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mercoledì 17 dicembre 2014

Non date da mangiare ai troll climatici!




Si sa benissimo che non bisogna dar da mangiare ai troll, eppure c'è sempre qualcuno che ci casca, come è successo recentemente sui commenti del blog della Società Chimica Italiana (SCI) (immagine da The Week)



Sappiamo tutti (o dovremmo sapere) che cos'è il troll: è qualcuno che usa una tattica ben precisa nel dibattito sul web: quella di intervenire in modo fortemente aggressivo per poi far finta di offendersi quando altre persone gli rispondono per le rime. Questo genera di solito una bella rissa, che è quello che il troll vuole. Il troll, come è ben noto, non ha nessuna intenzione di dialogare, solo quella di creare confusione.

Il troll compare in molti dibattiti, ma prospera in particolare nel dibattito sul clima, dove ha modo di rifulgere riciclando in continuazione le solite leggende (il clima è sempre cambiato, non c'è stato nessun riscaldamento dal 1998, I ghiacci dell'Antartide si stanno espandendo, etc....). Ne segue, tipicamente, una bella rissa che serve a far confusione e a mascherare il fatto che la questione del cambiamento climatico è importante ed è ormai bene assodata fra gli scienziati.

Qualcosa di simile è successa qualche giorno fa nei commenti di un post del blog della Società Chimica Italiana (SCI), dove si è visto arrivare niente di meno che Rinaldo Sorgenti, vicepresidente di Assocarboni, ben noto per le sue opinioni un tantino estreme sulla questione del riscaldamento globale e del ruolo del carbone nel generarlo.

In questo caso, non possiamo definire Sorgenti come un "troll", dato che non ha usato la tattica tipica del troll: quella dell'anonimato. Ma il suo intervento ha avuto tutte le caratteristiche delle tattiche dei troll: una serie di commenti aggressivi, conditi con tutte le leggende del caso. Leggetevi il dibattito (per chiamarlo cosi) per rendervene conto da voi.

Alle risposte dei commentatori, è seguito il classico atteggiamento di persona ingiustamente maltrattata. Ecco un tipico esempio in cui Sorgenti risponde al moderatore.


@ devoldev,
 

Non ho ancora il piacere di conoscerla e non scenderò al suo livello con insulti e tentativi di svilire l’altruyi pensiero. Lei sa certamente tutto ed anche quello che ancora non è stato scoperto. Beato lei.


Purtroppo, mi dispiace dover notare ancora una volta come molti scienziati sono altrettanto competenti e preparati nel loro lavoro quanto ingenui e impreparati nell'affrontare il dibattito fuori dai canoni del mondo scientifico. Il blog della SCI è un blog divulgativo ma di buon livello scientifico, anche grazie agli sforzi e alla passione di Claudio della Volpe, ricercatore presso l'università di Trento. Purtroppo, tuttavia, nè il moderatore né gli altri che sono intervenuti sono riusciti a gestire correttamente l'intervento di Sorgenti. Il risultato è stato una bella rissa verbale che non ha fatto fare una gran bella figura al blog.

Ma perché continuiamo a fare sempre gli stessi errori? Ai troll, non bisogna dar da mangiare!




Sui troll climatici, vedi anche questo articolo dal titolo esplicito "don't feed the climate troll", come pure il commento di Sylvie Coyaud sul caso specifico dell'intervento di Sorgenti sul blog della SCI:









domenica 24 agosto 2014

Il Consiglio Mondiale delle Chiese disinveste dai combustibili fossili

Da “Huffington Post”. Traduzione di MR




Il Consiglio Mondiale delle Chiese (CMC), che rappresenta oltre 500 milioni di cristiani in più di 110 paesi, ha deciso di disinvestire dai combustibili fossili, riporta The Guardian. Il Comitato Centrale del CMC, che comprende capi religiosi di tutto il mondo, ha votato per l'inclusione delle compagnie di combustibili fossili nei settori in cui il CMC non investirà per ragioni etiche, secondo una dichiarazione di 350.org, una campagna ambientale internazionale. Un rapporto del comitato di politica finanziaria del CMC dichiara semplicemente, “Il comitato ha discusso i criteri di investimento etico e ha considerato che l'elenco dei settori in cui il CMC non investe dovrebbero essere estesi per includere i combustibili fossili”. 

Il fondatore di 350.org, Bill McKibben, ha detto: “Il Consiglio Mondiale delle Chiese ci ricorda che la moralità richiede di pensare al futuro così come a noi stessi – e che non c'è minaccia più grande per il futuro che bruciare in modo incontrollato combustibili fossili”. Ha aggiunto: “Questo è un momento importante per i 590 milioni di cristiani nelle loro varie confessioni: un'enorme percentuale dell'umanità oggi dice 'fin qui e non oltre'”. 

Guillermo Kerber, il dirigente del programma Cura della Creazione e Giustizia Climatica, ha spiegato: “Le linee guida etiche generali per l'investimento includevano già la preoccupazione per un ambiente sostenibile, per le future generazioni e per l'impronta di CO2. Aggiungendo i combustibili fossili all'elenco dei settori in cui il CMC non investe serve a rafforzare l'impegno del copro governativo sul cambiamento climatico come espresso in varie sessioni del Comitato Centrale”. 

Il movimento per il disinvestimento dai combustibili fossili si sta allargando in tutto il mondo, più rapidamente di qualsiasi precedente campagna, e questa decisione del CMC potrebbe risuonare con altre istituzioni religiose. In maggio, la responsabile delle Nazioni Unite per il clima, Christiana Figueres ha esortato i capi religiosi a prendere una forte posizione sul cambiamento climatico, chiamandolo “uno dei grandi problemi umanitari del nostro tempo”. L'arcivescovo Desmond Tutu ha unito la sua voce all'appello per il disinvestimento di aprile, dicendo, “Le persone di coscienza devono spezzare i propri legami con le multinazionali che finanziano l'ingiustizia del cambiamento climatico”. 

