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domenica 12 luglio 2020

Gli Amish, il "popolo semplice" che rifiuta il progresso


Tutti abbiamo sentito parlare degli Amish, per lo più come di una comunità folcloristica che vive in America rispettando usi e tradizioni di alcuni secoli fa.
Sappiamo che rifiutano il progresso, che si spostano usando calessi trainati da cavalli e che si vestono in modo eccentrico.
In genere le nostre conoscenze di questo popolo non vanno molto più in là.
Credo invece che la loro stessa esistenza e resistenza in pieno XXI secolo meritino un doveroso approfondimento, non fosse altro come testimonianza del fatto che è possibile vivere consumando poco e rispettando la natura nel bel mezzo degli Stati Uniti d’America, e non in una remota landa della foresta pluviale brasiliana.
A chi volesse effettuare questo approfondimento consiglierei di leggere il libro di Jacques Légeret “Amish, una comunità fuori dal tempo” (Claudiana Editrice) e quello di Andrea Borella “Amish” (Xenia Edizioni). Nel web sono disponibili anche numerosi siti sull’argomento e qualche film (tra cui il famoso “Witness” del 1985).
Il quadro risultante è di estremo interesse.
Innanzitutto, i numeri. Stiamo parlando di una popolazione di oltre 300 mila individui, distribuita in decine di Stati USA. La gran parte in Indiana, Ohio e Pennsylvania (qui si trova uno dei nuclei più consistenti, nella contea di Lancaster, a soli 250 km. da New York).
Non sono numeri eclatanti, ma sufficienti a far ritenere gli Amish qualcosa di ben diverso da un semplice fenomeno di costume. Il loro tasso di crescita demografica, oltretutto, è assai elevato, uno dei maggiori in assoluto: ogni coppia Amish mette al mondo una media di 7 – 8 figli.
Ma che non si tratti di un semplice fenomeno di costume lo testimonia anche tutta la storia degli Amish che affonda le sue origini nell’Europa di fine XVII secolo e, ancor prima, nel movimento anabattista del XVI secolo.
Non è il caso qui di scendere nei dettagli di queste origini, basti dire che l’anabattismo nacque dal rifiuto di elargire il battesimo ai neonati, riservando la celebrazione di questo sacramento ai soli adulti consenzienti.
Al giorno d’oggi, nella nostra società secolarizzata, questa controversia può apparire banale, ma all’epoca fu sufficiente a scatenare una vera e propria persecuzione contro i sostenitori di questa tesi (e di altre, tra cui l’egualitarismo e il disconoscimento delle autorità ecclesiastiche) e contro i vari movimenti che nacquero dalle scissioni prodottesi in seno all’anabattismo.
Una di queste, promossa da un vescovo svizzero di nome Jacob Ammann, diede vita al movimento Amish.
I seguaci Ammann, come quelli di Menno Simons (i Mennoniti), per sfuggire alle persecuzioni emigrarono a partire dal 1720 nel Nuovo Mondo, quell’America che era ancora una colonia inglese, ma nella quale vi erano enormi spazi in cui insediarsi.
Negli anni successivi l’ondata migratoria proseguì, al punto che in Europa non rimase nessun Amish.
Nelle nuove terre, il movimento si mantenne coeso, conservando tutta una serie di tradizioni religiose e sociali, a partire da una particolare lingua, il Pennsyilvania Dutch, sviluppatasi nell’America del XVIII secolo a seguito dell’immigrazione di decine di migliaia di persone di lingua tedesca.
La fonte principale di sostentamento di questo popolo è sempre stata l’agricoltura, attività nella quale gli Amish eccellono; nel praticarla utilizzano attrezzi e tecniche di secoli addietro e questa particolarità mi consente di introdurre l’argomento che vorrei maggiormente approfondire nel limitato spazio di un articolo, e cioè il rifiuto della modernità e del consumismo da parte degli Amish.
Per dissodare i campi usano un aratro trainato da un cavallo. “Per gli Amish soltanto il lavoro con il cavallo permette all’uomo di “rispettare” la terra, perché il trattore “schiaccia” troppo il suolo e non rispetta l’equilibrio divino.” (Jacques Légeret, cit., p. 129) Anche l’uso di fertilizzanti e pesticidi è ridotto al minimo. Ovunque possibile sono privilegiati i rimedi naturali.
Analogo discorso vale per tutte le altre attività produttive, relativamente alle quali gli attrezzi e le procedure manuali sono preferiti a quelli automatici.
Ma il rifiuto della modernità e della mondanità è ben più radicale, giunge a rigettare l’uso dell’elettricità pubblica. Per illuminare le case usano candele o lampade a olio o altri combustibili, per riscaldarsi accendono camini e stufe.
