sabato 14 febbraio 2015

La grande accelerazione dell'attività umana

Da “igbp”. Traduzione di MR (h/t Paul Chefurka)

Comunicato stampa – Da un decennio la IGBP, in collaborazione con lo Stockholm Resilience Centre, ha rivalutato gli indicatori della Grande Accelerazione inizialmente pubblicati nella sintesi IGBP “Cambiamento globale nel sistema terrestre” nel 2004. L'attività umana, prevalentemente il sistema economico globale, ora è il motore principale di cambiamento nel Sistema Terrestre (la somma dei processi fisici, chimici, biologici ed umani del nostro pianeta), secondo una serie di 24 indicatori globali o “display planetario”, pubblicati nella rivista  Anthropocene Review (16 gennaio 2015).

(Link ai grafici degli indicatori)

venerdì 13 febbraio 2015

Samantha Cristoforetti: L'ultima astronauta?

DaResource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi


Intelligente, specializzata, competente, poliglotta ed altro ancora, Samantha Cristoforetti sembra sia stata inventata per un episodio di “Star Trek”. Qui è mostrata nella Stazione Spaziale Internazionale, dove si trova al momento della pubblicazione di questo post. La Cristoforetti potrebbe non essere l'ultima astronauta ad orbitare intorno alla Terra, ma è possibile che la fine di quella che una volta veniva chiamata “era spaziale” non sarà troppo lontana. (Immagine ESA/NASA)

Ho vissuto l'entusiasmo della “era spaziale”, a partire dagli anni 60 e non sono felice di vedere la fine di quel vecchio sogno. Eppure i dati sono chiari e non possono essere ignorati: il volo spaziale umano si sta esaurendo. Guardate il grafico sotto. Mostra il numero totale di di persone lanciate nello spazio ogni anno. (I dati provengono da Wikipediaulteriori dettagli).




giovedì 12 febbraio 2015

Il Picco del Petrolio Accessibile

DaCrude Oil Peak”. Traduzione di MR

Di Matt Mushalik 

 Fig 1: prezzi spot WTI al 23/1/2015



E' del tutto ovvio che gli alti prezzi del petrolio negli ultimi 3-4 anni abbiano ridotto la domanda di petrolio, come mostrato in questo grafico della IEA per il paesi OCSE:




Quindi quale petrolio è accessibile? Usiamo un grafico del Monetary Policy Report (gennaio 2015) della Banca del Canada (che dovrebbe essere teoricamente favorevole alle sabbie bituminose canadesi)


Fig 3: produzione di petrolio per area e costi del ciclo completo

Il rapporto della Banca del Canada dice: “Sulla base di stime recenti dei costi di produzione, circa un terzo dell'attuale produzione potrebbe essere antieconomica se i prezzi permangono intorno ai 60 dollari, particolarmente gli alti costi di produzione di Stati Uniti, Canada, Brasile e Messico (Grafico 4). Più di due terzi dell'aumento dell'offerta di petrolio mondiale attesa sarebbe analogamente antieconomica. Un declino dell'investimento pubblico e privato in progetti ad alto costo potrebbe significativamente ridurre la crescita futura di offerta di petrolio e i membri dell'OPEC avrebbero una capacità di riserva limitata per sostituire una diminuzione significativa dell'offerta non OPEC”. (pdf)

Mettiamo questi costi in grafici di produzione petrolifera:

(1) Offerta di petrolio totale
La Figura 3 si riferisce a 90 mb/g (asse x) che è stata l'offerta totale mondiale del 2013, secondo le statistiche EIA disponibili qui.



Fig 4: offerta di petrolio per paese/area e costo economico del petrolio

Nella Figura 4, le offerte di petrolio sono accatastate in base al costo economico del petrolio del 2014, a partire dall'Arabia Saudita (25 dollari/barile, verde) per arrivare fino alle sabbie bituminose canadesi (80 dollari/barile, rosso scuro). I colori sono stati estesi a tutto il periodo fino al 1980 in modo che sia visibile la storia della produzione. Le linee di diverso tipo mostrano quattro diversi livelli di costo, per cui le loro lunghezze sono indicative solo per mostrare i livelli di produzione corrispondente degli ultimi anni. Sembra che le offerte di petrolio fino a circa 75 dollari abbiano raggiunto il picco (tutti i paesi fino al Brasile). In altre parole, se il mondo è disposto (o in grado) di pagare solo 75 dollari al barile, la corrispondente produzione di petrolio declina dal 2012 – di circa l'1,6% in due anni. Il petrolio a 50 dollari è andato su e giù, ma a soli 56 mb/g o il 60% dell'attuale domanda.

La cosa importante qui è che la produzione di petrolio accessibile non sembra aumentare in volume. Ciò ha gravi implicazioni per la pianificazione economica e dei trasporti. Nella Figura 4, l'offerta di petrolio comprende: petrolio greggio, liquidi del gas naturale, guadagni di processo in raffineria ed altri liquidi (compresi i biocombustibili). Le definizioni della IEA sono qui.

Vediamo come si presenterebbe il grafico se avessimo usato solo il petrolio greggio e il condensato.

