Di Jacopo Simonetta
In un precedente post, ho riportato la traduzione di un lungo articolo in cui John M. Greer sostiene come una volontaria regressione tecnologica sarebbe una strategia efficace di resilienza. Tuttavia, l’arcidruido ammette che questa sia un’opzione che non ha alcuna speranza di essere attuata in quanto viola il principale tabù della nostra civiltà: il progresso.
In una sua conferenza di alcuni mesi fa a Pisa, S. Latouche aveva sostenuto qualcosa di simile. Pur senza entrare nel merito del livello tecnologico, il professore ha infatti sostenendo che un ritorno ai consumi pro capite di 60 anni fa sarebbe sufficiente a riportare l’economia globale entro limiti di sostenibilità.
In linea con alcuni commenti che sono stati fatti, personalmente trovo che l’idea contenga elementi interessanti, ma che non potrebbe essere attuata a scala di nazioni o di super-nazioni. E non solo per ragioni di tabù, peraltro consistenti ed evidenti. Qui vorrei fare cenno a due soli aspetti.
Il primo è la capacità militare che, da quando esistono gli eserciti, dipende sostanzialmente da due ordini di fattori: la capacità organizzativa e la tecnologia. Semplicemente, un paese che riducesse il suo livello tecnologico si troverebbe alla mercé di chi questo non lo ha fatto e si tratta di un passaggio solo parzialmente e faticosamente reversibile. In un contesto di decrescita complessiva, perdere posizioni è facile, riguadagnarne è invece molto difficile.
Il mondo contemporaneo ci offre numerosi esempi di paesi che, per varie ragioni, hanno avuto un esperienza simile. Forse il caso più eclatante è stato lo smantellamento dell’Armata Rossa all'indomani del collasso dell’URSS. Il risultato fu che pochi anni dopo la Russia fu sconfitta sul campo dalla Cecenia!
Una lezione che Mosca imparò bene. Ma solo grazie a 20 anni di sforzi alimentati dal un elevato prezzo degli idrocarburi fossili, a loro volta spinti da enormi investimenti e tecnologie straniere, ha potuto risalire parzialmente la china.
In maniera meno brutale, qualcosa del genere è accaduto anche all'interno della NATO ed in altri casi ancora. Indipendentemente da altre considerazioni, in un contesto di contrazione economica, ridurre il proprio livello tecnologico è una strada a senso unico che comporta enormi rischi politici e militari. Rischi assolutamente intrattabili nel momento in cui, eventualmente, scoppia una crisi grave.
Un secondo ordine di fattori anche più grave negli effetti dipende dalla nostra capacità di estrarre dal Pianeta quanto ci serve. E’ vero che abbassando il livello tecnologico si abbasserebbero i consumi pro capite, ma si abbasserebbe anche la nostra capacità di accedere alle risorse i misura più che proporzionale.
Facciamo un esempio non a caso: Riserve di petrolio estraibili con le tecnologie del 1950 praticamente non ne esistono più. Già con sistemi anni ’70 rimarrebbe disponibile ben poco. E lo stesso credo che valga più o meno per tutti i minerali, con un’importante eccezione, almeno parziale. Una drastica riduzione dei consumi pro capite dei materiali facilmente riciclabili (diversi metalli, vetro, ecc.) potrebbe portarne il consumo a livelli gestibili, almeno per lungo tempo, recuperandone le immense quantità sepolte nelle discariche ed incorporate in oggetti che diventerebbero inutili.
Vi sono tuttavia problemi che diventerebbero necessariamente critici. A parte l’energia cui si è fatto cenno, per fare un solo esempio, nel 1950 la popolazione mondiale ammontava a 2.500 milioni di persone, circa un terzo di adesso. La densità era di circa 18 abitanti per chilometro quadro, mentre oggi è di 52. Considerando solo i terreni in qualche misura agricoli, ognuno di noi dispone oggi di poco più di 2.000 mq contro poco meno di un ettaro di allora. La desertificazione si mangia oltre un milione di ettari ogni anno, la superficie forestale è più che dimezzata, i banchi di pesca sono spariti o ridotti, una miriade di specie di piante, insetti ed altri piccoli animali si sono estinte, il clima diviene sempre più ostile, le riserve idriche si prosciugano eccetera. Si potrebbe andare avanti per pagine. Non che nel 1950 le cose andassero benissimo, ma eccettuate alcune zone molto circoscritte, la situazione ambientale e la disponibilità di risorse erano molto, ma molto migliori di oggi.