Se devono utilizzare per motivi particolari e inderogabili una fonte di energia elettrica, fanno ricorso a piccoli generatori autonomi che installano a una certa distanza dalla casa.
La mancanza del collegamento alla rete elettrica comporta il non utilizzo di televisione, radio e computer.
Ma la rinuncia a questi strumenti non è una questione puramente tecnica. In una delle periodiche riunioni per valutare l’impatto delle nuove tecnologie sulla vita della comunità, i maggiorenti Amish con potere decisionale tanti anni fa stabilirono che portare nelle case dei fedeli i messaggi della radio (e poi quelli della televisione, e poi ancora quelli di internet) avrebbe costituito un grave pericolo per la saldezza dei principi religiosi e morali del popolo Amish.
Essi temono i contatti con il mondo esterno, vedono come la vita degli “inglesi” (così chiamano gli americani e tutti gli altri stranieri) sia stressante, piena di preoccupazioni, banale, e cercano il più possibile di restarne lontani.
Non usano tutti quegli elettrodomestici e strumenti che funzionano con la corrente elettrica, dalla lavatrice alla lavapiatti, dall’aspirapolvere al frullatore, né quelli che funzionano con motore a scoppio, a iniziare dall’automobile fino alla gran parte degli strumenti agricoli.
La rinuncia all’automobile ha tanti significati: il non volersi allontanare dalla propria comunità, il dispregio per il mito della velocità, il non voler competere con chicchessia relativamente al modello di veicolo posseduto e così via.
Laddove vi sia una grave necessità di raggiungere luoghi lontani, gli Amish possono prendere il treno, l’autobus o un’auto a noleggio con conducente.
Conoscono le tecnologie più moderne e non escludono, in casi eccezionali, di farvi ricorso, ma non intendono utilizzarle nella quotidianità, ritenendosi soddisfatti di ciò che hanno e della vita che conducono.
Potrei elencare tante altre particolarità interessanti del popolo Amish, ma lo scopo di questo articolo è un altro, rispondere alla seguente domanda: è possibile esportare il modello sociale e comportamentale degli Amish in altri contesti, in modo da rallentare la folle corsa verso il disastro che contraddistingue la nostra era?
Gli Amish sono l’esempio di come sia possibile vivere bene consumando poco (e avendo quindi un’impronta ecologica assai leggera) nel bel mezzo del Paese più consumista del mondo.
Da noi e in tanti altri Paesi esistono movimenti che predicano la cosiddetta decrescita, ma hanno scarso seguito nonostante propongano uno stile di vita ben meno rigoroso di quello degli Amish.
Perché questa illogicità? A mio avviso i motivi sono due.
1) Il fattore religioso. Tutta la vita degli Amish ruota intorno alla fede in Dio, al rispetto delle tradizioni religiose ereditate dagli antenati e alla lettura e interpretazione della Bibbia condivise dalla comunità;
2) Il fattore sociologico. La rinuncia alle comodità offerte dal progresso tecnologico affrontata all’interno di un gruppo omogeneo di persone che parlano la stessa lingua, vestono i medesimi abiti e condividono le stesse abitudini, è più facilmente sostenibile di altre rinunce, magari più blande, ma da affrontare individualmente all’interno di una società che non le condivide.
Come fare dunque per convincere l’uomo contemporaneo a consumare meno e ad assumere uno stile di vita analogo a quello del popolo Amish?
Riportare in auge il vecchio Dio è impresa impossibile. Una volta che la ragione ha scalzato la fede, a quest’ultima rimane ben poca voce in capitolo e viene ascoltata da un numero sempre più ristretto di persone. Per mantenersi in vita, la fede deve scendere a compromessi continui, accettando le novità tecnologiche imposta dalla società dei consumi (con la solita scusa che non è lo strumento in sé a essere cattivo, ma l’uso che se ne fa …).
Dunque la ragione ha prevalso e l’“isola” Amish può sopravvivere proprio in quanto “isola”.
Ma l’assunzione di stili di vita meno consumistici non è un “optional”. Se vogliamo che la nostra specie (insieme alle altre) viva un po' più a lungo su questo pianeta, volenti o nolenti dovremo rinunciare a tanti gingilli tecnologici che oggi ci appassionano.
E se la riflessione individuale non è sufficiente a portarci in questa direzione, allora forse una teoria come il Cancrismo può aiutarci nell’intento.
Avere la consapevolezza di rappresentare per la biosfera una sorta di malattia, di disfunzione, può essere la molla in grado di far scattare in noi il desiderio di devastare meno l’ambiente e di preservare un po' di più la natura.
Ma questo è un altro discorso, da sviluppare in altra sede.