(2) Petrolio greggio e condensato:


Fig 5: come nella figura 4, ma solo per il petrolio greggio

Tutto il petrolio greggio fino a 75 dollari è sostanzialmente piatto dal 2005. Il petrolio non convenzionale costoso ha coperto questa tendenza incontestabile.

(3) Costi delle sabbie bituminose canadesi

Com'è quindi arrivata la Banca del Canada a determinare un costo 90 dollari per le sabbie bituminose? La tavola seguente proviene da un rapporto del luglio 2014 dell'Istituto di Ricerca Energetica Canadese.

Costi dell'offerta di sabbie bituminose canadesi e progetti di sviluppo (2014-2048)


Fig 6: costo delle sabbie bituminose canadesi

SAGD sta per steam assisted gravity drainage per i progetti in-situ di sabbie bituminose come descritto qui. Quindi la Banca del Canada ha preso i 90 dollari come media equivalente del WTI. I prezzi sopra assumono un differenziale leggero/pesante di 18 dollari al barile fra il West Texas Intermediate (WTI) e il West Canadian Select (WCS), anche dopo lo storno dell'oleodotto Seaway e la costruzione del ramo meridionale del Keystone XL nel 2013 per collegare Cushing al Golfo del Messico. Questo aumento del WTI, che riduce in tal modo il differenziale Brent, ma non ai livelli storici di 2-5 dollari al barile “indica potenzialmente due cose: o i due mercati non sono più collegati e i prezzi sono rappresentativi soltanto di mercati regionali o la connettività da mercato a mercato non è sufficiente per aumentare i prezzi del WTI ai livelli del Brent (senza costi di trasporto) o una combinazione delle due... Nel tempo, man mano che più bitume miscelato continua a penetrare nei mercati esistenti così come nei nuovi mercati, come la costa del golfo statunitense e i mercati al di fuori del Nord America, il differenziale leggero/pesante potrebbe ridursi in futuro”. (pdf)

Conclusione

Usando la valutazione della Banca del Canada, la produzione di petrolio accessibile a livelli di prezzo fino a 75 dollari ha superato il picco o vi è a ridosso dal punto di svolta del 2005. Ciò significa che l'economia globale non potrà crescere di nuovo “normalmente”.



mercoledì 11 febbraio 2015

Strada obbligata. Un commento.

Di Jacopo Simonetta


In un precedente post, ho riportato la traduzione di un lungo articolo in cui John M. Greer sostiene come una volontaria regressione tecnologica sarebbe una strategia efficace di resilienza.   Tuttavia, l’arcidruido ammette che questa sia un’opzione che non ha alcuna speranza di essere attuata in quanto viola il principale tabù della nostra civiltà: il progresso.

In una sua conferenza di alcuni mesi fa a Pisa, S. Latouche aveva sostenuto qualcosa di simile.   Pur senza entrare nel merito del livello tecnologico, il professore ha infatti sostenendo che un ritorno ai consumi pro capite di 60 anni fa sarebbe sufficiente a riportare l’economia globale entro limiti di sostenibilità.

In linea con alcuni commenti che sono stati fatti, personalmente trovo che l’idea contenga elementi interessanti, ma che non potrebbe essere attuata a scala di nazioni o di super-nazioni.   E non solo per ragioni di tabù, peraltro consistenti ed evidenti. Qui vorrei fare cenno a due soli aspetti.

Il primo è la capacità militare che, da quando esistono gli eserciti, dipende sostanzialmente da due ordini di fattori: la capacità organizzativa e la tecnologia.   Semplicemente, un paese che riducesse il suo livello tecnologico si troverebbe alla mercé di chi questo non lo ha fatto e si tratta di un passaggio solo parzialmente e faticosamente reversibile.    In un contesto di decrescita complessiva, perdere posizioni è facile, riguadagnarne è invece molto difficile.

Il mondo contemporaneo ci offre numerosi esempi di paesi che, per varie ragioni, hanno avuto un esperienza simile.     Forse il caso più eclatante è stato lo smantellamento dell’Armata Rossa all'indomani del collasso dell’URSS.   Il risultato fu che pochi anni dopo la Russia fu sconfitta sul campo dalla Cecenia!

Una lezione che Mosca imparò bene.   Ma solo grazie a 20 anni di sforzi alimentati dal un elevato prezzo degli idrocarburi fossili, a loro volta spinti da enormi investimenti e tecnologie straniere, ha potuto risalire parzialmente la china.

In maniera meno brutale, qualcosa del genere è accaduto anche all'interno della NATO ed in altri casi ancora. Indipendentemente da altre considerazioni, in un contesto di contrazione economica, ridurre il proprio livello tecnologico è una strada a senso unico che comporta enormi rischi politici e militari. Rischi assolutamente intrattabili nel momento in cui, eventualmente, scoppia una crisi grave.

Un secondo ordine di fattori anche più grave negli effetti dipende dalla nostra capacità di estrarre dal Pianeta quanto ci serve. E’ vero che abbassando il livello tecnologico si abbasserebbero i consumi pro capite, ma si abbasserebbe anche la nostra capacità di accedere alle risorse i misura più che proporzionale.

