mercoledì 23 aprile 2014

Perché un mondo finito è un problema?

DaOur finite world”. Traduzione di MR

Di Gail Tverberg

Perché un mondo finito è un problema? Mi vengono in mente molte risposte:

1. Un mondo finito è un problema perché noi e tutte le altre creature che ci viviamo condividiamo lo stesso pezzo di “bene immobile”. Se gli esseri umani usano sempre più risorse, le altre specie necessariamente ne usano meno. Condividiamo anche le risorse “rinnovabili” con le altre specie. Se gli esseri umani ne usano di più, le altre specie ne devono usare di meno. I pannelli solari che coprono i deserti interferiscono con la normalità della vita selvaggia; l'uso di piante per i biocombustibili significa che un'area inferiore è disponibile per coltivare cibo e per la vegetazione preferita da insetti desiderabili, come le api.

2. Un mondo finito è governato da cicli. A noi piace proiettare in linee rette o come aumenti percentuali, ma il mondo reale non segue tali modelli. Ogni giorno ha 24 ore. L'acqua si muove a onde. Gli esseri umani nascono, crescono e muoiono. Una risorsa viene estratta da una zona e la zona diventa improvvisamente più povera una volta che il reddito da quelle esportazioni viene rimosso. Una volta che un paese diventa più povero, è probabile che scoppi lo scontro. Un recente esempio di questo è la perdita di esportazioni di petrolio da parte dell'Egitto, più o meno contemporaneamente alle sollevazioni della Primavera Araba nel 2011 (Figura 1). Lo scontro non è ancora finito.

Figura 1. Produzione di petrolio e consumo dell'Egitto, sulla base dei dati della Revisione Statistica dell'Energia Mondiale della BP.

L'interconnessione delle risorse col modo in cui funzionano le economie, e i problemi che si verificano quando queste risorse non sono presenti, rendono il futuro molto meno prevedibile di quanto suggerirebbero gran parte dei modelli.

3. Un mondo finito significa che alla fine scarseggeranno le risorse facili da estrarre di molti tipi, compresi combustibili fossili, uranio e metalli. Questo non significa che “finiamo” queste risorse. Piuttosto significa che il processo di estrazione di questi combustibili e metalli diventerà più costoso, a meno che la tecnologia non agisca in qualche modo per calmierare i prezzi. Se i costi di estrazione aumentano, qualsiasi cosa fatta utilizzando quei combustibili e quei metalli diventa più costosa, sempre che le aziende che vendono questi prodotti siano in grado di recuperarne i costi (se non ce la fanno, vanno fuori mercato molto velocemente!) La Figura 2 mostra che un punto di svolta recente verso costi maggiori è venuto nel 2002, sia per i prodotti sia per i metalli di base.


Figura 2. Indici dei prezzi dell'energia (petrolio, gas naturale e carbone) e metalli di base, usando come riferimento il dollaro americano del 2005, indicizzati a 2010 = 100. I metalli di base comprendono il ferro. Fonte dei dati: Banca Mondiale.

4. Un mondo finito significa che la globalizzazione si dimostrerà essere un grande problema, perché ha aggiunto in proporzione molti più esseri umani alla domanda mondiale di quanto abbia aggiunto risorse non sviluppate all'offerta mondiale. La Cina è stata aggiunta all'Organizzazione Mondiale del Commercio nel dicembre 2001. Il suo uso di combustibili è schizzato rapidamente subito dopo (Figura 3, sotto). Come indicato al punto 3 sopra, il punto di svolta dei prezzi dei combustibili e dei metalli è stato nel 2002. Dal mio punto di vista, questa non è stata una coincidenza – è collegato all'aumento della domanda cinese, così come al fatto che avevamo estratto una quota considerevole dei combustibili facili da estrarre in precedenza.


Figura 3. Consumo di energia per fonte della Cina basato sulla Revisione Statistica dell'Enegia Mondiale della BP. 

5. In un mondo finito, i salari non aumentano in proporzione all'aumento dei costi di estrazione di combustibili e metalli, perché i costi di estrazione extra non aggiungono nessun beneficio reale alla società – semplicemente rimuovono risorse che potrebbero essere messe al lavoro altrove nell'economia. Stiamo diventando, in effetti, sempre meno efficienti nel produrre prodotti energetici e metalli. Ciò avviene perché stiamo producendo combustibili che s trovano in luoghi più difficili da raggiungere e che contengono più inquinanti al loro interno. I giacimenti metalliferi hanno problemi analoghi – sono più profondi e di minor concentrazione. Tutto lo sforzo umano aggiuntivo e la spesa di risorse aggiuntive non produce più prodotto finale. Piuttosto, rimaniamo con meno sforzo umano e meno risorse da investire nel resto dell'economia. Di conseguenza, la produzione totale di beni e servizi per l'economia tendono a stagnare. In un'economia del genere, i lavoratori che i loro salari adattati all'inflazione tendono ad arrancare (Ciò avviene perché l'economia totale produce meno, quindi la quota di quanto viene prodotto e inferiore per ogni lavoratore). E' anche probabile che le aziende che producono energia e prodotti metallici trovino più difficile avere un profitto, perché con stipendi in ritardo i consumatori non si possono permettere di comprare molto prodotto a prezzi più alti. Infatti, è probabile che ci sia il pericolo di un improvviso crollo della produzione, perché i prezzi rimangono troppo bassi per giustificare l'alto costo di un investimento aggiuntivo.

6. Quando i lavoratori possono permettersi sempre di meno (vedi punto 5), finiamo per avere problemi molteplici:

a. Se il lavoratori si possono permettere di meno, tagliano le spese voluttuarie. Questo tende a rallentare o alla fine fermare la crescita economica. La mancanza di crescita economica alla fine condiziona i prezzi di borsa, visto che i prezzi delle azioni presuppongono che la vendita dei propri prodotti continuerà a crescere all'infinito.

b. Se i lavoratori possono permettersi di meno, un articolo che è sempre più fuori portata è una casa più costosa. Di conseguenza, i prezzi delle abitazioni tendono a stagnare o a crollare con salari stagnanti e prezzi di combustibili e metalli in aumento. Il governo può in qualche modo risolvere il problema con bassi tassi di interesse e più vendite commerciali – è questa la ragione per la quale il problema è in gran parte rientrato.

c. Se i lavoratori trovano i propri salari inadeguati, ed alcuni vengono licenziati, ricadono sempre di più sui servizi governativi. Questo lascia i governi con la necessità di pagare di più in assistenza senza poter raccogliere tasse sufficienti. Così i governi alla finiscono per avere problemi finanziari, se i costi di estrazione di combustibili e metalli crescono più rapidamente di quanto possa essere compensato dall'innovazione, come è accaduto dal 2002.

7. Un mondo finito significa che il bisogno di debito continua ad aumentare e allo stesso tempo la capacità di ripagare il debito comincia a crollare. I lavoratori trovano che beni come le automobili siano sempre più al di là delle loro capacità di pagarle, perché i prezzi delle auto sono condizionati dall'aumento del costo dei metalli e dei combustibili. Di conseguenza, i livelli di debito devono aumentare per comprare quelle auto. I governi trovano di aver bisogno di più debito per pagare tutti i servizi promessi a lavoratori sempre più poveri. Anche le aziende energetiche trovano una necessità di altro debito. Per esempio, secondo il Wall Street Journal di oggi:

Lo scorso anno, 80 grandi aziende energetiche in Nord America hanno speso un totale di 50,6 miliardi di dollari in più di quanto hanno incassato dalle loro operazioni, secondo i dati di S&P Capital IQ. Quel deficit era tre volte quello del 2011 e quattro volte quello del 2010. 

Mentre il bisogno di debito aumenta, la capacità di ripagarlo sta crollando. I redditi voluttuari dei lavoratori sono in ritardo a causa degli alti prezzi dei combustibili e dei metalli di oggi. I governi trovano difficile alzare le tasse. Le aziende di combustibili e metalli trovano difficile alzare i prezzi a sufficienza per finanziare le operazioni al di fuori del flusso di cassa. In definitiva (cosa che potrebbe non essere in un futuro non troppo lontano) questa situazione deve giungere ad un triste finale.


Figura 4. Ripagare i prestiti è facile in un'economia in crescita, ma molto più difficile in un'economia in contrazione.