mercoledì 1 luglio 2020

Basta scienza!


Il 23 giugno 2020 Ugo Bardi ha pubblicato su Facebook (nel Gruppo The Seneca Effect) un post con la foto di una manifestazione in cui veniva innalzato un cartello con la scritta BASTA SCIENZA.
La manifestazione, organizzata dal movimento 3V (Vogliamo Verità Vaccini), si è svolta il 20 giugno in piazza Santa Croce a Firenze e vi hanno partecipato migliaia di persone contrarie all’uso dei vaccini, ma anche alla rete 5G, alla TAV e via dicendo.
Non entro nel merito di questi argomenti, a cui ho già dedicato un paio di articoli (vedi “Antivaccinismo e dintorni” e “La rete che ci sta per avvolgere”); vorrei invece soffermarmi sullo specifico discorso della scienza, che mi pare di assoluto rilievo.
A caldo ho così commentato il post: “Quel cartello andava issato migliaia di anni fa e doveva recitare: "No alla scienza". Ora è troppo tardi. Solo la scienza può tentare di rimediare ai guai che gli scienziati hanno combinato […]”
Cosa intendevo dire? Provo a rispondere infilando i ragionamenti uno dietro l’altro, in modo consequenziale ma anche estremamente sintetico, in modo da non annoiare chi legge e andare diritti al cuore del problema.
1) La scienza è figlia del pensiero astratto (di quel tipo di pensiero cioè che mette in relazione gli oggetti e ne ricava dei collegamenti immateriali)
2) il pensiero astratto nasce nell’uomo in modo graduale, man mano che il suo cervello cresce e con esso il numero dei neuroni
3) esiste una soglia di sviluppo neuronale, che nessuno è in grado di quantificare, al di sopra della quale inizia a formarsi il pensiero astratto e al di sotto della quale il pensiero rimane “oggettivo”, “concreto”, legato alle sensazioni e nulla più
4) una volta superata la soglia, l’uomo inizia a modificare la natura. Il pensiero astratto gli consente di immaginare forme nuove per gli oggetti esistenti e poi di modificarli come immaginato. Nasce così l’industria litica, poi la caccia di gruppo, la pastorizia, l’agricoltura ecc.
5) nasce la matematica, la geometria, la scienza
6) lentamente, passo dopo passo, si concretizza il mondo artificiale. La scienza mette a disposizione dell’uomo ritrovati sempre più sofisticati che gli consentono di impossessarsi degli spazi che la natura aveva riservato ad altre specie (animali e vegetali)
7) lo strumento mediante il quale l’uomo raggiunge gli obiettivi indicati dalla scienza è il lavoro (a questa attività, bollata un tempo come maledizione e oggi incensata come benedizione, ho recentemente dedicato l’articolo “La retorica del lavoro”)
8) la scienza consente all’uomo di moltiplicarsi a dismisura (tramite igiene diffusa, contrasto alle malattie ecc.), nonché di alimentare questa immensa moltitudine e di fornire energia alla ancor più grande moltitudine di macchine che scienza, tecnica e lavoro hanno prodotto (di questi argomenti tratta il mio nuovo libro “L’impero del cancro del pianeta”)
9) la scienza ha quindi contribuito in modo determinante all’edificazione di questa rete mondiale che sta soffocando la biosfera come le masse tumorali distruggono i tessuti sani degli ammalati di cancro
10) ma solo la scienza ha anche le chiavi per il sostentamento di questa enorme massa umana, per continuare a far marciare la macchina finché ci sarà carburante disponibile. Rinunciare oggi alla scienza significherebbe innescare anzitempo la catastrofe. Il mondo artificiale ha i secoli contati (o decenni?). Solo la scienza, la colpevole di tutto, può ancora elargirci cure palliative in grado di allungare un poco l’esistenza della biosfera che noi conosciamo. Dobbiamo rinunciarvi? Chi non tenterebbe di alleviare le sofferenze di un ammalato di cancro in fase terminale?
Ecco riassunti in 10 punti i termini del dramma che stiamo vivendo.
In Siberia si sono toccati 38 gradi di calore. La pandemia partita dalla Cina ha raggiunto tutto il mondo, in conseguenza del global warming, della deforestazione, della desertificazione, dell’inquinamento, della sovrappopolazione, e così via.
Tutto a causa della scienza, figlia del pensiero astratto, che ci ha consentito di dar vita al mondo artificiale.
E, prima ancora, a causa della crescita eccessiva del nostro encefalo.
Causa, non colpa. Qui nessuno è colpevole. È accaduto e basta.
Ma ora, al punto in cui siamo, credo che sia giunto il momento di svelare il vero senso del cammino che abbiamo sin qui percorso.
A questa “impresa” è consacrato il mio prossimo libro, che avrà per titolo “Rivelazione”, e per sottotitolo: “Discorso alle cellule malate”. Con questa opera, che vedrà la luce non prima del 2021, mi propongo di approfondire analiticamente il ruolo svolto dal nostro cervello, dal pensiero astratto e dalla scienza nell’infausta attività di distruzione della natura che stiamo portando avanti con ritmi sempre più frenetici.
Cionondimeno credo che il decalogo sopra riportato possa avere una sua utilità nell’incuriosire il lettore in buona fede sui problemi innescati dalla scienza e sul fatto che solo la scienza è in grado di decifrarli e di tentare di arginarli.
Un’ultima annotazione relativamente al movimento organizzatore della manifestazione di Firenze.
Un suo fan ha scritto: “BASTA SCIENZA!”, ma il secondo punto programmatico di questo neonato movimento afferma: “La Repubblica è fondata sul lavoro ed essa riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro”.
Alla luce del ragionamento fin qui svolto (vedi punto 7) dovrebbe apparire evidente la contraddizione di chi intendesse fermare la “scienza” e al tempo stesso riconoscere al “lavoro” un ruolo centrale nella vita della Repubblica.
Ma tant’è! Protestare contro tutto e contro tutti è molto più facile che costruire un sistema ideologico coerente.

martedì 13 ottobre 2015

L'ineluttabile irreversibilità del Progresso

di Bodhi Paul Chefurka
traduzione di Stefano Ceccarelli



La realtà del danno che stiamo infliggendo alle altre creature viventi, a noi stessi e al nostro pianeta sta diventando più evidente, a più persone, ogni giorno. Eppure, nonostante i più grandi sforzi di coloro che si sono destati di fronte alla incombente calamità, nulla sembra fare molta differenza. Perché si sta rivelando così difficile correggere i nostri errori e smascherare il nostro “progresso”?
Come vado dicendo in varie occasioni, sia che si guardi al solo livello delle istituzioni sociali umane, o che si prosegua guardando alla psicologia evolutiva o finanche alla termodinamica, come ho tentato di fare, la risposta sembra essere la stessa. I cicli di retroazione positiva che guidano la crescita umana sembrano contenere un meccanismo interno unidirezionale che impedisce loro di essere regolati.