Il CMC è un'organizzazione composta da 345 confessioni, che comprende anche la Chiesa d'Inghilterra. Non è ancora chiaro se il disinvestimento si applicherà solo al CMC o anche alle confessioni che vi aderiscono. Secondo The Guardian la Chiesa d'Inghilterra “ha detto che non poteva ancora commentare sul significato della decisione per i propri investimenti”. Il CMC segue altre importanti istituzioni religiose che hanno deciso di disinvestire dai combustibili fossili. L'Unione Teologica dei Seminari di New York City ha votato in modo unanime a giugno di smettere di investire in combustibili fossili. L'Associazione Unitaria Universalista si è unita al movimento per il disinvestimento sempre in giugno, e la Chiesa Unita di Cristo ha approvato una strategia di disinvestimento dai combustibili fossili nel luglio del 2013. “Le Scritture ci dicono che tutto il mondo è una creazione preziosa di Dio e il nostro ruolo in esso è quello di prenderci cura e di rispettare la salute del tutto”, ha detto il Presidente della Unione Teologica dei Seminari, Serene Jones, quando ha pubblicizzato la decisione. “Il cambiamento climatico pone una minaccia catastrofica e come custodi della creazione di Dio dobbiamo semplicemente agire”. 



domenica 6 luglio 2014

Clima, dollari e buon senso – prevenire il riscaldamento globale è l'opzione più economica.

Da “The Guardian”. Traduzione di MR

Le argomentazioni secondo le quali l'adattamento climatico sia più economico sono come la macedonia – limoni, banane e confrontare mele e arance. 



Prevenire il riscaldamento globale è l'opzione più economica. Foto: Christopher Furlong/Getty Images

L'IPCC ha appena pubblicato tutti e tre i rapporti inclusi nella sua Quinta Valutazione della scienza del clima. Il primo rapporto ha affrontato i cambiamenti fisici nel clima globale, il secondo ha affrontato gli impatti climatici e l'adattamento e il terzo ha riguardato la mitigazione del cambiamento climatico. Ironicamente, dopo che è stato pubblicato il secondo rapporto, molti mezzi di comunicazione hanno sostenuto che l'IPCC stava spostando la sua attenzione, apparentemente inconsapevoli che il suo rapporto sulla mitigazione era programmato per la pubblicazione solo poche settimane dopo. Altri mezzi di comunicazione hanno scorrettamente sostenuto che i rapporti del IPCC concludono che sia più economico adattarsi che evitare il cambiamento climatico. Questo errore scaturisce dal fatto che il secondo rapporto dice, circa i costi dei danni climatici,

“le stime incomplete delle perdite annuali globali per una temperatura aggiuntiva di ~2°C si collocano fra lo 0,2 e il 2% del reddito... E' molto più probabile che le perdite siano maggiori, piuttosto che minori di questa forbice... Le perdite accelerano con un maggior riscaldamento, ma sono state completate poche stime quantitative per un riscaldamento aggiuntivo di 3°C o oltre”.

Il terzo rapporto poi ha detto riguardo ai costi per evitare il riscaldamento globale,

“gli scenari di mitigazione che raggiungono concentrazioni atmosferiche di circa 450 ppm di CO2eq per il 2100 comportano perdite del consumo globale – non includendo i benefici del cambiamento climatico ridotto così come i benefici associati e gli effetti collaterali avversi della mitigazione... [che] corrispondono ad una riduzione annua di crescita del consumo da 0,04 a 0,14 (in media: 0,06) di punti percentuali sul secolo relativo alla crescita del consumo annua sul riferimento che si trova fra 1,6 e 3% all'anno”.

La sfida è che questi due numeri non sono direttamente confrontabili. Uno ha a che fare con le perdite economiche annuali globali, mentre l'altra è espressa come una crescita del consumo globale leggermente rallentata.

Riordinare i numeri con Chris Hope

Per riordinare questi numeri, ho parlato con l'economista climatico di Cambridge Chris Hope, che mi ha detto che se l'obbiettivo è immaginare la quantità economicamente ottimale di mitigazione del riscaldamento globale, l'IPCC riporta “non ci porterà lontano su questa strada”. Per fare questo confronto in modo appropriato, i benefici della riduzione dei danni del cambiamento climatico e i costi della riduzione delle emissioni di gas serra devono essere confrontati in termini di “valore attuale netto”. E' questo il tipo di stima che i Modelli di Valutazione Integrata come il PAGE di Hope erano stati approntati a fare. Secondo il modello di Hope, il picco economicamente ottimale di concentrazione di biossido di carbonio è intorno alle 500 ppm, con un picco globale di riscaldamento della superficie di circa 3°C al di sopra delle temperature preindustriali (circa 2°C più caldo di adesso).

Nel suo libro Il Casinò del Clima, l'economista di Yale William Nordhaus osserva di essere arrivato ad una conclusione simile nel suo modello di ricerca. Per limitare il riscaldamento globale a quel livello servirebbero grandi sforzi per ridurre le emissioni di gas serra, ma come ha osservato il rapporto del IPCC, ciò rallenterebbe soltanto il tasso di crescita economica globale da circa il 2,3% all'anno al 2,24% all'anno. Secondo questi modelli economici, questo tasso di crescita economica rallentato sarebbe più che compensato dai risparmi derivati dall'evitare i danni climatici al di sopra dei 3°C di riscaldamento. Anche se l'IPCC non ha fatto questo confronto, questi modelli economici risultano essere coerenti coi suoi rapporti. Come mostrato nella citazione sopra, il secondo rapporto è stato solo in grado di stimare i costi dei danni climatici per un riscaldamento globale di 2°C ed ha osservato che oltre quel punto i costi accelerano fino al punto in cui diventano molto difficili da stimare. Nordhaus ha osservato in modo analogo,

“In realtà, le stime delle funzioni di danno sono virtualmente inesistenti per aumenti di temperatore al di sopra dei 3°C”.

Insalata di frutta australiana e turca

L'autore ed analista Bjorn Lomborg del Copenhagen Consensus Center è stato la voce più importante nel dichiarare in modo non corretto che l'IPCC ha concluso che l'adattamento climatico sarebbe più economico della mitigazione. Per esempio, è stato intervistato sull'Australian di Rupert Murdoch ed è stato autore di un pezzo sul turco Today's Zaman. Entrambi i pezzi sono erronei per le stesse ragioni. Lomborg ha sostenuto,

“Se non facciamo niente, i danni causati dal cambiamento climatico costeranno meno del 2% del PIL del 2070 circa. Eppure il costo di fare qualcosa sarà probabilmente maggiore del 6% del PIL, secondo il rapporto del IPCC”. 

Ciò è paragonabile alle cifre delle perdite economiche globali annuali del secondo rapporto con le cifre del rallentamento della crescita del consumo globale nel terzo – mele e arance. Senza gli strumenti di modellazione usati da economisti come Hope e Nordhaus, queste cifre non possono essere messe in un confronto 'mela a mela' in modo appropriato. Ho discusso questo punto con Lomborg e lui era d'accordo,

“Sono d'accordo sul fatto che il modo giusto per guardare il problema climatico sia quello di operare modelli integrati e trovare dove i costi e i benefici sono uguali (così non investiamo in difetto sul clima ma neanche ci investiamo in eccesso)... Tuttavia, il Gruppo sul Clima del IPCC ha deciso attivamente nel 1998 di non fare il rapporto costi benefici del clima”.