Facciamo un esempio non a caso:  Riserve di petrolio estraibili con le tecnologie del 1950 praticamente non ne esistono più.   Già con sistemi anni ’70 rimarrebbe disponibile ben poco.    E lo stesso credo che valga più o meno per tutti i minerali, con un’importante eccezione, almeno parziale. Una drastica riduzione dei consumi pro capite dei materiali facilmente riciclabili (diversi metalli, vetro, ecc.)  potrebbe portarne il consumo a livelli gestibili, almeno per lungo tempo, recuperandone le immense quantità sepolte nelle discariche ed incorporate in oggetti che diventerebbero inutili.

Vi sono tuttavia problemi che diventerebbero necessariamente critici.    A parte l’energia cui si è fatto cenno, per fare un solo esempio, nel 1950 la popolazione mondiale ammontava a 2.500 milioni di persone, circa un terzo di adesso. La densità era di circa 18 abitanti per chilometro quadro, mentre oggi è di 52. Considerando solo i terreni in qualche misura agricoli, ognuno di noi dispone oggi di poco più di 2.000 mq contro poco meno di un ettaro di allora. La desertificazione si mangia oltre un milione di ettari ogni anno, la superficie forestale è più che dimezzata, i banchi di pesca sono spariti o ridotti, una miriade di specie di piante, insetti ed altri piccoli animali si sono estinte, il clima diviene sempre più ostile, le riserve idriche si prosciugano eccetera.    Si potrebbe andare avanti per pagine. Non che nel 1950 le cose andassero benissimo, ma eccettuate alcune zone molto circoscritte, la situazione ambientale e la disponibilità di risorse erano molto, ma molto migliori di oggi.

Oggi possiamo vivere in così tanti solo grazie al nostro attuale livello tecnologico.    Un livello che abbiamo raggiunto grazie ad una complessa retroazione fra tecnologia, economia, popolazione, sfruttamento delle risorse.    Invertire la tendenza facilmente potrebbe avviare una retroazione inversa.

D'altronde, con ogni probabilità, è proprio quello che ci accadrà, che lo si voglia  o meno.   Il livello tecnologico è infatti approssimativamente correlato con la disponibilità di energia e sappiamo che la pacchia è finita per sempre.   Esistono ancora grandi risorse energetiche, ma nessuna che sia qualitativamente comparabile a quella che avevamo fino a pochi anni or sono.   E non si può pensare che fonti energetiche scadenti e/o costose possano avere gli stessi effetti di fonti eccellenti ed economiche.   Molti suggeriscono che solo un ulteriore progresso tecnologico può farci uscire dalla trappola.   Ma da sempre il progresso tecnologico ha richiesto disponibilità di risorse di alta qualità, disponibilità di ecosistemi capaci di riciclare gli scarti, capacità della società di gestire una maggiore complessità.    Tre ordini di fattori sulla cui disponibilità futura è legittimo dubitare, dal momento che già ora cominciano a scarseggiare.

Del resto, in alcuni settori il “downgrade” si comincia a vedere.   Per esempio, il rallentamento delle esplorazioni spaziali, ma anche l’abbandono del programma “Space shuttle” e di quelli previsti in seguito per tornare a dei vettori di tipo tradizionale.   Oppure la mesta fine del Concorde, fino al boom di risciò nelle maggiori città europee.    Per non parlare della  parziale sostituzione del petrolio tornando al carbone o, addirittura, al legname!

In conclusione, il mio del tutto personale parere è che ancora esistano molte opzioni per mitigare la caduta della nostra civiltà, ma nessuna che la possa evitare.   E con la caduta della nostra civiltà molte cose che oggi diamo per scontate diventeranno rare, oppure scompariranno del tutto.   Ed ecco che il “downgrade” tecnologico, improponibile a livello di stati, diviene invece una strategia molto interessante a livello di famiglie e piccole comunità resilienti.  In un ambiente di grave e permanente crisi economica, disoccupazione cronica, disordini sociali e guerre locali, carenza di energia e ricambi, eccetera, certamente disporre di tecnologie e conoscenze ripescate da un passato più o meno remoto può rivelarsi un’eccellente opzione.


martedì 10 febbraio 2015

Il ruolo dei collassi sociali nei cicli storici (II)

DaThe Oil Crash”. Traduzione di MR




Cari lettori,

nel post di oggi vi presento la seconda parte dell'estratto della sezione 9.1 del libro “Nella spirale dell'energia”, di Ramón Fernández Durán e Luis González Reyes. Nel post di oggi si analizza l'inevitabilità del collasso della società industriale e le sue fasi.