Oggi possiamo vivere in così tanti solo grazie al nostro attuale livello tecnologico. Un livello che abbiamo raggiunto grazie ad una complessa retroazione fra tecnologia, economia, popolazione, sfruttamento delle risorse. Invertire la tendenza facilmente potrebbe avviare una retroazione inversa.
D'altronde, con ogni probabilità, è proprio quello che ci accadrà, che lo si voglia o meno. Il livello tecnologico è infatti approssimativamente correlato con la disponibilità di energia e sappiamo che la pacchia è finita per sempre. Esistono ancora grandi risorse energetiche, ma nessuna che sia qualitativamente comparabile a quella che avevamo fino a pochi anni or sono. E non si può pensare che fonti energetiche scadenti e/o costose possano avere gli stessi effetti di fonti eccellenti ed economiche. Molti suggeriscono che solo un ulteriore progresso tecnologico può farci uscire dalla trappola. Ma da sempre il progresso tecnologico ha richiesto disponibilità di risorse di alta qualità, disponibilità di ecosistemi capaci di riciclare gli scarti, capacità della società di gestire una maggiore complessità. Tre ordini di fattori sulla cui disponibilità futura è legittimo dubitare, dal momento che già ora cominciano a scarseggiare.
Del resto, in alcuni settori il “downgrade” si comincia a vedere. Per esempio, il rallentamento delle esplorazioni spaziali, ma anche l’abbandono del programma “Space shuttle” e di quelli previsti in seguito per tornare a dei vettori di tipo tradizionale. Oppure la mesta fine del Concorde, fino al boom di risciò nelle maggiori città europee. Per non parlare della parziale sostituzione del petrolio tornando al carbone o, addirittura, al legname!
In conclusione, il mio del tutto personale parere è che ancora esistano molte opzioni per mitigare la caduta della nostra civiltà, ma nessuna che la possa evitare. E con la caduta della nostra civiltà molte cose che oggi diamo per scontate diventeranno rare, oppure scompariranno del tutto. Ed ecco che il “downgrade” tecnologico, improponibile a livello di stati, diviene invece una strategia molto interessante a livello di famiglie e piccole comunità resilienti. In un ambiente di grave e permanente crisi economica, disoccupazione cronica, disordini sociali e guerre locali, carenza di energia e ricambi, eccetera, certamente disporre di tecnologie e conoscenze ripescate da un passato più o meno remoto può rivelarsi un’eccellente opzione.
In un precedente post, ho riportato la traduzione di un lungo articolo in cui John M. Greer sostiene come una volontaria regressione tecnologica sarebbe una strategia efficace di resilienza. Tuttavia, l’arcidruido ammette che questa sia un’opzione che non ha alcuna speranza di essere attuata in quanto viola il principale tabù della nostra civiltà: il progresso.
In una sua conferenza di alcuni mesi fa a Pisa, S. Latouche aveva sostenuto qualcosa di simile. Pur senza entrare nel merito del livello tecnologico, il professore ha infatti sostenendo che un ritorno ai consumi pro capite di 60 anni fa sarebbe sufficiente a riportare l’economia globale entro limiti di sostenibilità.
In linea con alcuni commenti che sono stati fatti, personalmente trovo che l’idea contenga elementi interessanti, ma che non potrebbe essere attuata a scala di nazioni o di super-nazioni. E non solo per ragioni di tabù, peraltro consistenti ed evidenti. Qui vorrei fare cenno a due soli aspetti.
Il primo è la capacità militare che, da quando esistono gli eserciti, dipende sostanzialmente da due ordini di fattori: la capacità organizzativa e la tecnologia. Semplicemente, un paese che riducesse il suo livello tecnologico si troverebbe alla mercé di chi questo non lo ha fatto e si tratta di un passaggio solo parzialmente e faticosamente reversibile. In un contesto di decrescita complessiva, perdere posizioni è facile, riguadagnarne è invece molto difficile.
Il mondo contemporaneo ci offre numerosi esempi di paesi che, per varie ragioni, hanno avuto un esperienza simile. Forse il caso più eclatante è stato lo smantellamento dell’Armata Rossa all'indomani del collasso dell’URSS. Il risultato fu che pochi anni dopo la Russia fu sconfitta sul campo dalla Cecenia!
Una lezione che Mosca imparò bene. Ma solo grazie a 20 anni di sforzi alimentati dal un elevato prezzo degli idrocarburi fossili, a loro volta spinti da enormi investimenti e tecnologie straniere, ha potuto risalire parzialmente la china.
In maniera meno brutale, qualcosa del genere è accaduto anche all'interno della NATO ed in altri casi ancora. Indipendentemente da altre considerazioni, in un contesto di contrazione economica, ridurre il proprio livello tecnologico è una strada a senso unico che comporta enormi rischi politici e militari. Rischi assolutamente intrattabili nel momento in cui, eventualmente, scoppia una crisi grave.