Quindi Lomborg e Hope sono d'accordo sul fatto che l'IPCC non permette un semplice confronto fra i costi della prevenzione del riscaldamento globale  e l'adattamento. Lomborg ha usato le immagini discusse sopra per fare l'unico confronto, incoerente coi risultati provenienti dai modelli economici. Lomborg ha anche preso arbitrariamente il 2070 per fare il suo confronto economico fa i costi dell'adattamento e quelli della mitigazione. Perché il 2070? A quel punto, in uno scenario business-as-usual il pianeta non si sarà probabilmente scaldato di più di 2°C rispetto alle temperature attuali. Il problema con questo scelta arbitraria è che il mondo non finirà nel 2070, infatti, gran parte dei bambini di oggi saranno ancora vivi nel 2070. Se continuiamo su questa strada come di consueto, il riscaldamento globale continuerà ad accelerare dopo il 2070, oltre il punto in cui gli economisti non possono nemmeno stimare accuratamente i sui costi in aumento. Queste sono banane.



Cambiamenti della temperatura della superficie previsti dal AR5 del IPCC in uno scenario BAU (RCP8.5; rosso) e dallo scenario a basse emissioni (RCP2.6; blu).

Un altro problema in questa disputa è che come mostrato nella seconda citazione sopra, le stime del costo della riduzione delle emissioni di gas serra del IPCC “non includono i benefici della riduzione del cambiamento climatico così come i benefici aggiuntivi ed i diversi effetti collaterali della mitigazione”. Per esempio, l'aria e l'acqua più pulite e benefici alla salute associati che provengono dall'allontanarsi da fonti di energia ad alta intensità di carbonio e sporche risparmia dei soldi che l'IPCC non mette nel conto. Quindi i costi per evitare il riscaldamento globale è probabile che siano in realtà anche inferiori dello 0,06% stimato all'anno di rallentamento nel tasso al quale l'economia globale continua a crescere. Nel frattempo, l'IPCC ha osservato che i costi dei danni climatici per soli altri 2°C di riscaldamento “è più probabile che siano maggiori, piuttosto che minori”, delle sue stesse stime. E se non intraprendiamo passi importanti per ridurre le emissioni di gas serra, supereremo i 2°C di riscaldamento entrando in un territorio inesplorato di danno economico.

Evitare il riscaldamento globale è più economico di adattarvisi

La linea di fondo è che gli economisti non riescono nemmeno a stimare con precisione quanti danni climatici ci costerà se non riusciamo a intraprendere passi importanti per rallentare il riscaldamento globale. Dall'altra parte, intraprendere quei passi può avere un impatto trascurabile sulla crescita economica globale. Il rapporto del IPCC sostiene anche che più aspettiamo per ridurre le nostre emissioni, più diventerà costoso. Nel determinare che mitigare il riscaldamento globale è conveniente, l'IPCC ha usato gli scenari seguenti.

“Scenari in cui tutti i paesi del mondo cominciano la mitigazione immediatamente, c'è un unico prezzo globale del carbonio e tutte le tecnologie chiave sono disponibili, sono state usate come riferimento di costo-efficacia per stimare i costi macroeconomici della mitigazione”

E' importante capire che le nostre scelte non sono o di ridurre le emissioni di carbonio o di non fare niente. Le nostre opzioni sono o di ridurre le emissioni di carbonio o di continuare con le emissioni solite che causeranno un'accelerazione del cambiamento climatico e dei costi del danno oltre alla nostra possibilità di stimarli con precisioni. Da un punto di vista economico e da una prospettiva di gestione del rischio, questo dovrebbe essere un gioco da ragazzi. Come lo espone l'economista Paul Krugman,

“La minaccia climatica è quindi risolta? Be', dovrebbe. La scienza è solida; la tecnologia c'è; l'economia sembra di gran lunga più favorevole di quanto ci si aspettasse. Tutto ciò che sta in mezzo al salvataggio del pianeta è una combinazione di ignoranza, pregiudizio e interessi personali. Cosa potrebbe andare storto?”

domenica 1 giugno 2014

Maledetti allarmisti!

DaClimateChangeNationalForum”. Traduzione di MR

Di Kerry Emanuel 

L'Associazione Americana per il Progresso della Scienza (American Association for the Advancement of Science – AAA) ha appena pubblicato una dichiarazione sul rischio climatico della quale sono co-autore. Questa dichiarazione ha diversi scopi, uno dei quali è di evidenziare l'importanza del rischio sociale nell'estremo basso della probabilità di distribuzione del cambiamento climatico. Vorrei sfruttare questa occasione per spiegare perché pensiamo che sia necessario parlare di "rischio di coda" e i blocchi che gli scienziati affrontano nel farlo.

Il rischio di coda è un concetto col quale tutti hanno familiarità in qualche modo. Per fare un esempio piuttosto ovvio, supponiamo che una bambina di 8 anni si trovi su una strada affollata che deve attraversare per prendere il suo scuolabus. Insicura sul da farsi, chiede ad un adulto che si trova lì un consiglio. L'adulto risponde che, molto probabilmente, riuscirà ad attraversare la strada indenne.


Immagine di Will Mego via Flickr (link).

Qualsiasi altro adulto ragionevole che ascoltasse un tale consiglio lo considererebbe radicalmente incompleto. Di sicuro, nessuno incoraggerebbe la bambina ad attraversare la strada se ci fosse anche solo l'1% di possibilità che possa essere investita. La conseguenza più probabile è, in questo esempio, ampiamente irrilevante. Ma in questo caso è un inconveniente molto piccolo accompagnare la bambina fino ad un semaforo.

Nel valutare il rischio, bisogna stimare la distribuzione di probabilità dell'evento (l'auto che si scontra con la bambina), avvolgetela con una funzione di risultato (la bambina probabilmente muore se investita) e tenete conto del costo di mitigazione (5 minuti per camminare fino ad un semaforo). Nel regno del cambiamento climatico, gli scienziati del clima sono quelli che hanno l'incarico di stimare il rischio dell'evento, mentre le altre discipline (per esempio economia, ingegneria) devono essere portate ad esercitarsi nella stima della conseguenza e dei costi della mitigazione del rischio o quelli di adattamento ad esso.