Possiamo chiamarlo Trappola del Progresso, Circolo Vizioso, Determinismo Infrastrutturale, istinto di sopravvivenza, dissipazione termodinamica o Destino Manifesto, ciò è irrilevante. Tutte queste definizioni sono semplicemente diverse sembianze dello stesso fenomeno: l’irreversibilità. C’è una buona ragione per la quale la natura ha reso questo meccanismo unidirezionale così difficile da scardinare. Senza di esso, saremmo stati sbattuti fuori dal gioco dai concorrenti, e non saremmo qui oggi – nel bene e/o nel male.

Dei singoli individui possono talvolta sconfiggere questa unidirezionalità e ricostituire il proprio personale progresso, ma per quanto ne so i gruppi non possono fare altrettanto. Ciò che è peggio è che più persone vi sono in un gruppo sociale, più strettamente il meccanismo ci vincola alla ruota della crescita. Se guardiamo attentamente, possiamo vedere questo effetto nelle nostre comunità e in particolar modo nelle nostre nazioni. Quando poi il ‘gruppo’ è composto da 7,3 miliardi di persone, legate insieme dai moderni sistemi di comunicazione nel “villaggio globale” di Marshall McLuhan, il suo effetto è virtualmente inevitabile, eccetto che per un numero molto piccolo di individui. Per ironia, anche quei fortunati fuggitivi sono destinati in qualche misura ad essere grati ai frutti amari del moderno progresso. Ad esempio, provate a disconnettervi dalla rete senza avere un’ascia con voi!

So che molti non sono d’accordo con me su questo. Spero che avranno ragione, e che io possa alla fine essere visto solo come un duro vecchio cinico, piuttosto che come il realista che temo di essere.


martedì 29 settembre 2015

L’invenzione del Progresso.


di Jacopo Simonetta


Per noi il progresso è un fatto auto-evidente che ha portato l’uomo dalle caverne alle stelle e che lo porterà verso sempre più elevate mète.    Al netto di incidenti di percorso, magari drammatici, ma temporanei.   Si tratta di un’idea per noi così scontata e congeniale che ci pare debba essere sempre esistita.
   
Ebbene no. Il progresso è stato inventato nel 1794 dal signor Marie-Jean-Antoine-Nicolas de Caritat, marchese di Condorcet.  Matematico, enciclopedista e rivoluzionario.

Ovviamente, come tutti, anche Condorcet elaborò le sue idee a partire di quelle di altri che lo avevano preceduto.   Può quindi essere di un qualche interesse tracciare l’origine di questa idea che, vedremo, ha parecchio a che fare con quel divorzio fra scienza, filosofia e teologia cui facevo riferimento in un precedente post.

Spesso, quale “padre nobile” del progresso si cita nientedimeno che Leonardo da Vinci, in forza delle centinaia di marchingegni più o meno strampalati che aveva disegnato nei suoi appunti.   Tuttavia, Leonardo studiava le leggi della Natura tramite l’osservazione delle forme e tuonava contro la superbia dell’uomo che osa attaccare il creato.   Un approccio decisamente medioevale alla scienza.
Più appropriatamente, vengono indicati quali precursori dell’idea di progresso alcuni dei padri della rivoluzione scientifica del XVII secolo: gente del calibro di Bacone, Galileo e Cartesio.   Effettivamente,  costoro avevano inteso la scienza come motore di un sempre maggiore potere dell’Uomo sulla Natura, ma non avevano mai letto la storia come una marcia trionfale verso forme di civiltà sempre superiori.   

La vera culla dell’idea di “progresso”, così come oggi lo intendiamo oggi, è stata dunque l’Enciclopedia.   Fu infatti nel circolo di coloro che curarono quest’opera epocale, tutti amici di Condorcet,  che prese corpo l’idea che il costante miglioramento delle conoscenze scientifiche e delle capacità tecniche avrebbe condotto necessariamente ad un miglioramento indefinito delle condizioni di vita umane e, di conseguenza, ad un miglioramento indefinito dell’uomo stesso.   Venendo meno il bisogno, sarebbero infatti venute meno la ferocia, l’avidità e tutti gli altri vizi che da sempre ostacolano lo sviluppo spirituale dell’umanità.   

Non era certo la prima utopia, ma questa presentava alcuni caratteri esclusivi e nuovi che la differenziavano nettamente da precedenti illustri quali “Utopia” (di Tommaso Moro - 1516) e “La Città del Sole” (di Tommaso Campanella - 1602), entrambe di chiara ispirazione platonica.
  
