martedì 2 febbraio 2016
lunedì 1 febbraio 2016
Laudato si, un commento tardivo.
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Jacopo Simonetta
di Jacopo Simonetta
L’enciclica "Laudato sì" ha sollevato notevole interesse ed una ridda di commenti pro e contro. Io penso di accodarmi tardivamente per due motivi. Il primo che la lettura ha richiesto tempo e fatica, malgrado abbia studiato solo il riassunto ufficiale in sole 63 pagine. Diciamo che il testo non è propriamente scorrevole. Il secondo motivo è che mi ci vuole tempo per riflettere.
Un primo punto che credo non sia stato sufficientemente considerato da molti commentatori è che le encicliche sono testi complessi che devono assolvere a numerose funzioni contemporaneamente. Sono documenti politici funzionali sia alla politica internazionale del Vaticano, sia alla sua politica interna. Ma sono anche documenti destinati ai sacerdoti di ogni ordine e grado per indirizzarne l’azione pastorale. Infine sono destinati ai fedeli con il duplice scopo di indirizzarne l’azione e la spiritualità, ma anche con quello di aggiornare via via le posizioni della Chiesa al divenire del mondo e della cultura.
Relativamente alla politica internazionale, penso che lo scopo principale dell’enciclica fosse quello di influenzare i lavori della COP 21, creando delle difficoltà a quelli che hanno fatto naufragare le 20 conferenze precedenti: americani e cinesi in primis.
Relativamente alla politica interna, secondo me, l’enciclica va invece vista nel quadro assai complesso dello scontro in seno alla Chiesa fra un ala più conservatrice ed una più “terzomondista”. Soprattutto, mi pare evidente un tentativo di mediazione fra la tradizione della curia romana ed il movimento “Teologia della Liberazione” profondamente radicato in gran parte dell’unico continente compattamente cattolico e diffuso fra i Gesuiti sudamericani.
Per quanto attiene, invece alla funzione pastorale del documento, direi che contiene esattamente quel che poteva contenere. Richiama ad una maggiore attenzione e cura verso il creato, ribadendo il ruolo unico e sovrano dell’uomo, unico fra le creature ad avere un’anima partecipe della natura divina. Anzi, è proprio da questo primato dell’uomo che deriva la sua responsabilità di accorto gestore della creazione.
Questa parte del documento richiama la necessità di un dialogo costruttivo fra tutte le religioni, ma contemporaneamente stigmatizza ogni possibile deriva animista, panteista o comunque paganeggiante nel rapporto fra uomo e creato. Non per nulla, Terra è scritto con la maiuscola una sola volta, all'inizio, nella citazione del Cantico delle Creature da cui l’enciclica trae il nome. In tutto i resto del documento è scritta con la minuscola malgrado si tratti del nome proprio del nostro Pianeta e non penso che sia per sbadataggine.
Insomma si raccomanda un rapporto mistico con la natura (con la minuscola) in quanto opera e dono di Dio, ma facendo bene attenzione e non confonderla con la Natura (con la maiuscola)! Il dialogo interreligioso va bene, ma ci sono evidentemente dei limiti.
Parimenti sarebbe stato sorprendente se il testo non avesse colto l’occasione per ribadire una serie di punti chiave per la chiesa: dall'aborto al matrimonio omosessuale e numerosi altri punti particolarmente importanti per chi scrive. Primo fra tutti il fatto che, come specificato al punto 50 e ribadito più volte altrove, la sovrappopolazione è solo una fantasia malata di alcuni. Il numero di umani sul pianeta, si afferma, non ha niente a che fare con la crisi ecologica a livello globale. Viceversa, si spiega, la sovrappopolazione esiste eccome a livello di singoli paesi, in particolare asiatici ed africani, ma non è questa una responsabilità loro, bensì dell’umanità intera. Un punto di importanza politica fondamentale perché serve a sostenere che la migrazione di massa da un paese e da un continente all'altro è un diritto umano che deve essere garantito.
Si può essere d’accordo o meno con tutto questo, ma non si può certo pretendere che il capo spirituale dei cattolici scriva qualcosa rinnegando 2.000 anni di dottrina. Tanto per cominciare, perché è lecito presumere che il Papa sia sinceramente cattolico.
Sul piano ecologico, il testo mostra un indubbio pregio, rappresentato dal ripetuto richiamo non solo al clima, ma anche all'importanza fondamentale della biodiversità e della sua conservazione. A parer mio i termini sono ancora deboli, in rapporto a quanto sta accadendo, ma sono comunque più forti di quelli che si trovano nella maggioranza dei documenti politici.
In generale, vengono affermate cose perfettamente in linea con le conoscenze scientifiche e si fanno raccomandazioni di grandissimo buon senso. Ma ci sono due aspetti strutturali all'intero documento che lo rendono profondamente incoerente.
Il primo è già stato citato ed ampiamente commentato da altri: la pretesa assenza di una componente demografica nella crisi globale.
I secondo è l’asse portante dell’intero documento e viene ribadito in quasi tutti i 246 punti in cui è articolato. Cioè, il fatto che chi abusa della natura (minuscola) abusa contestualmente dei poveri e viceversa. Insomma si stabilisce un’identità assoluta fra gli interessi degli ecosistemi e quelli dei poveri. Per l'appunto in linea con le posizioni di buona parte del clero sudamericano, anche quando non aderisce del tutto alla “Teologia della Liberazione”. Ne consegue che i ricchi ed i potenti hanno la responsabilità di garantire contemporaneamente lo sviluppo economico dei poveri e la conservazione del Pianeta. Due cose che, si sostiene, non solo sono compatibili, ma addirittura sono sinergiche, essendo lo sviluppo dei popoli il miglior sistema per garantire la conservazione della Biosfera.
Una posizione che forse è sincera da parte del Papa, ma che contrasta diametralmente con quanto oggi sappiamo del nostro Pianeta. Il miglioramento delle condizioni di vita delle persone è infatti la principale forzante che spinge sia l’incremento della popolazione, sia quello dei consumi pro-capite. A molti questa cosa darà fastidio, ma la formula empirica
Se ne deduce che, teoricamente, un aumento del numero e del tenore di vita dei poveri potrebbe essere compensato da una drastica riduzione nei consumi dei ricchi. Ma come si era reso conto Malthus già due secoli or sono, ciò sarebbe utile esclusivamente a condizione che la popolazione si stabilizzasse (ai suoi tempi, oggi dovrebbe necessariamente diminuire). Con numeri dell’ordine di quelli attuali, probabilmente c’è la possibilità di nutrire tutti, ma certamente non quella di, contemporaneamente, salvaguardare il clima e la biodiversità.