Saluti.
AMT

Inevitabilità del collasso della civiltà industriale

La vulnerabilità del capitalismo fossile (capitalismo basato sui combustibili fossili, ndt) globale

Il sistema socioeconomico attuale ha elementi di resilienza importanti. Uno è che l'alta connettività aumenta la capacità di rispondere rapidamente alle sfide. Per esempio, se manca il raccolto in una regione, la fornitura alimentare si può dislocare in un altro luogo del pianeta (se interessa, la stessa cosa si potrebbe dire di una parte sostanziale del sistema industriale. Un'altra espressione della resilienza è il dislocamento del rischio in altri luoghi esterni agli spazi centrali e del presente attraverso l'ingegneria finanziaria. Tuttavia, la connettività aumenta anche la vulnerabilità del sistema, visto che, a partire da una certa soglia, non si possono più compensare gli squilibri e il collasso dei singoli sottosistemi colpisce il resto. Il sistema funziona come un tutto interdipendente e non come parti che si possano analizzare isolate (Stati Uniti, UE, Cina) e molto meno che possano sopravvivere da sole. Inoltre, si è raggiunta la connettività massima: non esiste più un “fuori” del sistema-mondo, il mondo è “pieno”. Non c'è più la possibilità di migrare ne di ricevere aiuto da altri luoghi. La figura 9.3 visualizza le implicazioni di questa connettività. Si può partire da un nodo qualunque, come la mancanza di accessibilità a gas e petrolio (in alto a sinistra) e seguire come questa carenza si trasmetta a tutto il sistema.



Figura 9.3: Complessità ed interdipendenza del sistema attuale.

lunedì 9 febbraio 2015

Strada obbligata.

The one way forward
Di John M. Greer
Traduzione di Jacopo Simonetta.

Ho voluto tradurre questo lungo (un po’ troppo lungo) articolo dell’ineffabile Aci-druido perché mi pare che sia particolarmente interessante.   Fra l’altro, esprime posizioni molto simili a quanto sostenuto da Serge Latouche in una conferenza tenuta a Pisa nella primavera scorsa.
Io rimango scettico per varie ragioni che esporrò in un prossimo post, ma mi pare comunque un’idea interessante.

Nota sulla traduzione:   La prosa di Greer è molto lineare nei suoi libri, ma spesso contorta nei suoi post.   In queste pagine, mi sono preso la libertà di modificare leggermente la punteggiatura e qualche giro di frase che, tradotto pedissequamente in italiano, diventava illeggibile.


Tutto considerato, il 2015 non promette di essere una buona annata per chi crede nel “business as usual”.   Dopo il post della settimana scorsa sull’Archidruid report, il partito anti-austerity Syriza ha spazzolato le elezioni in Grecia, fra l’entusiasmo di partiti simili in tutta Europa e lo sconforto della gerarchia di Bruxelles.   Questa non può rimproverare altri che se stessa per questo evento.   Oramai per più di un decennio, le politiche EU hanno effettivamente protetto le banche ed i possessori di buoni del tesoro dalla salubre disciplina del mercato, prima di ogni altra considerazione.   Ivi compresa la sopravvivenza economica di intere nazioni.    Non dovrebbe sorprendere nessuno se questo non era un approccio vitale a lungo.

Nel frattempo, la bolla del fracking continua a sgonfiarsi.   Il numero di trivelle al lavoro nei campi petroliferi americani continua a cadere verticalmente di setimana in settimana.   I licenziamenti nel settore petrolifero stanno accelerando ed il prezzo del petrolio rimane a livelli che rendono ogni espansione del fracking un benvenuto esercizio matematico per il tribunale locale.   Quei pundit mediatici che stanno ancora parlando dell’industria del  fracking stanno insistendo che il calo del prezzo del petrolio prova che loro avevano ragione e che quei maledetti eretici che parlano di picco del petrolio devono avere torto. Ma evitano di spiegare come mai i minerali di ferro, rame e molti altri dei materiali principali stanno perdendo valore ancora più in fretta del greggio.   E neppure perché la domanda di petrolio negli USA sta declinando anche lei.

Il fatto è semplicemente che un’economia industriale costruita per correre con petrolio convenzionale a buon mercato non può funzionare a lungo con petrolio costoso senza schiacciarsi il naso per terra.   Dal 2008, le nazioni industriali del mondo hanno cercato di compensare la differenza inondando le loro economie con credito a buon mercato, nella speranza che questo avrebbe potuto compensare la rapidamente crescente quantità di ricchezza reale che deve essere dirottata dagli altri scopi, nello sforzo di mantenere il flusso di combustibili liquidi al loro livello di picco.   Ora però le leggi economiche hanno chiamato il loro bluff.    Le ruote si stanno fermando in una nazione dopo l’altra ed il prezzo del petrolio (come quello di altre risorse) è sceso ad un livello che non copre i costi dell’olio di scisto, delle sabbie bituminose e cose simili.   Ciò perché tutti questi frenetici tentativi di esternalizzare i costi della produzione di energia comportano che sia l’economia globale che riceve il colpo.

Naturalmente non è così che i governi ed i media spiegano la crisi che sta emergendo.   Del resto, non c’è carenza di pundit e di gente fuori dai corridoi del potere  che ignorano il collasso generale del prezzo delle materie prime.   Fissandosi sul petrolio al di fuori del più vasto contesto dell’ esaurimento delle risorse in generale, insistono che il cambio del prezzo del petrolio sia un atto di guerra, o quel che vi pare.

Questa è una logica che i lettori di questo blog hanno visto dispiegarsi molte volte nel passato.   Qualunque cosa accada deve essere stato deciso ed attuato da esseri umani.   Uno stupefacente numero di persone in questi tempi, sembra incapace di immaginare la possibilità che fattori totalmente impersonali come le leggi dell’economia, della geologia e della termodinamica possano da sole far accadere delle cose (grassetto mio ndt.).