I governi possono coprire questo problema per un po', con tassi di interesse super bassi. Ma se i tassi di interesse dovessero mai salire ancora, il loro aumento è probabile che porti ad un enorme default del debito e a grandi fallimenti finanziari a livello internazionale. Ciò accade perché tassi di interesse più alti portano alla necessità di tasse più alte e perché tassi di interesse più alti significano che acquisti come case, automobili e nuove fabbriche diventano meno accessibili. I tassi di interesse in aumento significano anche che il prezzo di vendita delle obbligazioni esistenti crollano, creando potenzialmente problemi finanziari per banche e compagnie di assicurazione.

8. Il fatto che il mondo sia finito significa che la crescita economica dovrà rallentare e alla fine fermarsi. Stiamo già assistendo ad un crescita economica rallentata nelle parti del mondo che hanno assistito ad una diminuzione del consumo di petrolio (Unione Europea, Stati Uniti e Giappone), anche se il resto del mondo ha visto aumentare il proprio consumo di petrolio.


Figura 5. Consumo di petrolio basato sulla Revisione Statistica dell'Energia Mondiale della BP.

I paesi che hanno cali particolarmente accentuati nel consumo di petrolio, come la Grecia (Figura 7 sotto), hanno avuto avuto cali particolarmente accentuati nella propria crescita economica, mentre i paesi con rapidi aumenti di consumo di petrolio a di altre forme di energia, come la Cina mostrata nella Figura 2, hanno mostrato una rapida crescita economica.


Figura 6. Consumo di petrolio della Grecia, sulla base dei dati IEA.

Il motivo per cui stiamo già arrivando ad avere difficoltà col consumo di petrolio è perché per il petrolio stiamo raggiungendo i limiti di un mondo finito. Abbiamo già tirato fuori gran parte del petrolio facile da estrarre e quello che rimane è più costoso e lento da estrarre. La produzione mondiale di petrolio non sta crescendo tanto velocemente nel totale e i prezzi devono essere alti per coprire gli alti costi di estrazione. Qualcuno deve essere lasciato fuori. I paesi che usano una grande percentuale di petrolio nel proprio mix energetico (come la Grecia, col suo settore turistico) trovano che i prodotti che producono sono troppo costosi nel mercato mondiale. I paesi che usano principalmente carbone (che è meno caro) come la Cina, hanno un enorme vantaggio di costo in un mondo che compete sui costi.

9. Il fatto che il mondo sia finito è stato omesso praticamente da ogni modello che prevede il futuro. Questo significa che i modelli economici sono praticamente tutti sbagliati. I modelli prevedono generalmente che la crescita economica continuerà all'infinito, ma questo non è realmente possibile in un mondo finito. I modelli non considerano nemmeno il fatto che la crescita economica sarà ridimensionata nelle economie evolute. Anche i modelli sul cambiamento climatico comprendono un consumo futuro di combustibili fossili esagerato, in entrambi i loro scenari standard e nei loro scenari di “picco del petrolio”. Ciò è conveniente per i legislatori. I limiti del petrolio fanno paura perché indicano un possibile problema a breve termine. Se un modello di cambiamento climatico indica una necessità di ridimensionare l'uso futuro di combustibili fossili, questi modelli danno invece al legislatore un problema più lontano di cui parlare.

10. Anche le relazioni economiche più fondamentali tendono ad essere stimate male in un mondo finito. E' comune che gli economisti guardino alle relazioni che funzionavano in passato e presumano che relazioni simili funzioneranno anche adesso. Per esempio, ai ricercatori piace guardare quanto debito una economia può permettersi rispetto al PIL o quanto debito si può permettere un'azienda. Il problema è che la quantità di debito che un'economia o un'azienda possono permettersi si contrae drammaticamente al contrarsi dei tassi di crescita economica, a meno che il tasso di interesse sia estremamente basso. Un altro esempio; gli economisti credono che prezzi più alti porteranno a dei sostituti o ad una riduzione della domanda. Sfortunatamente, non hanno mai smesso di considerare che la riduzione della domanda per un prodotto energetico potrebbe avere un impatto avverso grave  sull'economia – per esempio, potrebbe significare che molti posti di lavoro in meno siano inevitabili, Meno posti di lavoro significano meno domanda (o accessibilità), ma è proprio quello che si desidera? Gli economisti sembrano anche credere che i prezzi dei prodotti petroliferi continueranno ad aumentare finché non raggiungeranno il livello di prezzo dei sostituti. Se le persone sono più povere, non è proprio così, come detto prima.

11. Oltre a quelli di prodotti energetici e metalli ci sono molti altri limiti che sono un problema in un mondo finito. C'è già una disponibilità inadeguata di acqua potabile in molte parti del mondo. Questo problema può essere risolto con la desalinizzazione, ma fare questo è costoso e sottrae risorse da altri usi. La terra coltivabile in un mondo finito è soggetta a limiti. Il suolo è soggetto ad erosione e la sua qualità si degrada se viene trattato male. Il cibo dipende da petrolio , acqua, terra coltivabile e qualità del suolo, quindi raggiunge rapidamente i limiti se uno qualsiasi di questi input viene disturbato. Gli insetti impollinatori, come le api, sono a loro volta importanti. Probabilmente il problema più grande in un mondo finito è quello di una popolazione troppo grande. Prima venisse introdotto l'uso dei combustibili fossili, il mondo era in grado di sfamare solo 1 miliardo di persone. Non è chiaro se sia possibile sfamarne la stessa quantità oggi, senza combustibili fossili. La popolazione mondiale è oltre i 7 miliardi.

Ora ci troviamo in un mondo finito

A questo punto, il problema di raggiungere i limiti in un mondo finito si è trasformato principalmente in un problema finanziario. I governi ne sono particolarmente condizionati. Sentono di aver bisogno di prendere in prestito quantità sempre maggiori di denaro per fornire i servizi promessi ai propri cittadini. Il debito è un problema enorme, sia per i governi sia per i singoli cittadini. I tassi di interesse devono rimanere molto bassi di modo che l'attuale sistema “stia insieme”. I governi o sono inconsapevoli della vera natura dei loro problemi o fanno qualsiasi cosa si in loro potere per nascondere la vera situazione ai suoi elettori. I governi si affidano agli economisti per consigli su cosa fare in futuro. I modelli degli economisti fanno un vero e proprio lavoraccio nel rappresentare il mondo di oggi, quindi forniscono una guida poco utile. Il modo fondamentale per affrontare i limiti sembrano essere le “soluzioni” dettate dalla preoccupazione per il cambiamento climatico. Queste soluzioni sono dubbio beneficio quando si tratta di limiti reali di un mondo finito, ma fanno sembrare che i politici facciano qualcosa di utile. Forniscono anche un flusso continuo di introiti alle istituzioni accademiche e alle aziende “verdi”. Il pubblico è stato placato da ogni sorta di storie fuorvianti su come il petrolio da scisto sarà una soluzione. L'alleggerimento quantitativo - Quantitative Easing (usato dai governi per abbassare i tassi di interesse) ha temporaneamente permesso alle borse di volare e ai tassi di interesse di rimanere piuttosto bassi. Quindi, superficialmente, tutto sembra perfetto. La questione è quanto durerà. I tassi di interesse aumenteranno e rovineranno la felice situazione? O sarà un altro problema finanziario (per esempio, un problema di debito in Europa o in Giappone) a far cadere il castello di carte? O il problema finale sarà un declino dell'offerta di petrolio, forse causato dal raggiungimento dei limiti del debito di aziende di petrolio e gas? Il 2014 sarà un anno interessante. Teniamo le dita incrociate rispetto a come andranno le cose. E' surreale quanto siamo vicino ai limiti senza che nei media prenda piede quello che è il vero problema.



martedì 22 aprile 2014

“Furia recursiva”: le ragioni del passo falso di "Frontiers"

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR

di Ugo Bardi

Come probabilmente sapete, l'editore scientifico “Frontiers” ha recentemente deciso di ritirare un saggio già approvato e pubblicato (“Recursive Fury”, Furia recursiva) sul tema degli atteggiamenti cospirazionisti nel dibattito sul cambiamento climatico. Questo gesto ha provocato le dimissioni di alcuni editori di Frontiers, compreso me stesso, come ho descritto in un post precedente. Qui torno sul tema più in dettaglio.


Quando sono stato contattato dallo staff di “Frontiers” e mi è stato chiesto di diventare “editore capo” con loro, ho pensato che fosse un'eccellente idea. Ero attratto, principalmente, dal fatto che la rivista fosse completamente “open access”, un'idea che ho sempre appoggiato (sono stato probabilmente uno dei primi a sperimentare con l'editoria open access in chimica). Così ho accettato l'offerta con considerevole entusiasmo ed ho cominciato a lavorare su una rivista (in realtà una sezione di una rivista) dal nome “Frontiers in Energy Systems and Policy".

