Per qualcosa in più su Vladimir Dudintsev, vedete questo post su "Effetto Cassandra." E Buon Natale a tutte/i!!
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di Fabio Vomiero
In un'epoca come quella attuale in cui cominciano ad evidenziarsi chiaramente tutti i limiti e le conseguenze sistemiche anche di un'impostazione intellettuale per certi versi inadeguata, l'eterna frattura cognitiva che purtroppo divide ancora la scienza dagli altri contesti sociologici, non accenna minimamente a saldarsi.
Sembra quasi si stia assistendo a un fenomeno sociologico di tipo bipolare in cui anche il cittadino considerato secondo i criteri attuali di media-elevata "cultura", è spesso portato per mancanza di strumenti concettuali adeguati a disinteressarsi completamente della scienza da una parte, o al contrario ad assimilare acriticamente qualsiasi cosa uno "scienziato" gli dica dall'altra.
Proprio di recente, peraltro, alcune dichiarazioni da parte di due noti esponenti del "mondo scientifico", Piero Angela e il prof. Burioni, hanno contribuito a rilanciare un dibattito, in realtà mai assopitosi, che oltre a riguardare in generale il difficile rapporto tra scienza e società, si è concentrato specificatamente sul concetto di quanto la scienza possa essere o meno considerata una forma di cultura democratica.
Per farla breve, il primo (Angela), afferma che «La velocità della luce non si decide per alzata di mano», mentre il secondo (Burioni), sostiene invece con fermezza che «La scienza non può essere democratica», riprendendo peraltro questa specifica locuzione anche nel sottotitolo di un suo interessante libro dal titolo "La congiura dei somari", il quale non lascia spazio a dubbi riguardo il suo esplicito pensiero.
Ma se è vero che tali affermazioni possano sembrare ad una prima e sommaria analisi certamente un po' brutali e provocatorie, l'importante sarebbe però riuscire a cogliere, al di là della forma e delle parole, il messaggio nella sua generalità, onde evitare poi il crearsi dei soliti fraintendimenti.
D'altra parte l'interpretazione corretta di queste affermazioni da parte di chi invece la scienza la studia e la conosce non ha incontrato particolari problemi, a dimostrazione del fatto che, quando si parla lo stesso linguaggio, solitamente è molto più facile capirsi.
Come non dovrebbe nemmeno essere molto difficile cogliere nelle parole dei nostri due personaggi un retrogusto di evidente risentimento, del tutto legittimo, nei confronti di un diffuso modo di pensare che in realtà ha molto poco a che fare con il ragionamento scientifico e molto di più, invece, con tutta una serie di percezioni, quantomeno opinabili, dei concetti stessi di produzione di conoscenza, cultura e ignoranza.
A parte quindi l’utilizzo, proprio o improprio che sia, del concetto di democrazia, che non stiamo qui ad analizzare nella sua sottile ambiguità semantica, Angela e Burioni con le loro affermazioni e probabilmente in accordo con la maggior parte degli scienziati, vogliono semplicemente riferirsi al fatto di come, in una società evidentemente ancora poco alfabetizzata dal punto di vista scientifico, manchino troppo spesso sia un'adeguata comprensione del sistema scienza nel suo complesso e sia, di conseguenza, il dovuto rispetto verso certi “valori” che la scienza e il metodo scientifico invece praticano, promuovono e insegnano. Valori come quelli dell’evidenza scientifica, della prova, dell’esperimento, della fonte autorevole, del ragionamento logico e inferenziale, della verifica, della competenza, dello studio approfondito, della ricerca specialistica, della produzione di una conoscenza cumulativa e condivisa, per esempio.
Valori che nella scienza (che non va confusa con la tecnica), diventano anche dei veri e propri principi epistemici su cui la scienza stessa costruisce orgogliosamente il suo particolare approccio mentale che la conduce, ben consapevole dei propri limiti, verso la migliore comprensione possibile dei fenomeni naturali.
Ora, è chiaro che di fronte ad un impianto cognitivo talmente consolidato, collaudato e soprattutto potente e raffinato ai fini di una produzione di conoscenza affidabile (del resto i risultati di quattrocento anni di scienza moderna sono sotto gli occhi di tutti) rimanere ai margini di questa grande impresa intellettuale significa anche correre il rischio concreto di un pericoloso isolamento culturale del singolo soggetto o della società stessa, con tutti i danni collaterali che questo atteggiamento può comportare, per esempio in termini di scelte e decisioni che riguardino i grandi problemi energetici, ecologici ed ecosistemici che affliggono il nostro pianeta.
Ecco perchè oggi, se vogliamo mirare ad una società veramente più saggia e consapevole non possiamo più tollerare l'ignoranza pressochè completa nei confronti di un modo di pensare, di ragionare e di ottenere conoscenza utile e concreta tipico della scienza, anche perchè questo non vuol dire assolutamente sminuire o dover rinunciare a qualsiasi altra forma del sapere che ognuno (compreso lo scienziato), a seconda dei propri gusti e delle proprie inclinazioni, può benissimo continuare a coltivare.
Quindi, tornando al dibattuto dilemma della democraticità o meno della scienza, potremmo concludere che la scienza è certamente democratica in quanto essendo un'impresa intellettuale collettiva, benchè impegnativa, è teoricamente aperta all'accesso e al contributo di tutti, ma non può essere democratica per niente nei confronti di chi invece, per sua negligenza e ottusità, pretende, spesso addirittura con arroganza, di poter comunque dire la sua ignorando completamente il funzionamento preciso e l'essenza stessa del fare scientifico.
