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martedì 23 aprile 2019

Distruggere il debito - Agonia del capitalismo 6 -

Articolo di Jacopo Simonetta

Sesto articolo di una serie di dieci. I precedenti sono reperibili qui: primo, secondo, terzo, quarto, quinto.   

 

Il debito.

Veniamo adesso ad un argomento cruciale per la sopravvivenza del capitalismo: il debito.  E’ cruciale perché oggi l’intero sistema si basa su di una crescita costante ed equilibrata di debito e PIL.

La parola magica qui è “equilibrata”, perché l’intera massa monetaria è formata da debito pubblico e privato che dovrà quindi essere restituito con l’interesse affinché si possano fare nuovi debiti e cosi' via, teoricamente all'infinito.

L’idea sottostante è che finché l’economia complessiva (reale e finanziaria) cresce in proporzione al debito, questo sarà ripagato ed il gioco potrà continuare per sempre.   E se per fare questo bisogna distruggere risorse ed ambiente, rendere tossiche l’aria e l’acqua, rendere ostile il clima, spazzare via civiltà e culture, sovvertire strutture sociali pazienza; tanto l’ingegno umano  troverà sempre il modo di rimediare.  Anzi, dal momento che la soluzione dei problemi creati dalla crescita richiede spesso grossi investimenti, i problemi stessi diventano motori di ulteriore crescita.  Evviva!

Un giochino che chiaramente funziona solo se non si tiene conto che gli uomini sono oggetti materiali, cosi’ come tutto ciò che usano, consumano e scartano;  Un “dettaglio” che li rende soggetti alle leggi della fisica, della chimica e dell’ecologia, assai più che alla magia dei modelli teorici.  

Comunque, è un fatto che non solo nelle economie sommergenti, ma anche in quelle emergenti il debito sta crescendo troppo rapidamente rispetto all'economia (o l’economia cresce troppo lentamente rispetto al debito, come si vuole).

Per essere più precisi: in tutto il mondo si vede chiaramente che il rapporto debito-PIL è entrato in una fase di ritorni decrescenti (v. immagine di apertura).  Significa che per ottenere un medesimo livello di crescita, è necessario un sempre maggiore incremento del debito.
Incuranti dei limiti fisici alla crescita, per parecchi anni l’aumento del debito è stato favorito da banche e governi, sperando che ciò rilanciasse la crescita, ma anche quando ha funzionato non è stato abbastanza ed ora tutte le economie nazionali del mondo si trovano alle prese con un debito sostanzialmente fuori controllo.  Che fare?

Distruggere il debito.

Non è certo la prima volta che degli stati si trovano sommersi da un debito impagabile e ci sono parecchi modi per uscire dalla stallo.  Vediamoli brevemente.

L’austerità consiste nel contenere al massimo le spese e, contemporaneamente, cercare di aumentare le entrate con ogni mezzo.  Cosa che, nel caso dei governi, significa tagliare i servizi ed aumentare le tasse.   In alcuni casi ha funzionato.   Per esempio, l’Inghilterra del XIX secolo riuscì in questo modo a ripagare l’enorme (per allora) debito contratto durante le guerre napoleoniche.   Ma la cosa richiese circa un secolo e fu possibile grazie al fatto che, in quello stesso periodo, l’Inghilterra era la maggiore potenza coloniale del mondo e la sua economia cresceva comunque, malgrado un livello di povertà estremo per la maggior parte della sua popolazione.  Per farsi un’idea, niente di meglio che leggere i romanzi di Dickens.

In un contesto di stagnazione o, peggio, di recessione, l’austerità non fa che accrescere le difficoltà delle persone, senza risolvere la situazione debitoria.  In altre parole, l’austerità è un eccellente strumento preventivo se usato per rallentare la crescita (oltre che per ridurre il debito) nei periodi economicamente favorevoli, in modo da alleviare la situazione nei seguenti, immancabili, periodi sfavorevoli.  Se, invece, la si usa crisi economica durante, può aggravare anche di molto la situazione (Grecia e Italia docunt).

La ricusazione significa che il debitore dichiara che non pagherà determinate somme, appellandosi ad una qualche motivazione legale, oppure mediante un accordo con i creditori o ancora con un'azione di forza.   Ad esempio è stato parzialmente fatto per la Grecia (il cosiddetto “haircut”).  Inutile dire che ciò è possibile solo in casi molto particolari e parziali.  Nel caso degli stati, quando la cosa è trascurabile dal punto di vista dei creditori; oppure se questi hanno una contropartita politica di altro genere.  Comunque, bisogna che chi ricusa il debito sia in una posizione di forza nei confronti del creditore o, perlomeno, è necessario sia in grado di concordare con i creditori una strategia di interesse comune poiché, se la ricusazione favorisce chi riduce il proprio debito, danneggia chi vede invece svanire il proprio credito.

La bancarotta significa che il debitore non paga perché non può.  Nel caso di privati, i creditori si rivalgono sui beni del debitore, finché ce ne sono.   Nel caso degli stati, significa che i servizi pubblici, gli stipendi, le pensioni e molto altro svaniscono nel nulla, per poi eventualmente riapparire sotto differenti spoglie, ma comunque drasticamente ridimensionati.  Per i cittadini dello stato in questione si tratta comunque di stringere molto la cintura, ma non solo.  Il rischio sistemico è che la bancarotta di un soggetto importante può provocare effetti a catena imprevedibili.   Il caso di Lehman Brothers è solo il più recente e conosciuto.  La bancarotta di uno stato economicamente importante potrebbe scaraventare nel caos la finanza mondiale.

La crescita è considerata la panacea di tutti i mali.  Se, infatti, l’economia cresce più rapidamente del debito, questo sarà ripagato senza problemi e con grande soddisfazione di tutti.   Solo che se ci sono dei problemi, tipo la progressiva riduzione della produttività dell’energia o l’incremento delle esternalità negative (inquinamento, sanità, bonifiche, ecc.), la crescita economica reale sarà limitata o addirittura negativa (anche a fronte di un PIL positivo).   Cioè la crescita, anche quando ci fosse davvero, non può pagare un debito in territorio di “ritorni decrescenti” (v. sopra).  In altre parole, il keynesismo ha funzionato nel contesto in cui lavorava Keynes.  Nel contesto attuale, almeno in moti casi, no.   Anzi si traduce in un ulteriore accelerazione del debito.

La privatizzazione consiste nella vendita a privati del patrimonio pubblico.   Una cosa che ha senso solo in misura molto limitata.  Abbiamo infatti visto che il patrimonio netto degli stati (perlomeno di quelli occidentali su cui si hanno dati affidabili) è circa zero in quanto il valore del debito pubblico equivale grosso modo al valore del patrimonio pubblico.  Ciò significa che, teoricamente, gli stati potrebbero azzerare il debito vendendo strade, caserme, palazzi ed uffici governativi, navi da guerra, scuole, gendarmerie, ecc.   Ma a parte il fatto che per alcuni di questi “asset” non sarebbe facile trovare compratori, una simile operazione comporterebbe che invece di pagare un interesse sul debito, gli stati dovrebbero pagare degli affitti per continuare ad usare le infrastrutture e le attrezzature essenziali al loro funzionamento.   Non un grande affare.


L’imposta straordinaria sul patrimonio (alias Patrimoniale) consiste nell'imporre un prelievo massiccio sui patrimoni privati.  Piketty valuta che, complessivamente in Europa, un prelievo del 15% dei patrimoni privati sarebbe sufficiente ad azzerare il debito degli stati, liberando ingenti risorse pubbliche per investimenti e/o ridurre la tasse sul reddito.    Apparentemente fattibile, specie se la misura fosse ben studiata nel dettaglio, gradualizzandola nel tempo ed articolandola per scaglioni con quote di imposizione fortemente progressive cosi’ da proteggere i piccoli risparmiatori e torchiare i super-capitalisti.  Del resto, provvedimenti del genere si sono già visti in casi di emergenza.  La tassa straordinaria sui patrimoni imposta dal primo governo De Gaule nel 1945 raggiunse il 25% per lo scaglione più alto.   USA ed Inghilterra, durante la II Guerra Mondiale, arrivarono a tassare per il 90% l'aliquota massima dei redditi.