Nel valutare la componente del rischio dell'evento del cambiamento climatico, abbiamo, direi, un forte obbligo professionale di stimare e descrivere l'intera probabilità di distribuzione al meglio delle nostre capacità. Ciò significa parlare non solo della distribuzione media più probabile, ma anche della probabilità più bassa di rischio di coda di fascia alta, perché la funzione di conseguenza lì è molto alta. Per esempio, ecco una stima della probabilità di distribuzione della temperatura media globale risultante da un raddoppio del CO2 in relazione ai suoi valori preindustriali, costituito da 100.000 simulazioni utilizzando un modello integrato di valutazione. (Usiamo questo come illustrazione ; non dev'essere visto come la stima più aggiornata delle probabilità di aumento della temperatura globale).


Figura da Chris Hope, Università di Cambridge.

Più o meno in accordo col più recente rapporto del IPCC, il “mezzo più probabile della distribuzione va da circa 1,5°C a circa 4,5°C, mentre c'è una probabilità di circa il 5% che gli aumenti di temperatura siano meno di circa 1,8°C e di più di circa 4.6°C. Ma, dato che le distribuzioni corrispondenti di piogge, tempeste, aumento del livello del mare, ecc., il 5% di fascia alta potrebbe essere così consequenziale, in termini di risultato, da essere a ragione definita catastrofica. E' vitalmente importante che trasmettiamo questo rischio di coda, così come le conseguenze più probabili. 

Ma ci sono pregiudizi culturali forti contro qualsiasi discussione di questo tipo di rischio di coda, almeno nel regno della scienza del clima. La paura legittima che il pubblico interpreti  qualsiasi discussione sul rischio di coda come un tentativo deliberato di spaventare le persone e spingerle ad agire, o di ottenere qualche altro obbiettivo ulteriore o nefasto, è sufficiente per far sì che quasi tutti gli scienziati si sottraggano a qualsiasi discorso sul rischio di coda e rimangano attaccati al terreno sicuro della distribuzione della probabilità media. L'accusa di “allarmismo” è piuttosto efficace nel rendere gli scienziati timorosi nel trasmettere il rischio di coda e parlare della coda della distribuzione è una ricetta sicura per essere etichettati in tal modo.

Prevedibilmente, la dichiarazione della AAAS ha evocato proprio tali risposte. Per esempio, nel suo blog sul clima (link), Judith Curry dichiara che “ …questi particolari esperti sembrano più allarmati degli esperti autori del rapporto del IPCC (be', del WG1 comunque), citando molti eventi di probabilità molto bassa come qualcosa di cui essere allarmati... Quando gli scienziati diventano allarmisti, non credo che questo aiuti l'opinione pubblica”. E questo, di Roger Pielke (Senior): “Questo rapporto della AAAS è imbarazzante per la comunità scientifica”.

Judy Curry ha ragione nel dire che il Gruppo di Lavoro 1 del IPCC (WG1) evita quasi del tutto il problema del rischio di coda (che è uno dei motivi per i quali l'AAAS si è sentita costretta a farlo) e il dottor Pielke e la Curry parlano per molti scienziati esprimendo la paura dell'imbarazzo nella discussione di eventi di bassa probabilità. Dopotutto, per loro stessa definizione, tali rischi è improbabile che siano un risultato. Se vogliamo essere ammirati dai nostri discendenti, la migliore strategia è quella di attenersi al picco della distribuzione della probabilità e, con la probabilità alta, possiamo quindi ridicolizzare qegli “allarmisti” che hanno avvertito riguardo ai rischi di coda, proprio come l'adulto che ha consigliato alla bambina di attraversare la strada, con tutta probabilità sarà in grado dopo il fatto di castigare quello che ha consigliato in modo contrario. 

Eppure, il detto che dice di dire “la verità, tutta la verità e nient'altro che la verità” non si applica agli scienziati del clima? Se omettiamo la discussione sul rischio di coda, stiamo davvero dicendo tutta la verità?

Finora è stato difficile quantificare il rischio di coda oltre quello implicato da figure come quella sopra, che è il risultato di un modello integrato di valutazione fatto funzionare molte volte con molte combinazioni di parametri variati attraverso gamme plausibili. Abbiamo anche provato ad usare dati paleoclimatici e la risposta osservata del clima a grandi eruzioni vulcaniche per ridurre la distribuzione della probabilità. Un jolly nella valutazione del rischio climatico è il problema del cambiamento climatico improvviso ed irreversibile, le cui prove nelle carote di ghiaccio e nei sedimenti delle profondità marine suggeriscono che siano caratteristiche delle variazioni climatiche passate. Dobbiamo anche essere consapevoli che il grafico sopra e molti studi di valutazione del rischio usano il canonico raddoppio del CO2 come riferimento, mentre siamo attualmente avviati a triplicare il contenuto di CO2 per la fine di questo secolo. (Come misura approssimativa del cambiamento globale della temperatura in caso di triplicazione del CO2, moltiplicate i valori sull'asse orizzontale della figura per 1,5). A meno che non troviamo un modo per estrarre carbonio dall'atmosfera, i rischi climatici diventerebbero alti in modo allarmante (e non solo nelle code) nel 22° secolo, anche se fermassimo le emissioni per la fine di questo secolo. 

Non abbiamo un obbligo professionale di parlare di tutta la distribuzione della probabilità, date le dure conseguenze alle code della distribuzione? Io credo di sì, nonostante il fatto che ci esponiamo all'accusa di allarmismo e al conseguente rischio di ridurre la nostra credibilità. Si potrebbe sostenere che dovremmo stare zitti sul rischio di coda e conservare la nostra credibilità come garanzia contro la possibilità che un giorno la capacità di parlare con credibilità sarà assolutamente cruciale per evitare il disastro. Cosa ne pensate voi lettori?

- Altro su: http://climatechangenationalforum.org/tail-risk-vs-alarmism/#sthash.nHRRYjwB.dpuf 

domenica 6 aprile 2014

Tesoro, ho mitigato il cambiamento climatico

Da “Skeptical Science”. Traduzione di MR

Di Ari Jokimäki

Le azioni della specie umana rilasciano gas serra nell'atmosfera. Le concentrazioni di gas serra sono aumentate causando il riscaldamento della Terra, che è stato evidente durante gli ultimi decenni. Questo riscaldamento globale procede così rapidamente che causa problemi sia alla biosfera si alla specie umana. Queste preoccupazioni sono state ampiamente notate e l'atteggiamento generale è che dovremo fare qualcosa per questo problema il prima possibile. Ci sono già alcuni tentativi limitati di fare qualcosa. Anche se le decisioni di politica internazionale non sono state tempestive, c'è stata qualche azione da parte di diverse nazioni, multinazionali, gruppi di cittadini e singoli cittadini.