In altre parole, l’attuale smisurata iniquità distributiva, che non ha alcun precedente storico, è effettivamente una calamità, oltre che un assurdo. Ma l’equità distributiva si dovrebbe cercare non nel diritto dei poveri ad avere una vita migliore, bensì nel dovere dei ricchi ad averne una molto peggiore. E non è questo che viene detto in un testo che raccomanda la parsimonia, ma in cui la parola “sviluppo” ricorre quasi due volte per pagina.
Tutto questo, devo dire era sostanzialmente quello che pensavo di trovare e che ho trovato nel documento. Più interessante a mio avviso è quello che non c’è. In un recentissimo libro, “Insostenibile” di Igor Giussani, l’autore centra un aspetto fondamentale del fallimento del movimento ambientalista nel suo insieme. Il fatto cioè di non essere stato capace di costruire una narrativa alternativa abbastanza potente da competere con la popolarità della mitologia progressista, concrezionata nell'inconscio dell’umanità intera da decenni, quando non da secoli, di propaganda.
In assenza di una mitologia alternativa altrettanto potente, come pretendere che le persone accettino di buon grado i sacrifici necessari per salvare i propri discendenti ed il Pianeta? E chi meglio di uno dei principali capi spirituali del mondo avrebbe potuto colmare questa lacuna? Tanto più che, in questo, il Pontefice avrebbe avuto un vantaggio considerevole. Che io sappia, il cuore della mistica cristiana è infatti il tema del peccato e della redenzione. Questo sarebbe il principale insegnamento di Cristo che, secondo la Chiesa, ha immolato sé stesso sulla Croce per riuscire a farcelo capire. Ma di tutto ciò nell'enciclica non c’è la benché minima traccia.
Eppure sappiamo bene che passeremo i prossimi cento anni a pagare gli errori che abbiamo commesso nei due secoli precedenti. Ed in buona misura è proprio il rifiuto di questa semplice verità che impedisce ai governi ed alle persone di pensare in termini costruttivi. Non possiamo trovare niente di utile finché continueremo a cercare una cosa impossibile, cioè un modo per salvare uno stile di vita agiato (chi lo ha) o di conquistarlo (chi non lo ha). Dove per agiato si intende mangiare a sazietà tutti i giorni ed avere un tetto sicuro sulla testa. Certo a qualcuno capiterà, forse a molti, ma non a tutti. La Natura (maiuscola) non fa sconti a nessuno ed i debiti aperti con la Biosfera saranno necessariamente pagati con gli interessi.
Ora, cosa di meglio della mistica del peccato, della penitenza e della redenzione potrebbe aiutare i cristiani ad accettare questa realtà? Un passaggio fondamentale, credo, perché consentirebbe alle persone di cambiare punto di vista, farsi una ragione delle proprie calamità ed elaborare risposte costruttive, entro i limiti del possibile. Ma soprattutto potrebbe aiutare chi viene travolto dagli eventi a non essere travolto anche dalla Disperazione e dall'Ira (maiuscole, sono due dei 7 Peccati Capitali!)
Certo, qualcuno griderà all’ “Oppio dei popoli”, ma se così anche fosse, chi soffre davvero non disprezza gli analgesici.
L’enciclica "Laudato sì" ha sollevato notevole interesse ed una ridda di commenti pro e contro. Io penso di accodarmi tardivamente per due motivi. Il primo che la lettura ha richiesto tempo e fatica, malgrado abbia studiato solo il riassunto ufficiale in sole 63 pagine. Diciamo che il testo non è propriamente scorrevole. Il secondo motivo è che mi ci vuole tempo per riflettere.
Un primo punto che credo non sia stato sufficientemente considerato da molti commentatori è che le encicliche sono testi complessi che devono assolvere a numerose funzioni contemporaneamente. Sono documenti politici funzionali sia alla politica internazionale del Vaticano, sia alla sua politica interna. Ma sono anche documenti destinati ai sacerdoti di ogni ordine e grado per indirizzarne l’azione pastorale. Infine sono destinati ai fedeli con il duplice scopo di indirizzarne l’azione e la spiritualità, ma anche con quello di aggiornare via via le posizioni della Chiesa al divenire del mondo e della cultura.
Relativamente alla politica internazionale, penso che lo scopo principale dell’enciclica fosse quello di influenzare i lavori della COP 21, creando delle difficoltà a quelli che hanno fatto naufragare le 20 conferenze precedenti: americani e cinesi in primis.

Per quanto attiene, invece alla funzione pastorale del documento, direi che contiene esattamente quel che poteva contenere. Richiama ad una maggiore attenzione e cura verso il creato, ribadendo il ruolo unico e sovrano dell’uomo, unico fra le creature ad avere un’anima partecipe della natura divina. Anzi, è proprio da questo primato dell’uomo che deriva la sua responsabilità di accorto gestore della creazione.
Questa parte del documento richiama la necessità di un dialogo costruttivo fra tutte le religioni, ma contemporaneamente stigmatizza ogni possibile deriva animista, panteista o comunque paganeggiante nel rapporto fra uomo e creato. Non per nulla, Terra è scritto con la maiuscola una sola volta, all'inizio, nella citazione del Cantico delle Creature da cui l’enciclica trae il nome. In tutto i resto del documento è scritta con la minuscola malgrado si tratti del nome proprio del nostro Pianeta e non penso che sia per sbadataggine.
Insomma si raccomanda un rapporto mistico con la natura (con la minuscola) in quanto opera e dono di Dio, ma facendo bene attenzione e non confonderla con la Natura (con la maiuscola)! Il dialogo interreligioso va bene, ma ci sono evidentemente dei limiti.
Parimenti sarebbe stato sorprendente se il testo non avesse colto l’occasione per ribadire una serie di punti chiave per la chiesa: dall'aborto al matrimonio omosessuale e numerosi altri punti particolarmente importanti per chi scrive. Primo fra tutti il fatto che, come specificato al punto 50 e ribadito più volte altrove, la sovrappopolazione è solo una fantasia malata di alcuni. Il numero di umani sul pianeta, si afferma, non ha niente a che fare con la crisi ecologica a livello globale. Viceversa, si spiega, la sovrappopolazione esiste eccome a livello di singoli paesi, in particolare asiatici ed africani, ma non è questa una responsabilità loro, bensì dell’umanità intera. Un punto di importanza politica fondamentale perché serve a sostenere che la migrazione di massa da un paese e da un continente all'altro è un diritto umano che deve essere garantito.
