicemente sintomi della malattia di questo pianeta, il che ci riporta inevitabilmente alla fine della crescita.
FORMAT: Il cancro come metafora della crescita incontrollata?
MEADOWS: Sì. Le cellule sane ad un certo punto smettono di crescere. Le cellule cancerose proliferano finché non uccidono l’organismo. La popolazione e la crescita economica si comportano nello stesso modo.”
Anche Peccei si sarebbe convertito ad una siffatta teoria? La sua vicinanza con Meadows è fuori discussione e in questi ultimi quarant’anni non si è realizzata alcuna delle aspettative “salvifiche” ipotizzate dal Club di Roma. L’Impero dell’uomo (termine più volte usato da Peccei) sta sprofondando sempre più in basso (a questo tema è dedicato il mio libro di prossima pubblicazione “L’Impero del Cancro del Pianeta”).
L’avventura umana di Peccei mi ricorda quella di un altro grande visionario, il già citato Alan Gregg (1890 – 1957). Costui operò nella Fondazione Rockefeller con incarichi di grande responsabilità, fino a ricoprirne la carica di vice-presidente. Nel corso della sua vita portò aiuti a tutte le popolazioni bisognose, salvo poi, in tarda età, ipotizzare che l’essere umano devasti la biosfera come le cellule tumorali distruggono i tessuti sani dell’ammalato di cancro. E, in occasione del convegno su “I problemi della popolazione” tenutosi a Berkeley, in California, il 28 dicembre 1954, ebbe anche a dire: “Le crescite cancerose richiedono nutrimento; ma, per quanto ne so, non sono mai state curate dandoglielo”, smentendo così il senso di tutta l’attività da lui svolta nel corso della sua vita. (Il testo completo della relazione è consultabile nel blog de Il Cancro del Pianeta).
Peccei non fece mai una simile ritrattazione e continuò sempre a coltivare la speranza del cambiamento. Rimane il dubbio di come avrebbe potuto evolvere il suo pensiero alla luce di quanto accaduto (o meglio di quanto non accaduto) nei decenni successivi alla sua morte.

martedì 10 dicembre 2019

Ballando nudi nel campo del sapere




«I poeti affermano che la scienza distrae dalla bellezza delle stelle – semplici globi di gas. Anche io riesco a vedere le stelle in una notte nel deserto e sentire la loro magia. Ma vedo più o meno cose?» – Richard Feynman.


Un post di Fabio Vomiero


Non che l'eccentrico inventore della tecnica PCR (Polymerase Chain Reaction) Kary Mullis, purtroppo recentemente scomparso, fosse l'emblema della razionalità, del resto uno scienziato che crede negli oroscopi, sostiene di essere stato rapito dagli alieni, propone tesi complottistiche contro la causa virale dell'AIDS, senza peraltro nascondere di avere fatto un uso abituale di LSD, non può certamente rappresentare la migliore icona del ragionamento scientifico.

Tuttavia, la parafrasi del titolo di un suo interessante e fortunato libro1, così come l'impareggiabile efficacia di uno dei più grandi fisici del secolo scorso in una sua affermazione riportata nel sottotitolo, appaiono estremamente promettenti nell'introdurre il tema di questa breve riflessione.

Proveremo infatti a parlare di questioni, come quelle del sapere e della conoscenza, che da sempre hanno appassionato e diviso schiere di pensatori, filosofi e scienziati e che oggi, come ieri, faticano ancora a trovare una giusta collocazione logica all'interno di uno scenario teorico ed epistemologico completo e condiviso.

Ma cominciamo allora con il considerare alcune situazioni sociologiche abbastanza emblematiche.

Primo, in Italia con il termine "cultura" si intende in generale un sapere prevalentemente di tipo umanistico e questo è evidente, si provi soltanto a pensare all'iconografia del cosiddetto "intellettuale" e ci si troverà di fronte a un giornalista tuttologo, a un letterato scrittore, a un filosofo, al massimo a uno storico dell'arte; è molto più facile e immediato, infatti, pensare a un Massimo Cacciari o a un Vittorio Sgarbi come prototipo di "intellettuale", piuttosto che a un Alberto Redi o a un Edoardo Boncinelli, circoscrivendo così, di fatto, l'intellettualità alla filosofia, alla letteratura o all'arte. Così come è molto più probabile che uno studente di scuola secondaria conosca perfettamente l'opera di Omero piuttosto che conoscere sufficientemente il metabolismo e la funzione dei nutrienti o come funziona un antibiotico. Un tipo di orientamento cognitivo, questo, peraltro molto comune e ben radicato nelle società contemporanee, che è l'esatta espressione di un rapporto tra scienza e umanesimo quantomeno problematico, tanto che lo scienziato e scrittore Charles P. Snow ne aveva efficacemente discusso nel suo libro Le due culture già alla metà del secolo scorso.