Il problema che fronteggiamo ora è precisamente che l’inimmaginabile è la nostra realtà.   Per un po’ troppo tempo, troppa gente ha insistito che non bisogna preoccuparsi dell’assurdità di perseguire una crescita illimitata su di un delimitato e fragile pianeta,  perché “troveranno qualcosa”.   Oppure hanno pensato che chattare sui forum internet a proposito di questo o quel pezzo di fumo tecnologico sia fare qualcosa di concreto a proposito dell’imminente collisione della nostra specie con i limiti della crescita.   Viceversa, per appena un po’ troppo tempo, non abbastanza persone hanno voluto fare qualcosa in proposito ed ora i fattori impersonali hanno occupato la sedia del conducente, dopo aver malmenato tutti noi sette miliardi ed  averci ficcati nel bagagliaio.

Come ho segnalato nel post della settimana scorsa, questo pone dei severi limiti a quello che possiamo fare nel breve termine.   Con ogni probabilità, a questo stadio del gioco, ognuno di noi incontrerà l’onda della crisi con la preparazione che si è dato; sostanziale o trascurabile che questa sia.   Sono cosciente che un certo numero dei miei lettori non sono felici di questo, ma non possono essere aiutati.   Il futuro non è tenuto ad aspettare pazientemente finché siamo pronti.
Alcuni anni fa, quando postai un testo che riassumeva la strategia che proponevo, probabilmente avrei dovuto mettere più enfasi sulla parola principale dello slogan: adesso.   Oramai quel che è fatto è fatto.

Questo non significa che siamo alla fine del mondo.    Significa che con tutta probabilità, cominciando in un qualche momento di questo anno e per parecchi anni a venire, molti dei miei lettori saranno indaffarati con gli impatti multipli di una martellante crisi economica sulla loro vita e su quella dei loro familiari, amici, comunità e datori di lavoro.   In un periodo in cui il sistema politico di gran parte del mondo industriale sarà grippato, le guerre latenti nel Medio Oriente ed in gran parte del terzo Mondo saranno in ebollizione più del solito ed il tramonto della Pax Americana spingerà  sia il governo USA che i suoi nemici ad un livello ancora maggiore di rischio.

Come esattamente questo accadrà nessuno lo sa, ma accadrà sicuramente.   E difficilmente sarà piacevole.

Intanto che ci prepariamo per il primo colpo, comunque, è utile parlare un poco a proposito di cosa accadrà dopo.    Per quanto sia lungo l’effetto domino sugli istituti finanziari coinvolti nella bolla del fracking, prima o poi cadrà l’ultimo e, dopo qualche anno, le cose torneranno ad una “nuova normalità”; anche se molto più in basso lungo la pendice della decrescita.   Non importa quante guerre per procura, colpi di stato, azioni segrete ed insurrezioni manipolate saranno lanciate dagli Stati Uniti e dai suoi rivali nella loro lotta per la supremazia; molti dei posti toccati da questi conflitti vedranno alcuni anni di guerra effettiva, con periodi di relativa pace prima e dopo. Le altre forze che guidano il collasso agiscono sostanzialmente allo stesso modo.  Il collasso è un processo frattale, non uno lineare.

Però sull’altro lato della crisi c’è qualcos’altro che “di più dello stesso”.   La discussione che vorrei cominciare a questo punto è centrata su quello che potrebbe valere la pena di fare una volta che le masse di macerie economiche, politiche e militari smetteranno di rimbalzare.   Non è troppo presto per pianificare questo. Se non altro, darà ai lettori di questo blog qualcosa cui pensare mentre staranno in coda per il pane o nascosti in cantina, mentre polizia e ribelli si scontrano in strada.   A parte questo beneficio, prima si comincia a pensare a quali opzioni saranno disponibili una volta tornata una certa stabilità, migliori saranno le probabilità di essere pronti ad agire, nella nostra vita o ad una più ampia scala.

Del resto, una delle interessanti conseguenze di ogni crisi davvero sostanziale è che ciò che era impensabile prima può non essere impensabile dopo. Leggete il brillante “The proud Tower” di Barbara Tuchman e vedrete quante delle indiscutibili certezze del 1914 erano finite nella compostiera della storia alla fine del 1945.   E quante delle idee che erano state appannaggio di frange ultraperiferiche  prima della prima guerra mondiale erano diventate buon senso comune dopo la seconda.   E’ un fenomeno comune ed io propongo qui di andare avanti lungo questa curva proponendo, come materiale grezzo di riflessione e nient’altro, qualcosa che è certamente impensabile oggi, ma che potrebbe diventare una necessità dieci o venti, o quaranta anni da ora.