Dunque perché non si fa?  Lo stesso Piketty, strenuo sostenitore di questo tipo di misura, ammette che non è cosi’ facile come sembra.   Intanto i grandi e grandissimi capitalisti sono persone ben addentro alle stanze del potere, dove hanno ampio margine per influenzare le decisioni politiche.  Ne è buona prova attuale il fatto che un provvedimento che mira a ridurre il carico fiscale per i redditi alti ed altissimi (la cosiddetta “flat tax”) viene oggi portato avanti dalla Lega che si autodefinisce un partito “populista”.

Un secondo motivo per cui sarebbe oggi molto più difficile attuare un simile provvedimento, è che i grossi capitali finanziari mutano in continuazione di natura e localizzazione, cosicché è praticamente impossibile tracciarli con sicurezza.  Ma non basta: anche i capitalisti possono spostarsi con estrema facilità nei paesi che gli offrono le condizioni migliori.  Per citare un solo esempio, Gérard Depardieu ha potuto eludere il fisco e la legge francesi diventando cittadino russo in pochi giorni, laddove un comune mortale non avrebbe avuto scappatoia alcuna.

Un provvedimento di questo genere, oggi, potrebbe essere efficace solo se concordato e coordinato dai tutti gli stati principali. Diversamente, sarebbe un'ulteriore "stangata" alla classe media, come già avvenuto con le patrimoniali che si sono succedute nei decenni scorsi.

L’inflazione è da molti considerata l’ultima e più efficace delle medicine, ampiamente usata da tutti gli stati durante il XX secolo.   Se il denaro perde di valore ad un tasso superiore a quello dell’interesse, il debito gradualmente diminuirà fino a diventare insignificante; cosi da permettere  l’accensione di nuovi debiti a tassi maggiori che, però, saranno a loro volta surclassati dall'inflazione.   E’ sostanzialmente cosi’ che tutti i paesi europei si sono sbarazzati degli immensi debiti conseguenti la II Guerra Mondiale e la ricostruzione.   Ed è la strategia che da un paio di anni ha avviato la BCE, su pressante insistenza di parecchi stati dell’UE (fra cui l’Italia).   Ma anche questa medaglia ha un rovescio: assieme ai debiti svaporano i risparmi, gli stipendi e le pensioni, tranne per coloro che sono in grado di fare investimenti molto redditizi, o di ottenere aumenti frequenti e consistenti.

Nel periodo del “miracolo economico” postbellico, la combinazione di una forte crescita economica e di agguerrite organizzazioni sindacali fece si che la maggior parte delle persone non ebbero a soffrire dell’elevata inflazione (al netto di qualche vecchio possidente).  Viceversa, il contesto di stagnazione (o recessione) in cui vivono e vivranno la maggior parte degli occidentali (e poi anche degli altri) fa si che l’inflazione oggi non sia che un sistema molto efficace per pompare soldi dalle tasche dei cittadini, al netto di coloro che possono contare su stipendi molto elevati e/o di patrimoni molto importanti.

Insomma, come dicevano sia Keynes che Lenin,  l’inflazione è il modo più efficace con cui uno stato può appropriarsi della ricchezza dei cittadini senza che questi si possano difendere.
In altre parole, l’inflazione tende a favorire chi ha molti debiti (a partire dallo stato), chi dispone di grandi patrimoni finanziari e chi è in grado di accrescere rapidamente le proprie entrate, mentre danneggia tutti gli altri e soprattutto le “formichine”.

Se non bastasse, l’esperienza recente di economie fino a poco tempo fa forti, come il Venezuela, ci insegna che l’inflazione è un attrezzo scivoloso che facilmente sfugge di mano, col risultato di distruggere la moneta e l'economia.

Conclusioni 6

Il debito pubblico e privato stanno schiacciando le economie del mondo, sia pure con situazioni molto diverse a seconda dei paesi.   Ci sono molti modi per sbarazzarsene, ma tutti hanno un punto in comune: i super ricchi se la cavano, mentre la gente normale si fa molto male.  Finché il debito permane e cresce, si soffre perché bisogna pagarlo (direttamente od indirettamente); quando cessa, invece si soffre perché svaniscono anche buona parte dei risparmi, degli stipendi e delle pensioni.  Amen.

Unica, parziale, eccezione potrebbe essere rappresentata da un forte aumento delle imposte sui redditi e sui patrimoni molto elevati.  Ma, come giustamente osserva lo stesso Piketty, un simile provvedimento sarebbe possibile ed efficace solamente a due condizioni:

La prima è che la manovra fosse concordata ed attuata in modo unitario perlomeno in tutta l’Europa.  

Vale a dire che, fra le altre cose, presuppone un livello di integrazione transnazionale molto più elevato dell’attuale.  “Solo l’integrazione politica europea permetterebbe di tentare una regolazione efficace del capitalismo patrimoniale globalizzato del secolo che si apre” (Piketty 2013, p 945).  Una prospettiva alquanto remota che, paradossalmente, proprio molti partiti e movimenti di protesta popolare si affannano a rendere più lontana, anziché più prossima.

La seconda è che, conti alla mano, per fornire un gettito quantitativamente efficace, la tassa dovrebbe necessariamente intaccare sensibilmente anche i patrimoni della classe media, risparmiando solo i pesci molto piccoli.  In altre parole, un provvedimento requisitorio solo nei confronti dei miliardari o dei multi-milionari avrebbe un effetto politico importante, ma un effetto sul debito statale marginale.  Lo stesso Piketty stima che la tassa sul patrimonio che caldeggia, dovrebbe incidere su tutti i patrimoni sia pure con una forte progressività.   Una misura che potrebbe avere conseguenze più serie del previsto sul sistema e rivelarsi controproducente in un’ottica di resilienza complessiva della società.  Ci torneremo.


sabato 2 marzo 2019

La rivolta dei Ciompi, ovvero dei Gilet Gialli.


Una cosa che mi incuriosisce molto è come mai la protesta francese non sia filtrata qui da noi. Forse perché abbiamo un governo che interpreta pienamente la volontà del popolo di lasciare affogare gli immigranti? Oppure forse perché il governo non ha ancora dato una ragione specifica per andare in piazza? Tutte e due le ipotesi mi sembrano ragionevoli, per quanto riguarda la seconda, comunque, non mi stupirei di vedere qui da noi i gilet gialli scendere in piazza contro gli ecobonus. Perlomeno a giudicare dai commenti che ricevo sul "Fatto Quotidiano" direi che gli italiani odiano le auto elettriche e l'energia rinnovabile ancora di più di quanto odiano gli immigranti. (UB)




Di Jacopo Simonetta
Articolo già apparso su Crisis what crisis? del 11/01/2019


La rivolta dei Gilet Gialli è animata da un insieme di rivendicazioni, alcune molto stupide ed altre molto giuste. Vi convergono soggetti eterogenei come pensionati poveri e giovani disoccupati, ma anche militanti fascisti e comunisti, casseur di professione e molto altro. Un'eterogeneità che prosegue una tradizione antica come le società complesse: la rivolta del popolino esasperato contro un’élite sorda alle sue esigenze.