Il problema è in gran parte nella produzione di energia, Perché per quella al momento usiamo principalmente combustibili fossili, che rilasciano molti gas serra in atmosfera quando vengono bruciati. Stiamo pertanto cercando di sostituire i combustibili fossili con qualcosa che non rilasci così tanti gas serra nell'atmosfera. Esempi di tali metodi di produzione di energia sono l'energia eolica e quella solare. Queste due sono chiaramente delle buone opzioni. Tuttavia, alcune delle opzioni non sembrano essere così buone.


I problemi del gas naturale con perdite ed aerosol

Ci sono alcuni combustibili fossili che rilasciano diverse quantità di gas serra nell'atmosfera. Uno di questi combustibili fossili è il gas naturale, che rilascia chiaramente meno gas serra quando viene bruciato rispetto al carbone e al petrolio. Questa è una delle ragioni per cui sono stati fatti molti sforzi per aumentare l'uso del gas naturale. Sfortunatamente, considerare soltanto la quantità di gas serra rilasciati quando il gas viene bruciato è una visione piuttosto semplicistica. Ultimamente è stato riconosciuto che la produzione di gas naturale rilascia metano nell'atmosfera attraverso le perdite dai siti di raccolta e dalle condutture di trasporto. Questo potrebbe negare i benefici in termini di gas serra ottenuti durante la combustione. Se solo una piccola percentuale di gas naturale viene perso sotto forma di metano nell'atmosfera, allora l'uso del gas naturale non ha affatto benefici in termini di gas serra in confronto al carbone e al petrolio. Alcuni studi hanno riportato perdite molto superiori.  

Da una prospettiva climatica, c'è anche un altro problema nel sostituire il carbone col gas naturale. Bruciando gas naturale si rilasciano meno aerosol nell'atmosfera rispetto al carbone. Gli aerosol hanno un effetto raffreddante sul clima, quindi riducendo le emissioni di aerosol causa un effetto riscaldante. Pertanto, sostituire il carbone col gas naturale ha un effetto riscaldante aggiuntivo (Hayhoeet al. 2002). Questo è un effetto a breve termine, comunque, ma l'effetto ha una tempistica per cui avviene proprio quando pensavamo che avremmo mitigato il riscaldamento globale sostituendo il carbone col gas naturale. Tuttavia, dobbiamo ricordare che gli aerosol hanno effetti pericolosi sulla salute umana, quindi ridurre le emissioni di aerosol potrebbe avere qualche beneficio sulla salute. 

Problemi di uso del territorio della bioenergia

Lo schema di base della bioenergia è imperniata sull'idea che coltiviamo piante e quindi le bruciamo per ottenere energia. La combustione rilascia gas serra, in special modo biossido di carbonio, ma coltiviamo il lotto successivo di piante che prendono biossido di carbonio dall'atmosfera mentre crescono. La quantità di biossido di carbonio preso dall'atmosfera è la stessa che viene rilasciata quando bruciamo le piante. Quindi, idealmente, questa è un'energia a zero emissioni. L'enfasi qui è fortemente sulla parola “idealmente”, perché sappiamo che questa non è davvero un'energia netta pari a zero (anche se qualcuno, persino qualche ricercatore, continua ancora a sostenerlo). Primo, il trasporto della biomassa e la produzione di bioenergia producono un po' di emissioni di gas serra che già la rendono un'energia a emissione maggiore di zero. 

Secondo, durante gli ultimi anni, la ricerca su questo tema ha scoperto che l'uso di territorio collegato alla produzione di bioenergia produce enormi emissioni di gas serra quando le foreste vengono in qualche modo incluse nello scenario di produzione di bioenergia. Le emissioni provenienti dall'uso del terreno sono grandi abbastanza da produrre inizialmente emissioni simili o addirittura maggiori dei combustibili fossili. Le emissioni diventano minori col tempo, ma per molti scenari di produzione di bioenergia i tagli delle emissioni non sono molto grandi, anche dopo un centinaio di anni. Per alcuni scenari, le emissioni di gas serra della bioenergia sono maggiori di quelle dei combustibili fossili, anche dopo cento anni. Ci sono alcuni scenari in cui la bioenergia può essere una buona opzione, però. Un tale scenario è quello di coltivare piante per bioenergia in terreni agricoli degradati. 

Tuttavia, al posto di concentrarsi sugli scenari bioenergetici buoni, tagliamo foreste fuori mano  pluviali per fa spazio alle piantagioni di palma da olio. Bruciamo persino le foreste fuori mano (Suyantoet al. 2004). Tagliamo le foreste per sostituirle con campi di mais per produrre biocombustibili. In casi del genere il carbonio immagazzinato, che la foresta ha sequestrato nel suolo, viene rilasciato nell'atmosfera. Tutto questo risulta in enormi emissioni di biossido di carbonio. 

Scenario peggiore

E se usassimo molto gas naturale e bioenergia collegata alle foreste per sostituire carbone e petrolio e se le emissioni di gas serra da gas naturale e bioenergia sono grandi come abbiamo detto sopra? In un caso del genere avremmo sostituito carbone e petrolio con fonti di energia che hanno emissioni di gas serra maggiori di carbone e petrolio, almeno in una finestra di 100 anni. Ma questa non è ancora tutta la storia. Abbiamo sostituito carbone e petrolio con qualcosa che pensavamo avesse meno emissioni, quindi non abbiamo fatto molto altro per ridurre quelle emissioni. Questo significa che non solo abbiamo aumentato le nostre emissioni, abbiamo anche perso riduzioni potenziali di emissioni – situazione il doppio peggiore di quella che pensavamo di avere. La situazione nella vite reale potrebbe non essere disastrosa come descritto qui, ma potrebbe anche esserlo. Dovremmo rischiare?

Riferimenti

Katharine Hayhoe, Haroon S. Kheshgi, Atul K. Jain, Donald J. Wuebbles, 2002, Sostituzione del carbone col gas naturale: effetti climatici delle emissioni del settore degli impianti, Cambiamento Climatico, luglio 2002, Volume 54, numeri 1-2, pp 107-139, DOI: 10.1023/A:1015737505552.[abstract, testo completo
Suyanto, S., G. Applegate, R. P. Permana, N. Khususiyah e I. Kurniawan. 2004. Il ruolo del fuoco nel cambiamento d'uso del terreno e dei mezzi di sussistenza a Riau-Sumatra. Ecologia e società 9(1): 15..[abstract e testo completo



domenica 30 marzo 2014

Super El Niño in arrivo? Possibili aumenti record della temperatura globale.