Che cosa ho in mente?   Una intenzionale regressione tecnologica come politica pubblica.
Immaginate, per un momento, una nazione industriale che riduca la sua infrastruttura tecnologica approssimativamente a quel che era nel 1950.   Questo comporterebbe un drastico decremento dei consumi energetici pro-capite, sia direttamente  (la gente usava molto meno energia di tutti i tipi nel 1950), sia indirettamente ( anche la produzione di beni e servizi richiedeva molto meno energia allora).   Ciò comporterebbe parimenti una brusca riduzione dei consumi pro capite di molte risorse.    Comporterebbe anche un brusco incremento dei posti di lavoro per le classi lavoratrici.   A quei tempi, un sacco di cose oggi fatte dai robot erano fatte da esseri umani, cosicché c’erano molte più buste paga che andavano in giro il venerdì per pagare i beni e servizi che i consumatori normali comprano.   Dal momento che un flusso costante di stipendi ai lavoratori è una delle cose principali per mantenere un’economia stabile e vigorosa, questo sarebbe sicuramente un ovvio vantaggio, ma per adesso possiamo lasciare questo da parte.

Certamente il cambiamento proposto comporterebbe certi cambiamenti rispetto a come vanno adesso le cose.   Nel 1950 i viaggi in aereo erano estremamente costosi, i ricchi erano chiamati “il jet-set” perché erano gli unici che potevano comprare i biglietti.   Così tutti gli altri era costretti ad usare dei veloci, affidabili ed energicamente efficienti treni quando dovevano andare da un posto all’altro.   I Computers erano rari e costosi, il che significava, ancora una volta, che più gente aveva un lavoro.   E Significava anche quando chiamavate una ditta od un ufficio la vostra probabilità di trovare un essere umano per aiutarvi in qualunque vostro problema era considerevolmente più alta di oggi.
Mancando internet, la gente si doveva accontentare di un’ampia gamma di frequenze radio, migliaia di periodici generici o specializzati ed un sacco di librerie e biblioteche locali, zeppe di libri.  

Almeno in America, gli anni ’50 furono l’età d’oro delle biblioteche pubbliche e molte cittadine avevano delle collezioni che in questi giorni non trovate nemmeno nelle grandi città. Oh, e quelli a cui piace guardare foto di gente spogliata (che oggi hanno un grande e di solito non menzionato ruolo nel pagare internet) si dovevano accontentare di riviste indecenti che gli consegnavano in anonime buste marroni. Oppure andavano in negozietti di periferia.  Tutte cose che, comunque, non sembravano metterli in imbarazzo.

Come osservato prima, sono del tutto cosciente che un simile progetto è assolutamente impensabile oggi; che provocherebbe un’immediata reazione di superstizioso orrore.  Quindi, per prima cosa, parliamo delle obbiezioni più ovvie.  Sarebbe possibile? Sicuro.

Molto di quello che deve essere fatto sono dei semplici cambiamenti nelle leggi fiscali.   Proprio ora, negli stati uniti, una galassia di perversi regolamenti penalizzano i datori di lavoro se assumono persone ed incentivano quelli che rimpiazzano gli impiegati con delle macchine. Cambiate questo in modo che spendere di più in stipendi abbia maggior senso finanziario che spendere per automatizzare, e sarete già a metà strada.

Una revisione della politica commerciale farebbe buona parte del resto che sarebbe necessario.   Malgrado le fideistiche pretese degli economisti, quello che viene scherzosamente chiamato “mercato libero” benefica i ricchi a spese di tutti gli altri e potrebbe essere rimpiazzato da ragionevoli tariffe per sostenere la produzione domestica, contro il mercantilismo predatorio che domina l’economia globale in questi giorni.   Aggiungete a questo alte tariffe sulle importazioni di tecnologia e togliete a qualsiasi tecnologia successiva al 1950 i sontuosi sussidi che ingrassano le aziende del “Fortune 500” e di base ci siete.

Quello che rende il concetto di regressione tecnologica così intrigante, e così utile, è che non richiede di sviluppare niente di nuovo. Sappiamo già come funzionava la tecnologia del 1950. Quali sono le sue necessità di energia e risorse; quali sarebbero vantaggi e svantaggi nell’adottarle.

Un’abbondante documentazione ed una certa frazione della popolazione che ancora ricorda come funzionava renderebbero la cosa facile.   Quindi sarebbe una cosa semplice fare una lista di quel che serve, quali sarebbero costi e benefici, e come minimizzare i primi massimizzando i secondi.   Non dovremmo fare quei tentativi alla cieca e quelle ipotesi arbitrarie che sono necessarie quando si sviluppa una nuova tecnologia.  Tanto per la prima obbiezione.

Seconda domanda: ci sarebbero controindicazioni ad una deliberata regressione tecnologica?  

Certamente! Ogni tecnologia e qualsiasi gruppo di opzioni politiche ha le sue controindicazioni.   In effetti, una comune fantasia odierna pretende che sia ingiusto prendere in considerazione le controindicazioni delle nuove tecnologie ed i vantaggi delle vecchie, quando si decide se rimpiazzare una tecnologia vecchia con una più nuova. Una illusione ancora più comune pretende che non devi nemmeno decidere. Quando una nuova tecnologia emerge, si presume che tu la segua belando come tutti gli altri, senza porre alcuna domanda.