Uno non può svegliarsi la mattina e in base alle sue elucubrazioni filosofiche o religiose derivanti dalla sua misera esperienza personale pretendere di affermare, magari cavalcando l'immagine evocativa di un novello Galileo incompreso, che le attività umane non c'entrino niente con il riscaldamento globale, che i vaccini non si debbano fare, che l'evoluzione biologica sia mancante di prove sufficienti, che esistano i complotti X e Y contro l'umanità e così via, in barba a tutte le evidenze scientifiche e ai decenni di ricerca sul campo da parte di persone preparate che hanno studiato per tutta una vita.
A meno che non sia in grado di supportare le proprie argomentazioni in modo assolutamente coerente, pertinente e soprattutto scientificamente rilevante.
Pertanto, questa apparentemente severa prospettiva che a qualcuno potrà anche sembrare vagamente scientista, in realtà non vuole assolutamente stigmatizzare a priori il dissenso o la discussione, ma soltanto chiarire come, al di là di un concetto abbastanza elusivo come quello di democrazia, le opinioni abbiano invece sempre un loro peso specifico e di conseguenza il grado di fiducia che concediamo a una persona o a un gruppo di persone dovrebbe sempre essere pesato sulle reali competenze che quella persona o quel gruppo hanno relativamente alla materia o agli argomenti in questione.
Tutto qui... Altro che scientismo.
Di Bruno Sebastiani
Apofatismo, chi era
costui? Non pensate di essere ignoranti se non conoscete il significato di
questa parola. È talmente in disuso che oramai credo che ben pochi la
conoscano.
E allora ricorriamo a Santa Wikipedia, che ci dice che
L'apofatismo (dal
greco ἀπό φημί che significa letteralmente “lontano dal dire”, “non dire”) è un
metodo teologico secondo il quale la comprensione della natura di Dio non può
essere espressa a parole.
In quest'ottica,
l'approccio più adeguato a Dio è quello che prevede il silenzio, la
contemplazione e l'adorazione del mistero, prescindendo cioè da qualsivoglia
processo di speculazione o indagine discorsiva dell'essere divino.
Nelle forme più radicali l'apofatismo può implicare non solo che non vi siano argomenti per descrivere appropriatamente Dio, ma che Egli sia del tutto inconoscibile dalla ragione, perché trascende le capacità cognitive umane e la stessa realtà fisica.
Anch’io ignoravo
questa corrente della cosiddetta Teologia negativa sino a che mi ci sono
imbattuto nell’ambito della ricerca di materiale per il nuovo libro che sto
scrivendo.
In questo nuovo
scritto (che avrà per titolo “Rivelazione – Discorso alle cellule malate”
e che vedrà la luce non si sa quando) cercherò di spiegare all’uomo che è inutile
che si affanni a tentare di risolvere tutti i problemi del mondo e a cercare una
spiegazione per ogni questione: il suo cervello è limitato, oltre un certo
limite non può andare e se tenta di farlo può solo combinare disastri, come puntualmente
stiamo constatando.
Ma questo concetto
non è del tutto analogo a quello degli asceti “apofatici”, che sostenevano la
limitatezza della ragione umana e la sua incapacità a sondare l’origine dell’universo?
Essi chiamavano
comunque Dio questa realtà irraggiungibile e, pur dichiarandola inconoscibile,
poi affidavano alla fede il seguito del discorso.
Può sembrare un
atteggiamento contraddittorio, ma dobbiamo considerare il contesto storico e
sociale in cui questi uomini vivevano. In ogni caso il loro approccio alle
verità ultime era ben diverso da quello dei rappresentanti del “catafatismo”, o
teologia affermativa, che ritenevano conoscibile Dio attraverso l’uso dell’intelletto.
Questi ultimi, come
noto, prevalsero e sdoganarono la ragione come strumento di indagine, prima
teologica e poi scientifica, sino a quando essa si ribellò ai vincoli dei dogmi,
si autodichiarò dea e salì all’onore degli altari rivoluzionari.
Ma, per tornare ai
rappresentanti dell’apofatismo, mi immagino che essi si sedessero in muta
contemplazione della natura, del cielo, del mare, del bosco e si sentissero
tutt’uno con questa realtà. La conoscevano “visceralmente” e per essi era
inconoscibile “razionalmente”.
Non l’avrebbero mai
deturpata disboscando e cacciando più del minimo necessario alla loro
sopravvivenza. A questi santi anacoreti, eremiti, padri del deserto ho dedicato
un apposito capitolo del mio libro “Il cancro del pianeta
consapevole” e a quelle pagine rimando per ogni approfondimento.
Ma in quel libro avevo
anche esteso la ricerca di correnti di pensiero “apofatiche” alle realtà spirituali
di altri continenti.
Una di queste, il
Taoismo, mi pare la più esplicita al riguardo e, al fine di renderla ancor più
esplicita, mi ero permesso di parafrasare il primo capitoletto del Tao Te Ching
in modo da renderlo più comprensibile alla mentalità dell’uomo d’oggi. Credo di
non aver tradito lo spirito del messaggio che l’antico ignoto estensore del
testo aveva inteso indirizzare ai suoi contemporanei. Se così è, credo di aver
realizzato una discreta sintesi dell’Apofatismo. Ma lascio ai lettori di
giudicare:
Il capitolo
introduttivo del Tao Te Ching, libro base del Taoismo, recita:
1. Il Tao di cui noi possiamo parlare
non è il Tao in se stesso.
2. Anche attribuendogli qualsiasi nome
non sarà l’eterno nome.