Una volta diventato editore, ho scoperto la struttura peculiare del sistema di Frontiers. E' un enorme schema piramidale in cui ogni rivista ha delle sotto-riviste (chiamate “specialties” nel gergo di Frontiers). La piramide si estende alle persone coinvolte: comincia con i “capi editori”, che supervisionano i “capi editori di specialità”, che supervisionano gli “editori associati”, che supervisionano i “revisori”. Visto che ogni passaggio coinvolge una crescita di un fattore 10-20 nel numero di persone coinvolte, potete capire che ogni rivista della serie di Frontiers può coinvolgere diverse migliaia di scienziati. L'intero sistema potrebbe contare, probabilmente, decine di migliaia di scienziati.

Perché questa struttura barocca? La spiegazione ufficiale è che questo rende il processo della revisione più rapido. In questo, la struttura piramidale di Frontiers sembra apparentata in qualche modo a un sistema militare di “comando e controllo” che è, di fatto, progettato per accelerare il processo di comunicazione/azione. Naturalmente, se sei arruolato come editore su Frontiers, non ti vengono dati ordini dai livelli superiori; ciononostante vieni continuamente tormentato da comunicazioni e reminder su quello che devi fare e devi passare queste comunicazioni ai livelli inferiori al tuo. Tutti questi messaggi tendono a stimolarti a completare i tuoi compiti.

Ma la mia impressione è che la struttura piramidale di Frontiers non è stata creata solo per la velocità, aveva un obbiettivo di marketing. Di sicuro, coinvolgendo così tanti scienziati nel processo crea un'atmosfera di partecipazione che li incoraggia a sottoporre i loro saggi alla rivista ed è qui che gli editori fanno soldi, naturalmente. Non posso provare che la struttura di Frontiers si stata concepita in questi termini dall'inizio ma, apparentemente, non sono alieni all'uso di tattiche di promozione aggressive per i loro affari.

Come potete immaginare, un sistema così complesso porta molti problemi. Primo, la pletora di sotto-riviste rende l'intero sistema di Frontiers simile all' “Emporio Celeste della Conoscenza Benevola” descritto da Borges – in breve, un casino. Poi, in caso di sistemi molto grandi, il problema del controllo è praticamente irrisolvibile: vedi il caso delle “Guerre Stellari” di Reagan come esempio. Forse Frontiers non è così complesso come la vecchia iniziativa di difesa strategica americana (SDI), ma i problemi sono gli stessi. Il loro sito internet dovrebbe gestire l'attività di migliaia (o forse decine di migliaia) di scienziati ma, nella mia esperienza, non ha mai funzionato decentemente bene. E gestire tutto il sistema deve richiedere un considerevole staff permanente. Di conseguenza, pubblicare con Frontiers non è a buon mercato.

Così, dopo quasi un anno di lavoro con Frontiers, sono diventato sempre più perplesso. Ho avuto la sensazione di essere solo un ingranaggio in una gigantesca macchina che non funzionava molto bene e che aveva il solo scopo di fare soldi per i livelli alti della piramide. Per favore, non mi fraintendete. Non sto dicendo che ci sia qualcosa di sbagliato nell'idea di fare soldi nel business dell'editoria: assolutamente no. E' chiaro anche che se gli editori sono un'impresa commerciale, allora loro un suo diritto decidere cosa pubblicare e cosa non pubblicare. Il modo in cui Frontiers si è comportato con “Recursive Fury” mostra questo atteggiamento in modo cristallino. Il loro management ha ascoltato solo i loro avvocati ed ha preso una decisione che ha comportato il rischio finanziario minore per loro. Non è stata solo una gaffe occasionale, è stata la conseguenza della struttura decisionale dell'editore.

Una volta chiarito questo punto, mi è sembrato anche chiaro quale fosse il problema: dato per scontato che un editore commerciale può pubblicare quello che vuole, chi difende la scienza (e in particolare la scienza del clima) dai gruppi di interesse, dalle lobby dai gruppi assortiti contro la scienza e dai vari pazzoidi individuali? Non si può chiederlo a un'impresa commerciale che è (correttamente) concentrata sul profitto. Ma si può chiedere perché così tanti scienziati dovrebbero regalare il proprio tempo e il loro lavoro ad un'impresa commerciale che non sembra essere realmente interessata a difendere la scienza. A questo punto, la mia scelta era ovvia. Mi sono dimesso come editore di Frontiers. Altri hanno fatto lo stesso per ragioni analoghe.

Spero che queste righe aiutino a chiarire la mia posizione in questa storia. Come ho detto nel mio commento precedente, le mie dimissioni non avevano niente a che fare con le virtù (o i difetti) del saggio intitolato “Recursive Fury”. Non sono qualificato per giudicare in quel campo e, comunque, non è questo il punto. Il punto che ho voluto sostenere – e spero che si sia compreso – è che dobbiamo reagire al clima di intimidazione che sta fagocitando la scienza. Questo clima di intimidazione assume molte forme e il caso di “Recursive Fury” mostra che ora ha raggiunto anche l'editoria scientifica. Il problema, qui, non è di uno specifico editore. E' che siamo bloccati da un modello vecchio di un secolo di comunicazione: costoso, inefficace e, peggio ancora, facilmente sovvertito dai gruppi di interesse particolare (su questo punto, vedete per esempio questo post di Dana Nuccitelli).

Quindi, cosa possiamo fare? All'inizio l'open access mi sembrava una buona idea per migliorare il processo editoriale, ma è diventato sempre più chiaro che potrebbe causare più danni che guadagni. In aggiunta all'aver generato centinaia di “riviste predatorie” di bassa qualità, gli editori tradizionali se ne sono appropriati e l'hanno trasformato in un modo per estrarre ancora altro denaro dai bilanci della ricerca scientifica.

Credo ancora nell'editoria open access, ma credo che ci sia molto lavoro da fare se vogliamo che diventi la rivoluzione della comunicazione scientifica che speravamo diventasse. Per questo ci vorrà tempo e, al momento, siamo bloccati in un sistema basato sull'editoria commerciale che non è necessariamente desiderosa di difendere la scienza in questo momento difficile. Ma possiamo almeno combattere astenendoci dal pubblicare con riviste che non difendono la scienza e possiamo anche andarcene come editori, come ho fatto con Frontiers. Questo dovrebbe dar loro almeno una spinta nella giusta direzione.




lunedì 21 aprile 2014

L’UNICITA’ DELLA SPECIE UMANA NE DETERMINA IL FATO? Parte 4 – Spes, ultima Dea.

Parte quarta (e conclusiva) della serie di Jacopo Simonetta sul destino della specie umana


Prima parte.
Seconda parte.

Terza parte




         

di Jacopo Simonetta



Come reagiremo, collettivamente, alla situazione di carenza di risorse e crescita esplosiva della popopolazione - come delineato nei post precedenti?  In altri termini, come potranno quattro caratteristiche fondamentali della specie umana ci porteranno ad agire e con quali presumibili conseguenze?

Ricordiamole:


1 – Estrema polifagia.   Indubitabilmente continuerà lo sfruttamento di risorse qualitativamente peggiori, man mano che quelle migliori diverranno insufficienti. Già oggi lo vediamo, ad esempio,  con lo sfruttamento dei cosiddetti “petroli non convenzionali” e del carbone, oppure con l’allevamento industriale di insetti e batteri a scopo alimentare.   Sicuramente ciò sta contribuendo a posticipare il collasso globale che incombe, ma solo al prezzo di aggravarlo in quanto ogni giorno che passa la popolazione aumenta, mentre la capacità di carico globale diminuisce.   In pratica, è come ottenere una rateizzazione di un debito impagabile a fronte di un ulteriore incremento degli interessi passivi.

2 – Evoluzione culturale.   La totalità delle risorse disponibili è dedicata ad uno sforzo letteralmente titanico per sviluppare tecnologie più aggressive ed efficienti, ma sempre sulla base di scoperte e brevetti di base datati, perlomeno, di parecchi decenni.  Ad esempio, le tecnologie fondamentali per l'informatica contemporanea sono brevetti militari degli anni '50; il fracking deriva da un brevetto degli anni '40; l'Ucg (recupero di gas da carbone bruciato in posto) data addirittura dalla fine del XIX° secolo. Sembra che siamo in grado di perfezionare anche di molto quello che abbiamo, ma che non siamo capaci di inventare qualcosa di veramente innovativo come furono, ai loro tempi, il motore a vapore o quello a scoppio.   In parte, forse perché la scoperta “cornucopia” che cerchiamo non esiste, mentre la ricerca di un approccio radicalmente diverso alla situazione è lasciato a settori marginali della società.