Secondo, siamo generalmente così pieni di pregiudizi, di credenze, di miti e di falsa conoscenza derivata dalle fake, dal passaparola e dal sentito dire, che poi diventa sempre molto difficile riuscire a sgomberare adeguatamente la mente per ottenere quella predisposizione intellettuale necessaria a rimettere in discussione le nostre convinzioni, molto spesso sbagliate.

Terzo, appare abbastanza evidente come negli ultimi decenni si sia diffusa una sorta di ingiustificata e paradossale diffidenza nei confronti del sistema scienza per tutta una serie di ragioni che andrebbero meglio approfondite.

Quarto, i principali responsabili di questa artificiosa e inutile divergenza tra scienza e umanesimo, resa evidente in particolar modo a partire dalla fine dell'Ottocento, sono proprio gli umanisti stessi, i quali, preoccupati della crescente pervasività del sapere scientifico, hanno cercato di difendere con i denti il loro "bunker" di isolamento culturale. Basti pensare soltanto a quanti umanisti in media si interessino costruttivamente anche di scienza, pochissimi, e a quanti scienziati invece si dedichino comunemente anche a materie umanistiche e artistiche, praticamente tutti.

Bene, ma se qualcuno non dovesse essere ancora troppo convinto da questa breve e sommaria analisi, cominci allora a guardarsi un po' in giro con una certa curiosità analitica, cercando di raccogliere qualche dato concreto e significativo. Magari provando a considerare quante persone credano ancora negli oroscopi o "frequentino" in qualche modo maghi, guaritori, maestri di vita e millantatori di ogni tipo, o quante altre persone credano ancora nel creazionismo, nell'omeopatia, o riescano a fare soltanto una rapida e corretta analisi costi-benefici oppure una valutazione grossolana di un rischio in base al calcolo delle probabilità, o semplicemente a come siano strutturati i palinsesti televisivi e le testate dei giornali, o quali ancora siano le materie preferite nelle scuole e gli argomenti trattati dai saggi nelle librerie, o per esempio ancora, quanti concorrenti nei giochi a quiz scelgano per prime, o meno, le domande di scienza rispetto alle altre.

Va da sè, che una desolante e per certi versi paradossale prospettiva di questo tipo significa soltanto una cosa: tra due possibili modi di pensare, di ragionare e di guardare al mondo, l'uno istintivo, rapido, emotivo, superficiale, facile, e l'altro riflessivo, razionale, critico, esigente, spesso difficile e controintuitivo, tipico della scienza, si continua a preferire prevalentemente il primo e a ignorare il secondo.

Ecco qual è il problema.

La cultura che si respira e che si insegna nel nostro Paese infatti non aiuta molto. Famiglia, scuola e società, continuano a galleggiare, senza nemmeno rendersene conto, al di sopra di un pericoloso substrato di antiscientificità che genera incoscienza, e l'incoscienza si sa, conduce spesso verso i disastri. Viviamo nel mito del passato con una tale ossessione e spreco di energie intellettuali, da non preoccuparci nemmeno troppo per il presente e soprattutto per il futuro, come ci ricorda saggiamente anche l'architetto Renzo Piano quando afferma che «Il passato è un ottimo rifugio, ma il futuro è l'unico posto dove possiamo andare».

Non ci piace affatto, infatti, l'idea eraclitea del cambiamento, che peraltro è nella natura di tutte le cose e di tutti i processi biotici e abiotici del mondo, perchè possiamo sentirci al sicuro solamente quando le cose sono per sempre, come il diamante della pubblicità o come il greco al liceo, che, si usa pontificare, serve per "aprire" la mente, nonostante nessuno abbia ancora mai fornito uno straccio di prova, naturalmente, per mostrare che effettivamente studiare il greco "apra" di più la mente dello studiare la musica, la matematica, una materia scientifica o una seconda lingua.