La tecnologia corrente ha immense controindicazioni.  Le tecnologie future ne avranno anche loro.   E’ solo nelle pubblicità e nelle storie di fantascienza che le tecnologie non hanno difetti. Quindi, il mero fatto che anche le tecnologie del 1950 ponevano dei problemi non è una ragione valida per scartare la regressione tecnologica. Per quanto impensabile, la domanda da porre  è se, tutto considerato, sarebbe saggio accettare le controindicazioni della tecnologia del 1950 al fine di disporre di un complesso operativo di tecnologie in grado di funzionare con molto minori consumi procapite di energia e risorse. E dunque migliori speranze di attraversare l’età dei limiti che abbiamo davanti, piuttosto che con la molto più stravagante e fragile infrastruttura tecnologica odierna.

Probabilmente è necessario parlare anche di un particolare pezzo di paralogica che emerge ogniqualvolta qualcuno suggerisce la regressione tecnologica: la nozione che se torni ad un più vecchia tecnologia, devi assumere anche le pratiche sociali e le abitudini culturali di quei tempi. Ho ricevuto molti commenti di questo tipo l’anno scorso quando ho suggerito che una tecnologia a vapore di tipo vittoriano alimentata da energia solare potrebbe essere una forma di ecotecnica del futurro. Uno stupefacente numero di persone sembravano incapace di immaginare che questo fosse possibile senza reintrodurre anche usanza vittoriane quali il lavoro infantile ed il pudore sessuale.   Per quanto sciocche, idee simili hanno radici profonde nell’immaginario moderno.

Senza dubbio, come risultato di queste profonde radici, ci sarà un sacco di gente che risponderà alla proposta che ho appena fatto che le pratiche sociali e le abitudini culturali del 1950 erano orribili, e pretendendo che queste abitudini non possono essere separate delle tecnologie in questione. Posso rispondere osservando che il 1950 non aveva un solo set di pratiche sociali e culturali. Solo negli Stati Uniti, un viaggio da Greenwich Village alla Pennsylvania rurale nel 1950 vi avrebbe fatto incontrare con notevoli diversità culturali fra persone che usavano la medesima tecnologia.

Il punto si può ribadire notando che, in quell’anno,  la stessa tecnologia era in uso a Parigi, Djakarta, Buenos Aires, Tokyo, Tangeri, Novosibirsk, Guadalajara e Lagos. E non tutti questi avevano le stesse usanze degli americani, sapete. Ma sarebbe fiato sprecato. Per i veri credenti nella religione del progresso, il passato è un ribollente calderone di eterna dannazione da cui perpetuamente ci salva il surrogato messia del progresso. Ed il futuro è il radioso paradiso, le cui porte i fedeli sperano di varcare a tempo debito. Molte persone in questi giorni non vogliono discutere questa dubbia classificazione più di quanto un contadino medioevale non fosse disposto a dubitare del miracoloso potere che si supponeva emanasse dalle ossa di S. Ethelfrith (il fondatore del regno di Northumbria, attuale Inghilterra ndt).

Niente, ma niente suscita un più superstizioso orrore nella cultura dominante del dire, cielo aiutaci, “torniamo indietro”. Anche se la tecnologia di giorni precedenti è più adatta ad un futuro di scarsità di risorse e di energia, piuttosto che l’infrastruttura che abbiamo adesso.   Anche se la tecnologia di giorni andati effettivamente fa meglio il lavoro di molte cose che abbiamo oggi,  “Non possiamo tornare indietro!” è l’angosciato grido delle masse.   Sono stati così bene imbambolati dai propagandisti del progresso che non smettono mai di pensare questo.

C’è una ricca ironia nel fatto che i circoli alternativi e d’avanguardia tendono ad essere ancora più ossessivamente fissati col dogma del progresso lineare delle masse che si presumono conformiste.  

Questa è una delle più subdole caratteristiche del mito del progresso; quando le persone diventano insoddisfatte dello status quo, il mito le convince che la sola opzione che hanno è fare esattamente quello che tutti gli altri fanno. Così, quello che era cominciato come un moto di ribellione viene cooptato in un perfetto conformismo e la società continua a marciare stupidamente lungo la traiettoria corrente.   Come i lemming di un documentario Disney, senza nemmeno chiedere cosa ci dovrebbe essere in fondo.

Questo per quanto riguarda il progresso. La parola stessa significa “movimento continuo nella medesima direzione”.  Se la direzione era una cattiva idea all’inizio, o se ha superato il punto fino a cui aveva senso, continuare ad arrancare ciecamente in avanti in un’oscurità che si addensa potrebbe non essere la migliore idea del mondo.  Rompi questa camicia di forza mentale ed una gamma di futuri possibili si schiude immediatamente.

Ad esempio, potrebbe essere che una regressione tecnologica al livello del 1950 risulti impossibile da mantenere sui tempi lunghi. Se le tecnologie del 1920 possono essere supportate con un più modesto apporto di energia che possiamo recuperare dalle fonti rinnovabili, per esempio, qualcosa di simile alla tecnologia del 1920 potrebbe essere  mantenuta sul lungo termine, senza ulteriori regressioni.