Ogni rivolta ha una panoplia di cause e di effetti specifici. La rivolta dei Ciompi era molto diversa da quella di Masaniello e le “Jaqueries” avevano ben poco in comune con la Rivoluzione Francese. Eppure, mi pare che si possano individuare degli elementi in comune che riassumerei così:

  • Assenza di un’ideologia di riferimento. Semmai l’ideologizzazione avviene in seguito, progressivamente, secondo lo sviluppo degli eventi e dei gruppi organizzati che riescono ad imporsi alla massa. Quando emerge un’ideologia, la struttura del movimento cambia, così come buona parte dei suoi aderenti
  • Assenza di una leadership. Anche i capi emergono gradualmente dalla massa e si impongono come rappresentanti e capitani, ma solo in corso d’opera e se la rivolta dura abbastanza a lungo.
  • Tentativo più o meno riuscito di strumentalizzazione da parte di organizzazioni politiche e/o personaggi di spicco pre-esistenti.
  • Una serie di cause inconsce, tutte derivanti dagli stress sociali ed economici connessi con quel fenomeno complesso e dinamico che possiamo chiamare “sovrappopolazione”.
  • Una serie di cause molto coscienti, economiche e sociali, esacerbate dall'incapacità della classe dirigente ad affrontarle e gestirle.
  • Un elemento scatenante futile, che fa da detonatore di tensioni profonde, accumulate nel tempo.
  • Un fiasco finale. Di solito questo genere di rivolte spontanee si esaurisce per stanchezza; oppure viene repressa. In qualche caso storico, rivolte spontanee hanno portato a riforme politiche drastiche, quanto effimere. Qualche volta hanno invece scatenato dei terremoti politici di portata storica, ma senza migliorare le condizioni economiche e sociali dei ribelli. Semmai il contrario.

Dunque le rivolte sono inutili? No, perché nel bene e nel male rappresentano delle valvole di sfogo di tensioni divenute insostenibili. La classe dirigente che non ha saputo prevenirle o gestirle può uscirne vittoriosa o sconfitta. In questo caso, si verifica una sua sostituzione più o meno completa, ma le cause che hanno portato alla rivolta alla fine rimangono uguali, o peggiorano. Tranne, in qualche caso, la pressione demografica che può risultare alleggerita da un netto aumento della mortalità e/o dell'emigrazione, ma è difficile ritenerlo un successo.

Se si può azzardare una regola storica su questo genere di rivolte (non di tutte le rivolte) direi che è questa: “La ribellione inizia per esasperazione e termina per rassegnazione”. Talvolta per disperazione.

Anche a questo proposito, basta dare un’occhiata alla letteratura di 50 anni fa in materia di economia, ambiente e popolazione, per vedere che quello che sta succedendo è esattamente quello che, all'epoca, ci si aspettava che sarebbe successo. Le società complesse funzionano infatti bene finché usufruiscono di un flusso di bassa entropia crescente e si trovano immerse in un ambiente stabile. Quando queste condizioni vengono meno, le società entrano in crisi e cominciano a disgregarsi: un processo che continua finché non viene ritrovato un nuovo, temporaneo, equilibrio del sistema umano in rapporto al sistema naturale di cui fa parte.

Un processo frequente nella storia, ma che oggi, per la prima volta, riguarda l’intera umanità contemporaneamente.

La rivolta dei GG sarà utile se aiuterà qualcuno a capire che occorre attrezzarsi per rallentare e gestire la decrescita facendosi il meno male possibile, anziché continuare a vagheggiare un impossibile ritorno della crescita economica.




venerdì 14 ottobre 2016

Un asteroide di nome “Picco del petrolio” . La vera causa dell'aumento della diseguaglianza sociale negli Stati Uniti

Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di MR



In un recente articolo sull'Huffington Post, Stan Sorscher riporta il grafico sopra e si chiede cosa può essere successo nei primi anni 70 che ha cambiato tutto. Impressionante, ma cosa ha causato questo “qualcosa” che è accaduto nei primi anni 70? Secondo Sorscher,

X segna il punto. In questo caso, “X” è la nostra scelta di valori nazionali. Abbiamo abbandonato i valori americani tradizionali che hanno costruito una nazione grande e prosperosa.

Sfortunatamente, questo è un caso classico di una spiegazione che non spiega niente. Perché il popolo
americano ha deciso di abbandonare i valori tradizionali americani proprio in quel momento specifico?

giovedì 21 luglio 2016

Uguaglianza e sostenibilità: possiamo averle entrambe?

Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di MR

Di Diego Mantilla




Guest post di Diego Mantilla

Recentemente, in questo blog, Jacopo Simonetta ha sollevato una domanda molto importante: una più giusta distribuzione del reddito in tutto il mondo diminuirebbe il danno che gli esseri umani stanno facendo alla terra? La sua risposta, che non lo farebbe e in realtà renderebbe le cose molto peggiori, mi ha intrigato. Quindi ho deciso di guardare i dati migliori disponibili.

Simonetta ha guardato nello specifico alla questione del se una distribuzione piì giusta del reddito ridurrebbe le emissioni globali di CO2. Nel 2015, Lucas Chancel e Thomas Piketty (da ora in avanti C-P) hanno scritto un saggio ed hanno messo online una serie di dati relativi che hanno affrontato la distribuzione globale del consumo delle famiglie e le emissioni di CO2e (biossido di carbonio equivalente = CO2 ed altri gas serra) nel 2013. I dati non sono perfetti, ma sono i migliori che esistono. La serie di dati di C-P coglie i valori delle Household Final Consumption Expenditures – HFCE (spese finali delle famiglie per il consumo) forniti dalla Banca Mondiale, usando la distribuzione del reddito della serie di dati di Branko Milanovic (che riguardano il 99% di quelli bassi) e quella del World Wealth and Income Database (che riguardano l'1% di quelli alti). (Il reddito non equivale al consumo e C-P ipotizzano che la distribuzione del reddito sia la stessa di quella del consumo. Inoltre, ipotizzano che la stessa distribuzione del reddito che c'era nel 2008 esistesse anche nel 2013. Come ho detto, la serie di dati non è perfetta).

giovedì 2 giugno 2016

E tanti saluti anche al turismo internazionale!

Da “tourism master”. Traduzione di MR (via Cristiano Bottone)


Come parte del programma di studio del loro master in Gestione della Destinazione del Turismo, gli studenti hanno scritto rassegne di letteratura nell'ambito del “Contesto del turismo internazionale”. In questo secondo di sei rassegne di letteratura, Maria Klampfl discute le conseguenze del picco del petrolio sulla domanda globale di turismo.

Introduzione

Il petrolio è una risorsa finita. Quindi le tendenze globali dell'offerta di energia e del suo consumo sono ambientalmente, economicamente e socialmente insostenibili (Matutinovic, 2011, p.1131; 1129). Gli esperti stanno avvertendo sempre di più sull'emergente sfida energetica che la civiltà occidentale e il mondo nel suo complesso dovranno affrontare durante il prossimo decennio (Matutinovic, 2011, p.1131; 1129; Nell & Cooper, 2008, p.1096). Le conseguenze di un petrolio meno accessibile sulla società sono intrinsecamente complesse (Becken, 2010, p.373). Infatti, le riserve petrolifere in diminuzione porranno un “vincolo definitivo sulla crescita economica, sulla distribuzione globale di stili di vita e sul livello di integrazione dell'economia globale”  (Matutinovic, 2011, p.1131). Inoltre, colpirà il turismo e il modo in cui sta operando oggi.

venerdì 6 maggio 2016

Il cambiamento climatico spazzerà via 2,5 trilioni di dollari in patrimoni finanziari.

Da “The Guardian”. Traduzione di MR (via Cristiano Bottone)

Le perdite potrebbero volare a 2,4 trilioni di dollari è distruggere l'economia globale, nello scenario peggiore, suggerisce la prima modellizzazione economica




L'impatto economico del cambiamento climatico potrebbe devastare l'economia mondiale, secondo uno studio della London School of Economics (LSE). Foto: Carlo Allegri/Reuters

Di Damian Carrington

Il cambiamento climatico potrebbe tagliare il valore dei patrimoni finanziari mondiali di 2,5 trilioni di dollari, secondo la prima stima proveniente dalla modellazione economica. Negli scenari peggiori, spesso usati dai legislatori per verificare la salute finanziaria delle aziende e delle economie, le perdite potrebbero aumentare vertiginosamente a 24 trilioni di dollari, o il 17% dei patrimoni mondiali, e distruggere l'economia globale.