E veniamo alla filosofia, questa forma del sapere sicuramente interessante, ma che, per sua natura, non può che essere comunque sempre al centro di un dibattito epistemologico infinito, non privo di venature ideologiche. L'ultimo attacco, soltanto qualche mese fa ad opera dello scienziato Edoardo Boncinelli con il suo La farfalla e la crisalide3, un'analisi critica ben strutturata e argomentata, che segue peraltro da vicino il pensiero di tutta una lunga lista di altri scienziati tra i quali i fisici Lawrence Krauss, Stephen Hawking, Leonard Mlodinow, Neil Tyson, il premio Nobel Steven Weimberg, il biologo Richard Dawkins e il già citato Richard Feynman, solo per fare qualche esempio.

Nessuno mette in dubbio che la filosofia, infatti, possa essere quella caratteristica peculiare dell'essere umano che, essendo più di ogni altra, espressione di un elevato livello di autocoscienza, ci distingue certamente, insieme al linguaggio articolato, dai nostri cugini primati.

Solo che, probabilmente, sarebbe il caso che la filosofia, una volta mutati i contesti storici e sociali, cominciasse finalmente a ridefinire anche sè stessa e soprattutto i suoi limiti, tenendo conto anche del fatto che, in realtà, tutti noi facciamo normalmente della filosofia, per dirla con Antonio Gramsci.

Il problema quindi non è la filosofia, ma la scienza, semmai, è questa la complessa e particolare attività cognitiva umana, ancora semisconosciuta ai più, che dovrebbe invece essere studiata e in qualche modo finalmente capita per poter fare una reale differenza. Ricordando inoltre che il fare scientifico moderno, sempre più operativamente orientato verso un linguaggio plurale e interdisciplinare, valuta, seleziona e utilizza certamente tutta la filosofia che serve, concetto questo che potrà anche essere sgradito a molti filosofi, ma che, se vogliamo, trova invece la sua legittimazione logica proprio in un semplice sillogismo aristotelico: se la scienza è prima di tutto un'attività cognitiva umana, e gli esseri umani sono anche filosofi, allora la scienza è anche filosofia.

Anche la scienza, infatti, è prima di tutto stupore e meraviglia, con buona pace di Aristotele e Platone.

La scienza sperimentale, inoltre, che peraltro si è evoluta proprio dal pensiero filosofico naturale, non è aridamente e cinicamente soltanto tutto ciò che è matematizzabile, computabile e prevedibile in dettaglio come tendono a sostenere alcuni filosofi della scienza, perchè se così fosse, bisognerebbe considerare scienza soltanto la matematica e la fisica classica, escludendo, di fatto, perlomeno la meccanica quantistica, i sistemi complessi, le bioscienze e tutti quei territori di indagine scientifica, che anche Galileo ignorava, in cui bisogna necessariamente fare i conti con la gestione dell'incertezza e dell'indeterminazione e per i quali, effettivamente, manca ancora una teorizzazione epistemologica adeguata e condivisa.

Del resto è abbastanza ovvio che anche nella scienza ogni osservazione, ogni dato e ogni modello, dovranno essere in qualche modo sempre vagliati all'interno di un complesso ambito procedurale fatto anche di interpretazioni e di contesti teorici stratificati culturalmente.

Se uno scienziato non fosse anche una sorta di filosofo allora sarebbe meglio che cambiasse mestiere, non essendo nemmeno immaginabile che fisici teorici o biologi evoluzionisti possano lavorare tranquillamente senza essersi mai interrogati sul perchè l'universo sia fatto in un certo modo piuttosto che in un altro, o su che cosa siano la vita e la coscienza, oppure semplicemente sull'essenza del nostro essere, chi siamo, da dove veniamo, eccetera, eccetera.

E inoltre, come è possibile che alcuni filosofi insistano nell'assegnare alla filosofia un valore epistemologico superiore a quello della scienza, quando è così evidente che all'interno del pensiero filosofico, a differenza del sapere scientifico, può essere vero tutto e il contrario di tutto.

Basti soltanto guardare alla storia della filosofia o ai banali dibattiti filosofici contemporanei per rendersene subito conto. Su questo, pare essere d'accordo persino un filosofo e teologo come Vito Mancuso: «Se c'è un insegnamento che è possibile trarre dai duemilacinquecento anni di storia della filosofia è che l'esercizio rigoroso della ragione filosofica ha condotto a differenti e contrastanti risultati»4. Certo, e non potrebbe essere altrimenti visto che la filosofia, da sempre, si caratterizza proprio per essere un terreno di disputa più che di consenso.