Si può essere d’accordo o meno con tutto questo, ma non si può certo pretendere che il capo spirituale dei cattolici scriva qualcosa rinnegando 2.000 anni di dottrina. Tanto per cominciare, perché è lecito presumere che il Papa sia sinceramente cattolico.
Sul piano ecologico, il testo mostra un indubbio pregio, rappresentato dal ripetuto richiamo non solo al clima, ma anche all'importanza fondamentale della biodiversità e della sua conservazione. A parer mio i termini sono ancora deboli, in rapporto a quanto sta accadendo, ma sono comunque più forti di quelli che si trovano nella maggioranza dei documenti politici.
In generale, vengono affermate cose perfettamente in linea con le conoscenze scientifiche e si fanno raccomandazioni di grandissimo buon senso. Ma ci sono due aspetti strutturali all'intero documento che lo rendono profondamente incoerente.
Il primo è già stato citato ed ampiamente commentato da altri: la pretesa assenza di una componente demografica nella crisi globale.
I secondo è l’asse portante dell’intero documento e viene ribadito in quasi tutti i 246 punti in cui è articolato. Cioè, il fatto che chi abusa della natura (minuscola) abusa contestualmente dei poveri e viceversa. Insomma si stabilisce un’identità assoluta fra gli interessi degli ecosistemi e quelli dei poveri. Per l'appunto in linea con le posizioni di buona parte del clero sudamericano, anche quando non aderisce del tutto alla “Teologia della Liberazione”. Ne consegue che i ricchi ed i potenti hanno la responsabilità di garantire contemporaneamente lo sviluppo economico dei poveri e la conservazione del Pianeta. Due cose che, si sostiene, non solo sono compatibili, ma addirittura sono sinergiche, essendo lo sviluppo dei popoli il miglior sistema per garantire la conservazione della Biosfera.
Una posizione che forse è sincera da parte del Papa, ma che contrasta diametralmente con quanto oggi sappiamo del nostro Pianeta. Il miglioramento delle condizioni di vita delle persone è infatti la principale forzante che spinge sia l’incremento della popolazione, sia quello dei consumi pro-capite. A molti questa cosa darà fastidio, ma la formula empirica
Impatto = (Popolazione x PIL/capita x tecnologia)
pur essendo molto indicativa, è concettualmente corretta.
Se ne deduce che, teoricamente, un aumento del numero e del tenore di vita dei poveri potrebbe essere compensato da una drastica riduzione nei consumi dei ricchi. Ma come si era reso conto Malthus già due secoli or sono, ciò sarebbe utile esclusivamente a condizione che la popolazione si stabilizzasse (ai suoi tempi, oggi dovrebbe necessariamente diminuire). Con numeri dell’ordine di quelli attuali, probabilmente c’è la possibilità di nutrire tutti, ma certamente non quella di, contemporaneamente, salvaguardare il clima e la biodiversità.
In altre parole, l’attuale smisurata iniquità distributiva, che non ha alcun precedente storico, è effettivamente una calamità, oltre che un assurdo. Ma l’equità distributiva si dovrebbe cercare non nel diritto dei poveri ad avere una vita migliore, bensì nel dovere dei ricchi ad averne una molto peggiore. E non è questo che viene detto in un testo che raccomanda la parsimonia, ma in cui la parola “sviluppo” ricorre quasi due volte per pagina.
Tutto questo, devo dire era sostanzialmente quello che pensavo di trovare e che ho trovato nel documento. Più interessante a mio avviso è quello che non c’è. In un recentissimo libro, “Insostenibile” di Igor Giussani, l’autore centra un aspetto fondamentale del fallimento del movimento ambientalista nel suo insieme. Il fatto cioè di non essere stato capace di costruire una narrativa alternativa abbastanza potente da competere con la popolarità della mitologia progressista, concrezionata nell'inconscio dell’umanità intera da decenni, quando non da secoli, di propaganda.
In assenza di una mitologia alternativa altrettanto potente, come pretendere che le persone accettino di buon grado i sacrifici necessari per salvare i propri discendenti ed il Pianeta? E chi meglio di uno dei principali capi spirituali del mondo avrebbe potuto colmare questa lacuna? Tanto più che, in questo, il Pontefice avrebbe avuto un vantaggio considerevole. Che io sappia, il cuore della mistica cristiana è infatti il tema del peccato e della redenzione. Questo sarebbe il principale insegnamento di Cristo che, secondo la Chiesa, ha immolato sé stesso sulla Croce per riuscire a farcelo capire. Ma di tutto ciò nell'enciclica non c’è la benché minima traccia.
Eppure sappiamo bene che passeremo i prossimi cento anni a pagare gli errori che abbiamo commesso nei due secoli precedenti. Ed in buona misura è proprio il rifiuto di questa semplice verità che impedisce ai governi ed alle persone di pensare in termini costruttivi. Non possiamo trovare niente di utile finché continueremo a cercare una cosa impossibile, cioè un modo per salvare uno stile di vita agiato (chi lo ha) o di conquistarlo (chi non lo ha). Dove per agiato si intende mangiare a sazietà tutti i giorni ed avere un tetto sicuro sulla testa. Certo a qualcuno capiterà, forse a molti, ma non a tutti. La Natura (maiuscola) non fa sconti a nessuno ed i debiti aperti con la Biosfera saranno necessariamente pagati con gli interessi.
Ora, cosa di meglio della mistica del peccato, della penitenza e della redenzione potrebbe aiutare i cristiani ad accettare questa realtà? Un passaggio fondamentale, credo, perché consentirebbe alle persone di cambiare punto di vista, farsi una ragione delle proprie calamità ed elaborare risposte costruttive, entro i limiti del possibile. Ma soprattutto potrebbe aiutare chi viene travolto dagli eventi a non essere travolto anche dalla Disperazione e dall'Ira (maiuscole, sono due dei 7 Peccati Capitali!)
Certo, qualcuno griderà all’ “Oppio dei popoli”, ma se così anche fosse, chi soffre davvero non disprezza gli analgesici.
domenica 31 gennaio 2016
400 anni di esplosione demografica
Da “The Conversation”. Traduzione di MR (via Population Matters)
Di James Cridland
Per quasi tutti i 200.000 anni di storia della nostra specie, la relazione dell'uomo con la Terra non è stata diversa da quella di qualsiasi altro animale. Tutta la loro energia veniva fornita direttamente dal Sole. La luce del Sole catturata dalle piante usando la fotosintesi veniva convertita in cibo e combustibile. Mangiavano radici, frutti e cereali (ed animali che mangiavano a loro volta radici, frutti e cereali) per fornire ai loro corpi energia. Bruciavano legna per tenersi al caldo e grasso per far luce di notte.