Da “Climate Progress”. Traduzione di MR

Di Joe Romm


Grafico delle temperature globali dal 1950, che mostra anche la fase del ciclo El Niño- La Niña. Via NASA.


Visualizzazione de El Niño (via NOAA)
I segnali indicano sempre di più alla formazione di un El Niño nei prossimi mesi, probabilmente uno molto forte. Se combinato con una tendenza a lungo termine di riscaldamento globale, un forte El Niño significherebbe che il 2015 è molto probabile che diventi l'anno più caldo mai registrato finora. Un El Niño è “caratterizzato da temperature oceaniche insolitamente alte nel Pacifico Equatoriale”, come spiega il NOAA. Questo contrasta con le temperature insolitamente basse nel Pacifico Equatoriale durante La Niña. Entrambi sono associati a meteo estremo in tutto il globo. Ma come mostra il grafico della NASA sopra, quelli de El Niño sono generalmente gli anni più caldi registrati, visto che il riscaldamento regionale si aggiunge alla sottostante tendenza del  riscaldamento globale. Gli anni de La Niña tendono ad essere al di sotto della linea di tendenza del riscaldamento globale.

Siccome nel 1998 c'è stato un “super El Niño” inusualmente forte, e siccome non abbiamo avuto un El Niño dal 2010, può sembrare che il riscaldamento globale abbia rallentato – se selezioniamo un anno di avvio relativamente recente. Ma di fatto diversi studi recenti hanno confermato che il riscaldamento planetario continua a ritmo sostenuto ovunque si guardi. Ricordiamo che nel 2010, con un El Niño moderato, è l'anno più caldo mai registrato finora. E il 2010 ha visto segnare il record sbalorditivo di temperature massime in ben 20 paesi, compresa “la temperatura più alta misurata in modo affidabile che l'Asia abbia mai registrato, i notevoli 53,5°C in Pakistan nel maggio 2010”. Il meteorologo dottor Jeff Masters ha detto che il 2010 è stato “l'anno più straordinario del pianeta per il meteo estremo da quando vengono registrati dati affidabili dell'alta atmosfera nei tardi anni 40”.

Dato che il “Tasso di riscaldamento del riscaldamento globale è di 400.000 bombe di Hiroshima al giorno”, il pianeta è mezzo miliardo di bombe di Hiroshima più caldo di quanto non fosse nel 2010. Quindi anche un El Niño moderato causerà temperature record e estremi meteo. Ma uno forte, per non parlare di un super El Niño, dovrebbe stracciare ogni record. La commissione ufficiale peruviana su El Niño, la scorsa settimana ha detto che si aspettano che un El Niño cominci per aprile. Il Perù traccia da vicino il fenomeno perché “El Nino minaccia di colpire l'industria della farina di pesce spaventando i banchi di acciughe di acqua fredda”. Per essere chiari, un El Niño non è una cosa sicura a questo punto. Alcuni previsori danno circa il 60% delle possibilità, ma uno studio recente da il 75% delle possibilità. Andrew Freedman di Mashable (ex di Climate Central) riporta che “alcuni scienziati pensano che questo evento possa rivaleggiare con il record dell'evento de  El Niño del 1997-1998”. Cita il professore di meteorologia Paul Roundy:

Roundy ha detto che le possibilità di un evento de El Niño insolitamente forte “sono molto più alte della media, è difficile dare una qualche probabilità di questo... ho suggerito circa un 80%”

“Le condizioni dell'Oceano Pacifico ora favorevoli ad un grande evento come lo erano nel 1997. Questa non è una garanzia importante che un grande evento si sviluppi, ma chiaramente aumenta la probabilità che un grande evento avvenga”, dice Roundy.

L'Oscillazione Meridionale de El Niño (El Niño Southern Oscillation - ENSO) non cambia la tendenza generale al riscaldamento, ma è una modulazione a breve termine; quello che la NASA definisce come il più grande contributo alla “variabilità dinamica naturale” del sistema climatico. El Niño e La Niña sono tipicamente definite come anomalie sostenute della temperatura di superficie del mare (positive o negative rispettivamente) maggiori di 0,5°C lungo l'Oceano Pacifico centrale tropicale. Potete leggere i fondamentali su ENSO qui. Un indicatore chiave de El Niño è il rapido aumento delle temperature di superficie dell'oceano nel Pacifico centrale e orientale – proprio ciò che il NOAA ha riportato lunedì:


Dalla fine di gennaio le anomalie di temperatura sono fortemente aumentate

Il meteorologo Michael Ventrice ha fatto un'analisi dettagliata alla fine di febbraio qui sul perché un tale riscaldamento è significativo. Per il drogati de El Niño, il Centro Nazionale per le Previsioni Ambientali (National Centers for Environmental Prediction - NCEP) del NOAA pubblica un rapporto settimanale su ENSO tutti i lunedì qui. E i super drogati possono andare alla pagina ENSO dell'Ufficio di Meteorologia del governo australiano (aggiornato ogni secondo giovedì), che mette in grafico un altro indicatore chiave de El Niño, l'Indice dell'Oscillazione Meridionale (Southern Oscillation Index - SOI). Per il SOI, “valori sostenuti negativi al di sotto di -8 possono indicare un evento El Niño”. L'ultimo valore SOI di 30 giorni (fino al 23 marzo) è di -12,6. La previsione media d'insieme del Sistema di Previsione Climatica (Climate Forecast System - CFS) del NCEP per un El Niño all'inizio dell'estate sta alla fine diventando molto forte: 


Quando El Niño si forma e poi raggiunge il picco è cruciale per sapere se sarà il 2014 o il 2015 (o entrambi!) l'anno più caldo mai registrato. Uno studio della NASA del 2010 ha scoperto che “la correlazione del periodo di 12 mesi della temperatura globale e l'indice de El Niño a 3,4 è massimo con la temperatura globale che ritarda l'indice de El Niño di 4 mesi”. Se avremo un El Niño, e sembra che sia in  tutto come quello del 1997-1998, allora il 2015 in particolare dovrebbe essere l'anno più caldo mai registrato finora. Restate sintonizzati. 

venerdì 28 marzo 2014

Un corollario della legge di Godwin: la “legge delle intenzioni di genocidio”

Da “The frog that jumped out”. Traduzione di MR



Di Ugo Bardi

(immagine da Corellianrun) 

Conoscerete sicuramente la legge di Godwin (conosciuta anche come “reductio ad Hitlerium”), quella che dice che, passato abbastanza tempo, ogni discussione su Internet alla fine porterà qualcuno ad essere paragonato ad Hitler. Questa legge sembra essere forte quasi come i principi della termodinamica e, di recente, l'abbiamo vista applicare al presidente russo - Vladimir Putin – paragonato ad Hitler in un comunicato stampa del segretario di stato americano, Hillary Clinton.