Tanto per cominciare, il Progresso non fu l’idea di un solo pensatore e non fu narrato in un solo libro, descrivendo la società ideale.   Al contrario, fu il prodotto di un’intera generazione di filosofi, scienziati e scrittori; e divenne un modello mentale mediante il quale leggere ed interpretare passato, presente e futuro.
   
Un secondo punto assolutamente nuovo dell’utopia progressista fu l’avere nel suo cuore “La Macchina”.   Non più vista come un mero oggetto utile, divenne lo strumento principe per affrancare l’uomo dalla miseria materiale e morale.    La meccanizzazione divenne quindi sinonimo di progresso ed il progresso sinonimo di un miglioramento della condizione umana che sarebbe avvenuto  grazie, soprattutto, allo sviluppo di macchine sempre più potenti e perfezionate.   Fino, in prospettiva, alla possibilità di sostituire interamente il lavoro manuale con il lavoro meccanico, liberando così del tutto le infinite potenzialità dell’intelletto umano dai ceppi del lavoro manuale.   Insomma, una riedizione della schiavitù, ma priva dei problemi etici connessi con questa.    Un sogno tuttora ben vivo nella cultura contemporanea.

Un terzo punto fondamentalmente nuovo fu che, in questo salvifico disegno, un ruolo fondamentale fu  assegnato alla nascenda scienza economica.   Anche se il principale teorico di questo aspetto del mito fu uno scozzese: un certo Adam Smith, per la precisione.

Infine, un ultimo punto che caratterizzò i principali enciclopedisti, e che influenzò moltissimo il pensiero occidentale seguente, fu il considerare la religione, quale che fosse, un ostacolo anziché un ausilio al sapere.   In pratica, fu l’illuminismo a celebrare il divorzio fra filosofia e scienza da una parte e teologia dall'altra.   La Ragione da una parte, ignoranza e superstizione dall'altra; nel mezzo un baratro incolmabile.

L’utopia progressista, ben prima di essere formalizzata nell'ultimo libro di Condorcet, impregnò di sé l’intera opera dell’Enciclopedia, ma non solo.   Fu divulgata in tutto l’occidente e nelle colonie da un fiume di scritti, opera di un gran numero di entusiasti sostenitori, primo fra tutti François-Marie Arouet, meglio conosciuto come Voltaire (1694-1778).

Un altro canale di rapida diffusione e profondo radicamento di questa idea fu la Massoneria.   Nata in una birreria di Londra nel 1717, agli albori del movimento illuminista, ne divenne il principale strumento di diffusione.   Massone era infatti Condorcet, come lo erano Voltaire e tutti i principali protagonisti di questa stagione del pensiero europeo, assieme a migliaia di anonimi adepti.

Dunque l’idea di progresso fu il frutto di un’intera epoca, ma nel suo “Equisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain” Condorcet fu il primo a riscrivere l’intera storia dell’umanità usando come filo conduttore l’idea di un miglioramento infinito ed inarrestabile della nostra specie.   Per l’appunto quella marcia trionfale dalle caverne alle stelle che ancora da forma al nostro modo di intendere noi stessi, la storia, il mondo che ci circonda ed il futuro che ci attende.
Emblematico il fatto che questo suo testamento spirituale sia stato pubblicato postumo, nel 1795, dopo che il suo autore si era suicidato in carcere per sfuggire alla ghigliottina di quella stessa rivoluzione che egli aveva contribuito a scatenare in nome e per conto del progresso.

Il paradigma progressista fu da più parti respinto. Tutti conoscono Rousseau ed il romanticismo, ma non furono solo scrittori e filosofi a criticare l’ideale del progresso.   Ad esempio, fra la fine del ‘700 ed i primi decenni dell’800, in Inghilterra, i luddisti tentarono di fermare la meccanizzazione della produzione tessile con sommosse ed attentati.   Più pacificamente, nel 1781, sempre in una birreria londinese, nasceva il druidismo moderno.   Una confraternita per molti aspetti simile alla Massoneria, ma di segno filosofico opposto.

Se ci fidiamo di Michel Greer, arcidruido americano ben noto nella ristretta cerchia dei "picchisti", la molla che portò alla nascita di questo movimento fu infatti lo shock psicologico prodotto dalla diffusione delle prime aree industriali nelle periferie urbane.  

Come è andata poi lo sappiamo:  né druidi, né luddisti; né Rousseau né Schelling riuscirono a contrastare la forza del mito del Progresso che, fra continui rimaneggiamenti ed aggiornamenti, è giunto intatto fino a noi.   Anzi, col tempo si è evoluto giungendo ad una nuova sintesi tra filosofia, scienza e religione che ha chiuso il cerchio da cui l’idea moderna di progresso era nata.

Precisiamo.  Se consideriamo “religione” un insieme di credenze afferenti ad una o più divinità, certo l’idea di “Progresso” non può assolutamente essere considerato una religione, semmai il contrario.   Tuttavia, uno dei maggiori storici delle religioni, Georges Dumézil, ha proposto una diversa e, secondo me, scientificamente più valida definizione: “La religione è una spiegazione generale e coerente dell’universo che sostiene ed anima la vita delle società e degli individui.”