La realtà è che «La filosofia è vuota senza la scienza», come sostiene giustamente il matematico "intellettuale" Piergiorgio Oddifreddi5, o perlomeno, rischia fortemente di esserlo, e se fino a circa quattrocento anni fa potevamo avere l'alibi di non saperlo, ora non più. Di conseguenza, anche tutto il discorso legato al mito autopoietico dell'insegnamento del pensiero critico proprio attraverso lo studio della filosofia, viene logicamente a decadere proprio in virtù di un'analisi critica verso quella stessa fonte (la filosofia) che dovrebbe in realtà generarlo e alimentarlo (il pensiero critico).

E poi, francamente, che cosa ci vuole a essere critici nei confronti di pensieri filosofici di secoli o millenni fa, quando si era praticamente ignoranti su tutto; non si conoscevano le principali leggi fisiche e la loro validità universale (isotropia e omogeneità dello spaziotempo), non si sapeva di che cosa fossero fatte la materia e l'energia, non si sapeva praticamente nulla di biologia, di neuroscienze, di relatività, di meccanica quantistica.

Si provi piuttosto a formulare delle critiche logicamente e formalmente corrette, in un senso o nell'altro, nei confronti di complessi temi scientifici, ma non solo, come l'origine della vita, l'evoluzione biologica, gli OGM, i vaccini, i cambiamenti climatici, la questione energetica, la crisi ambientale, la nutrizione umana, la situazione demografica e socioeconomica internazionale.

Ecco perchè oggi, più che mai, è indispensabile conoscere scientificamente il mondo, come ci ricorda anche il filosofo americano James Flynn quando afferma che «E` un privilegio essere alfabetizzati in un'età scientifica»6, perchè, piaccia o non piaccia, è proprio su questi temi che prima o poi si deciderà il nostro futuro.

Con il linguaggio della matematica si impara la logica formale e con lo studio delle scienze si impara invece a ragionare in maniera corretta basandosi principalmente sui dati scientifici, sulle prove e sull'evidenza, nonchè, certamente, sull'esercizio metodico della ragione, che, a questo punto, non è più il criterio esclusivo della filosofia.

Altro che scientismo.

Infine, c'è la conoscenza che deriva dalle sfere teologico-religiose, certamente rispettabile, ma che diventa anche evidentemente discutibile nel momento stesso in cui questa particolare modalità di situazione cognitiva rischia di annullare completamente il pensiero critico e impedisce al ragionamento di mantenere una certa razionalità. In questo caso, infatti, ci troviamo di fronte a una forma di conoscenza che non può nemmeno essere confrontata con quello che ci insegna il metodo scientifico. Una conoscenza con pretesa di Verità Assoluta, che deriva e si accetta per Rivelazione da parte di un'Entità inconoscibile, indescrivibile o soltanto inimmaginabile da ogni possibilità di indagine e di esplorazione scientifica.

Ammesso poi che sia logicamente legittimo parlare di Verità Assoluta anche al di fuori dell'unico contesto in cui probabilmente è possibile farlo, e cioè all'interno del perimetro ben delimitato di un codice arbitrario e artificioso inventato dall'uomo come il linguaggio, matematico o letterario che sia.

Ecco perchè il credo religioso, così come molta filosofia, a differenza della ricerca di intersoggettività da parte dell'attività scientifica, implicano necessariamente un atto di fede e godono pertanto di un'autonomia che, evidentemente, non può che essere di tipo personale.




Bibliografia:

1) Mullis, L.1998. Ballando nudi nel campo della mente, Baldini Castoldi Dalai.

2) Snow, L.1959. Le due culture, Feltrinelli.

3) Boncinelli, L.2018. La farfalla e la crisalide, Cortina.

4) Mancuso, L.2011. Io e Dio, Garzanti

5) Odifreddi, L.2009. Il matematico impenitente, TEA.

6) Flynn, L.2013. Osa pensare, Mondadori Università.




venerdì 29 novembre 2019

Un monumento enigmatico



Di Bruno Sebastiani


Negli Stati Uniti, in Georgia, esiste un monumento che merita di essere descritto e interpretato. Si tratta delle “Georgia Guidestones” o “Pietre Guida della Georgia”, da qualcuno ribattezzato la Stonehenge americana.