Ma la legge di Godwin sembra avere molte varianti, per esempio la “variante razzista”. Qui vorrei proporre un'altra variante o corollario, una che non nomina necessariamente Hitler o il termine “fascismo”. E la “legge delle intenzioni di genocidio”, che può anche essere chiamata “reductio ad exterminium”. Può essere descritta come segue:

In ogni discussione sulle politiche ambientali prima o poi qualcuno accuserà qualcun altro di intenzioni di genocidio, cioè di pianificare lo sterminio di gran parte della razza umana

Questo sembra si applichi particolarmente quando la politica ambientale discussa ha a che fare con la popolazione. In questa forma, uno dei primi esempi risale alla pubblicazione de “I Limiti dello Sviluppo” nel 1972. Gli sponsor dello studio, il Club di Roma, in seguito sono stati accusati di essere un'organizzazione malvagia dedita allo sterminio di gran parte della popolazione mondiale. E' stato persino accusato di aver creato il virus dell'AIDS proprio a questo scopo. Manco a dirlo, “I Limiti dello Sviluppo” o i membri del Club di Roma non hanno mai raccomandato – o nemmeno lontanamente concepito – niente di simile. Ma la leggenda rimane diffusa come potete vedere digitando per esempio “club di roma” insieme a “sterminio” o “depopolazione” (l'autore intende in inglese, ndt.). Vedete anche un mio post dal titolo “Come sono stati demonizzati I Limiti dello Sviluppo”.

La legge di reductio ad exterminium non si applica solo alla popolazione. Esce fuori più o meno in ogni discussione che coinvolga le politiche ambientali, in particolare quelle collegate al cambiamento climatico. In questo caso, ogno azione progettata per ridurre il danno coinvolto col riscaldamento globale potrebbe essere definito come mirato, in realtà, allo sterminio di gran parte della razza umana. Un recente esempio coinvolge un saggio di Lawrence Torcello, in cui l'autore ha espresso l'opinione secondo la quale:

Abbiamo buone ragioni per considerare il finanziamento di campagne di negazionismo climatico come criminalmente e moralmente colpevoli.

Notate che Torcello ha detto che ciò che andrebbe criminalizzato è solo il finanziamento del negazionismo climatico da parte di coloro che hanno “un interesse finanziario o politico per l'inazione”. Non ha mai detto questo delle persone che esprimono le loro opinioni su questa materia. Ma la “legge delle intenzioni di genocidio” si è immediatamente attivata. Per un rapporto sulla campagna di odio che si è scatenata contro Lawrence Torcello, vedete questo articolo di Graham Redfearn. Ecco un paio di esempi presi dal Web:

Così, cosa accade quando scopriamo che non c'è abbastanza spazio in carcere da nessuna parte per rinchiudere i 2/3 dell'America colpevoli di Blasfemia Climatica? Immagino che saranno necessarie delle esecuzioni, il che quadra con l'intera Agenda 21, una filosofia di ambientalismo come religione proprio bella, visto che questa gente crede che almeno l'80% della popolazione del pianeta debba essere eliminata perché le cose siano sostenibili (link)

e

Qual è l'estensione logica del carcere? Portata al suo estremo, la filosofia di Torcello porta all'esecuzione. Potreste pensare che sia folle, ma sbagliereste. E' così che comincia il fascismo. La filosofia del liberismo evoluto evoluta porta sempre al fascismo. Come si dice, la strada per l'inferno è lastricata di buoni propositi (link

Queste leggi, la legge di Godwin o la reductio ad exterminium, sembrano quasi divertenti, ma ciò che vediamo è la degenerazione totale del dibattito: una vera “reductio ad vituperium”. Saremo mai in grado di mettere in piedi una discussione razionale su un qualsiasi tema importante? Probabilmente no e questa è la vera tragedia in un momento in cui abbiamo un disperato bisogno di trovare un consenso su cosa fare per evitare vari disastri imminenti, compreso il cambiamento climatico.






venerdì 14 marzo 2014

Picco del suolo: la civiltà industriale è sul punto di mangiare sé stessa

Da “The Guardian”. Traduzione di MR

Una nuova ricerca su terra, petrolio, api e cambiamento climatico indica una crisi alimentare globale imminente, se non si intraprende un'azione urgente


Il vento causa erosione del suolo nei campi coltivati. Suffolk, 18 aprile 2013. Foto: Alamy


Un nuovo rapporto dice che il mondo avrà bisogno di più che raddoppiare la produzione di cibo nei prossimi 40 anni per dar da mangiare ad una popolazione globale in aumento. Ma mentre le necessità alimentari sono in rapida ascesa, la capacità del pianeta di produrre cibo si confronta con limiti sempre maggiori provenienti da crisi sovrapposte che, se lasciate senza controllo, potrebbero portare miliardi di persone alla fame. L'ONU prevede che la popolazione globale crescerà dagli attuali 7 miliardi a 9,3 miliardi per metà secolo. Secondo il rapporto pubblicato la scorsa settimana dal World Resources Institute (WRI), “le calorie alimentari disponibili in tutto il mondo dovranno aumentare di circa il 60% dai livelli del 2006” per assicurare una dieta adeguata per questa popolazione più grande. Ai tassi attuali di perdita e spreco di cibo, per il 2050 il divario fra il fabbisogno della dieta quotidiana e il cibo disponibile si avvicinerebbe a “più di 900 calorie (kcal) per persona al giorno”. Il rapporto identifica una rete complessa e interconnessa di fattori ambientali alla base di questa sfida – molti dei quali generati dall'agricoltura industriale stessa. Circa il 24% delle emissioni di gas serra provengono dall'agricoltura, comprendendo il metano dal bestiame, ossido di azoto dai fertilizzanti, biossido di carbonio dai macchinari in loco, dalla produzione di fertilizzanti e dal cambiamento d'uso della terra.

L'agricoltura industriale, constata il rapporto, da un grande contributo al cambiamento climatico che, a sua volta, innesca “ondate di calore e schemi di alluvioni e precipitazioni” più intensi, con “conseguenze avverse per il rendimento globale delle colture”. Infatti, l'agricoltura globale fa un uso molto intensivo dell'acqua, utilizzando il 70% di tutta l'acqua dolce. I nutrienti dilavati dai campi agricoli possono creare “zone morte” e “degradare le acqua costiere in tutto il mondo” e, mentre il cambiamento climatico contribuisce ad un maggiore stress idrico nelle regioni agricole, la produzione di cibo ne soffrirà ulteriormente.