Era una strategia di successo per la sopravvivenza e in decine di migliaia di anni la popolazione umana si è diffusa su sei continenti. Tuttavia, parte di questo ciclo solare naturale, c'era un limite al numero di persone che il loro stile di vita poteva sostenere e il numero totale di abitanti fluttuava al di sotto dei 500 milioni e dipendeva da malattie, guerre e fornitura di cibo.
Poi, 350 anni fa, tutto è cambiato. Abbiamo iniziato a integrare il nostro fabbisogno energetico con carbone e petrolio (gli esseri umani hanno usato il carbone dalla preistoria, ma non su larga scala). Si trattava ancora di energia proveniente dai raggi del Sole, ma in questo caso raggi vecchi di milioni di anni. In meno di due secoli la popolazione umana è esplosa, raddoppiando in dimensione fino ad 1 miliardo di persone. Da allora ha continuato a crescere, ma il tasso di cambiamento è aumentato significativamente. Ci sono voluti 100.000 anni per raggiungere il primo miliardo di persone. Oggi stiamo aggiungendo un miliardo ulteriore ogni 12 anni. Il risultato è un enorme pressione su tutte le risorse naturali. Negli ultimi due decenni assisteremo ad aumenti enormi della domanda di energia, cibo ed acqua – una tempesta perfetta.
Di James Cridland
Per quasi tutti i 200.000 anni di storia della nostra specie, la relazione dell'uomo con la Terra non è stata diversa da quella di qualsiasi altro animale. Tutta la loro energia veniva fornita direttamente dal Sole. La luce del Sole catturata dalle piante usando la fotosintesi veniva convertita in cibo e combustibile. Mangiavano radici, frutti e cereali (ed animali che mangiavano a loro volta radici, frutti e cereali) per fornire ai loro corpi energia. Bruciavano legna per tenersi al caldo e grasso per far luce di notte.
Era una strategia di successo per la sopravvivenza e in decine di migliaia di anni la popolazione umana si è diffusa su sei continenti. Tuttavia, parte di questo ciclo solare naturale, c'era un limite al numero di persone che il loro stile di vita poteva sostenere e il numero totale di abitanti fluttuava al di sotto dei 500 milioni e dipendeva da malattie, guerre e fornitura di cibo.
Poi, 350 anni fa, tutto è cambiato. Abbiamo iniziato a integrare il nostro fabbisogno energetico con carbone e petrolio (gli esseri umani hanno usato il carbone dalla preistoria, ma non su larga scala). Si trattava ancora di energia proveniente dai raggi del Sole, ma in questo caso raggi vecchi di milioni di anni. In meno di due secoli la popolazione umana è esplosa, raddoppiando in dimensione fino ad 1 miliardo di persone. Da allora ha continuato a crescere, ma il tasso di cambiamento è aumentato significativamente. Ci sono voluti 100.000 anni per raggiungere il primo miliardo di persone. Oggi stiamo aggiungendo un miliardo ulteriore ogni 12 anni. Il risultato è un enorme pressione su tutte le risorse naturali. Negli ultimi due decenni assisteremo ad aumenti enormi della domanda di energia, cibo ed acqua – una tempesta perfetta.
sabato 30 gennaio 2016
Quanto siamo vicini al riscaldamento planetario “pericoloso”?
Da “Huffington Post”. Traduzione di MR
Di Michael E. Mann
Sulla scia del Summit sul clima della COP21 a Parigi (vedete questo pezzo recente dell'Huffington Post per il mio punto di vista sull'accordo), diverse domande importanti rimangono senza risposta. Prendiamo per esempio l'impegno raggiunto dalle 197 nazioni partecipanti per limitare il riscaldamento al di sotto del livello “pericoloso” di 2°C in relazione al periodo preindustriale (trascurando al momento l'obbiettivo cui si aspira di un limite sostanzialmente inferiore di 1,5°C riconosciuto in vista del pericolo posto nei confronti delle isole-nazioni sul livello del mare). La domanda sorge immediatamente: quanto tempo abbiamo prima di raggiungere la zona di pericolo? Quanto siamo vicini al limite dei 2°C?
E' stato ampiamente detto che il 2015 sarà il primo anno in cui le temperature sono salite di 1°C al di sopra del periodo preindustriale. Ciò potrebbe far sembrare che abbiamo ancora un bel po' di margine prima di infrangere il limite dei 2°C. Ma l'affermazione è sbagliata. Abbiamo superato 1°C di riscaldamento più di un decennio fa. Il problema è che qui, ed altrove, è stato invocato un punto di partenza inappropriato per definire il “preindustriale”. Il riscaldamento è stato misurato in relazione alla media sulla seconda metà del XIX secolo (1850-1900). In altre parole, l'anno base usato implicitamente per definire le condizioni preindustriali è il 1875. la via di mezzo dell'intervallo. Eppure la rivoluzione industriale e l'aumento delle concentrazioni del CO2 atmosferico ad esso associato, sono iniziati più di un secolo prima. Sfortunatamente, persino l'IPCC è caduto vittima di questa convenzione problematica nel suo ultimo (il quindo) rapporto di valutazione. Il grafico chiave (Fig. 1 sotto) nel Summary for Policy Makers (SPM) del rapporto misura le emissioni antropogeniche (leggi generate dall'uomo) nette di carbonio e il riscaldamento relativo che ci si può attendere. Sia le emissioni sia il riscaldamento sia le misure sono relative ad un punto di partenza nel 1870.
Di Michael E. Mann
Sulla scia del Summit sul clima della COP21 a Parigi (vedete questo pezzo recente dell'Huffington Post per il mio punto di vista sull'accordo), diverse domande importanti rimangono senza risposta. Prendiamo per esempio l'impegno raggiunto dalle 197 nazioni partecipanti per limitare il riscaldamento al di sotto del livello “pericoloso” di 2°C in relazione al periodo preindustriale (trascurando al momento l'obbiettivo cui si aspira di un limite sostanzialmente inferiore di 1,5°C riconosciuto in vista del pericolo posto nei confronti delle isole-nazioni sul livello del mare). La domanda sorge immediatamente: quanto tempo abbiamo prima di raggiungere la zona di pericolo? Quanto siamo vicini al limite dei 2°C?