3. Non ha nome poiché è anteriore al
Cielo e alla Terra:
4. Ha un nome perché è chiamato “la
Madre di ogni cosa”.
5. Come non essere possiamo definirlo
il nascosto Seme di tutto l’esistente:
6. Come essere rappresenta l’ultimo
Fine a cui tende questo stesso esistente.
7. Sia il Seme che il Fine sono aspetti
di uno stesso Principio.
8. Il Principio è chiamato Mistero!
9. Mistero di tutti i misteri!
10. La soglia dell’inafferrabile!”
Così nella
traduzione di Chin-Hsiung Wu e Rosanna Pilone in “Quaderni di Civiltà Cinese”,
anno 1 numero 2, Milano, settembre 1955, p. 143. Altri hanno tradotto in modo
un poco differente.
Ma, al di là
dell’ermetismo del testo, il significato credo che possa essere il seguente:
1. I segreti dell’Universo non possono
essere da noi neppure immaginati e quindi, tantomeno, definiti.
2. Qualunque descrizione noi si faccia
di tali segreti con le parole, non potrà mai essere una descrizione che
rispecchi la realtà.
3. Le parole sono un’invenzione del
cervello dell’uomo, ma questi non può attingere alle realtà supreme, che tanto
lo precedono e lo sopravanzano.
4. Eppure l’uomo ha voluto dare un nome
ad ogni cosa, ed ha pensato di poter definire anche l’origine dell’Universo.
5. E mentre prima poteva attingere alle realtà supreme senza far ricorso all’uso del cervello, ma semplicemente contemplando in silenzio l’Universo
6. Ora, schiavo dell’uso del cervello,
non può che vedere cose particolari, così come egli le ha definite.
7. L’Universo è sempre il medesimo
8. Ma per il cervello umano esso è
Mistero
9. Il Mistero di tutti i misteri
10. Che il nostro cervello non può
afferrare!
Indossare una maschera è un peso ma, in alcuni casi, anche un vantaggio, soprattutto per le donne in una società patriarcale. Tradizionalmente, una maschera consentiva un certo anonimato e una possibilità di licenza sessuale occasionale. Potrebbe essere che l'attuale diffusione dell'abitudine di indossare mascherine sia una reazione allo "stato di sorveglianza" sempre più invasivo in Occidente? In questo post esploro questo problema anche in relazione alla storia biblica di Tamar e Giuda (sopra, Tamar e Giuda in un dipinto della scuola di Rembrandt))
13 E fu riferito a Tamar, dicendo: Ecco, tuo suocero sale a Timnath per tosare le sue pecore.
14 Si tolse di dosso le vesti da vedova, si coprì con un velo, si avvolse e si sedette in un luogo aperto, che è sulla strada per Timnath; poiché vide che Shelah era cresciuto e non gli era stata data in moglie.
15 Quando Giuda la vide, pensò che fosse una meretrice; perché si era coperta il viso.
16 E si voltò verso di lei lungo la strada e disse: Va ', ti prego, lasciami entrare in te; (poiché non sapeva che era sua nuora.) E lei disse: Che cosa mi darai, per entrare in me?
17 E lui disse: Ti manderò un capretto del mio gregge. E lei disse: Mi dai un pegno finché non la invierai?
18 Ed egli disse: Che pegno ti darò? E lei disse: Il tuo sigillo, i tuoi braccialetti e il tuo bastone che è nelle tue mani. Ed egli glieli diede, ed entrò in lei, e lei concepì da lui.
19 Ella si alzò e se ne andò, si tolse il velo e indossò le vesti da vedova.
20 E Giuda mandò il suo amico Adullamita con la capretta, a ricevere il suo pegno dalla mano della donna, ma non la trovò.
21 Quindi interrogò gli uomini di quel luogo, dicendo: Dov'è la meretrice che era qui sul lato della strada? E dissero: Non c'era nessuna prostituta in questo luogo.
22 E tornò da Giuda, e disse: Non riesco a trovarla; e anche gli uomini del luogo dissero che non c'era nessuna prostituta in quel luogo.
23 E Giuda disse: "Lasciamo perdere, che altrimenti ne saremo svergognati". Ecco, ho mandato questa captretta e tu non l'hai trovata.
24 E avvenne circa tre mesi dopo, che fu detto a Giuda, dicendo: Tamar, tua nuora, si è prostituita; e inoltre, ecco, lei è incinta per prostituzione. E Giuda disse: Falla venire qui e che sia bruciata.
25 Quando fu accompagnata, mandò dal suocero a dirle: "Per l'uomo di cui sono queste io sono incinta; e lei disse: Discerni, ti prego, di chi sono questi, il sigillo e i braccialetti, e il bastone.
26 E Giuda li riconobbe e disse: Ella è stata più giusta di me; perché non l'ho data a Shelah mio figlio.
Ora, questa storia ha dei buchi di logica così grandi che ci potrebbe passare attraverso una carovana di cento cammelli. Vediamo di spiegare.