Un secondo ordine di fattori anche più grave negli effetti dipende dalla nostra capacità di estrarre dal Pianeta quanto ci serve. E’ vero che abbassando il livello tecnologico si abbasserebbero i consumi pro capite, ma si abbasserebbe anche la nostra capacità di accedere alle risorse i misura più che proporzionale.
Facciamo un esempio non a caso: Riserve di petrolio estraibili con le tecnologie del 1950 praticamente non ne esistono più. Già con sistemi anni ’70 rimarrebbe disponibile ben poco. E lo stesso credo che valga più o meno per tutti i minerali, con un’importante eccezione, almeno parziale. Una drastica riduzione dei consumi pro capite dei materiali facilmente riciclabili (diversi metalli, vetro, ecc.) potrebbe portarne il consumo a livelli gestibili, almeno per lungo tempo, recuperandone le immense quantità sepolte nelle discariche ed incorporate in oggetti che diventerebbero inutili.
Vi sono tuttavia problemi che diventerebbero necessariamente critici. A parte l’energia cui si è fatto cenno, per fare un solo esempio, nel 1950 la popolazione mondiale ammontava a 2.500 milioni di persone, circa un terzo di adesso. La densità era di circa 18 abitanti per chilometro quadro, mentre oggi è di 52. Considerando solo i terreni in qualche misura agricoli, ognuno di noi dispone oggi di poco più di 2.000 mq contro poco meno di un ettaro di allora. La desertificazione si mangia oltre un milione di ettari ogni anno, la superficie forestale è più che dimezzata, i banchi di pesca sono spariti o ridotti, una miriade di specie di piante, insetti ed altri piccoli animali si sono estinte, il clima diviene sempre più ostile, le riserve idriche si prosciugano eccetera. Si potrebbe andare avanti per pagine. Non che nel 1950 le cose andassero benissimo, ma eccettuate alcune zone molto circoscritte, la situazione ambientale e la disponibilità di risorse erano molto, ma molto migliori di oggi.
Oggi possiamo vivere in così tanti solo grazie al nostro attuale livello tecnologico. Un livello che abbiamo raggiunto grazie ad una complessa retroazione fra tecnologia, economia, popolazione, sfruttamento delle risorse. Invertire la tendenza facilmente potrebbe avviare una retroazione inversa.
D'altronde, con ogni probabilità, è proprio quello che ci accadrà, che lo si voglia o meno. Il livello tecnologico è infatti approssimativamente correlato con la disponibilità di energia e sappiamo che la pacchia è finita per sempre. Esistono ancora grandi risorse energetiche, ma nessuna che sia qualitativamente comparabile a quella che avevamo fino a pochi anni or sono. E non si può pensare che fonti energetiche scadenti e/o costose possano avere gli stessi effetti di fonti eccellenti ed economiche. Molti suggeriscono che solo un ulteriore progresso tecnologico può farci uscire dalla trappola. Ma da sempre il progresso tecnologico ha richiesto disponibilità di risorse di alta qualità, disponibilità di ecosistemi capaci di riciclare gli scarti, capacità della società di gestire una maggiore complessità. Tre ordini di fattori sulla cui disponibilità futura è legittimo dubitare, dal momento che già ora cominciano a scarseggiare.
Del resto, in alcuni settori il “downgrade” si comincia a vedere. Per esempio, il rallentamento delle esplorazioni spaziali, ma anche l’abbandono del programma “Space shuttle” e di quelli previsti in seguito per tornare a dei vettori di tipo tradizionale. Oppure la mesta fine del Concorde, fino al boom di risciò nelle maggiori città europee. Per non parlare della parziale sostituzione del petrolio tornando al carbone o, addirittura, al legname!
In conclusione, il mio del tutto personale parere è che ancora esistano molte opzioni per mitigare la caduta della nostra civiltà, ma nessuna che la possa evitare. E con la caduta della nostra civiltà molte cose che oggi diamo per scontate diventeranno rare, oppure scompariranno del tutto. Ed ecco che il “downgrade” tecnologico, improponibile a livello di stati, diviene invece una strategia molto interessante a livello di famiglie e piccole comunità resilienti. In un ambiente di grave e permanente crisi economica, disoccupazione cronica, disordini sociali e guerre locali, carenza di energia e ricambi, eccetera, certamente disporre di tecnologie e conoscenze ripescate da un passato più o meno remoto può rivelarsi un’eccellente opzione.