La ricerca ha anche mostrato il senso finanziario dell'intraprendere un'azione per mantenere il cambiamento climatico diminuirebbe a 315 miliardi di dollari in meno, anche includendo i costi del taglio delle emissioni.

“Il nostro lavoro suggerisce agli investitori a lungo termine ci andrebbe meglio in un mondo a basso tenore di carbonio”, ha detto il professor Simon Dietz della London School of Economics, l'autore principale dello studio. “I fondi pensione dovrebbero essere al vertice di questo problema e molti di essi lo sono”. Ha detto, tuttavia, che la consapevolezza nel settore finanziario è stata bassa.

giovedì 25 febbraio 2016

La Fisica dell'energia e l'economia

Da “Our Finite World”. Traduzione di MR

Di Gail Tverberg

Mi approccio al tema della Fisica di energia ed economia con qualche trepidazione. Un'economia sembra essere un sistema dissipativo, ma cosa significa veramente questo? Non ci sono molte persone che capiscono i sistemi dissipativi e molto poche che capiscono in che modo funziona un'economia. La combinazione delle due cose porta a moltissime false credenze sulle necessità energetiche di un'economia.

Il principale problema a portata di mano è che, in quanto sistema dissipativo, ogni economia ha le proprie necessità energetiche (in termini di luce solare) ed ogni pianta ed animale ha le sue necessità energetiche, in una forma o in un'altra. Un uragano è un altro sistema dissipativo. Ha bisogno dell'energia che ottiene dall'acqua calda dell'oceano. Se si sposta sulla terraferma , si indebolirà presto e morirà. C'è una gamma piuttosto ristretta di livelli di energia accettabili – un animale senza cibo sufficiente si indebolisce ed è più probabile che venga mangiato da un predatore o che soccomba ad una malattia. Una pianta senza luce solare sufficiente è probabile che si indebolisca e che muoia.

Infatti, gli effetti del non avere flussi di energia sufficienti potrebbero diffondersi più ampiamente della singola pianta o animale che si indebolisce e muore. Se la ragione per cui una pianta muore è perché la pianta è parte di una foresta che nel tempo è cresciuta così fitta che le piante del sottobosco non possono ricevere luce sufficiente, allora potrebbe esserci un problema più grande. Il materiale della pianta morente potrebbe accumularsi al punto da incoraggiare gli incendi. Tale incendio forestale potrebbe bruciare un'area piuttosto grande della foresta. Pertanto, il risultato indiretto potrebbe essere di mettere fine ad una parte dell'ecosistema stesso della foresta. Come dovremmo aspettarci che si comporti un'economia nel tempo? Lo schema di energia dissipata durante il ciclo di vita di un sistema dissipativo varierà, a seconda del sistema particolare. Negli esempi che faccio, lo schema sembra in qualche modo seguire ciò che Ugo Bardi chiama un Dirupo di Seneca.

Figura 1. Dirupo di Seneca di Ugo Bardi

mercoledì 23 dicembre 2015

E' il momento di smettere di adorare la crescita economica

Così, tutti i politici che a Parigi hanno celebrato l'accordo della COP21, sono tornati a casa e ora ricominciano a celebrare la necessità della crescita economica. Niente cambia nei loro atteggiamenti, ma l'ecosistema cambia per conto suo e prima o poi presenterà il conto a tutti quanti (U.B.)


Da “The Daly News”. Traduzione di MR (via Donella Meadows Institute)

Di Brent Blackwelder

Esistono dei limiti fisici alla crescita su un pianete finito. Nel 1972 il Club di Roma ha pubblicato il suo rivoluzionario rapporto – i Limiti della Crescita (dodici milioni di copie in 37 lingue). Gli autori hanno previsto che circa intorno il 2030 il nostro pianete avrebbe percepito una grave compressione delle risorse naturali; ed hanno colto nel segno.

Nel 2009, lo Stockholm Resilience Center ha introdotto il concetto di limiti planetari per aiutare l'opinione pubblica a visualizzare la natura delle sfide poste dai limiti della crescita e dai limiti biologico/fisici. Hanno definito nove limiti critici per l'esistenza umana che, se superati, potrebbero generare cambiamenti ambientali bruschi ed irreversibili.

sabato 3 ottobre 2015

I sussidi ai combustibili fossili: più di cinquemila miliardi di dollari!

Da “triplepundit.com”. Traduzione di MR (via Daryl Hannah – sì, quella di Blade Runner)

Di Andrew Burger


Le aziende di combustibili fossili beneficeranno della somma di 5,3 trilioni di dollari nel 2015 da parte dei sussidi energetici governativi. E' più di tutta la spesa dei governi del mondo in sanità, secondo la nuova ricerca del Fondo Monetario Internazionale (FMI).

sabato 22 agosto 2015

Argomento cruciale: la mandria umana che si sta mangiando il pianeta

Da  “Mercury”.  Traduzione  di  MR  (via  Luca  Pardi)


L'attuale crescita della popolazione sulla Terra è insostenibile. Immagine: NASA

Per decine di migliaia di anni la popolazione della Terra è stata stazionaria a circa mezzo miliardo di persone di cui 10.000 in Tasmania. Era la capacità di carico naturale.

Dopo la Rivoluzione Agricola di 10.000 anni fa, la mandria umana globale è cresciuta rapidamente ad un miliardo nel 1800 (di cui sempre 10.000 in Tasmania). Con la Rivoluzione Industriale è raddoppiata a due miliardi nel 1900 (in Tasmania 170.000) e, nonostante due guerre mondiali ed una pandemia di influenza, ha raggiunto i 2,7 miliardi quando sono nato nel 1944 (in Tasmania 248.000). Quindi, ancora più impensabile, nel 1960 il mondo aveva tre miliardi di persone e nel 2000 quel numero è raddoppiato – 12 volte la naturale capacità di carico. Ora, nel 2015, siamo 7,3 miliardi (in Tasmania 517.000) e , mentre agli attuali tassi di crescita la popolazione globale raggiungerebbe i 27 miliardi nel 2100, le Nazioni Unite calcolano che si riduca a 12 miliardi o 24 volte la naturale capacità di carico della Terra. L'acclamato cosmologo e fisico Stephen Hawking ha calcolato che “se se continuasse a questo ritmo, con la popolazione che raddoppia ogni 40 anni, nel 2600 ci ritroveremmo letteralmente in piedi spalla a spalla”.

Stiamo già consumando il 140% delle risorse viventi sostenibili della Terra – cioè, l'ecosistema vivente della Terra sta collassando.

Il fisico Stephen Hawking. Foto: AFP
Il corollario più distruttivo della popolazione è il consumo. Siccome i più poveri vogliono mettersi in pari coi più ricchi, i più ricchi non condivideranno e quasi tutti vogliono di più, il consumo di risorse terrestri sta crescendo anche più rapidamente del numero di abitanti. Siamo in un disastro. Come sappiamo tutti, la biosfera, o mantello vivente del pianeta, viene rapidamente distrutto dalla più grande mandria di mammiferi ci vi abbia mai pascolato. Stiamo già consumando il 140% delle risorse viventi sostenibili della Terra, cioè, l'ecosistema vivente della Terra sta collassando. Ogni giorno ci sono meno foreste, meno bacini di pesca (il 90% è andato o sta per andarsene) e meno barriere coralline, meno fiumi naturali, meno specie (l'attuale tasso di estinzione è 500 volte il tasso naturale e sta accelerando) e molta meno natura selvaggia che mai. Tre cose ci aiuteranno ad uscire da questa calamità che si sta sviluppando.

