sabato 19 aprile 2014

L’UNICITA’ DELLA SPECIE UMANA NE DETERMINA IL FATO? Parte 2 – Il passato.

Prima parte.



Di Jacopo Simonetta


       Per indagare il futuro, necessariamente ignoto, è buona regola cominciare dall'analizzare il passato, parzialmente noto, per poi cercare di capire come le tendenze strutturali al sistema che osserviamo interagiranno con il contesto presumibile nel futuro.
Il passato dell’uomo moderno è cominciato circa 100.000 anni fa, probabilmente in Africa orientale.   E’ importante notare che, all'epoca, esistevano numerose altre specie umane quali Homo neanderthalensis , H.soloensis, H. heidelbergensis, H. helmei, H. floresiensis, probabilmente popolazioni relitte di H. Erectus ed altre genti ancora ignote.   Nello stesso periodo, tutte le terre emerse erano popolate da una varietà di mammiferi, rettili ed uccelli di grandi e grandissime dimensioni, superiore anche alla mega-fauna che, nell'Africa sub-sahariana, è localmente sopravvissuta fino ai giorni nostri.  

Questi uomini moderni si distinsero subito dai congeneri per una cultura materiale  più elaborata e, soprattutto, molto più dinamica. Anche gli altri uomini conoscevano il fuoco e realizzavano strumenti di pietra, legno od osso, ma le loro culture erano molto uniformi nello spazio e molto conservatrici nel tempo. I nostri diretti antenati, viceversa, mostrarono da subito una grande dinamicità sia spaziale che temporale, inaugurando quel tipo di accelerazione evolutiva di cui abbiamo fatto cenno.  Contemporaneamente, compaiono le prime forme di arte, il che implica una capacità di pensiero astratto che gli altri umani, con ogni probabilità, non avevano. L’ipotesi principale per spiegare questo drastico cambiamento è che gli Homo sapiens sapiens avessero acquisito una capacità nettamente superiore nel modulare il linguaggio, presupposto indispensabile per lo sviluppo della narrativa che, rispetto alla sola osservazione/imitazione, consente un livello enormemente superiore nella conservazione e nella trasmissione delle conoscenze, oltre che costituire la  base per l’elaborazione del pensiero simbolico su cui si fondano quei modelli mentali esclusivi della nostra specie.

La diffusione dell’uomo moderno sul pianeta è facile da tracciare, anche in assenza di fossili specifici, perché ovunque siano arrivati si assiste alla rapida scomparse di molte, talvolta tutte, le specie più grandi e di molte altre che da esse dipendevano, inaugurando quell'effetto destabilizzatore che le altre specie umane non avevano avuto. Non si sa se per sterminio diretto o se per cause indirette, ma anche le altre specie umane si sono rapidamente estinte al sopraggiungere dei nostri avi, salvo alcuni casi in cui forse piccoli gruppi potrebbero essere sopravvissuti abbastanza a lungo da dare origine a diffuse leggende su “giganti”, “uomini selvatici” eccetera.  

La cosa interessante è che questo fenomeno non è avvenuto una sola volta; bensì si è ripetuto ogni volta che una nuova civiltà si diffondeva in un territorio già abitato, annientando le culture precedenti e con esse un ulteriore set di specie che erano sopravvissute alla fase precedente.  Un fenomeno, questo, molto ben documentato nel caso della diffusione globale delle diverse ondate di tecnologia industriale, ma eventi simili hanno accompagnato da sempre la diffusione dell’uomo moderno.   Anzi, i casi di estinzione di massa più spettacolari mai causati dall'uomo sono probabilmente quelli seguiti all'arrivo dei primi H. sapiens in Australia (circa 40.000 anni fa), in Nord America (circa 14.000 anni fa), in Nuova Zelanda (Intorno al 1.200 d.C.).

Ovviamente, una simile capacità distruttiva comporta una dinamica della popolazione particolarmente instabile, con rapidi incrementi che seguono la scoperta di nuove risorse e/o di nuovi modi per sfruttare meglio le vecchie.   Una crescita che prosegue esponenzialmente erodendo la capacità di carico del territorio finché carestie, guerre e migrazioni non riportano la popolazione in equilibrio con le risorse  rimaste.   Probabilmente proprio questa dinamica è alla base del popolamento umano del pianeta e spiega come gruppi di persone perfettamente ragionevoli siano andati ad insediarsi in luoghi tanto inospitali quanto il pack od i deserti.

Naturalmente, non tutti i gruppi umani hanno sempre seguito questo copione.   Si conoscono anzi numerosi casi in cui complicati sistemi sociali, culturali, politici ed economici assicuravano una parziale sostenibilità; ma sono stati elaborati in periodi successivi a crisi ecologiche e, probabilmente, in risposta a queste.   In ogni caso si tratta di eccezioni che confermano la regola.

In sintesi, pare che crisi di tipo “malthusiano” facciano parte integrante del nostro modo di esistere, fin dal nostro apparire.   Per decine di migliaia di anni queste crisi sono avvenute su scala locale, contribuendo a delineare quel complesso mosaico di nascita, sviluppo e crisi delle civiltà che ha tanto  affascinato  studiosi del calibro di Gianbattista Vico, Oswald Spengler, Arnold J. Toynbee o Jared Diamond.
Con il XVIII° secolo, per la prima volta avvenne che una crisi di questo tipo, originatasi in Europa, abbia coinvolto l’intero pianeta nel giro di poco più di un secolo.   In effetti, già il reverendo Malthus aveva previsto e stigmatizzato che l’eccessiva natalità degli europei sarebbe costata la vita ai  “selvaggi delle Americhe”, cosa che puntualmente avvenne, con l’aggiunta di diversi altri popoli sparsi per il mondo.   In altre parole, per la prima volta, una crisi maltusiana ha avuto una dimensione globale ed è stata risolta sterminando, marginalizzando od acculturando (di fatto assorbendo) quasi tutti gli altri popoli della terra.   La popolazione mondiale raddoppiò.
Una seconda crisi di portata globale avvenne circa 150 anni più tardi con epicentro in Cina, ma con forti carestie in gran parte dell’Asia e dell’Africa su di un arco di 15-20 anni.   Questa nuova crisi di portata globale fu superata mediante la “rivoluzione verde” che devastò culture, società ed ecosistemi, ma moltiplicò la produzione mondiale di cibo, consentendo un ulteriore raddoppio della popolazione globale.   In questo caso dunque, anziché spostare grandi masse di persone, si fece un massiccio ricorso alle riserve di energia fossile e si elevò il livello di integrazione fra i diversi settori economici e fra i diversi sistemi-paese.   Tendenza questa che è poi proseguita, con una brusca accelerazione a partire dagli anni ’90, portando l’attuale livello di integrazione globale a livelli fino ad oggi impensabili.  

Ciò ha permesso un ulteriore raddoppio della popolazione mondiale, ma a costo di un molto più che proporzionale aumento dei consumi e degli impatti (v. parte 1) che hanno portato la destabilizzazione degli ecosistemi a  livelli oramai analoghi a quelli delle grandi crisi caratterizzanti la storia geologica del pianeta.   Questo crea uno scenario del tutto inedito nella storia dell’umanità: tutti i popoli della Terra stanno entrando in una crisi malthusiana quasi contemporaneamente. Alcuni, anzi, ci sono già in pieno e cercano di sfuggirvi tornando all'antica usanza della migrazione di massa, ma non può funzionare perché non esistono praticamente più zone del pianeta la cui capacità di carico non sia già stata superata, o non sia sul punto di esserlo.