E' stato ampiamente detto che il 2015 sarà il primo anno in cui le temperature sono salite di 1°C al di sopra del periodo preindustriale. Ciò potrebbe far sembrare che abbiamo ancora un bel po' di margine prima di infrangere il limite dei 2°C. Ma l'affermazione è sbagliata. Abbiamo superato 1°C di riscaldamento più di un decennio fa. Il problema è che qui, ed altrove, è stato invocato un punto di partenza inappropriato per definire il “preindustriale”. Il riscaldamento è stato misurato in relazione alla media sulla seconda metà del XIX secolo (1850-1900). In altre parole, l'anno base usato implicitamente per definire le condizioni preindustriali è il 1875. la via di mezzo dell'intervallo. Eppure la rivoluzione industriale e l'aumento delle concentrazioni del CO2 atmosferico ad esso associato, sono iniziati più di un secolo prima. Sfortunatamente, persino l'IPCC è caduto vittima di questa convenzione problematica nel suo ultimo (il quindo) rapporto di valutazione. Il grafico chiave (Fig. 1 sotto) nel Summary for Policy Makers (SPM) del rapporto misura le emissioni antropogeniche (leggi generate dall'uomo) nette di carbonio e il riscaldamento relativo che ci si può attendere. Sia le emissioni sia il riscaldamento sia le misure sono relative ad un punto di partenza nel 1870.
giovedì 28 gennaio 2016
Cambiamenti climatici, altro che pausa: il 2015 è stato l’anno della grande accelerazione
Posted by
Ugo Bardi
Da "Il Fatto Quotidiano" del 25 Gennaio 2016


Ugo Bardi
Docente presso la Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali dell'Università di Firenze
Immagine della Nasa (http://data.giss.nasa.gov/gistemp/)
Il 2015 è stato l’anno che ha definitivamente messo a tacere tutte le chiacchiere sulla “pausa” nel riscaldamento globale. Non solo la pausa non c’è più (posto che ci sia mai stata), ma siamo davanti aun’accelerazione stupefacente del riscaldamento globale: 0,13 gradi in più rispetto al 2014. Se per caso continuasse così, in 10 anni avremmo raggiunto e superato quei famosi “due gradi in più” che l’accordo ottenuto alla conferenza COP21 di Parigi si era proposto di non superare assolutamente. Ovviamente, non è detto che il riscaldamento continui a questi ritmi nei prossimi anni, ma non lo possiamo nemmeno escludere (e qualcuno l’aveva già predetto).
E ora? C’è chi si consola dicendo, “ma i satelliti…..” Sì, i satelliti sono diventati improvvisamente popolari dopo che si è visto indicano aumenti di temperature non così drammatici come quelli visti sui termometri, ma l’aumento lo vedono anche loro. E poi ci sono quelli che gridano all’imbroglio, che gli scienziati hanno alterato i dati. E questi sono proprio quelli che fino ad oggi straparlavano di “pausa” basandosi proprio sul lavoro di quegli scienziati che oggi, improvvisamente, sono diventati degli imbroglioni. Questi si fidano degli scienziati solo quando i loro risultati sono quello che fa piacere a loro. Anche quelli che profetizzavano un’imminente era glaciale sembrano essersi zittiti.
Eppure, possiamo ancora agire per fermare ilcambiamento climatico. Ma il nostro governo sembra essere affaccendato in altre faccende. A parte continuare l’impresa inutile e costosa di cercare di strizzare fuori ancora qualche po’ di gas dall’Adriatico, il governo sta facendo tutto il possibile peraffossare l’industria rinnovabile italiana, una delle armi principali che abbiamo contro il riscaldamento globale. Così, a pagina 35 del rapporto di Ecomondo e della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile troviamo scritto che:
“Anche le implicazioni occupazionali di questa crisi sono pesantemente negative. Già nel 2013 l’Italia, con circa 95 mila occupati diretti e indiretti, aveva fatto segnare un saldo negativo rispetto al 2011 di ben 27 mila posti di lavoro (-22%). Anche in questo caso è il fotovoltaico ad avere la performance peggiore rispetto al 2011, con -82%, seguito dai biocombustibili (-40%), solare termico e geotermico (entrambi con -11%). Non disponiamo ancora dei dati occupazionali del 2014, ma, dato il crollo dei nuovi impianti, è realistico attendersi anche un ulteriore forte calo dell’occupazione nel settore.”
Se avessimo affidato la gestione della crisi climatica al califfo dell’Isis non avremmo potuto far peggio di così. In ogni caso, se vi era parso che l’estate del 2015 fosse stata tremendamente calda, ora aspettatevi ben di peggio per il 2016.
mercoledì 27 gennaio 2016
Speranza ed ottimismo.
Posted by
Jacopo Simonetta

Questo mi ha riproposto per l’ennesima volta la domanda su
cosa sia la Speranza e se questa sia diversa dall'ottimismo. . Una questione che credo possa interessare
anche altri, visti i tempi che corrono.
Ho quindi condotto in proposito una breve indagine, che propongo a voi,
senza pretese di rigore teologico e psicologico.
Nella ben nota versione di Esiodo, Pandora è una bambola di
insuperabile bellezza e pari stupidità che, disobbedendo a Zeus, apre il famoso
vaso in cui il Re degli Dei aveva racchiuso tutti i mali che affliggono
l’umanità. Appena la donna, per mera
curiosità, socchiude il coperchio la Fatica, la Malattia, la Guerra assieme a
tutte le altre calamità fuggono e, da allora, infestano il mondo. Solo rimase, un fondo al vaso, la Speranza.
Messo in questi termini, il mito non è altro che una divertente
favola maschilista, riciclata poi da innumerevoli autori. Ma
c’è un dettaglio molto intrigante: La
speranza rimane, ma era anch'essa nel vaso.
Dunque si tratta di un balsamo per lenire gli inevitabili mali, oppure
del peggiore fra essi? In effetti, si
potrebbe argomentare che, di solito, è per migliorare il proprio stato che gli
uomini creano le tragedie destinate e travolgerli.
Ma esistono altre varianti di questa storia. Comparando altre versioni del mito (diffuse
in diverse aree della tradizione indo-europea) ed al materiale iconografico, in
particolare le figure sui vasi, si può arguire una versione molto più arcaica
ed interessante. Secondo questa
ricostruzione, Pandora sarebbe un’Epifania di Gaja, nel suo aspetto di generosa
donatrice di frutti. Ed il famigerato
vaso sarebbe quello ove gli Dei conservano il Nettare: la bevanda divina che
conferisce loro l’immortalità. Uno dei
Titani, nel caso Epimeteo, sarebbe riuscito a rubare il vaso a beneficio della
sua stirpe.