In questo senso allargato, la religione è dunque il modello mentale attraverso il quale cerchiamo di capire la realtà e prendiamo le nostre decisioni.   In questo senso dunque, la fede nel progresso è, a mio avviso, pienamente assimilabile ad una religione.   Fra l’altro, una religione che, non avendo divinità proprie, ha potuto svilupparsi sia in maniera atea, sia assorbirsi ad altre religioni precedenti.   Un po’ come aveva già fatto il Buddismo, altra grande religione priva di Dei, oltre duemila anni prima.

Del resto, chi oggi mette in dubbio l’esistenza del progresso facilmente suscita sentimenti assai negativi fra i suoi simili.    In un suo post che non saprei ritrovare, Michael Greer fece un’analogia polemica, ma azzeccata.   In sostanza, sostenne che oggi dire a qualcuno che il progresso e la tecnologia non possono fare niente per risolvere i suoi problemi è come dire ad un contadino medioevale che le ossa del suo santo patrono non possono far cessare la siccità.   Se è di buon umore ti guarda con commiserazione, se è nervoso ti insulta, o peggio.

Si può capire.   E’ indubbio che la sinergia fra scienza e tecnologia sia alla base delle straordinarie conquiste dell’Uomo nei due secoli che seguirono la morte di Condorcet.   Perlomeno nei paesi occidentali abbiamo potuto credere di aver raggiunto o quasi quell'empireo che il progresso aveva promesso ai nostri avi.   E ciò in forza del centinaio di “schiavi meccanici” che, mediamente, ognuno di noi ha avuto a disposizione grazie all'industria petrolifera.   Ma tanto progresso aveva un prezzo nella devastazione della biosfera e del clima, così come nell'annientamento di innumerevoli civiltà, quando non di interi popoli.

Man mano che questi  “effetti collaterali” sono diventati evidenti, sono andati maturando altri divorzi. Quello fra scienza e filosofia, oramai separati in casa da tempo.   E perfino fra tecnica ed alcune delle branche in cui la scienza di è intanto parcellizzata. La prima proiettata verso fare sempre di più, le seconde sempre più preoccupate di ciò che, viceversa,  era bene non-fare.   Di qui il conflitto filosofico, scientifico e religioso che, dalla fine degli anni ’60, anima l’occidente senza peraltro aver finora prodotto alcun risultato pratico.   In fondo, se ad oggi nessun provvedimento serio è stato preso per contrastare la distruzione del Pianeta è proprio per non rinunciare al mito fondante della nostra civiltà.

Tuttavia, qualcosa forse sta cambiando.   Da un lato, abbiamo infatti l’accumulo e la divulgazione di conoscenze scientifiche sempre maggiori al riguardo dei come e dei perché del disastro che si svolge sotto i nostri occhi.   Dall'altro assistiamo al diffondersi di movimenti religiosi di ispirazione “naturalista” come i citati druidi ed altri movimenti neo-pagani, senza dimenticare l’epocale svolta francescana voluta dall'attuale pontefice e l’attenzione all'ambiente del Patriarca di Costantinopoli.

Si tratta di una moda passeggera o dell’inizio di una nuova età nella storia del pensiero?   Lo sapranno i nostri discendenti fra un paio di secoli.   

martedì 22 settembre 2015

La nascita del positivismo.

di Jacopo Simonetta

Cercando le tracce della nascita della nostra civiltà, mi sono fatto l’idea che questa sia stata concepita sostanzialmente in casa di Bacone e sia poi stata portata in grembo da Galileo e Descartes, fra gli altri.  Nacque, direi, a cavallo della manica, nella seconda metà del XVIII secolo con l’aiuto di molte levatrici, fra cui le più importanti furono, forse, Adam Smith, Diderot e Condorcet. Nel frattempo, Voltaire e l’intera fratellanza massonica si impegnavano a diffondere la nuova utopia del Progresso.   Un concetto del tutto nuovo per quei tempi e foriero di immense conseguenze.

Appena battezzato da Condorcet, il bimbo ebbe però una grave malattia che rischiò di spacciarlo: il romanticismo.   Tuttavia sopravvisse, dimostrando quella straordinaria resilienza e plasticità che sono necessarie affinché un concetto possa divenire il mito fondante di un’intera civiltà.

Uno che lo aiutò moltissimo in questo periodo particolare fu un altro aristocratico francese: Claude-Henri de Rouvroy, conte di Saint-Simon (1760 – 1825).   Un personaggio singolare che merita di essere conosciuto.

A 17 anni partì volontario con Lafayette per combattere in America.   Tornato, non fece mai più l’errore di farsi coinvolgere di persona in vicende pericolose. Al contrario di parecchi promotori del progresso, riuscì così a passare indenne attraverso la macelleria rivoluzionaria.  Anzi, colse l’occasione per rimpinguare abbondantemente le esauste finanze familiari speculando sui beni requisiti alla Chiesa, ma senza compromettersi troppo.   Riuscì anche ad evitare qualunque coinvolgimento durante la dittatura di Napoleone e, dunque, non ebbe problemi nemmeno con la restaurazione, malgrado ne fosse un dichiarato oppositore.

Potrebbe essere il ritratto di un qualunque furbo, ed invece stiamo parlando di uno dei grandi idealisti del XIX secolo ispiratore, fra gli altri, di nientedimeno che Karl Marx.   Qui mi interessa perché fu anche il padre (o forse meglio dire nonno) di un passaggio cruciale della nostra civiltà: la nascita del Positivismo.