In parte, certamente, perché il progresso tecnologico è in buona misura una funzione dell'energia disponibile al netto delle attività economiche vitali, in primis l'estazione e raffinazione dell'energia.   Un margine che si sta rapidamente erodendo con il peggioramento qualitativo delle fonti disponibili.
Inoltre, l’aumento vertiginoso dei volumi e della velocità di informazione pongono problemi crescenti di sintesi, di comprensione e di reazione anche a personale altamente qualificato.    Gran parte della classe dirigente (sia politica che economica) pare aver già raggiunto un livello di “overflow” oltre il quale prevalgono comportamenti istintuali e/o abituali sulla capacità di analisi razionale.   Questo potrebbe spiegare almeno in parte perché, pur essendo perfettamente informati dei danni, dei rischi e delle principali cause della crisi attuale da almeno 40 anni, non abbiamo intrapreso alcuna azione efficace per evitarla.   Di fatto, il comportamento complessivo dell’umanità non si sta dimostrando più “intelligente” di quello di una muffa; è  come se la sommatoria di 7 miliardi di cervelli pensanti fosse tendente a zero.

3 – Incremento della complessità.   Finora è stata una strategia vincente perché la disponibilità di risorse e la stabilità degli ecosistemi erano sufficienti a sostenere strutture progressivamente più costose in termini di risorse ed inquinamento.   Ma dal momento in cui la disponibilità di energia ha cominciato a declinare (perlomeno in termini qualitativi) la complessità ha cominciato a divenire sempre meno sostenibile.   D'altronde, la disarticolazione dei mega-sistemi in sub-sistemi  più semplici e meno interconnessi abbasserebbe drasticamente la capacità di fronteggiare problemi ordinari, come pure di estrarre ed utilizzare le risorse residue.   Si pensi, ad esempio alle capacità terapeutiche dei grandi ospedali universitari rispetto a quella degli ospedalini di provincia.   Oppure si pensi al livello iperbolico di complessità organizzativa necessario per costruire e mantenere operativa una piattaforma petrolifera artica e confrontiamolo con il livello organizzativo ed economico che permise al “colonnello” Drake di trivellare i suoi pozzi.

Inoltre, la complessità dei problemi da affrontare richiede oramai l’impiego di personale troppo specializzato per potersi efficacemente coordinare, col risultato che le risposte imbastite da governi e grandi organizzazioni in genere si stanno dimostrando frammentarie ed inefficaci,   spesso producendo danni imprevisti a latere di risultati deludenti. Un effetto probabilmente dovuto anche al fatto che la dimensione dei sistemi sociali è divenuta tale da impedire alle persone di riconoscervisi e, dunque, di collaborare efficacemente alla sopravvivenza collettiva.  In altre parole, pare che i livelli di complessità stiano raggiungendo livelli ingestibili.

4 – Costruzione sociale di modelli mentali di riferimento.    Il modello attualmente dominante e’ stato elaborato nel periodo in cui il tesoro nascosto delle energie fossili diventava disponibile e sembra incapace di adattarsi ad un contesto di progressiva carenza energetica, sia qualitativa che quantitativa.  Ma quando un modello ampiamente accettato e profondamente radicato viene posto sotto stress dalla forza di fatti che questo non è in grado di spiegare, si crea una situazione di grave sofferenza nei soggetti coinvolti.   Sofferenza tanto più forte quanto più brusco e profondo è il contrasto e, normalmente, la risposta alla sofferenza è la violenza.   Ne sono testimonianza il fiorire di movimenti integralisti in più meno tutte le grandi religioni, come il risorgere di ideologie già costate milioni di morti che rappresentano altrettanti tentativi di ricreare dei modelli mentali ad un tempo esplicativi della realtà ed identitari del gruppo.   Certo, è teoricamente possibile una revisione del modello o la sua sostituzione con uno più adeguato, ma questo tipo di processo richiede tempi relativamente lunghi che non abbiamo più a disposizione.    Di fatto, le classi dirigenti continuano a pensare sulla base di paradigmi elaborati in contesti completamente diversi dall'attuale e questo ne spiega il sistematico fallimento, anche a prescindere dai pur reali e diffusi fenomeni di stupidità, corruzione ed ignoranza.

E dunque?  Personalmente, ritengo che i livelli organizzativi superiori (organizzazioni internazionali, stati, grandi imprese, ecc.) non potranno materialmente elaborare alcuna strategia efficace e dunque si limiteranno a tamponare via via le falle maggiori, di solito aprendone altre.   Una cosa che potranno fare ancora per un periodo relativamente lungo (probabilmente un paio di decenni, forse di più) poiché la disponibilità di mezzi a loro disposizione è davvero molto elevata.   Il problema è che così facendo posticiperanno sì eventi particolarmente dolorosi come le carestie, ma eroderanno nel contempo le riserve ancora presenti in termini di risorse, di resilienza degli ecosistemi, di capacità di adattamento delle popolazioni.

Al momento, alcuni tentativi di elaborare strategie alternative si vedono a livelli organizzativi del tipo di piccole cittadine di provincia o piccole imprese, ma sono molto pochi, mentre molto più numerosi sono gli esempi di micro-comunità auto selezionate, oppure di singoli individui o famiglie.   Il problema è che tanto più basso è il livello organizzativo, tanto minori sono i mezzi a disposizione e le possibilità operative.
 
Inoltre, occorre tener presente che ogni tentativo di modificare la strategia ad un determinato livello organizzativo, sottrae risorse ai livelli superiori, una cosa autenticamente, profondamente sovversiva. Per adesso questo tipo di iniziative non provoca alcuna particolare reazione, se non un passivo boicottaggio derivante dall'incompatibilità di queste strategie con il sistema di norme e consuetudini esistenti.   Questa comoda situazione potrebbe però cambiare se iniziative di questo tipo si moltiplicassero, oppure se il degenerare della situazione sociale portasse a governi più autoritari.   Già in molti paesi del mondo le possibilità di scelta dei cittadini sono fortemente limitate non solo dai paradigmi mentali comuni e dalla propaganda, ma anche da apparati repressivi molto efficaci.   Ed anche nei paesi di tradizione più liberale, esigenze di ordine pubblico e fiscale stanno portando alla creazione di sistemi di spionaggio e controllo della popolazione assolutamente capillari.Se ne potrebbe trarre la facile conclusione che un Fato funesto attende la nostra specie e, probabilmente, l’intero pianeta. Effettivamente, in una prospettiva plurisecolare, questa è una possibilità concreta, ma assolutamente non una certezza.

A conclusione del suo ultimo (e più amaro) libro, “Il declino dell’uomo”, Konrad Lorenz illustra come il comportamento dell’uomo contemporaneo continui ad essere condizionato da paradigmi istintuali che per almeno 100.000 anni hanno fatto di noi la specie vincente in assoluto.   Questo li ha radicati profondamente nella nostra mente e, probabilmente, anche nei nostri geni, cosicché non riusciamo a liberarcene, malgrado nel contesto odierno siano diventati, a tutti gli effetti, degli istinti suicidi. Conclude, tuttavia, dicendo che una speranza comunque c'è e e risiede nel fatto che la caratteristica principale dei sistemi viventi rimane l’imprevedibilità.   E le società umane sono sistemi viventi estremamente complessi, all'interno delle quali evolvono contemporaneamente numerose tendenze diverse, talvolta contrastanti.  

In pratica, se il destino della società industriale globalizzata appare effettivamente segnato per motivi geologici, termodinamici ed ecologici, il futuro delle società che si formeranno dalla sua disintegrazione rimane del tutto imperscrutabile.  Curioso che dopo tanti sforzi per dominare e controllare  completamente la Natura, ci troviamo a riporre ogni nostra speranza nel fatto che non ci siamo riusciti.    

 “Sento dunque che l’improbabile al quale mi dedico rischia di diventare davvero impossibile.   Ma sento anche che, se il Titanic naufraga, forse una bottiglia gettata in mare giungerà sulla riva di un mondo in cui tutto sarebbe da ricominciare …    Non si sa mai se e quando è troppo tardi.”   (E. Morin, La via, 2012).




domenica 20 aprile 2014

L’UNICITA’ DELLA SPECIE UMANA NE DETERMINA IL FATO? Parte 3 – Il presente.