Il riferimento è al sito devozionale neolitico che si trova in Inghilterra e la cui costruzione risale ad un periodo compreso tra il 3100 e il 1600 a.C.


Al contrario, le Pietre della Georgia sono recentissime, hanno meno di 50 anni.

Nel 1979 un signore, sotto lo pseudonimo di R.C. Christian, commissionò a una ditta di Elberton la realizzazione della struttura. La scelta del luogo dipese dal fatto che Elberton, capoluogo della contea di Elbert, è considerata la “capitale del granito” degli Stati Uniti. Quanto allo pseudonimo pare che sia stato un tributo al fondatore del rosacrocianesimo, Christian Rosenkreuz, del XIV secolo.

Il monumento, inaugurato nel marzo 1980, consta di un pilastro al centro e quattro lastre rettangolari alte quasi sei metri attorno a forma di "X", con una lastra di copertura appoggiata al pilastro e alle lastre.
Un foro posto nel pilastro centrale consente di individuare la stella polare, mentre una fessura inquadra il sole nascente durante i solstizi e gli equinozi.
Un altro foro, ricavato nella pietra orizzontale, a mezzogiorno preciso fa entrare un raggio di sole, che, riflettendosi sul pilastro centrale, indica il giorno dell’anno.
Per realizzare l’opera fu necessario l’intervento di un astronomo che indicò come orientare correttamente le pietre secondo il percorso del sole durante l’anno.
Ma l’elemento di maggior interesse non è la funzione astronomica del monumento, bensì il “decalogo” inciso in otto lingue (inglese, spagnolo, swahili, hindi, ebraico, arabo, cinese e russo) sulle quattro grandi lastre verticali, e cioè:
1.     Mantieni l'Umanità sotto 500.000.000 in perenne equilibrio con la natura.
2.     Guida saggiamente la riproduzione, migliorando salute e diversità.
3.     Unisci l'Umanità con una nuova lingua viva.
4.     Domina passione, fede, tradizione e tutte le cose con la sobria ragione.
5.     Proteggi popoli e nazioni con giuste leggi e tribunali imparziali.
6.     Lascia che tutte le nazioni si governino internamente, e risolvi le dispute esterne in un tribunale mondiale.
7.     Evita leggi poco importanti e funzionari inutili.
8.     Bilancia i diritti personali con i doveri sociali.
9.     Apprezza verità, bellezza e amore, ricercando l'armonia con l'infinito.
  1. Non essere un cancro sulla terra, lascia spazio alla natura, lascia spazio alla natura.


La struttura del monumento è stata progettata per resistere agli eventi più catastrofici che potrebbero abbattersi sulla Terra e i dieci “comandamenti” hanno la funzione, nell’intendimento di chi li ha scritti, di indicare la via per costruire un mondo nuovo, una civiltà che non finisca per autodistruggersi (nel 1979 l’ipotesi di un conflitto nucleare non appariva tanto remota, e per la verità non lo è neppure oggi).
Ai bordi della pietra sommitale c’è inciso un messaggio scritto in quattro lingue morte (babilonese, greco antico, sanscrito, e geroglifici egiziani) che recita: "Lascia che queste pietre-guida conducano a un'era della ragione."
Discosta dal monumento, c’è un’altra pietra dove ci sono incise le spiegazioni per l’uso astronomico, l’autore (R.C. Christian), gli sponsor (un piccolo gruppo di americani che cercano l’Era della Ragione), e il riferimento a una capsula del tempo che dovrebbe essere sepolta sotto la pietra, ma senza indicazioni per la data di apertura.
Su una lastra a breve distanza sono incise alcune note sulla storia e lo scopo del monumento.



Quale il significato e quale la portata dei messaggi incisi nel granito? Tralasciamo l’interpretazione di chi crede che il monumento sia una base di atterraggio per alieni con le indicazioni ai medesimi per ricostruire la società degli uomini.
Più attendibile la versione di chi crede che con il “decalogo” qualcuno (non importa chi) abbia voluto indicare i principi che – se applicati – consentirebbero la sostenibilità della presenza umana sul pianeta.
Non a caso il primo “comandamento” è “Mantieni l'Umanità sotto 500.000.000 in perenne equilibrio con la natura”. È indubbio infatti che tutti i problemi da noi creati ai danni della biosfera (e in definitiva di noi stessi) derivino dalla proliferazione indiscriminata della nostra specie.
In altri articoli e nei miei libri ho paragonato questa pandemia alla crescita di un cancro che divora i tessuti sani dell’organismo ospitante.
In sintonia con questa ipotesi l’ultimo “comandamento” recita: “Non essere un cancro sulla terra, lascia spazio alla natura, lascia spazio alla natura”.