Già durante la Rivoluzione Francese un nutrito gruppo di illuministi “d’assalto” avevano inteso tributare un culto religioso alla “Dea Ragione”: divinizzazione dell’intelletto umano.   Una vera e propria funzione si svolse a Notre Dame di Parigi, con tanto di ragazza in costume da Pallade Atena.   Una carnevalata che non fu replicata, ma l’idea che la mente umana fosse la vera divinità cui fare riferimento rimase e trovò altri modi per affermarsi.   Uno che fece molto in questo senso fu proprio il conte di Saint-Simon.

Dotato di una cultura scientifica eclettica, ancorché superficiale, Saint-Simon era infatti un autentico “fan” della scienza moderna, fino a vagheggiare apertamente di tributarle un vero culto.   La legge di gravitazione Universale di Newton per lui era l’equivalente della Sacra Scrittura per i cristiani.   Anzi di più: era Dio stesso.   Saint-Simon fu il primo a dire chiaro e tondo che ogni decisione politica doveva essere presa sulla base di una rigorosa analisi scientifica e che, su questa base, lo Stato doveva unicamente sviluppare l’economia, l’industria e la meccanizzazione.   Tre aspetti di un unico processo che avrebbe immancabilmente portato al benessere per tutti, all’eliminazione delle ingiustizie, eccetera.   In pratica rilanciando in stile romantico lo stesso copione utopico che era stato degli illuministi e che fu poi fatto proprio tanto dai liberali, quanto dai socialisti.   Non a caso, questo “aristò” riciclatosi industriale fu l’unico personaggio a ricevere onori postumi contemporaneamente in USA ed URSS.

Sul piano scientifico, il conte ebbe un’intuizione importante, che ancora oggi sta alla base di molte realizzazioni rilevanti.   Da imprenditore intelligente qual’era, capì che per garantire lo sviluppo dell’economia e dell’industria era necessario che strade, ferrovie e canali costituissero un sistema integrato, analogo al sistema circolatorio in un organismo.  Un concetto che è andato molto lontano.   Non solo i canali di Suez e di Panama (fra gli altri) furono opera di suoi seguaci, ma la teoria delle reti è oggi un settore di ricerca vivacissimo.   Credo proprio che se Saint-Simon potesse vedere internet penserebbe di aver raggiunto il paradiso.

Un altro punto cardinale per lui era l’eliminazione dei parassiti sociali, identificati con i redditieri, i preti ed i militari.   Un altro dei punti su cui il nostro gode tuttora di un ampio seguito.  Secondo il suo modo di vedere, il vertice della società spettava agli scienziati che dovevano costituire una sorta di clero laico, incaricato di compulsare costantemente la natura alla ricerca di nuove scoperte per spingere la gioiosa macchina del progresso verso sempre più elevate vette.   Viceversa, l’amministrazione doveva essere appannaggio degli industriali, dei mercanti e dei banchieri i quali avrebbero sicuramente provveduto ad evitare la dilapidazione di risorse in attività inutili, così come avrebbero evitato accuratamente ogni guerra e scontro sociale per il semplice fatto che queste cose non convengono a nessuno.

Oggi è facile sorridere di queste idee e, a dire il vero, nell'ultimo periodo della sua vita anche Saint Simon si rese conto che l’interesse privato non era sufficiente a garantire la prosperità e la pace comune.  Andò quindi alla ricerca di un’etica più profonda che trovò, o pensò di trovare, in una versione profondamente rimaneggiata del cristianesimo.   Riforma che teorizzo e descrisse nelle sue ultime opere.

Saint-Simon ebbe un enorme seguito e la sua influenza, più o meno diretta, risulta evidente ancora oggi in moti ambienti.   Ma ancor più di lui ebbe influenza un altro augusto conte, stavolta per nome e non per tutolo.   Intendo Auguste Comte (1798 - 1856), che per circa sei anni fu segretario personale del conte.

Ancor più di Saint Simon, Comte spinse agli estremi la concezione romantica della scienza come valore assoluto; strumento di riscatto e sublimazione definitiva dell’Uomo.   Ma se la scienza voleva essere degna di tanto onore, doveva evitare accuratamente alcune tendenze che, già allora, si manifestavano.  Non doveva infatti suddividersi in specializzazioni: sei e solo sei dovevano essere le scienze e nessuna contaminazione fra queste doveva essere ammessa.  

La sociologia era la scienza suprema, articolata in “statica” e “dinamica” sulla falsariga della meccanica newtoniana.   La Sociologia statica era fondata sul concetto di “Ordine” e doveva studiare le cause del disordine sociale e, dunque, i modi per prevenirlo.   La Sociologia dinamica doveva invece dare attuazione al concetto di “Progresso”, inteso come destino ineluttabile e ragion d’essere di un’umanità divinizzata.

A tal fine, gli scienziati non dovevano sprecare tempo e risorse a ricercare il “PERCHÉ” avvengono i fenomeni in quanto dietro ogni causa se ne cela sempre un altra, all’infinito.  In uno spirito di sobria economia, Il compito della scienza era solo quello di capire “COME” avvengono i fenomeni che ci riguardano e, dunque, come si possono manipolare a nostro vantaggio.