La prima è di assicurarsi che ogni ragazza e ragazzo sul pianeta vengano istruiti e venga dato loro accesso alla contraccezione, con incentivi ad avere meno figli. Questa priorità dipende dal secondo imperativo – che le persone ricche (e i paesi) condividano molto di più e finanzino quell'educazione i requisiti dei suoi operatori sanitari, alla svelta. Vale a dire noi. Gli australiani sono fra le persone più ricche che siano mai esistite. La terza cosa che si deve fare è mettere fine al dogma ridicolo della promozione della crescita dei consumi delle riserve finite di risorse della Terra. Il dio senza speranza della crescita deve essere sostituito dal dio promettente del riusare, riciclare, riparare, innovare e condividere. Il buon senso ordina una relazione sostenibile degli ecosistemi interconnessi dell'Homo Sapiens e del pianeta Terra, anche se quel futuro rimarrebbe ampiamente aperto all'indagine ed alla scoperta e alla crescente creatività umana. Per cogliere pienamente la promessa di vita sulla Terra, dobbiamo sostituire la spirale della crescita della popolazione e dei consumi con una miscela intelligente di auto-preservazione. Non si tratta di un'idea nuova – il moralista ed economista britannico Kenneth Boulding mezzo secolo fa osservava che “chiunque creda che la crescita esponenziale possa continuare per sempre in un mondo finito o è un pazzo o è un economista”.

Il dio senza speranza della crescita deve essere sostituito dal dio promettente del riusare, riciclare, riparare, innovare e condividere.

La Tasmania è in una situazione vantaggiosa per dare l'esempio. Per esempio, i tasmaniani potrebbero ottenere più prontamente emissioni di gas serra negative e perdita zero di specie native, di ecosistemi (sia marini sia terrestri) e di bellezza selvaggia e spettacolare di quasi qualsiasi altra società sulla Terra. Allo steso tempo questi risultati farebbero aumentare il nostro lavoro più in prospettiva e la nostra storia economica più di successo – le industrie del turismo e dell'ospitalità che prosperano sulla base della nostra reputazione internazionale di uno stile di vita sicuro e verde con grandi quantità di cibo ed acqua, vita e natura selvaggia e bellezza incontaminati. In un mondo sempre più mobile diretto a più di otto miliardi di persone entro un decennio, la sicurezza e la naturalezza della Tasmania sono diventate il nostro bene economico più grande. Affollati e tormentati come sono in miliardi di persone, la Tasmania offre loro un'avventura solitaria nella natura per il corpo e un rilassamento per l'anima che non sono secondi a nessuno. Paradossalmente, più affolliamo l'isola, meno questa sarà attrattiva. Il nostro miglior obbiettivo deve essere una popolazione residente relativamente bassa e un grande flusso di visitatori.

Una politica della popolazione sensibile per la Tasmania punterebbe ad una popolazione in naturale diminuzione e ad un afflusso di una parte dei diseredati del mondo finché la crisi globale non è finita.

La politica del governo Hodgman di raddoppiare il tasso di crescita della popolazione della Tasmania nei prossimi 35 anni si inchina all'economia convenzionale della crescita. Comunque sia, i pianificatori dovrebbero piuttosto preoccuparsi del fatto che una politica del genere verrà prima o poi sommersa da migrazioni di massa globali dovute a cambiamento climatico, guerre ed altre imprevedibili calamità. Una politica della popolazione sensibile per la Tasmania punterebbe ad una popolazione in naturale diminuzione e ad un afflusso di una parte dei diseredati del mondo finché la crisi globale non è finita. E perché non rendere partecipe di quella politica uno stato d'oltremare finanziando, diciamo, l'incremento di educazione e salute nelle vicine Papua Nuova Guinea o Timor Est dove le popolazioni stanno esplodendo? La popolazione non è l'argomento preferito di nessuno. Con una eguale misura di istinto ed assurdità, non vogliamo parlarne. Tuttavia, che piaccia o no, la popolazione è un problema di tutti. Possiamo ringraziare il premier, perlomeno per aver sollevato di nuovo questo problema importante.




giovedì 13 agosto 2015

Shock ambientale e sua gestione politica II

Guest post di "Sergio Barile".

Come la finanza internazionale ci sterminerà tutti prima della catastrofe ecologica; ma con grande giubilo di autorazzisti e antiumani.


« Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non mantiene le promesse. In breve, non ci piace e stiamo cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci chiediamo cosa mettere al suo posto, restiamo estremamente perplessi. » J.M. Keynes, 1933 

3 – La politica come gestione della complessità sociale (astenersi demagoghi)

C'è chi sostiene che la cultura occidentale non sia altro che un commento a Platone, e un motivo di ingombrante evidenza c'è: la particolare traiettoria culturale dell'Occidente potrebbe essere riassunta dalla dialettica tra Socrate e Trasimaco. Oggetto, la giustizia.

Per chi è poco avvezzo alla speculazione filosofica, sottolineo che l'etica getta le fondamenta dell'ordine sociale, la Costituzione che è, appunto, fonte di diritto e giustizia.

L'etica non è condivisa: c'è quella dello schiavo e quella del padrone, quella di Socrate, che poi verrà trasfigurata in quella comunemente ritenuta giudaico-cristiana, e quella che si evince dalla considerazione di Trasimaco: «la giustizia è l'utile del più forte». (Etica che troverà una sua esplicitazione e una sua "formalizzazione in via allegorica" solo nella modernità, con il più famoso dei filosofi morali gentili: Nietzsche).

L'economia, prima della sua matematizzazione ad opera dei marginalisti (1870 - 1890), è stata storicamente un ramo della filosofia morale; ovvero, nonostante ci sia un terreno epistemico comune, le diverse teorie che sviluppano i diversi modelli affondano le proprie radici nella filosofia morale.

La scienza economica, come espressione di epistème, è strumentale alla materializzazione dell'etica su cui si fonda l'ordine sociale: l'economia politica è la scienza [1che studia e regola, di fatto, i rapporti tra classi e gruppi sociali. La politica è, in primis, politica economica, e i diritti sociali sono il vero contendere che precede il conflitto per le rivendicazioni di tutte le altre specie di diritti. (Politica come sovrastruttura del potere economico)

Riassumendo: la storia della cultura occidentale trova la sua più alta espressione nelle riflessioni sulla giustizia sociale e sul conflitto distributivo. 

Ovvero nelle riflessioni politiche.

La comprensione della Politica è studio della complessità, in cui il conflitto di interessi ne limita la corretta comprensione, come il principio di indeterminazione di Heisenberg limita le possibilità sperimentali del fisico teorico. La dialettica politica si riflette nelle sue irredimibili contraddizioni a livello cognitivo.

Le risorse culturali, con buona pace degli amanti delle discussioni da bar, sono tutto.

3 – Il progresso culturale ha portato le civiltà e la politica, il progresso economico ha portato l'economia politica e la follia. 

Guarda un po', anche le moderne teorie che descrivono il conflitto distributivo possono essere dialetticamente divise in due paradigmi contrapposti: (neo)classiche, promotrici di una politica economica (neo)liberale, e keynesiane, promotrici di politiche più o meno socialiste.

Se la produzione Y è funzione del lavoro e del capitale  - ovvero Y = f(L , K) - allora, stante la logica stringente delle precedenti considerazioni, il lavoro sta a sinistra, e il capitale sta a destra (in politica economica: non necessariamente nelle parentesi o nell'Emiciclo).

Va da sé, che:

b) l'economista classico e liberale (con i vari "nei" o meno) difende gli interessi del capitale;

c) l'economista keynesiano (in particolare con il prefisso "post", di post-keynesiano), difende quelli del lavoro.

Insomma, “gli economisti” non esistono.