Per evitare la catastrofe, Pandora scende sulla Terra,
seduce Epimeteo e, mentre questi è distratto, recupera il vaso riportandolo
sull’Olimpo. Ma Pandora ebbe pietà
della condizione umana, resa misera dalla fame, la fatica, la malattia e la
morte. Così lasciò loro la
Speranza.
Non sono in grado di giudicare la validità di tale
ricostruzione di cui non ritrovo neppure la citazione bibliografica, ma la
ritengo comunque interessante per noi.
Secondo questa versione, infatti, la Speranza sarebbe una divinità
secondaria che la pietà della Grande Madre ha concesso agli umani affinché potessero
meglio sopportare la loro sorte. Ma
come generalmente avviene con la mitologia arcaica, anche in questa versione il
significato rimane ambiguo.
La Speranza consente infatti agli uomini di tollerare le
loro inevitabili sofferenze. Ma non è
chiaro se ciò avviene perché li aiuta a comprendere il significato profondo del
loro soffrire, o semplicemente perché li inganna, lasciando loro immaginare che
le loro miserie un giorno termineranno?
Non è chiaro, insomma, se la Speranza sia una chiave di saggezza o un
“oppio dei popoli” ante litteram.
Un dubbio dissipato, credo, dalla tradizione cristiana
secondo cui la Speranza è una delle tre virtù teologali, cioè le tre virtù che “sono il
pegno della presenza e dell'azione dello Spirito Santo nelle facoltà
dell'essere umano”. Vale a dire le virtù supreme, capaci di fare di un uomo un
santo. Ma attenzione, la Speranza
cristiana si accompagna inscindibilmente con la Fede e la Carità. Queste tre virtù costituiscono, insomma, una
trinità che ha senso solo nella sua completezza. E questo comincia a darci qualche
indicazione sulla differenza profonda fra Speranza ed ottimismo.
Secondo il catechismo, la Speranza è infatti il desiderio di
accedere al regno dei Cieli mediante la Grazia Divina; cosa che ha senso solo
se tutt'uno con la Fede. Cioè la ferma
convinzione circa la verità assoluta della Rivelazione. La Carità, infine è l’incondizionato amore
per Dio e per il prossimo in quanto manifestazione di Lui.
Volendo laicizzare il concetto, oserei proporre che la
Speranza sia l’essere disponibili a soffrire in funzione di uno scopo più
alto. Insomma essere pronti al peggio,
in nome e per conto del meglio. La Fede, al di fuori della dottrina, direi che sia l’incrollabile fiducia nel fatto
che il mondo abbia senso e sia retto da leggi inviolabili. Il famoso “Il Vecchio non gioca a dadi col
mondo” di Einstein. La Carità infine, per
i non cristiani potrebbe corrispondere all'empatia, cioè alla capacità di
percepire come proprie la sofferenza e la gioja altrui.
In entrambe le versioni, cristiana e laica, comunque la
Speranza non consiste nel “pensare positivo”, bensì nella capacità di presagire
il peggio e sopportarlo, nella certezza che non sia inutile. Il soldato che resta indietro per coprire la ritirata dei
suoi compagni non si aspetta di cavarsela, ma spera che la sua morte valga a
salvare loro. L’attivista che si fa
arrestare dalla polizia di uno stato dispotico, non pensa di cavarsela a buon
mercato. Al contrario sa molto bene a
cosa va incontro e lo fa a ragion veduta perché spera che questo, un giorno,
valga la libertà di altri. Più
quotidianamente, i genitori che rinunciano alle vacanze per pagare gli studi
del figlio hanno un atteggiamento analogo. Certo la Speranza può benissimo contemplare anche la
vittoria e la salvezza, ma comunque non sottovaluta le difficoltà ed è cosciente della scarsa probabilità di
successo.

Ma procediamo. Secondo
la tradizione gnostica, le Virtù teologali non sarebbero tre, bensì quattro,
aggiungendosi la Conoscenza (o Saggezza a seconda delle traduzioni). Vale a dire la comprensione, migliore
possibile, delle leggi del Fato che plasmano il destino di tutti gli esseri
viventi. In questa variante, la
Speranza, per essere veramente tale, presuppone quindi anche la conoscenza e la
comprensione delle leggi di Natura. Esattamente quelle che solitamente ci dicono
cosa non è possibile che accada.
Facciamo un esempio d’attualità: pensare che dalla COP21 sarebbero uscite
decisioni realmente impattanti sul futuro del clima era certamente una
manifestazione di ottimismo. Chiunque
si fosse preso la briga di informarsi circa le retroazioni in atto nel clima e
le cause del fallimento delle precedenti 20 conferenze non poteva avere dubbi. Ciò nondimeno è possibile sperare che da
tanto fumo esca un piccolo arrosto.
Qualche iniziativa che, certo, non cambierà il destino del pianeta, ma
potrebbe essere utile nel difficile futuro che ci aspetta.
Oppure dimostra Speranza chi , ad esempio, pianta alberi su
di un terreno brullo, sapendo che hanno il 90% di probabilità di morire molto
giovani. Perché è vero che il sistema
Terra ha un disperato bisogno di alberi e che qualcuno di questi potrebbe
crescere abbastanza da dare un contributo infinitesimo, ma reale.
Comunque, il mondo è infinitamente più complesso di quanto non lo
conosciamo e potrebbero quindi accadere molte cose in grado di ridurre
drasticamente le emissioni nel giro di anni o pochi decenni. Ad esempio una serie di guerre o, più
probabilmente, una crisi economica globale di portata mai vista. Si possono immaginare anche altri scenari, ma
poco importa perché, sicuramente, ciò che effettivamente accadrà non sarà
niente che abbiamo ipotizzato prima. Ma
se è possibile che il cambiamento climatico rimanga entro limiti che rendono
possibile la civiltà, non è invece possibile che ciò accada senza che l’umanità
paghi un tributo immenso di sofferenza ai propri errori.
Per tornare alla tradizione classica, direi che quando
Ulisse lascia l’isola di Calipso, lo fa sorretto dalla Speranza. Per tentare di raggiungere la sua famiglia e
la sua Patria affronta consapevolmente dei pericoli mortali, rinunciando
all'amore di una ninfa, ad ogni agio e perfino all'immortalità.
Viceversa, i proci che continuano a bagordeggiare, sordi e
ciechi a tutti gli avvertimenti, erano ottimisti. In fondo, Ulisse non si era più visto da 10
anni, come potevano pensare che quel vecchio che con due cazzotti aveva spacciato il più grosso bullo
dell’isola fosse il celebre guerriero?