Secondo Michael Astur (1966), a una ierodula babilonese era severamente vietato indossare un velo e, se lo faceva, era punita severamente. Quindi, come poteva Giuda scambiare una donna velata per una prostituta? Astour, qui, compie un salto di logica davvero acrobatico, notando prima che una donna potrebbe abbandonare il suo status di ierodula e sposarsi e, in questo caso, le sarebbe stato permesso di indossare un velo. Quindi, supponendo che Tamar fosse stata una ierodula prima di sposarsi, il fatto che lei indossasse un velo poteva essere "un privilegio evidentemente esteso alla vedovanza". Anche se dovessimo concordare su questa pericolosa catena di ipotesi, la spiegazione non ha senso lo stesso. Come poteva Giuda sapere che la donna velata che aveva incontrato era un'ex prostituta quando invece il suo aspetto era quello di una donna sposata?Terzo, ci viene chiesto di credere che Judah abbia rapporti sessuali con sua nuora che vive nella sua famiglia da almeno alcuni anni e che non la riconosce perché porta il velo (!!). Ora, questo mi ricorda come Luisa Lane nelle nostre storie di "Superman" è così stupida che non riesce a riconoscere che il suo fidanzato Clark Kent e Superman sono la stessa persona, solo perché Kent porta gli occhiali. Forse Judah non era il paio di forbici più affilate nella cassetta degli attrezzi del tosatore, ma non può essere stato così stupido. Secondo alcune fonti, ha detto che era ubriaco. Sicuro. Proprio.....
“Der Weltverbesserer”
è un racconto lungo di Hermann Hesse pubblicato nel 1911 e tradotto in italiano
da SugarCo con il titolo “Monte Verità”. In realtà l’unica attinenza con
la nota comunità “naturista” che sorse nei pressi di Ascona all’alba del XX
secolo consiste nel fatto che il protagonista del racconto, Berthold Reichardt,
risiede in una località isolata del Tirolo ove ospita uno dopo l’altro vari
personaggi anticonformisti.
Uno di questi, denominato
“un vegetariano seminudo”, pronuncia frasi che offrono lo spunto per un approfondimento
degno di interesse.
“Quell’uomo […]
non predicava né l’odio né l’inimicizia, ma nella sua orgogliosa umiltà era
persuaso che, se la sua dottrina fosse attecchita, come per incanto sarebbe
sbocciata una condizione umana molto simile a quella del paradiso terrestre […]
Il suo primo comandamento suonava: “Non uccidere!”, ma egli non lo riferiva
solo agli uomini e agli animali: lo intendeva come una sconfinata venerazione
di ogni essere vivente. Ammazzare un animale gli sembrava un atto orribile e
disgustoso e credeva fermamente che, una volta conclusosi l’attuale periodo di
degenerazione e di cecità, il genere umano si sarebbe nuovamente astenuto da
questo delitto. Era per lui un’empietà anche il solo strappare un fiore
o il tagliare una pianta. Reichardt, evidentemente, obiettò che, senza
abbattere gli alberi, noi non potremmo nemmeno costruirci una casa ed ecco il
frugivoro annuire con calore.
“Giusto!”, disse. “Molto
giusto! Non dobbiamo avere una casa e nemmeno vestiti. Le case e i vestiti ci
allontanano dalla natura e fanno nascere in noi altri bisogni che, a loro
volta, sono causa di assassinii, di guerre e di vizi”.
A quelle parole Reichardt
tornò a obiettare: “Ma sarebbe difficile, senza casa e senza vestiti,
sopravvivere a un inverno con il nostro clima!”.
E l’ospite sorrise
di nuovo e, visibilmente allegro, riprese: “Bene! Bene! Vedo che lei non mi ha
frainteso. Infatti, la fonte principale di tutte la miseria del mondo ha avuto
inizio il giorno in cui l’uomo ha abbandonato la sua culla e la sua patria
naturale nel grembo dell’Asia. Il fine dell’umanità è, appunto, ripercorrere questo cammino a ritroso e allora noi
tutti torneremo a vivere nel giardino dell’Eden”. (H. Hesse, Monte Verità,
SugarCo Edizioni, Milano 1988, pp. 71 – 73)
Con questa frase si
conclude l’intervento del “vegetariano seminudo” e il racconto prosegue
con altre vicende.
Nelle poche parole
pronunciate dal “frugivoro”, a parte l’inesatta collocazione geografica
della culla dell’umanità (Asia anziché Africa), è condensata la critica più radicale
che si possa pronunciare nei confronti del mito del progresso e della
superiorità del genere umano sulle altre specie.
Una tale visione del
mondo mi affascinò in passato – ben prima della lettura del testo di Hesse - al
punto che pensai di fondare su di essa un movimento culturale dal nome “regressismo”
in opposizione al “progressismo” imperante.
Il mito rousseauiano del
buon selvaggio mi apparve allora il faro su cui puntare il timone del mio “veliero
ideologico”.
Ma anche di fronte
alle posizioni più estreme, giustificate dalla gravità della situazione in cui
il progressismo ci ha precipitati, mi resi conto che non si doveva abdicare al
realismo e al buon senso.
Considerai le difficoltà
pratiche che un siffatto cammino a ritroso avrebbe comportato, pur in presenza
di una ipotetica (e del tutto improbabile) unanimità di consensi circa la sua intrapresa.
Per inciso anche il
protagonista del racconto, Berthold Reichardt, mostra “[…] una certa
insofferenza per l’evidente semplicismo di un pensiero fondamentalmente
idillico […]”, pur se “[…] amava a suo modo questa filosofia […]”.
Anch’io l’amavo, ma anch’io
mi rendevo conto della sua concreta impraticabilità.
Nacque così il “cancrismo”,
teoria in cui si riconosce che “la fonte principale di tutte la miseria del
mondo ha avuto inizio il giorno in cui l’uomo ha abbandonato la sua culla”,
ma in cui si considera anche che tale abbandono non dipese da un atto della
volontà, bensì da casuali alterazioni geniche intervenute ai danni del nostro
encefalo e che, soprattutto, queste alterazioni hanno provocato una serie
concatenata di danni oramai non più riparabili dal nostro intelletto, capace di
distruggere ma non di ricostituire l’equilibrio della biosfera.