Terza parte della serie di Jacopo Simonetta sull'origine e il destino degli esseri umani

Prima parte.
Seconda parte.




di Jacopo Simonetta.
        Ci sono volute circa 10.000 generazioni  perché la popolazione umana raggiungesse 1 miliardo nel 1800 circa ed altri 130 anni per raggiungere i 2 miliardi di individui verso il 1930; poi, nell’arco di una sola vita umana, siamo passati ad oltre 7 miliardi in ulteriore, rapido aumento.   E’ vero che il tasso di crescita sta diminuendo costantemente dalla metà degli anni ’60, ma il tasso record del 2,19% del 1963, applicato ad una popolazione di 3,2 miliardi di persone, comportò un aumento di poco più di 70 milioni di bocche da sfamare.    Nel 2013, un tasso di crescita pari a “solamente” 1,14 %, applicato ad una base di 7,16 miliardi, ha portato quasi 82 milioni di bocche in più attorno al desco globale.

La densità di popolazione media mondiale oggi è all'incirca di una persona ogni 2 ettari, compresi i deserti e le alte montagne.   Se si considera la sola superficie agricola, le stime della FAO del 2006 davano una persona ogni 2.000 mq circa, altre fonti danno cifre un po’ diverse, ma poco importa la differenza, da momento che tutte concordano sul fatto che tale cifra si è dimezzata in 40 anni circa e che la tendenza è ad un’ulteriore, rapida, riduzione. In Italia, nel 2004 avevamo “ben” 2.280 mq di terra agricola a persona (ISTAT), ma considerando che diminuisce di circa 30 mq l’anno a causa dell’incremento demografico e dell’urbanizzazione; oggi dovremmo averne poco più di 2.000 mq con “rating” negativo. Eppure il costo medio del cibo nel corso degli ultimi 50 anni è diminuito, come è possibile un simile miracolo?

Figura 1
Semplicemente è stato reso possibile dal fatto che abbiamo trovato il modo di utilizzare petrolio e gas per produrre cibo. Chiunque pensi che l’attuale popolazione possa sopravvivere senza avere a disposizione combustibili fossili di alta qualità, in quantità praticamente illimitate ed a prezzo molto basso osservi bene questo grafico (fig.1):



Meccanizzazione, irrigazione e concimi sintetici hanno infatti consentito un aumento delle rese ad ettaro comprese fra il 50 ed il 200% a seconda delle colture e delle zone, ma tutto ciò è fattibile solo con grandi consumi di energia.   Oggi si stima che l’agricoltura consumi in media 4 joule fra petrolio e gas per produrre 1 joule sotto forma di cibo, ma le colture ad altissima produttività (quelle che fanno i 180-200 q/ha e che nutrono le megalopoli del mondo) consumano oltre 10-12 joule di energia fossile per ogni joule di granella raccolta.   E bisogna ancora trasportarla, macinarla, impacchettarla, cuocerla, ecc.   Stime ragionevoli valutano in una media globale di 40 joule di energia fossile consumata per mangiare un joule di cibo; che ci si trovi a New York, a San Paolo, a Shanghai  od al Cairo fa poca differenza.

Figura 2

In termini energetici, stiamo letteralmente mangiando petrolio condito con metano; tutto il resto serve sostanzialmente renderlo più gustoso e digeribile.

Niente di strano, dunque, che il prezzo del cibo segua quello del petrolio (fig.2).

Figura 3

Con tutto ciò, la produzione mondiale pro- capite di cereali  ha raggiunto un picco nel 1985 per poi declinare (fig.3). Le scorte strategiche mondiali sono ai minimi storici e non riescono a risollevarsi neppure nelle annate migliori, mentre abbiamo visto che ogni anno ci sono circa 80-90 milioni di bocche in più da sfamare.



Figura 4.
Parallelamente, la quantità di persone denutrite è andata diminuendo dal 1960 fino al 1995, per poi circa triplicare nei 20 anni successivi.(fig. 4).
Forse la resa agricola potrebbe ancora aumentare, ma anche in questo caso l’effetto della legge dei “ritorni decrescenti” è evidente (fig.5).   Quali sarebbero dunque i costi, quali conseguenze e con quali risultati? 

Figura 5
Sappiamo inoltre che il cambiamento climatico in corso già grava sulla produzione agricola mondiale e che sempre di più lo farà. In un disperato tentativo di compensazione, ogni anno circa 1.500.000 di ettari vengono annualmente messi a coltura mediante bonifiche e disboscamenti.   E’ impossibile sapere con esattezza di quanto annualmente diminuisca la superficie forestale sia per motivi politici (ovvi),  sia tecnici (cosa è classificato come “foresta” cambia a seconda degli autori).   Comunque, pare che dal 8.000 a.C. al 1.900 d.C (10.000 anni) siano state distrutte circa il 50% delle foreste originarie; fra il 1900 ed il 2.000 (100 anni) la metà di quelle rimaste; entro il 2020-30 (10-20 anni) la metà di quelle che rimangono oggi (anzi, ieri). Le conseguenze sui suoli, le acque, la biodiversità ed il clima sono semplicemente incalcolabili.
Eppure la superficie agricola continua a diminuire (dal 1980 al 2000 è calata dell’11%, pari a 80 milioni di ettari) in conseguenza di una serie di fenomeni, perlopiù dipendenti dall'eccessivo sfruttamento cui è sottoposta (desertificazione, erosione, edificazione, salinizzazione, ecc.). Oramai, questo immane sforzo produttivo fa si che praticamente tutti i suoli accessibili siano più o meno seriamente degradati, compresa la maggior parte di quelli forestali (fig. 6).   

Figura 6

Forme più moderne di agricoltura (come la permacoltura, l’agricoltura biologica e biodinamica) hanno consumi energetici che sono circa la metà di quelli dell’agricoltura industriale e non danneggiano il suolo, ma comunque necessitano di petrolio sia per la meccanizzazione, sia per tutti i servizi collegati (consumi domestici degli agricoltori, trasporti, ecc.).    Sulle rese gli effetti sono diversi: in grossolana approssimazione si può ritenere che nei paesi temperati i raccolti diminuiscono leggermente, mentre nelle zone tropicali aumentano.   Nell'insieme, si può quindi ritenere che, passando a forme di agricoltura più sostenibili, la produzione mondiale di cibo potrebbe restare circa costante, a fronte di un netto rallentamento nel degrado dei suoli e nei consumi di energia.   Un vantaggio enorme, ma che da solo non sarebbe sufficiente a risolvere il problema della sovrappopolazione.   Anzi, potrebbe addirittura peggiorarlo consentendo un ulteriore aumento della popolazione, analogamente a quanto accaduto con la "rivoluzione verde".
Figura 7

L’impronta ecologica è un modello di valutazione della sostenibilità approssimativo, ma è comunque indicativo.   E’ interessante vedere che il numero di giorni in cui siamo andati in “debito ecologico” ha continuato ad aumentare di anno in anno, a partire dal 1976 quando, probabilmente, l’umanità superò per la prima volta la capacità di carico complessiva del pianeta (fig. 7).   Com'è possibile che la gente sopravviva?   Semplice: si stanno usando ed esaurendo le riserve di energia fossile, acqua, fertilità, biodiversità.   E man mano che le riserve si erodono, la capacità di carico del pianeta si riduce ed il debito ecologico si accumula, analogamente a quello finanziario di cui tanto si parla in questi anni.   Eppure, il debito ecologico, di cui non si parla, è molto più grave giacché non è possibile azzerarlo in altro modo che morendo in quantità sufficiente.   E quanto è sufficiente?   Nessuno può saperlo, ma sappiamo che ogni anno è un po’ di più del precedente.

Tuttavia da molte parti ci dicono di non preoccuparsi perché la natalità diminuisce spontaneamente con l’aumento del benessere, quindi la crescita economica ridurrà la natalità: è solo una questione di tempo e di sviluppo.  In realtà la natalità è correlata con la capacità di decisione autonoma delle donne e non con il reddito (anche se donne benestanti ed istruite sono spesso più autonome di donne povere ed analfabete, ma non sempre).   All'atto pratico, la cosiddetta “transizione demografica” rappresenta abbastanza bene quello che è accaduto nei paesi “occidentali” al netto dell’immigrazione, ma non nel resto del mondo (v. tabella).   Fra i paesi a crescita più rapida troviamo sia i poverissimi che i ricchissimi, mentre fra quelli a crescita negativa troviamo praticamente solo poveri (v. energia-e-crescita-demografica).  Questa  è una grossa fortuna perché il livello di benessere sta diminuendo per moltissima gente in tutto il mondo e molto di più diminuirà nei prossimi decenni senza che ciò, per ora, provochi una recrudescenza della natalità.   