Nelle sue opere più mature, pensò anche che una fede religiosa fosse necessaria per il buon ordine della società positiva.   Si inventò dunque a tavolino una vera e propria dottrina religiosa devoluta all'Umanità, chiamata “Grande Essere”.   Una sorta del Leviatano di Hobbes, ma dotato di una dimensione storica e sacrale del tutto nuova.

Al di la dei dettagli del culto immaginato da Comte, il Positivismo ebbe un’importanza determinante sul successivo sviluppo della civiltà europea prima, e mondiale poi.  In particolare, ebbe grande seguito la tripartizione della storia del pensiero umano in fasi: teologica (ovvero fittizia), metafisica (o astratta) e scientifica (o positiva).   La prima sarebbe caratteristica dei popoli primitivi che, non capendo niente di quello che gli succede intorno, si immaginano degli esseri sovrannaturali che fanno e disfano.  Nella fase metafisica la gente, già un po’ più sveglia, sostituisce gli Dei con dei concetti astratti come l’Essere o la Natura.   Nella fase scientifica, finalmente, la realtà si schiude all’occhio umano per quello che è e l’umanità apprende a dominare la natura.

L’idea che la civiltà industriale europea fosse superiore a tutte le altre in quanto più “avanzata” ha radice soprattutto negli scritti polemici di Voltaire, ma Comte portò l’idea a sistema.   E come sistema è ancora alla radice del nostro modo di vedere noi stessi.   Di qui, ad esempio, la nostra classificazione dei popoli in “sviluppati”, “in via di sviluppo” o “sotto-sviluppati” in rapporto a quanto distano da noi: astro fulgente cui tutti, necessariamente, tendono.

Difficile immaginare qualcosa di più lontano dal “Noi moderni siamo nani assisi sulle spalle di giganti” di uno scienziato del calibro di Blaise Pascal.  Va detto, del resto, che Comte non era uno scienziato e che, per sua stessa dichiarazione, praticava una rigida “igiene mentale”.  Vale a dire che leggeva pochissimo di ciò che non era in linea con le sue idee.   Evidentemente neanche i classici, visto che per cambiare idea gli sarebbe bastato leggere un qualunque autore antico.   Magari solo “nuvole”,  in cui Aristofane si fa beffe, fra gli altri, di un sempliciotto che crede che “a far piovere sia Zeus pisciando nel crivello”.

Destino beffardo.   Comte è stato smentito in praticamente ogni punto del suo pensiero proprio da quel progresso scientifico cui tanto anelava.   Per esempio, contrariamente a quanto da lui previsto, lo studio dei popoli antichi e dei “primitivi” tuttora viventi  ha rivelato conoscenze ed elaborazioni teoretiche sorprendenti.   Le scoperte scientifiche principali sono avvenute nei campi della scienza pura e, soprattutto, nelle interfaccia fra le diverse specializzazioni.   La moltiplicazione di queste, d'altronde, ha non poco favorito la messa a punto di una massa di dettagli senza i quali non sarebbe mai stato possibile verificare l’attendibilità delle teorie generali.   Il progresso della tecnologia ha portato immensi vantaggi, creando nel contempo i presupposti per la più grande catastrofe della storia dell’umanità.    Il calcolo delle probabilità è fondamentale in molti campi d’avanguardia come la fisica delle particelle e le dinamiche caotiche.   L’astronomia ha dato il meglio di se sondando i limiti dell’universo conoscibile.   La microbiologia ha potuto spiegare molti dei segreti del mondo vivente.   Lo studio delle civiltà del passato ha arricchito enormemente la nostra cultura e fertilizzato numerose scienze contemporanee.   Per citare solo i punti principali su cui Comte aveva certamente torto.  

Ciò nondimeno, le idee basilari di Comte ebbero un’immensa eco e si concrezionarono nei manuali scolastici, così come in molte ideologie politiche.   Ancora i miei figli, pochi lustri addietro, tornavano da scuola raccontando, assai poco convinti, che i maestri gli avevano spiegato di come gli antichi, nella loro ignoranza, pesassero che la pioggia fosse l’urina di Zeus e simili amenità.   Che in tempi più moderni i filosofi avevano cercato di spiegare razionalmente il mondo, ma che solo la scienza moderna era stata in grado di svelare ogni segreto e porre finalmente la natura al servizio dell’uomo.

Insomma, anche se la scienza non cessa di smentire il Positivismo, questo continua ad informare di sé gran parte della scienza odierna e l'intera nostra civiltà.  Tanto che quando gli scienziati dicono cosa NON si deve fare e perché vengono perlopiù ignorati (o marginalizzati).   Compito della scienza, si sa, è scoprire come dominare sempre meglio e sempre più i fenomeni naturali, non certo quello di porre dei limiti al Progresso!

Ma spesso un eccesso ne provoca un altro di segno opposto.   E, difatti, proprio negli stessi anni in cui si esaltava il ruolo sommamente “positivo” della scienza, nasceva dalla penna di una donna, Mary Shelley, la figura dello “scienziato pazzo”.   Una contro-narrativa non meno fantasiosa e potente di quella di Comte e, come quella, destinata ad avere un peso nella nostra civiltà.