(Anche un “aziendalista”, o un esperto in “finanza” dovrebbe astenersi dal parlare di economia politica a titolo personale vantando il titolo di “economista” e, magari, i professionisti di macroeconomia e di economia internazionale dovrebbero prima esplicitare il loro “conflitto di interessi”)

4 – La sintesi della dialettica politica dopo le tragedie del XX secolo

Il valore che si dà al fattore lavoro è ciò che genera la dialettica nella sovrastruttura politica: le classi subalterne, che cercano emancipazione tramite il lavoro, sono rappresentate da chi promuove politiche economiche di matrice keynesiana, le classi dominanti sono rappresentate dalle forze politiche liberali che propongono la flessibilizzazione del fattore lavoro, la sua disciplina tramite agganci valutari, il liberoscambio internazionale, e il liberismo anti-interventista.

Nel '48, il popolo italiano, tramite l'Assemblea Costituente eletta a suffragio universale, ha fatto un scelta precisa: «L'Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro».

Lavoro come diritto e dovere: unico mezzo che contemporaneamente promuove la dignità individuale e sociale, e sostanzializza la partecipazione politica, contribuendo allo sviluppo materiale e spirituale della società. La Repubblica si impegna inderogabilmente a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono l'uguaglianza sostanziale dei cittadini e limitano il pieno sviluppo della persona umana. 

L'individuo dello stato liberale lascia il passo alla persona umana individuata, non più come edonista soggetto isolato, ma come protagonista di una rete relazionale. L'identità individuale diventa inseparabile dalla comunità sociale di 
riferimento.

Il mercato non può più essere “libero”: deve essere indirizzato a fini sociali e solo l'equità distributiva può garantire la stabilità politica, sociale ed ecologica.

Keynes e Beveridge: le costituzioni moderne rigettano lo stato liberale in favore dello stato sociale.

La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, sull'esempio dei nostri Padri costituenti, ha adottato gli stessi fondamenti valoriali: l'inviolabilità della dignità umana da perseguire con politiche di piena occupazione.

Ottanta milioni di morti è qualcosa di inconcepibile per una persona sana di mente: «affinché non si ripeta mai più».   

Troppo a cuor leggero si straparla della "inevitabilità" di quel lager a cielo aperto chiamato Africa: e le élite pare abbiano fatto la medesima scelta per le classi subalterne occidentali. Ma il manicomio della (ex)middle-class pullola di autorazzismo antiumano... 

5 – Il mondo prima e dopo Hitler

Prima della Crisi del '29, il libero mercato e i vincoli valutari erano un dogma. 

L'austerità anche dopo.

Fig.1 Carmen Reinhart: immagine plastica della dinamica del conflitto Capitale Vs Lavoro nel mondo. 
A Keynes non diedero retta.

Le maggiori crisi debitorie della storia moderna, quella del 1929 e quella del 2008 (v. fig.1),  sono state precedute da un periodo più o meno lungo nel quale il potere d'acquisto dei lavoratori è stato stagnante, mentre la produttività media del lavoro (la quantità di prodotto per addetto) aumentava[2]: come si è risolta lo squilibrio dato dalla disuguaglianza sociale esplosa nella crisi del '29 è noto. E quella del 2008, come finirà?

D'altronde, il debito inestinguibile si può onorare solo in due modi: col fallimento e l'insolvenza, o col suicidio. Il secondo, a livello aggregato, si chiama genocidio.

I debiti con il sistema finanziario o con l'ecosistema si possono risolvere nei medesimi due modi: con l'equità sociale e una ridistribuzione del reddito, che renda sostenibile l'assetto sociale umano, ovvero i salari devono equamente aumentare con la produttività; oppure con la soppressione dei debitori. (Inutili locuste da sterminare.... porcelli che vogliono vivere al di sopra delle proprie possibilità... del pianeta)


Fig.2 Rick Wolff: immagine plastica della dinamica del conflitto Capitale Vs. Lavoro in USA.
Fig.3: Alberto Bagnai: immagine plastica della dinamica del conflitto Capitale Vs. Lavoro in Italia. 

Il neoclassico crede che l'equilibrio sia raggiunto tramite la giustizia commutativa, con al limite un sussidio minimo garantito, il keynesiano crede che la stabilità sia possibile solo tramite la giustizia sociale[3].

Il neoclassico è un offertista, il keynesiano è "mezzo" malthusiano, ovvero i modelli sono fondati sul concetto di domanda aggregata: è la domanda a generare l'offerta, non viceversa.

Questa distinzione ha fondamentali implicazioni ad iniziare, nel paradigma keynesiano, dal fatto che a livello di polis, di società, di Stato nazione, di sistema economico globale, il modello usato per descriverne le dinamiche non può essere il medesimo di quello "micro", usato per le imprese (lo Stato NON è come una "famiglia"!), ma deve essere aggregato,  "macro", dove la struttura delle "preferenze" non è individuale, ma politica: nasce la macroeconomia moderna.

Uno degli aspetti più controintuitivi è che, poiché il lavoratore, a differenza dello schiavo, è anche consumatore, più il capitalista a livello aggregato aumenta il salario dei suoi dipendenti, più aumenterà i suoi profitti.

(Apriti cielo. 

Una massa di locuste sgraziate e grassocce che si avventa sulle ristrette risorse del nostro amato pianeta...)

Le cose però, ahimè, non stanno proprio così: esiste un vincolo esterno alla crescita - di natura politica! - che considera anche la quantità di risorse presenti su un territorio: questo vincolo è ben espresso dalla legge di Thirlwall.

Se questo equilibrio fosse possibile farlo rispettare a tutte le comunità sociali, la gestione delle risorse scarse sarebbe banalmente ottimizzata e, come faceva notare Keynes a Bretton Woods in cui, come membro della delegazione britannica, proponeva un sistema monetario concentrato proprio sull'equilibrio delle bilance dei pagamenti[4], si materializzerebbe la kantiana pace perpetua. Sì, al contrario di ciò che storicamente propagandano i "federalisti" sulle orme di Kant, il libero scambio implicito nel concetto di federalismo interstatale, è la storica politica economica foriera di instabilità politica e conflitti bellici. Bretton Woods era proprio concentrata su questo noto e condiviso problema: purtroppo pare che la "casa dei Morgan" abbia influenzato in modo decisivo per il sistema monetario vigente...

Ma siamo sicuri che, come vuole la vulgata, le imprese cerchino la massimizzazione del profitto?

Non sempre: se fosse stato così il New Deal non avrebbe incontrato le resistenze che ha incontrato in tutto il mondo, magari risparmiandoci la tragedia del '39 -'45. Infatti, proprio in quegli anni svolgeva queste riflessioni Michal Kalecki, ragionando sulle resistenze dei grandi capitani dell'industria e della finanza: le classi dominanti preferiscono perdere profitti ma aumentare in proporzione la propria influenza sulle istituzioni politiche.

(Oltre che disciplinare i lavoratori nelle fabbriche)

Le politiche deflattive, chiamate di "austerità", sono proprio quelle bramate dalla grande finanza, per due ovvi motivi:

1 - il grande capitale finanziario fa credito: l'inflazione svaluta i debiti e comprime i profitti da interesse. (Va da sé che l'inflazione è di converso "amica" del lavoratore - magari con il salario indicizzato - che è generalmente anche mutuatario)

2 - l'alta disoccupazione e la privatizzazione dello stato sociale aumentano a dismisura l'influenza politica delle oligarchie economiche a discapito delle classi subalterne. Ovvero, a discapito della democrazia.

Il trentennio d'oro keynesiano muore con il primo shock petrolifero e l'austerità deflattiva propagandata bipartisan, giusto un anno dopo il rapporto del Club di Roma: si infiamma la controrivoluzione neoliberista; sono tout court le dinamiche dell' EROEI a generare la sofferenza sociale delle crisi economiche, o come i suoi effetti vengono politicamente gestiti?