 Al di là di imprevedibili fluttuazioni di dettaglio, sappiamo infatti che siamo attualmente in una fase di picco della  disponibilità energetica e che nel giro di 10-20 anni la disponibilità globale non potrà che diminuire (fig. 8), con quali conseguenze sulle economie e le popolazioni?  

Figura 8



sabato 19 aprile 2014

L’UNICITA’ DELLA SPECIE UMANA NE DETERMINA IL FATO? Parte 2 – Il passato.

Prima parte.



Di Jacopo Simonetta


       Per indagare il futuro, necessariamente ignoto, è buona regola cominciare dall'analizzare il passato, parzialmente noto, per poi cercare di capire come le tendenze strutturali al sistema che osserviamo interagiranno con il contesto presumibile nel futuro.
Il passato dell’uomo moderno è cominciato circa 100.000 anni fa, probabilmente in Africa orientale.   E’ importante notare che, all'epoca, esistevano numerose altre specie umane quali Homo neanderthalensis , H.soloensis, H. heidelbergensis, H. helmei, H. floresiensis, probabilmente popolazioni relitte di H. Erectus ed altre genti ancora ignote.   Nello stesso periodo, tutte le terre emerse erano popolate da una varietà di mammiferi, rettili ed uccelli di grandi e grandissime dimensioni, superiore anche alla mega-fauna che, nell'Africa sub-sahariana, è localmente sopravvissuta fino ai giorni nostri.  

Questi uomini moderni si distinsero subito dai congeneri per una cultura materiale  più elaborata e, soprattutto, molto più dinamica. Anche gli altri uomini conoscevano il fuoco e realizzavano strumenti di pietra, legno od osso, ma le loro culture erano molto uniformi nello spazio e molto conservatrici nel tempo. I nostri diretti antenati, viceversa, mostrarono da subito una grande dinamicità sia spaziale che temporale, inaugurando quel tipo di accelerazione evolutiva di cui abbiamo fatto cenno.  Contemporaneamente, compaiono le prime forme di arte, il che implica una capacità di pensiero astratto che gli altri umani, con ogni probabilità, non avevano. L’ipotesi principale per spiegare questo drastico cambiamento è che gli Homo sapiens sapiens avessero acquisito una capacità nettamente superiore nel modulare il linguaggio, presupposto indispensabile per lo sviluppo della narrativa che, rispetto alla sola osservazione/imitazione, consente un livello enormemente superiore nella conservazione e nella trasmissione delle conoscenze, oltre che costituire la  base per l’elaborazione del pensiero simbolico su cui si fondano quei modelli mentali esclusivi della nostra specie.

La diffusione dell’uomo moderno sul pianeta è facile da tracciare, anche in assenza di fossili specifici, perché ovunque siano arrivati si assiste alla rapida scomparse di molte, talvolta tutte, le specie più grandi e di molte altre che da esse dipendevano, inaugurando quell'effetto destabilizzatore che le altre specie umane non avevano avuto. Non si sa se per sterminio diretto o se per cause indirette, ma anche le altre specie umane si sono rapidamente estinte al sopraggiungere dei nostri avi, salvo alcuni casi in cui forse piccoli gruppi potrebbero essere sopravvissuti abbastanza a lungo da dare origine a diffuse leggende su “giganti”, “uomini selvatici” eccetera.  

La cosa interessante è che questo fenomeno non è avvenuto una sola volta; bensì si è ripetuto ogni volta che una nuova civiltà si diffondeva in un territorio già abitato, annientando le culture precedenti e con esse un ulteriore set di specie che erano sopravvissute alla fase precedente.  Un fenomeno, questo, molto ben documentato nel caso della diffusione globale delle diverse ondate di tecnologia industriale, ma eventi simili hanno accompagnato da sempre la diffusione dell’uomo moderno.   Anzi, i casi di estinzione di massa più spettacolari mai causati dall'uomo sono probabilmente quelli seguiti all'arrivo dei primi H. sapiens in Australia (circa 40.000 anni fa), in Nord America (circa 14.000 anni fa), in Nuova Zelanda (Intorno al 1.200 d.C.).

Ovviamente, una simile capacità distruttiva comporta una dinamica della popolazione particolarmente instabile, con rapidi incrementi che seguono la scoperta di nuove risorse e/o di nuovi modi per sfruttare meglio le vecchie.   Una crescita che prosegue esponenzialmente erodendo la capacità di carico del territorio finché carestie, guerre e migrazioni non riportano la popolazione in equilibrio con le risorse  rimaste.   Probabilmente proprio questa dinamica è alla base del popolamento umano del pianeta e spiega come gruppi di persone perfettamente ragionevoli siano andati ad insediarsi in luoghi tanto inospitali quanto il pack od i deserti.

Naturalmente, non tutti i gruppi umani hanno sempre seguito questo copione.   Si conoscono anzi numerosi casi in cui complicati sistemi sociali, culturali, politici ed economici assicuravano una parziale sostenibilità; ma sono stati elaborati in periodi successivi a crisi ecologiche e, probabilmente, in risposta a queste.   In ogni caso si tratta di eccezioni che confermano la regola.

In sintesi, pare che crisi di tipo “malthusiano” facciano parte integrante del nostro modo di esistere, fin dal nostro apparire.   Per decine di migliaia di anni queste crisi sono avvenute su scala locale, contribuendo a delineare quel complesso mosaico di nascita, sviluppo e crisi delle civiltà che ha tanto  affascinato  studiosi del calibro di Gianbattista Vico, Oswald Spengler, Arnold J. Toynbee o Jared Diamond.
Con il XVIII° secolo, per la prima volta avvenne che una crisi di questo tipo, originatasi in Europa, abbia coinvolto l’intero pianeta nel giro di poco più di un secolo.   In effetti, già il reverendo Malthus aveva previsto e stigmatizzato che l’eccessiva natalità degli europei sarebbe costata la vita ai  “selvaggi delle Americhe”, cosa che puntualmente avvenne, con l’aggiunta di diversi altri popoli sparsi per il mondo.   In altre parole, per la prima volta, una crisi maltusiana ha avuto una dimensione globale ed è stata risolta sterminando, marginalizzando od acculturando (di fatto assorbendo) quasi tutti gli altri popoli della terra.   La popolazione mondiale raddoppiò.
Una seconda crisi di portata globale avvenne circa 150 anni più tardi con epicentro in Cina, ma con forti carestie in gran parte dell’Asia e dell’Africa su di un arco di 15-20 anni.   Questa nuova crisi di portata globale fu superata mediante la “rivoluzione verde” che devastò culture, società ed ecosistemi, ma moltiplicò la produzione mondiale di cibo, consentendo un ulteriore raddoppio della popolazione globale.   In questo caso dunque, anziché spostare grandi masse di persone, si fece un massiccio ricorso alle riserve di energia fossile e si elevò il livello di integrazione fra i diversi settori economici e fra i diversi sistemi-paese.   Tendenza questa che è poi proseguita, con una brusca accelerazione a partire dagli anni ’90, portando l’attuale livello di integrazione globale a livelli fino ad oggi impensabili.  

Ciò ha permesso un ulteriore raddoppio della popolazione mondiale, ma a costo di un molto più che proporzionale aumento dei consumi e degli impatti (v. parte 1) che hanno portato la destabilizzazione degli ecosistemi a  livelli oramai analoghi a quelli delle grandi crisi caratterizzanti la storia geologica del pianeta.   Questo crea uno scenario del tutto inedito nella storia dell’umanità: tutti i popoli della Terra stanno entrando in una crisi malthusiana quasi contemporaneamente. Alcuni, anzi, ci sono già in pieno e cercano di sfuggirvi tornando all'antica usanza della migrazione di massa, ma non può funzionare perché non esistono praticamente più zone del pianeta la cui capacità di carico non sia già stata superata, o non sia sul punto di esserlo.





venerdì 18 aprile 2014

L’UNICITA’ DELLA SPECIE UMANA NE DETERMINA IL FATO? Parte 1 – Premessa.

Il primo di una piccola serie di post di Jacopo Simonetta sul fato della specie umana



   
 Di Jacopo Simonetta


Desmond Morris, Konrad Lorenz e tanti altri hanno ampiamente illustrato quanto abbiamo in comune con i nostri cugini pelosi, eppure non c’è dubbio che il Fato della nostra specie sia molto diverso da quello delle altre grandi scimmie.  Perché?  Quali sono le caratteristiche a noi proprie che hanno determinato un tanto diverso destino? Senza pretesa di completezza, vediamo 4 caratteristiche, fra loro correlate, che con tutta probabilità hanno giocato (e giocheranno) un ruolo fondamentale nella nostra storia.