Ma un tumore può decidere di non essere più un tumore? Lasciamo in sospeso l’argomento in attesa di riprenderlo in altra sede.
Osserviamo invece che l’insieme dei “comandamenti” è stato interpretato come una sorta di programma per l’instaurazione di un Nuovo Ordine Mondiale.
In tale direzione andrebbe il punto 3) “Unisci l'Umanità con una nuova lingua viva”, ma, a mio avviso, non andrebbe il punto 6) “Lascia che tutte le nazioni si governino internamente, e risolvi le dispute esterne in un tribunale mondiale”: il fantomatico Nuovo Ordine, infatti, dovrebbe puntare all’unificazione amministrativa, politica ed economica degli oltre duecento stati sovrani oggi esistenti, pena l’ingovernabilità del pianeta a causa delle troppe unità amministrative separate, autonome e spesso tra loro litigiose.
Indipendentemente dai reali intendimenti del novello Mosè estensore di questo decalogo, le Pietre Guida attirarono le ire dei nemici del mondialismo e alcuni di costoro nel 2008 le sfregiarono con scritte in vernice rossa. In particolare una delle scritte diceva: “L’elite vuole l’80% di noi morto, vedi il punto 1”.



Questa affermazione, per quanto farneticante possa apparire, fa riferimento al dilemma fondamentale della nostra specie, la sovrappopolazione, ed è sbagliata per difetto. In quell’anno la popolazione mondiale era di 6.764 milioni di persone: rimanere in 500 milioni avrebbe significato una riduzione di 6.264 milioni di esseri umani, e cioè quasi il 93% del totale!
Sicuramente chi aveva indicato la cifra di 500 milioni non pensava ad una riduzione con sistemi violenti, bensì ad una decrescita demografica attraverso il controllo delle nascite. Ma anche un simile sistema ha gravi controindicazioni.
Ho dedicato a questo argomento un capitolo del mio libro “Il Cancro del Pianeta”, dal titolo “Le improponibili soluzioni al problema della sovrappopolazione”. A quelle pagine rimando chi fosse interessato ad approfondire l’argomento.
Comunque sia, l’aver messo il decremento degli esseri umani come prima raccomandazione sta a significare che gli estensori del decalogo erano veramente “illuminati”, a conoscenza cioè della reale origine dei problemi che affliggono la biosfera.
Questi ultimi sono causati dalla crescita esponenziale della popolazione, e quindi dei consumi, in un mondo dalle risorse limitate. Si potrà consumare meno e in modo più razionale, così come potremo sfruttare le risorse in modo più produttivo, ma prima o poi non ci sarà abbastanza cibo per una popolazione in continuo aumento né energia per un numero di macchine sempre crescente.
Questa consapevolezza è confermata anche dal già citato ultimo “comandamento”: “Non essere un cancro per la Terra, lascia spazio alla natura, lascia spazio alla natura”.
L’aver individuato il nocciolo della questione fa del monumento un punto di riferimento importante, al quale si deve guardare con interesse.
Personalmente non approvo il richiamo alla ragione per il dominio delle passioni e per la creazione di una nuova era. Il motivo è che è stata proprio la ragione a condurci nella attuale situazione di tragico degrado ambientale. È stata la ragione che ci ha consentito di uscire dallo stato di natura e ci ha condotto, passo dopo passo, a sfigurare il volto del pianeta e a distruggere innumerevoli specie animali e vegetali.
Ma quel che è fatto è fatto. C’è da chiedersi se la causa di tutti i mali sia ora in grado di ripararli, se un tumore possa decidere di non essere più un tumore.
Le Pietre Guida della Georgia sono fatte per durare millenni. Chissà se qualcuno le troverà in futuro e le leggerà così come noi oggi leggiamo gli antichi caratteri cuneiformi! Una cosa è certa: in un’epoca in cui le costruzioni sono fatte solo per soddisfare esigenze materiali e per durare pochi decenni il monumento americano rappresenta una importante eccezione degna di rispetto e attenzione.