A.Bagnai - Fig.28 de "Il tramonto dell'euro", 2012  






Post Scriptum:

(James Mead[5] aveva previsto nel '57 cosa sarebbe successo in Grecia, Nicholas Kaldor nel '71... a proposito di cambi fissi, free trade e politiche deflattive)




















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1 - «Una transazione economica è un problema politico risolto. L’economia ha conquistato il titolo di regina delle scienze sociali scegliendo come suo dominio quello dei problemi politici risolti», Abba P. Lerner, 1972, The Economics and Politics of Consumer Sovereignty
2 - A. Bagnai, 2014 
3 - Si noti che lo stesso problema demografico è generalmente legato alla povertà: la soluzione è, come ormai dovrebbe essere stato chiarito, sempre doppia. È politica: o si sterminano gli indigenti, che siano dei ghetti o dei paesi non industrializzati, oppure gli si istruisce e gli si arricchisce. 
4 - Equilibrio BdP: equilibrio dei flussi dei fattori della produzione di un Paese con il resto del mondo, approssimabile nell'equilibrio tra import ed export. 
5 - «In a classic paper written in the mid 1950’s Nobel laureate James Meade (1957) posed the fundamental question of the balance of payments problems that would likely arise in a free trade area such as that envisaged in 1992», A.R. Nobay, pag.10 e, aggiungiamo ora, non contenti del risultato dello SME, gli sbilanci della zona euro che hanno permesso gli attacchi speculativi del 2011. 

mercoledì 12 agosto 2015

Shock ambientale e sua gestione politica

Pubblico qui un post che parte da ipotesi e idee abbastanza diverse da quelle che si trovano normalmente su "Effetto Risorse," dove tendiamo a vedere l'esaurimento delle risorse come il motore principale di tutto quello che succede. Mi è parso il caso, tuttavia, di presentare questo post, sia per il suo interesse intrinseco, sia per non continuare a parlarci soltanto fra di noi come facciamo spesso. Questa è la prima parte di un'analisi abbastanza complessa, la seconda seguirà fra breve - UB

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Guest post di "Sergio Barile".

Parafrasi biologica della legge di Thirlwall





(Furthermore there is clear evidence that, although economic growth usually leads to environmental degradation in the early stages of the process, in the end the best — and probably the only — way to attain a decent environment in most countries is to become rich) Beckerman, 1992

1 - Introduzione

Iniziamo dalla tesi: qualsiasi politica verde necessita di risorse economiche, poiché per incidere sulle dinamiche in atto questi investimenti sarebbero enormi, e il beneficio sarebbe collettivo e non monetizzabile immediatamente come profitto, l'intervento pubblico tramite spesa a deficit (G) si configura come lo strumento di politica economica più efficace per raggiungere gli obiettivi richiesti dalla comunità scientifica. Per poter aumentare i budget di spesa è necessario che il PIL cresca, quindi è assolutamente necessario evitare le “riforme strutturali” e favorire stato sociale e piena occupazione. Questi aumentano la domanda aggregata (AD) che, in caso di politiche industriale volte a fini sociali di profilo “ambientale” e la conseguente produzione di beni e servizi a carattere “ecologico”, sarà rivolta al consumo di questi beni e servizi verdi. Dato il “moltiplicatore keynesiano” avremo del nuovo valore aggiunto (incremento del PIL) e la contestuale marginale “decrescita felice” delle esternalità negative. 

Senza “crescita” non ci può essere “decrescita”.

Il limite alla crescita, ovvero il vincolo esterno per il decisore politico di una nazione sovrana, pena instabilità e gravi squilibri, è dato dalla legge di Thirlwall.

Quindi, tranchant, l'ammonimento politico: il movimentismo volto alla sensibilizzazione sulle esternalità negative dell'attività economica è storicamente funzionale alla cosmetizzazione del conflitto tra classi. Ovvero, l'imputare ad un vincolo esterno di natura “tecnica” - in generale esogeno al dibattito democratico - politiche di repressione delle rivendicazioni sociali, è parte di una nota strategia politica per imporre in modo dispotico un ordine sociale al riparo dal processo elettorale.

Tolto il dente, tolto il dolore. (E chi non è disposto a prendere in considerazione questa tesi, può risparmiare il tempo della seguente lettura).

2 – Etica e sistemi complessi

Avendo uno sguardo post-keynesiano sul mondo, Malthus deflette fisiologicamente l'orizzonte economico-sociale che si osserva: insomma, Malthus è parte della propria cultura.

Non si può far la medesima affermazione relativamente a quella che viene definita “teoria neo-malthusiana”, a dispetto del nome. 

Se Keynes supportava la necessità di una stabile o positiva crescita demografica, perché individuava nella domanda aggregata il fattore di crescita economica, l'approccio neo-malthusiano, come da tradizione neo-liberale, sulla falsa riga della "trickle-down theory", sostiene che è l'accumulazione del capitale il motore della crescita economica, e che il declino demografico porta ad una crescita del reddito procapite. 

Quindi, perdonando la brutale banalizzazione, se le risorse sono finite, e il paradosso di Jevons scoraggia dalle aspettative progressive dell'evoluzione tecnologica, i lavoratori delle prossime generazioni – con le buone, ovviamente – devono gentilmente smettere di prolificare e consumare. Per il bene delle generazioni future, si intende.

Come Keynes, assumiamo in questa riflessione che l'ipotesi del limite delle risorse sia corretto, e che l'obiettivo sia convergere ad uno stato stazionario, dove demografia e consumo di energia siano in equilibrio, e il “benessere” procapite sia ottimizzato.

Secondo una prospettiva neo-malthusiana, poiché è chi più accumula capitale che contribuisce allo sviluppo economico e spirituale della società, e questo “benessere” ricade – trickle-down - sui nipotini poveri dei sopravvissuti “alla purga demografica”, il benessere del povero sta nella sua povertà (chiaramente relativa al ricco, sicuramente una dignitosissima povertà). 
   
(Nota: poiché esiste una forte correlazione tra oil and finance, vi posso assicurare che questa soluzione è stata già presa; sembra che solo ai BRICS non piaccia particolarmente)

Quindi, chi teme la catastrofe non disperi, sarà accontentato: poiché, se la politica democratica è corrotta, allora i corruttori governano. E chi può corrompere ha il capitale per farlo.

Si chiama “globalizzazione”: privatizzazione di tutte le risorse e del patrimonio pubblico tramite la libera circolazione dei fattori della produzione. Insomma, quelneoliberismoche propugna la  trickle-down economy.

D'altronde, come proclamava la Thatcher, “there is no alternative”. Viene fatto per il bene dell'umanità: per sopravvivere può essere necessario amputarsi un braccio...

Io, però, sono egoista, al mio braccio ci tengo e vorrei pensare ai miei nipotini felici che corrono felici in un verdissimo futuro....

Apro un libro di sociologia e, guarda un po', scopro che non esiste solo il “funzionalismo”, la teoria sociologica per cui il codice Manu indiano può essere desiderabile, ma esiste una sterminata letteratura che tratta la prospettiva del conflitto: la solidarietà tende a svilupparsi maggiormente in gruppi sociali omogenei, in base al potere e al prestigio dei suoi membri, questi gruppi formano della classi in perpetuo conflitto: il conflitto per la distribuzione del reddito prodotto.

Potrebbe essere che il limite della crescita sia strumentalizzabile dalla più forte di queste classi? Può esistere una soluzione che porti al risultato che faccia anche gli interessi delle altre classi? Qui ed ora?

Vediamo.

Innanzitutto alcune definizioni e alcuni chiarimenti: il reddito è un “flusso”, ed è funzione dei fattori della produzione, le risorse naturali sono uno “stock”, fanno parte del patrimonio messo a disposizione da nostro Signore all'ingrato genere umano.