1 – L’uomo è una specie estremamente polifaga.   Esistono tantissime specie onnivore (ad es. quasi tutte le scimmie, cinghiali, cani, ratti, corvi, blatte, grilli, ecc.), ma nessuna riesce a ingerire e digerire una varietà di cibi che vanno dalla balena al lievito, passando per il sale ed i ravanelli.  Se poi consideriamo non solo il cibo, ma tutte le sostanze che vengono utilizzate per la produzione di beni e servizi, l’uomo da solo utilizza una gamma di risorse forse altrettanto vasta di quella utilizzata dalla Biosfera intera.  Questo ha delle conseguenze.   Sappiamo, infatti, che gli animali specializzati nello sfruttamento di risorse specifiche hanno un effetto stabilizzante sugli ecosistemi di cui fanno parte, mentre gli onnivori tendono a destabilizzare i loro ecosistemi. Ma sappiamo anche che ecosistemi stabili favoriscono gli “specialisti” (che sono più efficienti), mentre gli ecosistemi instabili favoriscono i “generalisti” (che sono più resilienti). Si formano quindi degli anelli a retroazione che tendono a mantenere determinate situazioni, ma è molto più facile e rapido passare dalla combinazione “ecosistema stabile-dominanza di specialisti” a “ecosistema instabile -dominanza di generalisti” piuttosto che il contrario e questo per ragioni termodinamiche complesse, ma ineludibili.  Essendo che l’uomo, tenuto conto dell'intera sua attività economica, è la specie più polifaga in assoluto, è anche quella che maggiormente destabilizza il proprio ambiente.

2 – L’uomo evolve soprattutto sul piano culturale. Nella nostra specie, le competenze acquisite durante la vita dei singoli individui possono essere trasmesse ad altri individui, anche in gran numero e non necessariamente discendenti, senza neppure un’interazione diretta.  Questo consente una rapidissima diffusione delle innovazioni e delle conoscenze. E poiché l’effetto di una popolazione in seno ad un ecosistema dipende da come questa si comporta e con quali mezzi si procura il fabbisogno, un uomo munito di zappa e lo stesso identico individuo alla guida di un trattore sono entità ecologicamente altrettanto diverse che un topo ed un elefante; con la differenza che il passaggio da zappa a trattore può avvenire in una sola generazione od anche meno. Questa straordinaria velocità evolutiva impedisce alle altre specie (legate ai ben diversi tempi dell’evoluzione biologica) di adattarsi a noi,  con l’ eccezione di quelle che, non per caso, sono divenute i nostri parassiti. Un aspetto particolarmente rilevante connesso con l’evoluzione tecnologica è che questa consente alla nostra specie di continuare ad estendere la gamma delle risorse che può sfruttare, oppure di accaparrarsene in misura maggiore.   Di fatto, l’uomo è dunque un “invasore biologico permanente” in quasi tutti i luoghi dove si trovi.

3 – L’uomo tende a formare strutture super-individuali di tipo quasi coloniale, sempre più complesse ed interconnesse.   In effetti, l’unità evolutiva e funzionale dell’uomo moderno non è l’individuo, bensì la società di cui ognuno fa parte.   Il nostro grado di integrazione non ha raggiunto i livelli di alcuni insetti, ma, in compenso, costituisce strutture di vastità e complessità senza paragoni possibili nel resto della Biosfera.   La tendenza alla complessità è probabilmente molto più antica della nostra specie, ma in noi ha raggiunto livelli senza precedenti.   Questo comporta dei vantaggi notevoli in quanto livelli organizzativi superiori ci consentono  di superare i fattori che limitano la crescita dei livelli inferiori.   Si pensi, ad esempio, all'immensa rete del commercio mondiale, od al funzionamento del sistema sanitario. Ma la complessità è anch'essa soggetta alla nota legge dei “ritorni decrescenti”, cosicché ogni ulteriore incremento comporta vantaggi minori rispetto al precedente, mentre aumentano i consumi unitari e globali di energia e risorse. Vi è dunque un limite oltre il quale lo sviluppo del sistema diventa controproducente, senza che questo perda però la sua incoercibile tendenza alla crescita.   La burocrazia di qualunque paese moderno è un eccellente esempio di questo fenomeno. Inoltre, l’aumento della complessità comporta un parallelo incremento della specializzazione dei singoli elementi che, complessivamente, diventano più efficienti, ma meno resilienti. Parallelamente, si sviluppano difficoltà crescenti di dialogo e reciproca comprensione fra i soggetti specializzati in materie e ruoli diversi, fino a minare la capacità stessa di reazione coordinata del sistema complessivo.  

4 – L’uomo elabora dei modelli mentali che descrivono la realtà ed il suo funzionamento.    Salvo il caso di reazioni puramente istintuali, usiamo questi modelli come chiavi di lettura per  capire la realtà, interpretare le informazioni che ci giungono dal mondo, elaborare le risposte.   Questi modelli sono sempre fortemente identitari perché sono una creazione collettiva dei gruppi che li elaborano e condividono. Ciò costituisce quel fenomeno unico nel  mondo biologico che è la costruzione sociale della percezione della realtà.   Percezione che, a tutti gli effetti pratici, sostituisce la realtà stessa, tanto che vi è chi parla di “costruzione sociale della realtà”.

L’insieme di queste quattro caratteristiche ci ha permesso di diventare la specie dominante del  pianeta in una misura difficile da capire e da credere.   Se   moltiplichiamo il numero delle persone per i consumi energetici pro-capite medi, abbiamo un indice dell'impatto termodinamico che abbiamo sul pianeta (human equivalent).   Considerando 1 l'impatto del terrestre medio nel 1800, troviamo che i sette miliardi di umani attuali consumano ed inquinano quanto 140 miliardi dei nostri bisnonni.

Ma l'enorme disponibilità di energia fossile ci ha permesso di accaparrarci anche una quota sempre maggiore di energia solare fissata dalla fotosintesi, passata da meno del 5 al 50% circa, mentre l’umanità con i suoi animali domestici (praticamente meno di una decina di specie in tutto) costituisce il 97% circa della biomassa di vertebrati terrestri oggi viventi.  Tanto quanto, ai loro tempi, tutte le centinaia di specie di dinosauri messe insieme.  
Il primo di una piccola serie di post di Jacopo Simonetta

E’ la prima volta che nella storia del Pianeta un solo animale assurge a tale importanza e ciò sembra giustificare il termine di “Antropocene” proposto per definire il periodo geologico attuale.   Resta però da vedere se si tratta dell’inizio di un’era, oppure della catastrofe che porrà termine all'era precedente.

giovedì 17 aprile 2014

Il periodo speciale cubano

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR

Salve a tutt*,
 

non sono solito fare introduzioni ma, come dice lo stesso Turiel a seguire, anche io ho usato l'esempio di Cuba come paese che ha avuto successo nell'affrontare il "picco del petrolio artificiale" dopo la caduta dell'Unione Sovietica. In diverse occasioni divulgative ho presentato il documentario "The power of community" proprio per mostrare un esempio positivo. Questo articolo, scritto per di più da un cubano, mi ha sorpreso. Non che nella versione del documentario non venissero evidenziate anche difficoltà e sofferenze, ma quanto si dice nell'articolo seguente è piuttosto diverso. Ora, non credo che una cosa escluda del tutto l'altra, però, alla luce di questo articolo, mi viene da pensare che tutto sommato Cuba non abbia avuto poi tutto questo successo nell'affrontare il picco. Un problema in più in prospettiva ed uno stimolo a cercare soluzioni non ancora pensate. O ad integrare meglio quelle già pensate. (M.R.)

Bottega di approvvigionamento popolare a Cuba

di Antonio Turiel

Cari lettori,

nelle prime conferenze che abbiamo fatto sul problema del picco del petrolio portavamo l'esempio dei paesi che avevano affrontato una situazione di brusca caduta della fornitura di petrolio (in entrambi i casi, per via del collasso dell'Unione Sovietica) in due modi completamente diversi: o puntando su un modello industriale (Corea del Nord) o su uno più agricolo (Cuba). Gli esempi erano raccolti nel libro di Dale Allen Pfeiffer “Mangiare combustibili fossili” e noi lo riportavamo in modo un po' acritico negli incontri. Col tempo, molti cubani mi hanno fatto notare che il Período Especial cubano non è stato per niente così ideale come lo mostravamo noi e, sebbene in Corea del Nord le cose sono state molto peggiori, a Cuba lo Stato ha avuto un ruolo meno decisivo di quello che gli attribuiamo e la situazione non è stata affatto idilliaca.