E si sapeva anche allora che àuguri ed indovini passavano il tempo a
“gufare”. Si vede che, anche allora, pensare positivo era di moda, perlomeno in certi ambienti.
Insomma, penso che Speranza ed ottimismo facilmente
convivono e, in parte, si confondono fra loro, ma rimane a mio avviso una
differenza profonda fra di essi. La Speranza direi che contenga in sé qualcosa di
intrinsecamente eroico, tant'è che matura e si forgia nelle difficoltà. Al contrario, l’ottimismo mi pare sia il
frutto di un passato particolarmente fortunato che si suppone continui
indefinitamente nel futuro.
L’ottimismo è
stupido, la speranza è una virtù (Michel
Schneider)
martedì 26 gennaio 2016
Il cambiamento climatico e la catastrofe della cacca di cavallo
Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di MR
Ripensando a questo post, scritto due settimane fa per il mio blog in inglese, mi viene in mente che se gli "scettici" si sono ridotti a criticare la scienza del clima sulla base della cacca di cavallo di un secolo fa, veramente non hanno più argomenti
Il successo della conferenza sul clima di Parigi potrebbe essere stata solo parziale, ma ha sicuramente gettato in un certo scompiglio il partito anti-scienza. Per esempio, alla National Review, non sono stati in grado di criticare l'accordo di Parigi con qualcosa di meglio della vecchia storiella della “catastrofe del letame di cavallo”, (vedete qui per l'origine della storia). Il loro recente articolo su questo tema si intitola “Perché il cambiamento climatico non conterà niente fra 20 anni” ed è scritto da Josh Gelernter. Non contiene nulla di nuovo, ma è un pezzo astuto e ben scritto che merita un po' di attenzione.
L'argomentazione centrale del testo deriva dal problema dell'inquinamento da letame di cavallo nel XIX secolo. Gelernter cita Michael Crichton e dice:
Nel modo in cui è scritto il testo, la tesi di Gelernter sembra reggere, ma se si esamina in dettaglio, diventa un castello di sabbia di fronte all'alta marea. Fondamentalmente, l'esempio del letame di cavallo è portato ben oltre la sua importanza. Chricton probabilmente aveva ragione quando ha detto che “l'inquinamento da cavalli era forte nel 1900”, ma non ci sono prove del fatto che qualcuno lo considerasse una catastrofe in divenire o che l'abbia estrapolato in un futuro remoto: non esisteva niente di analogo al nostro IPCC, diciamo un IPMC (International Panel on the Manure Catastrophe).
Poi, il letame di cavallo potrebbe essere stato sgradevole per i nasi delicati degli abitanti di città, ma non è mai stato tossico, non ha mai distrutto l'ecosistema e poteva essere sempre tolto di mezzo da un numero sufficiente di persone armate di scopa. L'importanza esagerata data a questa storia potrebbe derivare da un fattoide che si può facilmente trovare nel web che sostiene (in varie versioni) che “Scrivendo sul Times di Londra nel 1894, uno scrittore ha stimato che fra 50 anni ogni strada di Londra sarà sepolta sotto 2 metri e mezzo di letame”. Ho cercato di trovare la fonte di questa affermazione, ma non sembra che esista. Si tratta, molto probabilmente, solo di una leggenda, come indicato dalla genericità dell'attribuzione ad “uno scrittore” come autore.
A parte l'esagerazione dell'importanza dell'inquinamento da letame, tutta la tesi dell'articolo della National Review si regge su una logica molto traballante. Il primo problema è che, anche se le automobili sembravano molto più pulite dei cavalli, più tardi si sarebbe scoperto che le emissioni dei tubi di scarico di un'automobile sono di gran lunga più pericolosi di qualsiasi cosa possa fuorisuscire dal di dietro di un cavallo. E persone armate di scope non possono fare niente contro l'inquinamento gassoso. Visto in questi termini, le automobili sono un classico caso di una soluzione che peggiora il problema: si può soltanto rabbrividire al pensiero di cosa ci potrebbe portare la prossima “soluzione” tecnologica all'inquinamento delle automobili (e ci sono già delle preoccupazioni riguardo al fatto che in convertitori catalitici delle automobili potrebbero fare un danno inaspettato alla salute umana).
L'altro problema della tesi di Gelernter è una fallacia logica fondamentale. Questa logica sostiene, “c'erano problemi di inquinamento in passato. Questi problemi non ci sono più oggi. Pertanto, il problema del cambiamento climatico di oggi non esisterà più in futuro”. Questa è una fallacia di eccesso di estrapolazione a volte conosciuto come “la fallacia del tacchino (turkey fallacy)”. “Immaginate di essere un tacchino, poi osservate gli esseri umani che vi hanno dato da mangiare tutti i giorni dal giorno in cui siete nati. Quindi estrapolate nel futuro e concludete che gli esseri umani continueranno a darvi da mangiare per sempre. Poi arriva il giorno del Ringraziamento..." Così, il fatto che siamo stati in grado di risolvere alcuni problemi di inquinamento in passato (o, perlomeno, che crediamo di essere stati in grado di risolvere) non significa che saremo sempre in grado di risolverli tutti.
A parte la logica ballerina, la caratteristica interessante del pezzo di Gelernter è quanto sia estremo. E' basato sulla fede dall'inizio alla fine: tutta la tesi è un inno alla tecnologia che risolverà tutti i problemi come ha sempre fatto in passato. Nello spettro delle attuali visioni del futuro, questa si trova all'estremo opposto di quella della “estinzione umana a breve termine” di Guy McPherson. Entrambe implicano di non dover far nulla per prepararsi al futuro. Entrambe non permettono alcun “piano B” in caso il futuro dovesse rivelarsi diverso da quanto ipotizzato.
Tutto questo è veramente sconsiderato, a dir poco. Ci sono sicuramente modi che possono rendere il cambiamento climatico generato dall'uomo un problema obsoleto (comprese grandi innovazioni tecnologiche, ma anche, per esempio, una guerra nucleare). Ma ci sono anche un sacco di possibilità che il cambiamento climatico possa rivelarsi essere un grande disastro non mitigato, come è già. Così, se non si vuole affrontare il destino dei tacchini nel giorno del ringraziamento, è meglio abbracciare una posizione flessibile ed evitare di cadere nella trappola generata da estremi opposti. Il futuro spesso ci sorprende, ma è meglio se ci prepariamo ad accoglierlo.