Il mio ultimo libro, “L’impero
del cancro del pianeta”, è dedicato a questo argomento. Affrontando il
tema dell’alimentazione di tutta l’umanità e di tutte le macchine costruite dall’uomo,
ho cercato di argomentare come la strada dell’aggressione a ogni risorsa del
pianeta sia a senso unico: non si può che andare avanti, pena il blocco dei
rifornimenti di cibo e di energia a quelle vaste masse tumorali che sono le
megalopoli ovunque diffuse.
Ma se la strada sin
qui seguita dall’uomo non è percorribile a ritroso, dobbiamo rassegnarci ad
andare verso il precipizio senza poter mettere in atto alcuna modifica di
percorso?
Sicuramente è da
incoraggiare ogni invito a ridurre i consumi e ad adottare stili di vita più rispettosi
dell’ambiente che - se posto in atto - potrebbe, quantomeno, rallentare la
nostra folle corsa alla devastazione del pianeta.
Ma poiché queste
riduzioni e modifiche non sono gradite alla maggioranza della popolazione, la
diffusione di una teoria “violenta” come il Cancrismo può forse costituire la
cura d’urto necessaria a smuovere le coscienze.
Un ultimo appunto sul
discorso del “vegetariano seminudo”.
“Il suo primo comandamento
suonava: “Non uccidere!”, ma egli non lo riferiva solo agli uomini e agli
animali: lo intendeva come una sconfinata venerazione di ogni essere vivente.”
Questa è una
nobilissima dichiarazione di intenti da un punto di vista etico. Ma l’etica è
figlia della ragione umana, la stessa che sta distruggendo il pianeta. Non
esiste una analoga legge in natura, laddove il primo comandamento suona “nutriti
per vivere”, e il nutrimento deriva pressoché totalmente da sostanze
organiche, animali o vegetali. Ho affrontato in parte questo argomento in un
precedente articolo (“Carne
o non carne? Siamo animali vegetariani o onnivori?”) e ad esso rimando per approfondire
gli aspetti relativi alla dieta umana.
Altri hanno messo
assai egregiamente in risalto come l’introduzione dell’agricoltura abbia
alterato in modo irreparabile gli equilibri del mondo naturale. Si veda in
proposito il saggio di Jared Diamond (“Il
peggior errore nella storia della razza umana”) e quello di John Zerzan
(“Agricoltura”).
Dunque, per
concludere, un sentito ringraziamento al “vegetariano seminudo” per il
suo intervento, anche se il filo della sua coerenza ideologica non è del tutto
lineare. Ma ogni testimonianza di amore per la natura e di repulsione per gli imperanti
miti progressisti è da apprezzare e da diffondere risolutamente, in vista dell’avvento
di una nuova consapevolezza sulla reale natura della nostra specie.
Un post di Alessandro Chiometti già apparso il 12 Ottobre sul blog molto Cassandrista "Aspettando la Fine del Mondo"
Di Alessandro Chiometti
Vivere Mantova durante il festivaletteratura è sempre una delle migliori esperienze che si può fare in questo paese. Ti dimentichi di molta dell’arretratezza culturale che siamo costretti a vedere giornalmente sui social network e nelle chiacchiere razziste e qualunquiste che ormai imperversano ovunque.
Capita che ti trovi seduto al ristorante vicino al tavolo vicino a Michela Murgia che si alza per abbracciare con affetto la sua amica Lella Costa, che incontri Carlo Lucarelli che non disdegna mai due chiacchiere con i suoi fan su qualche mistero di blu notte, che vedi Jeffrey Deaver scrutare l’architettura di qualche chiesa e magari pensi che sta progettando il plot di qualche suo nuovo thriller.
Soprattutto, visto che la divulgazione scientifica affianca filosofia e letteratura, divulgatori e scienziati come Guido Barbujani, Telmo Pievani o Piergiorgio Odifreddi sono diventati ospiti fissi del festival ed è sempre un piacere aggiornarsi sulle loro ultime scoperte.
Proprio in una conferenza di Telmo Pievani ci capita di sentire la giovanissima Lynn Chiu che a vederla seduta così giovane al suo tavolo, da italico maschio medio senza speranza di evoluzione, uno pensa: “sarà la stagista!”. Dopo di che la giovane Ph.D docente di filosofia della scienza, nonché ricercatrice pluripremiata con il suo inglese perfetto ti dice “Buongiorno olobionti” e ci fa precipitare in un abisso di nuova consapevolezza.
Insomma, quello che la nuova biologia evoluzionistica ci dice, confortata da un buon numero di fatti e di evidenze scientifiche, è che questi bipedi infestanti auto-definitesi “umani” con evidente sprezzo del ridicolo, i quali non sono stanno distruggendo l’unico pianeta che hanno a disposizione ma riescono anche a non accorgersene, non dovrebbero essere più considerati una singola specie ma degli Olobionti per l’appunto. Ovvero: organismi eucarioti multicellulari con più specie di simbionte persistenti.
Dati di fatto? Eccovene uno abbastanza significativo: l’insieme di 70-80 kg di massa corporea che mediamente ci portiamo dietro con la nostra deambulazione ha un numero di cellule batteriche maggiore delle cellule umane. Circa 380.000 miliardi di cellule batteriche contro circa 300.000 miliardi di cellule umane.