Altri fattori collegati entreranno a loro volta in gioco, avverte il rapporto: la deforestazione causata da siccità e riscaldamento regionali, l'effetto dell'aumento dei livelli del mare nella produttività agricole delle regioni costiere e l'aumento di domanda d'acqua da parte di una popolazione più ampia. Tuttavia il rapporto evidenzia che un problema fondamentale è l'impatto delle attività umane sulla terra stessa, stimando che:

"... il degrado del suolo colpisce circa il 20% della aree coltivate del mondo”. 

Durante gli ultimi 40 anni, circa 2 miliardi di ettari di suolo – equivalenti al 15% dell'area della terraferma del pianeta (un'area più grande degli Stati uniti e del Messico messi insieme) – hanno subito un degrado da parte delle attività umane e circa il 30% delle terre coltivate sono diventate improduttive. Ma ci vuole in media un secolo intero solo per generare un solo millimetro di suolo perso per l'erosione. Il suolo è pertanto, effettivamente, una risorsa non rinnovabile ma rapidamente esauribile. Stiamo per esaurire il tempo. Entro soli 12 anni, dice il rapporto, le stime prudenti suggeriscono che il forte stress idrico affliggerà tutte le regioni-paniere in Nord e Sud America, Asia occidentale e orientale, Europa centrale e Russia, così come il Medio Oriente, e il sud e il sud-est asiatico. Sfortunatamente, però, il rapporto tralascia un altro fattore critico – il collegamento inestricabile fra petrolio e cibo. Durante l'ultimo decennio, i prezzi del cibo e del combustibile sono stati fortemente correlati. Non è un caso.

La scorsa settimana, un nuovo rapporto della Banca Mondiale che esamina cinque diversi beni alimentari – mais, grano, riso, soia e olio di palma – ha confermato che i prezzi del petrolio sono i più grandi contributori all'amento dei prezzi del cibo. Il rapporto, basato su un algoritmo progettato per determinare l'impatto di ogni dato fattore attraverso l'analisi di regressione, ha concluso che i prezzi del petrolio sono stati persino più significativi del rapporto fra riserve alimentari mondiali e livelli di consumo, o della speculazione sui beni. La Banca raccomanda così di controllare i movimenti del prezzo del petrolio come una chiave per moderare l'inflazione del prezzo del cibo. Uno studio dell'Università del Michigan evidenzia che ogni grande punto del sistema alimentare industriale – fertilizzanti chimici, pesticidi, macchinari agricoli, trasformazione degli alimenti, imballaggio e trasporto – dipende da grandi input di petrolio e gas. Infatti, il 19% dei combustibili fossili che sostengono l''economia americana vanno nel sistema alimentare, secondo solo alle auto. Nel 1940, per ogni caloria di energia da combustibili fossili usata, venivano prodotte 2,3 calorie alimentari. Ora, la situazione si è rovesciata: servono 10 calorie di energia da combustibili fossili per produrre una sola caloria di energia alimentare. In quando scrittore sui temi del cibo e attivista, Michael Pollan ha sottolineato sul New York Times:

“Mettiamola in un altro modo, quando mangiamo cibo proveniente dal sistema industriale alimentare, mangiamo petrolio e sputiamo gas serra”. 

Ma gli alti prezzi del petrolio sono qui per restarci – e secondo una valutazione del Ministero della Difesa di quest'anno, potrebbero salire a 500 dollari al barile nei prossimi 30 anni. Tutti questi punti che stanno rapidamente convergendo, fra un sistema alimentare industriale sempre più autolesionista e una popolazione mondiale inesorabilmente in espansione. Ma il punto di convergenza potrebbe arrivare molto prima a causa del jolly rappresentato dal catastrofico declino delle api. Durante gli ultimi 10 anni, gli apicoltori americani ed europei hanno riportate perdite annuali di sciami del 30% o maggiori. Lo scorso inverno, tuttavia, ha visto molti apicoltori americani sperimentare perdite dal 40 al 50% in più – con alcuni che hanno riportato perdite fino al 80-90%. Dato che un terzo del cibo mangiato nel mondo dipende dagli impollinatori, in particolare dalle api, l'impatto sull'agricoltura globale potrebbe essere catastrofico. Alcuni studi hanno dato la colpa a fattori interni ai metodi industriali – pesticidi, acari parassiti, malattie, nutrizione, agricoltura intensiva e sviluppo urbano.

Ma le prove che indicano specificatamente i pesticidi ampiamente usati sono da tempo schiaccianti. L'Autorità per la Sicurezza Alimentare Europea (EFSA), per esempio, ha evidenziato il ruolo dei neonicotinoidicon gran dispiacere del governo britannico – giustificando la parziale proibizione della UE di tre pesticidi. Ora, nel suo ultimo avvertimento scientifico messo fuori la settimana scorsa, la EFSA evidenzia come un altro pesticida, il fipronil, ponga un “rischio alto” per le api. Lo studio ha anche osservato grandi vuoti di informazione negli studi scientifici che impediscono una valutazione complessiva dei rischi per gli impollinatori. In breve, il dilemma globale del cibo ha di fronte una tempesta perfetta di crisi intimamente collegate che ci stanno già colpendo adesso e peggioreranno durante i prossimi anni senza un'azione urgente. Non è che ci manchino le risposte. Lo scorso anno, la Commissione per l'Agricoltura Sostenibile e il Cambiamento Climatico guidata dall'ex scienziato-capo del governo, professor Sir John Beddington – che aveva precedentemente avvisato riguardo ad una tempesta perfetta di carenza di cibo, acqua ed energia entro 17 anni – ha esposto sette raccomandazioni concrete basate su prove per generare uno spostamento verso un'agricoltura più sostenibile. Finora, tuttavia, i governi hanno in gran parte ignorato tali avvertimenti anche se sono emerse prove secondo le quali la linea temporale di Beddington è troppo ottimistica. Un recente studio condotto dall'Università di Leeds ha scoperto che le gravi siccità alimentate dal clima in Asia – specialmente in Cina, India, Pakistan e Turchia – entro i prossimi 10 anni minerebbero drammaticamente la produzione di grano e mais. Se teniamo conto in questo quadro di erosione del suolo, degrado del terreno, prezzi del petrolio, collasso delle colonie di api e crescita della popolazione, le implicazioni sono dure: la civiltà industriale è sul punto di mangiare sé stessa – se non cambiamo direzione, questo decennio passerà alla storia come l'inizio dell'apocalisse alimentare globale.