(h/t Alex Sorokin)
Ripensando a questo post, scritto due settimane fa per il mio blog in inglese, mi viene in mente che se gli "scettici" si sono ridotti a criticare la scienza del clima sulla base della cacca di cavallo di un secolo fa, veramente non hanno più argomenti
Una delle ragioni del successo delle automobili nel sostituire i cavalli è stata che le automobili non si lasciavano dietro rifiuti solidi. Ci è voluto quasi un secolo per capire che i gas di scarico dei veicoli a motore sono di gran lunga più tossici ed inquinanti di qualsiasi cosa che il di dietro di un cavallo possa produrre (Sopra, una pubblicità di una automobile del 1898).
Il successo della conferenza sul clima di Parigi potrebbe essere stata solo parziale, ma ha sicuramente gettato in un certo scompiglio il partito anti-scienza. Per esempio, alla National Review, non sono stati in grado di criticare l'accordo di Parigi con qualcosa di meglio della vecchia storiella della “catastrofe del letame di cavallo”, (vedete qui per l'origine della storia). Il loro recente articolo su questo tema si intitola “Perché il cambiamento climatico non conterà niente fra 20 anni” ed è scritto da Josh Gelernter. Non contiene nulla di nuovo, ma è un pezzo astuto e ben scritto che merita un po' di attenzione.
L'argomentazione centrale del testo deriva dal problema dell'inquinamento da letame di cavallo nel XIX secolo. Gelernter cita Michael Crichton e dice:
Che problemi ambientali avrebbero previsto gli uomini nel 1900 per il 2000? Dove prendere abbastanza cavalli e cosa fare con tutto quel letame. “L'inquinamento da cavalli era così forte nel 1900”, ha detto Crichton."e quanto ci si aspettava che diventasse un secolo dopo nel 1900 con così tante persone in più che andavano a cavallo?”Da qui, il testo prosegue elencando i molti cambiamenti che abbiamo visto da allora sostenendo che oggi è impossibile prevedere come sarà la tecnologia fra 100 anni da adesso e che fra 20 anni il cambiamento climatico non sarà più un problema.
Nel modo in cui è scritto il testo, la tesi di Gelernter sembra reggere, ma se si esamina in dettaglio, diventa un castello di sabbia di fronte all'alta marea. Fondamentalmente, l'esempio del letame di cavallo è portato ben oltre la sua importanza. Chricton probabilmente aveva ragione quando ha detto che “l'inquinamento da cavalli era forte nel 1900”, ma non ci sono prove del fatto che qualcuno lo considerasse una catastrofe in divenire o che l'abbia estrapolato in un futuro remoto: non esisteva niente di analogo al nostro IPCC, diciamo un IPMC (International Panel on the Manure Catastrophe).
Poi, il letame di cavallo potrebbe essere stato sgradevole per i nasi delicati degli abitanti di città, ma non è mai stato tossico, non ha mai distrutto l'ecosistema e poteva essere sempre tolto di mezzo da un numero sufficiente di persone armate di scopa. L'importanza esagerata data a questa storia potrebbe derivare da un fattoide che si può facilmente trovare nel web che sostiene (in varie versioni) che “Scrivendo sul Times di Londra nel 1894, uno scrittore ha stimato che fra 50 anni ogni strada di Londra sarà sepolta sotto 2 metri e mezzo di letame”. Ho cercato di trovare la fonte di questa affermazione, ma non sembra che esista. Si tratta, molto probabilmente, solo di una leggenda, come indicato dalla genericità dell'attribuzione ad “uno scrittore” come autore.
A parte l'esagerazione dell'importanza dell'inquinamento da letame, tutta la tesi dell'articolo della National Review si regge su una logica molto traballante. Il primo problema è che, anche se le automobili sembravano molto più pulite dei cavalli, più tardi si sarebbe scoperto che le emissioni dei tubi di scarico di un'automobile sono di gran lunga più pericolosi di qualsiasi cosa possa fuorisuscire dal di dietro di un cavallo. E persone armate di scope non possono fare niente contro l'inquinamento gassoso. Visto in questi termini, le automobili sono un classico caso di una soluzione che peggiora il problema: si può soltanto rabbrividire al pensiero di cosa ci potrebbe portare la prossima “soluzione” tecnologica all'inquinamento delle automobili (e ci sono già delle preoccupazioni riguardo al fatto che in convertitori catalitici delle automobili potrebbero fare un danno inaspettato alla salute umana).
L'altro problema della tesi di Gelernter è una fallacia logica fondamentale. Questa logica sostiene, “c'erano problemi di inquinamento in passato. Questi problemi non ci sono più oggi. Pertanto, il problema del cambiamento climatico di oggi non esisterà più in futuro”. Questa è una fallacia di eccesso di estrapolazione a volte conosciuto come “la fallacia del tacchino (turkey fallacy)”. “Immaginate di essere un tacchino, poi osservate gli esseri umani che vi hanno dato da mangiare tutti i giorni dal giorno in cui siete nati. Quindi estrapolate nel futuro e concludete che gli esseri umani continueranno a darvi da mangiare per sempre. Poi arriva il giorno del Ringraziamento..." Così, il fatto che siamo stati in grado di risolvere alcuni problemi di inquinamento in passato (o, perlomeno, che crediamo di essere stati in grado di risolvere) non significa che saremo sempre in grado di risolverli tutti.
A parte la logica ballerina, la caratteristica interessante del pezzo di Gelernter è quanto sia estremo. E' basato sulla fede dall'inizio alla fine: tutta la tesi è un inno alla tecnologia che risolverà tutti i problemi come ha sempre fatto in passato. Nello spettro delle attuali visioni del futuro, questa si trova all'estremo opposto di quella della “estinzione umana a breve termine” di Guy McPherson. Entrambe implicano di non dover far nulla per prepararsi al futuro. Entrambe non permettono alcun “piano B” in caso il futuro dovesse rivelarsi diverso da quanto ipotizzato.
Tutto questo è veramente sconsiderato, a dir poco. Ci sono sicuramente modi che possono rendere il cambiamento climatico generato dall'uomo un problema obsoleto (comprese grandi innovazioni tecnologiche, ma anche, per esempio, una guerra nucleare). Ma ci sono anche un sacco di possibilità che il cambiamento climatico possa rivelarsi essere un grande disastro non mitigato, come è già. Così, se non si vuole affrontare il destino dei tacchini nel giorno del ringraziamento, è meglio abbracciare una posizione flessibile ed evitare di cadere nella trappola generata da estremi opposti. Il futuro spesso ci sorprende, ma è meglio se ci prepariamo ad accoglierlo.
(h/t Alex Sorokin)
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