Recentemente, Erasmo Calzadilla, dell'Havana Times, mi ha contattato per chiedermi di alcune questioni collegate all'energia e nelle e-mail successive siamo finiti a parlare del Período Especial. La sua visione sull'argomento, come mi aspettavo, era abbastanza critica rispetto al messaggio che riportavamo allora. Erasmo è il primo cubano che ha accettato di scrivere un saggio sulla sua visione di quel periodo perché venga pubblicato su questo blog e che inoltre lo firma a proprio nome (che sicuramente ha per noi europei una grande risonanza storica).

Vi lascio con Erasmo.

Saluti.
AMT


Il lavoro dove confronti Cuba con la Corea si chiama: “Il futuro imminente di una Spagna senza energia” ed è datato 18 febbraio 2010 (Nota di Antonio Turiel: si riferisce ad una delle prime conferenze che ho fatto sul picco del petrolio)

Su Cuba dici:
Il governo ha preso due misure fondamentali per evitare il collasso:

  • Programmi di alimentazione dei settori sociali più deboli
  • Buoni di razionamento per tutta la popolazione

Un piano aggressivo di riforma agricola, un ritorno progressivo ed incentivato alla terra e la ricerca in agricoltura hanno permesso di mantenere un livello alimentare ragionevole. Non credo che siano state queste le misure che evitarono il collasso. I buoni di razionamento e quel poco di cibo che distribuivano ai più indigenti hanno portato un qualche aiuto, ma non si poteva contare su quelli per non morire di fame. In città, la soluzione è stata “la lotta e l'invenzione”. La gente pescava persino nelle pozzanghere di acqua nera, cacciava persino i gatti (anche se lasciava stare i cani), raccattava persino nei bidoni della spazzatura e/o rubava, soprattutto allo Stato. Quelli con più iniziativa e voglia di lavorare si sono appropriati dei terreni aridi intorno ai quartieri con l'obbiettivo di seminare o allevare animali (quasi sempre a titolo personale).

Lo stesso centro della città si era riempito di pollai puzzolenti che i loro proprietari costruivano proprio di fianco agli edifici o persino all'interno degli appartamenti per proteggerli dai “ninja”. I fossati si sono riempiti fino a tracimare coi resti delle porcilaie; è stato un miracolo il fatto che non sia scoppiata un'epidemia mortale. Si dice che Cuba sia sopravvissuta grazie alla cooperazione di comunità; mi pare che si idealizzi. La gente si aiutava, ma molto meno che prima della crisi e mai con un senso comunitario esplicito. Che io sappia, non è nata nessuna organizzazione sovra-famigliare (a parte la comunità dei fedeli che ha proliferato nelle chiese); più che altro si è disintegrata quella che c'era, proprio come racconta e prevede Dmitry Orlov. I capi della Rivoluzione e i mezzi di comunicazione avevano combattuto duramente e a fondo contro l'individualismo, ma questo è rifiorito alla minima occasione è si è installato sul trono della soggettività del cubano. Questo nostro rinascimento è stato positivo per molti aspetti, ma fatale per altri. Il picco della crisi, il momento in cui stavamo peggio, ha coinciso col picco dell'ostentazione, con quello dell'egoismo e della violenza spietata. Molta gente andava in giro armata per evitare di essere assalita e persino sgozzata per venire derubata di una qualsiasi cavolata.

E' stato quello il momento in cui i Macetas, gente senza scrupoli che hanno fatto fortuna sfruttando la fame, la disperazione e la mancanza di controllo, hanno alzato la testa. Una comunità organizzata e cosciente come quella che immaginano gli idealisti avrebbe affrontato e rimesso al loro posto questi personaggi, ma è accaduto piuttosto il contrario. I Macetas si sono trasformati nell'esempio da seguire, in capi della comunità e vicini di riguardo, arrivando ad occupare cariche politiche. Quando il governo ha recuperato le redini ha fatto cadere qualcuno da cavallo, ma altri sono riusciti a ripulire la propria fortuna ed oggi prosperano protetti dalla legge. In quanto al ritorno progressivo ed incentivato alla terra, non ho notizia del fatto che sia accaduta una cosa simile. Nella capitale c'era miseria, sete e fame, ma non tanta da spingere gli abitanti ad andarsene. Il fenomeno migratorio di massa di cui ho notizia è stato piuttosto in senso contrario.

Dalla sera alla mattina, L'Avana si è riempita di gente che cercava di cavarsela, gente che viveva molto male nelle province interne o che tentava di sfruttare del caos per insediarsi nella capitale. Quelli arrivati dopo costruivano una baraccopoli in un pezzo di terra, con una putrella rubata ad un traliccio dell'alta tensione, una lamiera zincata estratta da un'industria smantellata, un pezzo di cartone preso dalla spazzatura e così tutto il resto. Anche in piena crisi, L'Avana dava vita a coloro che venivano disposti a tutto: lavorare nell'edilizia, in agricoltura, nella polizia, come prostitute, come pingueros, come assalitori di strada, messaggeri, ecc. Il Governo li deportava in massa verso le loro province di origine, ma quelli tornavano indietro con lo stesso treno. C'è un documentario, “Buscándote Habana” che descrive l'argomento. Riassumendo, la gente della capitale non è andata a lavorare la terra, piuttosto è la città che si è ruralizzata, riempendosi di coltivazioni, porcilaie, pascoli e gente di campagna.

Sulla ricerca scientifica nell'ambito agricolo

Mentre fluivano gli aiuti dell'agricoltura “socialista”, qui si è praticata un'agricoltura intensiva a colpi di combustibili fossili. I diversi istituti di ricerca avevano gli occhi puntati sui progressi più smaglianti della scienza, soprattutto sulla biotecnologia. Appena prima della Caduta, i burocrati e tecnocrati avevano un entusiasmo incredibile per le coltivazioni idroponiche, che necessitano di un'impalcatura sofisticata e cara. Naturalmente tutto questo ha fatto una brutta fine al primo soffio della crisi, ma come è cominciata a gocciolare la manna dal Venezuela si sono cominciate a disporre le batterie per il transgenico ed altre delicatezze simili. “I buoi hanno un aspetto migliore nel piatto”, è un'espressione di Jorge Triana, un economista che sfrutta il riconoscimento delle alte sfere e vive facendo conferenze per l'élite politica e scientifica. Tuttavia, le forze armate rivoluzionarie (FAR) avevano pensato ad una strategia per come organizzare la società ed il lavoro in tempi di guerra. La chiamavano Opzione Zero. Applicata con sapienza, detta strategia ha aiutato a recuperare un'agricoltura, una farmacia e persino una medicina naturale alternativa che hanno aiutato a parare il colpo. Inoltre, con le reclute che entravano nelle forze armate (qui è obbligatorio per gli uomini), le FAR hanno organizzato l'Esercito Giovanile del Lavoro (Ejército Juvenil del Trabajo - EJT). Le reclute lavoravano in aziende agricole per un salario miserabile (sempre meglio che marciare sotto il sole) e poi l'esercito vendeva a basso costo o distribuiva gratis (nelle scuole, negli ospedali, nelle unità militari e nei centri di lavoro) il raccolto.

Ma  dal mio punto di vista sono stati i contadini e le contadine coloro che hanno aiutato ad eliminare di più la fame, con tecniche rudimentali e a colpi di sapienza tradizionale, nucleate intorno alla famiglia e senza ricorrere al lavoro di schiavi. La gente della città faceva viaggi  in campagna per scambiare qualsiasi cosa per vivande, verdure o frutta. Lo Stato-Governo era in rovina e non aveva risorse per organizzare né per controllare niente se non l'indispensabile. All'Apparato non rimaneva altro rimedio che permettere a malincuore il laisser faire, che la gente si rendesse indipendente. Molti contadini ed imprenditori di ogni tipo si spaccavano la schiena con l'illusione di avere qualcosa di proprio, di recuperare la dignità, di essere liberi. Il collettivismo forzato aveva generato tanto malessere che l'ansia di indipendenza era diventata uno dei motori soggettivi più potenti quando rimaneva a malapena le speranze e le forze per lottare. Dall'altra parte il turismo, l'investimento straniero e le rimesse famigliari hanno contribuito con un valore forte che, insieme ad altri fattori, ha impedito che cadessimo tanto in basso come la Corea del Nord. Molte brave persone prendono Cuba come l'esempio che è possibile sopravvivere a una carenza repentina di combustibile ed altri prodotti indispensabili grazie al lavoro in comunità ed alla guida di un governo socialista con l'appoggio popolare. L'idea mi sembra buona, ma è abbastanza lontana dalla realtà.