Il concetto di Olobionte cerca di spiegare i complessi rapporti simbiotici con questa enorme massa batterica con cui conviviamo; come possiamo pensare che una presenza così invadente non ci condizioni? E soprattutto quando parliamo (ad esempio) di reazioni avverse non previste a qualche tipo di farmaco, di reazioni allergiche non consuete, insomma di anomalie non previste… come possiamo non tenerne conto? La PhD Lynn Chiu ci dice come questo rivoluzioni il concetto di self-non self e di come si dovrebbe passare al modello living with the trouble .
Ma dal punto di vista teorico questo non è l’unico motivo, anzi forse neanche quello più importante. Come cerca di spiegare anche questo articolo dell’università di Padova, se l’uomo è in realtà un olobionte anche il suo genoma sarà un ologenoma ovvero l’insieme dei geni umani e dei geni batterici e deve essere considerato un’unica entità evolutiva.
Sorridiamo ripensando ancora al fatto di come tutto ciò possa avere un impatto sull’eterna discussione “che cosa è la vita”, questione su cui nessuno riesce a trovare una definizione intrinseca per quanto ci sforziamo.
Ovviamente ci sono anche molti critici di questa teoria, che non ritengono necessario arrivare a tanto per spiegare il compelsso rapporto con i nostri ospiti, e che è meglio seguire la strada di comprendere meglio i processi di commensalismo, parassitismo e mutualismo che verrebbero messi in secondo piano se si segue la teoria dell’olobionte.
Perché ovviamente la discussione scientifica sulla scienza è sempre viva, attiva e affascinante. Certo che il problema è che una volta fuori dagli incontri scientifci di Mantova è difficile farlo comprendere a coloro che non hanno ancor accettato l’idea di essere scimmie nude.
Del resto anche per le strade di questa illuminata Mantova l’inquietante e invadente presenza dei Testimoni di Geova (uno degli ultimi gruppi di fanatici religiosi che credono ancora al creazionismo biblico), ci riporta alla brusca realtà della nostra specie. Di cui, olobionti o meno, ancora non sappiamo se sia il caso augurarne l’estinzione.
Alessandro Chiometti «
Seconda puntata dedicata al progetto “Ecoesione” dell’Università di Pisa su conversione ecologica e conflitto. Già pubblicato su Apocalottimismo" il 24/10/2020
Di Jacopo Simonetta
Nella prima puntata abbiamo visto alcune delle ragioni per cui un’ulteriore crescita economica non solo è estremamente improbabile, ma sarebbe anche in netto contrasto con l’imperativo di ridurre il più rapidamente possibile l’impatto dell’umanità sul Pianeta. Sarebbe anche prodromo di maggiore conflittualità sociale poiché, salvo opportuni provvedimenti, con ogni probabilità contribuirebbe ad accrescere ulteriormente le differenze di reddito.
Ma se la crescita ha il potere di mitigare i conflitti sociali, la decrescita ha l’effetto opposto, specialmente se, mentre i più decrescono, alcuni continuano a crescere in ricchezza e potere. Non è certo l’unico fattore in gioco, la struttura demografica è anche più importante nel favorire la violenza, ma resta comunque una delle forzanti importanti di cui occuparsi.
Ogni società elabora i propri criteri per decidere cosa è giusto e cosa no, ma sempre vi è un limite oltre il quale la classe dirigente cessa di essere considerata una guida e comincia ad essere vista come un parassita. Di qui la seconda domanda che pongo: Quanta decrescita e per chi?
La decrescita è un concetto alieno, tanto che la parola stessa è un neologismo di assai recente invenzione e gli stessi suoi fautori si affrettano a specificare che, sostanzialmente, si tratta di fare a meno del superfluo, guadagnando però in termini di qualità della vita grazie al venir meno del consumismo compulsivo. Che il consumismo sia una strategia basata sulla cronicizzazione di una stato di frustrazione e solitudine non ho dubbi, ma la questione di quanto sia necessario decrescere per evitare il collasso planetario è parecchio più complicata. Vediamo alcuni dei punti che credo dovrebbero essere tenuti in conto.
Quanto bisogna decrescere? Una serie di indicatori concordano nel suggerire che l’umanità nel suo complesso abbia superato la capacità di carico del pianeta nei primi anni ’70. Vale a dire che sono circa 50 anni che l’effetto combinato di popolazione, consumi e tecnologia ha superato la “capacità di carico” del Pianeta, avviandone un degrado progressivamente accelerato. Moltissime specie, soprattutto di grande fauna, erano già state eliminate dai nostri antenati fin dal tardo paleolitico, ma fino ai primi anni ’70 questo non aveva messo in forse il permanere sulla Terra di condizioni chimico-fisiche compatibili con la vita. A far data da allora invece si.
Di qui l’imperativo, ossessivamente ed inutilmente ribadito ad ogni occasione, di riportare gli impatti complessivi, far cui le famigerate “emissioni climalteranti”, entro dei limiti di sicurezza. Ma se cinquant’anni or sono questo sarebbe stato sufficiente, oggi non lo è più perché nel frattempo biosfera, atmosfera e idrosfera sono state pesantemente modificate cosicché, per consentire al pianeta di recuperare, sarebbe oggi necessario riportare l’impatto antropico ben al di sotto di quella soglia.
Tanto per farsi un’idea di larga massima possiamo comunque darci l’obbiettivo di riportare i nostri consumi globali a quelli di 50 anni or sono. Non dovrebbe essere molto traumatico, visto che chi c’era non ha un cattivo ricordo di allora, per non parlare dei miliardi di persone che vivono ben al di sotto dello standard europeo degli anni ’60 e che, quindi, avrebbero un buon margine di miglioramento. Ma non è così semplice.