Potrebbe invece emergere che qualcosa di simile alle macchine a vapore solari che ho menzionato prima sia il livello massimo che può essere sostenuto indefinitamente.   Un’ecotecnica equivalente alla tecnologia del 1820, con mulini a vento e ad acqua come motori dell’industria, canali navigabili come principale infrastruttura di trasporto e la maggior parte della popolazione che lavora in piccole fattorie di famiglia che supportano villaggi e cittadine.

Quest’ultima opinione sembra eccessivamente deprimente?   Comparatela con un altro scenario molto probabile e potrete trovare che questa ha i suoi vantaggi.   Ad esempio, immaginiamo che cosa accadrebbe se le società industriali del mondo scommettessero per la loro sopravvivenza su di un grande balzo avanti di una non provata fonte di energia che non ripaga i suoi costi, lasciando miliardi di persone a contorcersi nel vento, senza infrastruttura tecnologica di sorta.  

Se state guidando in un vicolo cieco e vedete un muro di mattoni davanti, potete ricordarvi che strillare “non possiamo tornare indietro!” non è esattamente una buona trovata.   In una simile situazione  (e voglio suggerire che questa è un’affidabile metafora della situazione in cui siamo proprio adesso ) tornare indietro, ricercando la strada percorsa  findove necessario, è un modo per andare avanti.





domenica 8 febbraio 2015

Overshoot

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi


I tanti commenti apparsi sul Web sulla morte di William Catton, autore di “Overshoot”, mostrano quanto sia stato profondo l'impatto di questo libro in molti di noi. 

Overshoot” è stato parte di un'ondata di libri e studi degli anni 60 e 70 che ha cercato di fare i conti con le conseguenze dell'inevitabile limitazione delle risorse naturali disponibili per la specie umana. L'iniziatore della tendenza è stato, forse, Garrett Hardin col suo “La tragedia dei beni comuni” del 1968. Ancor prima, nel 1956, Marion King Hubbert aveva proposto il concetto di “picco” della produzione di petrolio, una novità notevole in un campo in cui il termine “esaurimento” era del tutto proibito. Ma Hubbert è rimasto all'interno del paradigma convenzionale, che vedeva la tecnologia come capace di risolvere tutti i problemi e credeva che l'energia nucleare sarebbe venuta in soccorso. Hardin, e più tardi Catton ed altri, invece, hanno visto la radice del problema del comportamento della specie umana: la tendenza a sfruttare eccessivamente le risorse naturali, di usare oggi ciò che dovrebbe essere lasciato per domani. Il messaggio di fondo di Overshoot è che lo sfruttamento eccessivo è una conseguenza fondamentale del modo in cui gli esseri umani si comportano nell'ecosistema. Non è una cosa che possa essere risolta dalla stregoneria tecnologica.

Potremmo paragonare Overshoot ad un altro libro che portava un messaggio simile: “I Limiti dello Sviluppo “ (crescita) del 1972. Concepiti più o meno nello stesso periodo (anche se Overshoot è stato pubblicato solo nel 1980), questi due libri possono essere visti come opposti in termini di strategie comunicative. Overshoot non è mai stato un best seller, né è stato tradotto in qualche altra lingua (eccetto, di recente, in russo e spagnolo). Invece “I Limiti dello Sviluppo” è stato venduto in milioni di copie e tradotto in quasi ogni lingua stampata esistente. Ma, di conseguenza, “I Limiti dello Sviluppo” è stato oggetto di una forte campagna di demonizzazione che ha trasformato in zimbello obbligato chiunque osasse menzionarlo in pubblico. Overshoot, invece, è sfuggito all'attenzione dei poteri forti e non ha mai ricevuto lo stesso trattamento. Così, ha silenziosamente influenzato un'intera generazione di persone che hanno capito le cause fondamentali dei nostri problemi (vedete per esempio questo commento di John Michael Greer).

Riesaminato oltre 40 anni dopo la sua concezione, Overshoot appare datato in molti dettagli ma non nel suo messaggio di fondo. La sua forza rimane quella di aver posto così apertamente e chiaramente l'essenza del problema: gli esseri umani sono parte dell'ecosistema e tendono a comportarsi di conseguenza. Cercano di espandere il più possibile e ad appropriarsi di quante più risorse possono. E' normale: stiamo gradualmente scoprendo come le leggi della fisica e della biologia si applicano all'economia (Hardin, dopo tutto, era un biologo). Sfortunatamente, se gli esseri umani si comportano semplicemente come una delle specie dell'ecosistema, tendono ad appropriarsi di quante più risorse possono e il più rapidamente possibile. Quindi, il risultato è che il fenomeno chiamato overshoot (superamento), con la sofferenza distruzione e disastri assortiti associati, perlomeno per quel sottosistema dell'ecosistema che chiamiamo “specie umana”. Lo possiamo evitare? Finora, non sembra sia così: ci rifiutiamo persino di riconoscere che esista il problema.

D'altronde, se l'overshoot è parte del modo in cui funzionano gli ecosistemi, lo dobbiamo accettare, a prescindere da quanto possano essere negative le conseguenze, almeno dal nostro punto di vista di esseri umani. Una delle regole dell'ecosistema è che perché nasca qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio deve morire. E' così che l'ecosistema ha funzionato per miliardi di anni. Continuerà a funzionare allo stesso modo in futuro, con o senza gli esseri umani.