La più grande comunità sociale omogenea che permette “solidarietà economica” - ovvero fiscale e ridistributiva -  si chiama Stato nazionale: il reddito di uno stato nazionale si chiama PIL.  

Primo shock: il PIL è una misura che non c'entra nulla con la crescita “materiale” collegata al consumo delle risorse naturali, o meglio, ad esempio, non esiste una correlazione significativa tra PIL e ed energia consumata che sia valida per tutti gli Stati nazionali. A seconda delle metodologie e dei campioni ci può essere effettivamente una causalità bidirezionale, una causalità tra crescita del PIL e del consumo di energia, oppure viceversa.

Italia e Corea, ad esempio (Soytas-Siri, 2003), due modelli di produzione particolarmente simili e virtuosi nel panorama mondiale dalla seconda metà del Novecento, appartengono al terzo gruppo: drastiche politiche di risparmio energetico non impatterebbero particolarmente sulla crescita.

E comunque, in generale, nei Paesi più ricchi è possibile sostenere il PIL con un impatto minimo o nullo sul consumo energetico.

Chi propone la decrescita del PIL, ovvero recessioni, prolungate deflazioni e depressioni, lo fa da un particolare punto di vista di un particolare gruppo di interessi (classe): oil and finance.

I conflitti bellici scoppiano generalmente per due motivi complementari: il dominio delle risorse, e la risoluzione delle crisi di debito. Generalmente due facce della stessa medaglia.

Le “crisi di debito” e la debt-deflation auspicata – non si sa bene quanto consapevolmente – di alcuni “decrescisti”, fornisce al problema malthusiano una risposta immediata: guerre e carestie. Da sempre.

Il paradosso di Jevons e, più in generale, il limite alla crescita, obbliga, a livello di aggregato mondiale, a coordinare le politiche di approvvigionamento delle risorse energetiche... beh, la soluzione delle nostre élite l'abbiamo già intravista, se si vogliono altri chiarimenti basta fare un giro in Iraq, Siria, Libia, Niger, Ucraina, ecc.

Se si evitasse di frammentare le entità politiche straniere, e la si piantasse di cedere sovranità nazionale alla finanza internazionale in patente violazione degli “gli art.11” delle costituzioni democratiche - finanza secolarmente desiderosa di sorpassare l'assetto vestfalico che ha portato alle democrazie e allo stato sociale – si potrebbe pensare di tornare ad avere una  politica industriale che non sia... il suo semplice smantellamento.  
  
In tal caso, il decisore politico, con pieno controllo di una banca centrale controllata dal Tesoro, ministero espressione della sovranità democratica, ogni decisore politico, per affrontare  gli eventuali shock  a causa dell' LtG, dovrebbe guidare nella tempesta la propria comunità sociale di riferimento: i suoi elettori.

Ora, una premessa: il sistema sociale integrato nella “biosfera”, non è semplicemente un sistema complesso. È un sistema umano.

Quindi, che uno scienziato possa considerarlo semplicemente come qualsiasi sistema biologico, da integrare nella complessità del nostro pianeta, beh, è comprensibile ma non assolutamente da dare per scontato.

Quindi, da un punto di vista politico, ovvero di gestione delle risorse, propongo una precisa etica che faccia da vincolo interno al decisore (più o meno...) istituzionale: ovvero, tra “i vari rubinetti del sistema complesso”, le infinite soluzioni per regolare questo sistema sono ordinate rispetto ad una specifica scala di valori, di cui la dignità dell'Uomo è valore incomprimibile. Astratti ideali? Falsa propaganda da ingegneria sociale? Vediamo.

Innanzitutto abbiamo già tracciato una scala operativa per cui, tra gli infiniti punti di vista, e, tra tutte le “leve e i rubinetti” su cui si può agire, tende a diminuire “l'ordine di grandezza” della azioni possibili. Secondo, una riflessione: un sistema umano è condizionato da un inaspettato fattore: l'Uomo. Quest'etica non è condivisa, e la politica è, in primis, gestione del conflitto (possibilmente in un'aula parlamentare).

Hayek, “padre nobile” della terza globalizzazione (questa), taglia la testa al toro: i sistemi sociali sono troppo complessi per essere gestiti, quindi, apparentemente rifiutando il tipico approccio positivista, propone di non stare a impazzire su questi “sistemi complessi” cercando di governarli tipo URSS, ma di far sì che la selezione darwiniana del mercato potesse, liberata, gestire efficacemente la complessità. Insomma, leggasi Iraq, Siria, Libia, Niger, Ucraina, ecc. Vedi sopra.

In effetti, quella di vedere il sistema sociale come un sistema complesso, rappresentabile da un numero indefinito di “equazioni differenziali”, è un approccio di tipo squisitamente positivista.

Proviamo invece, secondo queste premesse, a dividere il sistema globale che risponde all'LtG come se fosse un organismo costituito da cellule separate da membrane.

Innanzitutto faccio notare che quel sistema complesso a bassissima entropia chiamato Uomo si fa (generalmente...) coordinare dal suo “capo” senza troppe equazioni: un insieme etnicamente omogeneo di uomini si chiama ethnos, un insieme di ethnos che – per omogeneità – può condividere un patto sociale si chiama demos. Ogni demos è un'identità politica che esercita un arbitrio similmente al processo decisionale dell'individuo. Lo Stato nazionale è, in generale, la sua espressione giuridica.

Le “cellule” formano così “tessuti” e “organi” che compongono la macchina vivente  e cognitiva del nostro pianeta, tutti sistemi complessi di differente ordine.

La vita è conservata dall'eterogeneità e dai ruoli: le membrane, regolando flussi e scambi, garantiscono questa eterogeneità, e, in definitiva, la vita.

Membrane troppo “impermeabili” generano la “necrosi dei tessuti”, membrane troppo “aperte” gerano lo “sfaldamento” dell'organismo.

Bene: nei sistemi umani, queste “membrane” sono le “frontiere/dogane” delle comunità sociali che si autodeterminano: in genere, gli Stati nazionali. 

I “flussi” sono i fattori della produzione, e, di questi, il lavoro è l'attività anti-entropica per eccellenza.

Per governare questi “flussi” e raggiungere a livello globale l'obiettivo di sostenibilità come prefissato inizialmente, il decisore politico non dovrebbe “spaccarsi la testa” con enormi sistemi complessi; dovrebbe affidarsi alla scienza che questo genere di complessità, così ridotta, può gestire: l'economia. Ad esempio, il decisore dovrebbe osservare una legge su tutte: quella di Thirlwall. E la comunità internazionale, di converso, dovrebbe far in modo di attuare quel meccanismo per cui ogni nazione raggiunga questo equilibrio che vede nel “vincolo esterno” enunciato da Thirlwall, il limite alla crescita di ogni singola “cellula” che compone il sistema umano, parte dell'ecosistema. Ad esempio, per ottenere questo equilibrio, J.M. Keynes propose il bancor a Bretton Woods (rifiutato dalle élite USA).

Bene, ma cosa è questa “legge” che ogni governo dovrebbe rispettare?

Esiste, oltre al vincolo interno dichiarato in precedenza – ovvero la dignità dell'Uomo che in politica economica si traduce in piena occupazione – un vincolo esterno per cui la crescita di una “cellula” non può essere illimitata (pena il cancro attuale...), ma deve seguire un ritmo di crescita che mantiene “gli scambi” con le altre cellule in equilibrio, e, poiché mediamente quando in percentuale una cellula cresce di “uno”, tende a “succhiare” da tutte le altre  “due”, le membrane vanno regolate in modo da controllare la crescita della cellula.

La politica economica di un Paese consiste, in primis, nel regolare gli scambi per rispettare il vincolo esterno alla crescita: la parafrasi biologica della legge di Thirlwall