Un calcolo preciso sarebbe molto complicato ed aleatorio, ma per farsi un’idea molto approssimativa basta pensare che, da allora, la popolazione è più che raddoppiata, così come i consumi medi pro capite. Ne consegue che, per tornare all’impatto antropico di allora occorrerebbe ridurre ad un quarto i consumi medi attuali. Significherebbe un livello di consumo analogo a quello attuale della Moldavia, per avere un’idea molto approssimativa. Una cosa che non sarebbe certo indolore, soprattutto per noi euro-occidentali, e che ci porta direttamente nel cuore dei possibili conflitti sociali ed internazionali legati a politiche (per ora ipotetiche) di sufficiente riduzione dei consumi.
Chi deve decrescere fra classi. Una così drastica riduzione dei consumi medi può avere effetti estremamente diversi a seconda di come vengono ripartiti fra le classi sociali, dal momento che anche nei paesi più poveri ci sono ricchi e ricchissimi. Anzi, è proprio in questi stati che le disparità di reddito raggiungono l’apice (ad oggi, la UE ha uno dei livelli di sperequazione minori al mondo).
Secondo la vulgata, per risolvere la situazione sarebbe sufficiente tassare pesantemente i super-redditi e super patrimoni per ridistribuire il denaro fra i poveri, ma ancora una volta non è così semplice.
Innanzitutto, se ci fidiamo di Piketty che parla dell’Europa, per quanto spropositati, i super redditi sono troppo pochi per fornire un gettito fiscale adeguato ai bisogni. Bisognerebbe quindi estendere le super-tasse ad un buon 10-20% della popolazione, vale a dire all’intera classe dirigente. La probabilità che ciò avvenga è estremamente ridotta, malgrado questo porterebbe indubbi vantaggi proprio all’élite in termini di recupero di credibilità e di legittimità.
Inoltre, proprio i patrimoni ed i redditi maggiori sono i più difficili da accertare e “catturare”, come dimostrato dal fatto che un miliardario come Trump non solo può impunemente eludere le tasse in un paese assai severo con gli evasori, ma addirittura diventarne il capo.
Comunque, anche immaginando una “Robin Tax” efficace, non è affatto detto che la ridistribuzione del reddito verso il basso sia compatibile con lo scopo dichiarato di ridurre gli impatti antropici. E’ infatti certamente vero che i ricchi consumano e inquinano più dei poveri, ma stimare quanto non è così semplice come Oxfam sostiene con la sua pubblicazione che è perfettamente condivisibile sul piano politico, ma che ha ben poco valore su quello scientifico.
Anzi, uno dei meccanismi automatici che portano alla crescita spropositata dei massimi patrimoni, mentre quelli relativamente modesti rendono poco, è proprio il fatto che i grandissimi capitalisti possono devolvere in consumi solo una piccola parte dei loro redditi, cosicché ne reinvestono una percentuale tanto maggiore, quanto più grande è il patrimonio accumulato. Un classico anello a retroazione positiva; uno dei tanti annidati nel cuore del capitalismo.
Inoltre, dal punto di vista ambientale, il risultato sarebbe diverso a seconda di come la ricchezza vaisse distribuita. Per esempio, se super-tassassimo alcune persone ed imprese europee per distribuire il ricavato fornendo trasporti pubblici gratuiti i consumi diminuirebbero. Viceversa, se lo distribuissimo sotto forma di “ecoincentivi” per l’acquisto di auto elettriche i consumi presumibilmente aumenterebbero.
Comunque, al di là delle questioni di dettaglio, rimane il fatto che ridurre di molto il potere d’acquisto di poche persone per aumentare di poco quello di molte probabilmente manterrebbe i consumi costanti.
Anzi c’è il rischio che li incrementi e, con essi, probabilmente, anche la natalità. Per dirla con un aforisma: la sostenibilità si persegue impoverendo i ricchi, non arricchendo i poveri. Un fatto che in molto subodorano e che cementa quindi una singolare alleanza proprio fra i ricchi (che non vogliono rinunciare ai loro privilegi) e molti poveri e medi (che non vogliono rinunciare al sogno di arricchirsi o, perlomeno, di mantenere lo status quo).
Chi deve decrescere fra stati. E’ perfettamente vero che noi occidentali, chi più chi meno, abbiamo sfruttato ignobilmente altri popoli e paesi per lungo tempo. Ed è vero che, anche se la palma della maggiore potenza coloniale mondiale sta passando in mano cinese, una parte consistente del nostro residuo benessere deriva ancora da accordi commerciali a noi favorevoli. Sono quindi giustificate le rivendicazioni di altri paesi e il desiderio di una parte degli europei di porre fine a questa situazione, ma difficilmente si tenta di analizzare a fondo le implicazioni di una simile operazione.
Noi occidentali siamo stati, complessivamente, i più ricchi e potenti del mondo per talmente tanto tempo da credere che questo sia un fatto naturale ed irreversibile. Non è stato così in molti periodi della storia e non è scritto da nessuna parte che debba restare così per sempre. Anzi, abbiamo ben visto che nel giro di appena 20 anni abbiamo perso parecchie posizioni. Anche questo è un fattore di tensione e di possibile conflitto, stavolta su di un piano internazionale, ma c’è un problema anche maggiore: una rapida decrescita comporterebbe una riduzione del peso politico, economico e militare dello stato, in un contesto di crescente conflittualità non solo con paesi e governi tradizionalmente ostili, ma anche fra paesi che vantano decenni di ottimi rapporti.
Si possono pensare dei sistemi per gestire la questione riducendo i rischi, ma occorre che il problema sia tenuto ben presente e analizzato senza nascondersi il fatto che molti degli stati nostri vicini sono destinati, comunque, ad attraversare fasi di violenza estrema e che non è assolutamente detto che questo non ci coinvolga, in un modo o nell’altro. Come non è assolutamente detto che le potenze maggiori decidano di non approfittare della nostra debolezza, come noi approfittiamo di quella altrui. In particolare mi preoccupano sia gli USA che la Cina che, impegnate nello scontro per la supremazia mondiale, stanno facendo di tutto per colonizzare l’Europa ancor più di quanto non abbiano già fatto.
Impatti su settori irrinunciabili. Quando si parla di abbandono del petrolio, si parla di energia per uso domestico, di agricoltura, trasporti ed altro, ma vi sono interi settori vitali di cui non si parla mai. Qui mi limiterò a citarne uno solo: la sanità. Oggi, soprattutto in Europa ma non solo, praticamente chiunque ha accesso ad un livello di cure che un re od un miliardario di soli 50 anni fa neppure si immaginava e questa è considerata una delle conquiste principali ed irrinunciabili del progresso. Solo che tutto ciò di cui vive il sistema sanitario (medicinali, ospedali, materiali di tutti i generi, protesi ecc.) proviene direttamente o indirettamente dal petrolio e non ci sono alternative possibili, neppure in prospettiva.
In un'ottica di rapida e radicale decabonizzazione, sarebbero anche altri i settori socialmente vitali ad andare in forte crisi. Diciamo che l’intero sistema di welfare (Sanità, sussidi, pensioni, ecc.), già fortemente sotto stress, diventerebbe impossibile da mantenere.
Si potrebbe pensare di conservare una modesta estrazione petrolifera per soddisfare questi e gli altri bisogni per i quali non vi sono alternative, ma non sarebbe possibile; perlomeno non in un’economia di mercato perché, venendo meno le economie di scala, i costi diventerebbero impossibili.
Impatti demografici. Senza qui indugiare su di un tema così complesso, ignorare o trattare sulla base di comodi luoghi comuni uno dei fattori principali in gioco, anzi IL fattore principale in gioco, è come pensare di cucinare una torta usando zucchero e lievito, ma senza farina. Vale quindi la pena di ricordare che la sovrappopolazione non è un fatto assoluto, bensì relativo in quanto dipende certamente dal numero di persone, ma anche dalla struttura della popolazione, dalle condizioni economiche, dal livello tecnologico e dalla capacità di carico del territorio in questione. Il ultima analisi, è il rapporto fra impatti antropici complessivi ed ambiente che determina lo stato di sovrappopolamento.
Tendenzialmente, la crescita economica, anche se “verde”, favorisce la natalità, riduce la mortalità e favorisce l’immigrazione. Il contrario di solito avviene quando la crescita finisce, ma gli effetti reali sono difficili da prevedere perché dipendono anche da molti altri fattori politici, sociali e culturali.
Resta comunque il fatto che, di solito, la crescita demografica segue quella economica con un'inerzia che tende ad erodere i vantaggi raggiunti, generando situazioni di stress sociale particolarmente gravi se associati ad un vistoso “bubbone giovanile”. Masse di giovani senza reali sbocchi professionali sono infatti un viatico sicuro per un elevato grado di turbolenza e di conflittualità, finanche estrema come già stiamo vedendo in molti dei paesi maggiormente prolifici, alcuni molto vicini a noi.
Comunque, modifiche sensibili nelle condizioni di vita hanno sempre conseguenze demografiche, anche se si riescono ad evitare scoppi di violenza. Per fare un esempio pratico, l’aspettativa di vita in Italia è oggi di circa 83 anni, mentre nei citati anni ’70 era di 72; quella odierna della Moldavia è di 76. Ciò non significa che qui accadrebbe lo stesso che là, oppure che si torni indietro nel tempo, ma la correlazione fra consumi e aspettativa di vita è stretta e ben motivata. Certo, se volendo essere cinici, una riduzione della vita media sarebbe un considerevole vantaggio economico sia per i governi che per i giovani, ma politicamente la questione è improponibile, tanto è vero che si evita accuratamente anche solo di farvi cenno.
Uno dei libri più straordinari mai scritti è “I Limiti della Crescita” che dopo 50 anni non solo non è invecchiato affatto, ma anzi è più di attualità che mai. Decenni di verifiche e controlli sui dati reali hanno infatti confermato oltre ogni possibile dubbio l’esattezza dell’impostazione di quel lavoro e che quello che oramai stiamo vivendo sono le prime fasi di un collasso dell’intera civiltà industriale mondiale. Questo significa che una brutale decrescita non è più una scelta, ma un fatto ineluttabile e nasconderselo non ci aiuterà a sopravvivere.
La buona notizia è però che, anche se oramai è troppo tardi per evitare il “Picco di Tutto”, siamo ancora in tempo a mitigare i danni del “rientro” entro quei limiti che abbiamo cercato di esorcizzare negandoli, con l’unico risultato di sfracellarci contro di essi alla massima velocità possibile.
Ma, si obbietta spesso, se si ammette che il collasso sia ormai inevitabile (fatto sul quale molti peraltro dissentono energicamente), a che pro darsi da fare? E’ una strana obbiezione perché è proprio quando la nave affonda che c’è il massimo di lavoro da fare, non quando la crociera procede tranquilla.
Di questo parleremo nel terzo ed ultimo episodio.