venerdì 30 aprile 2021

La bellezza salverà il mondo

 

Di Bruno Sebastiani

La frase di Dostoevskij “La bellezza salverà il mondo” (L’Idiota, parte III, capitolo V) è stata interpretata in un’infinità di modi e ha fornito spunto per un gran numero di dibattiti.

Diego Fusaro, nel corso di una conferenza tenutasi a San Pellegrino Terme nel 2015 (ora presente su Youtube), ha dissertato egregiamente su questa pluralità di impieghi che ne è stata fatta.

Io qui vorrei fornire la mia interpretazione personale, non necessariamente coincidente con quella del grande romanziere russo, sempre che Dostoevskij ne abbia avuta una e non abbia posto la locuzione in bocca ai suoi personaggi unicamente come “frase a effetto” (nel corso della narrazione l’argomento non viene approfondito).

In un recente post su Facebook ho scritto: “È tempo di utilizzare l’arte per divulgare la consapevolezza della nocività del genere umano per la Terra. Le idee faticano a farsi strada, e allora proviamo a dipingere, cantare, fotografare, declamare, scolpire, rappresentare in ogni modo questa nostra negatività per il pianeta, ciascuno con le proprie abilità.

Ecco questa per me è la “bellezza” che può, anzi deve, tentare di frenare la nostra folle corsa verso il baratro. Chiamiamola “bellezza”, “estetica” o “arte”, qualunque sia il suo nome fa riferimento a categorie del pensiero distinte e distanti da “ragione”, “logica” e “scienza”. E se queste ultime sono indubitabilmente le responsabili dell’estremo degrado ambientale in cui ci troviamo, perché non utilizzare nella nostra azione di contrasto le facoltà della mente non coinvolte nell’attuale ecocidio, quelle che nel corso della storia hanno invano tentato di arginare la crescente marea scientista?

Queste facoltà si esprimono con il linguaggio dell’arte: pittori e scultori hanno sempre tratto ispirazione dal mondo della natura, poeti e musicisti si sono sempre rivolti a quella “categoria dello spirito” che si chiama “sentimento”.

Nella mia raffigurazione della mente umana il sentimento non è altro che l’istinto sublimato dalla ragione, laddove per istinto intendo tutto ciò che ci deriva direttamente dalla natura, senza alcuna intermediazione di tipo “culturale” o “razionale”.

La ragione, sempre secondo la teoria che sostengo, è invece quel “surplus” di intelletto procuratoci da occasionali alterazioni geniche verificatesi nel corso dell’evoluzione, “surplus” da noi utilizzato per dar vita al mondo “artificiale” giustapposto a quello “naturale” (come la neocorteccia è sovrapposta al cervello limbico e a quello rettiliano …).

Se la ragione ha causato i guai che ben conosciamo, dalla sovrappopolazione all’esaurimento delle risorse (ecc. ecc.), è purtuttavia vero che solo la ragione può tentare di porre rimedio a tali guai, essendoci preclusa la via del ritorno allo stato di natura dalle troppe modifiche intervenute nel tempo ai danni del nostro organismo e dei nostri assetti sociali.

Ma ogni tentativo di riparazione prima di essere intrapreso deve essere desiderato.

Ed ecco il ruolo dell’arte: rappresentare la bellezza del mondo della natura e la mostruosità del mondo artificiale al punto da eccitare i sentimenti umani verso il desiderio della riparazione.

L’atto estetico va poi razionalizzato e tradotto in pratica riparatoria. Ma, senza la scintilla per l’innesco del processo “revisionista”, nulla di veramente decisivo può prendere avvio.

Qualcuno osserverà che molti uomini di buona volontà e tanti potenti del mondo hanno già preso coscienza della necessità di modificare i nostri comportamenti nei confronti dell’ambiente, come dimostrano numerose iniziative individuali e svariati accordi internazionali.

C’è il dubbio che tali prese di coscienza nascondano talvolta altrettante operazioni di facciata, destinate a consentire la prosecuzione dell’attuale modus vivendi a cuor leggero, con la coscienza risciacquata nella tinozza della green economy.

Ma pur senza voler pensare male e dando credito alla buona volontà dei singoli e delle istituzioni, appare evidente come le iniziative sin qui intraprese siano del tutto insufficienti a riparare i danni causati all’ambiente. La prova più macroscopica è fornita dalle difficoltà incontrate a raggiungere gli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi del 2015, a proposito del quale è interessante notare come il maggior contributo alla riduzione delle emissioni dei gas serra è stato fornito non tanto dalle iniziative degli Stati firmatari quanto dallo stop alle attività produttive imposto dalla dilagante pandemia.

Comunque sia, lo stimolo che le opere d’arte possono offrire alle moltitudini e alle classi dirigenti è sempre della massima importanza, anche laddove la spinta al cambiamento appaia sinceramente avviata: essa infatti va convintamente sostenuta contro i rigurgiti egoistici di specie che non mancano mai di manifestarsi.

Al fine di dare il buon esempio, come promotore della teoria cancrista ho rivolto un appello agli amici artisti che condividono con me la convinzione della nostra nocività per la biosfera e ho creato un’apposita pagina del mio blog con alcuni contributi illustrativi al riguardo. Un primo manipolo di pittori, poeti e musicisti ha già risposto all’appello, e precisamente:

-        Mario Giammarinaro, pittore (con le sue maree nere ha denunciato i danni dell’inquinamento)

-        Massimo D’Arcangelo, ecopoeta (“Il cancro del Pianeta siamo noi / ma il messaggio è omesso / vietato, nascosto alle masse”)

-        Maicol MP, musicista (L’uomo come cancro del Mondo)

-        Andrea Rayquaza Di Sanzo, cantautore rap (Autodistruzione)

-        Marco Sclarandis, scrittore e poeta (Mai ci parlerà l’aragosta)

-        Mario Famularo, poeta (“quest’uomo senza pace / è il cancro della terra”)

-        Cristina De Biasio, pittrice (tra le sue opere: Nuovo mondo, dopo l’estinzione umana)

-        Gabriele Buratti (Buga), pittore, fotografo e scultore (“Dal linguaggio rupestre a quello freddo e inumano dei codici a barre, la semiologia ha fatto un salto che allontana sempre più l'uomo dal mistero del sacro impadronendosi del nostro immaginario collettivo attraverso il mondo dell'economia.”)

Sono consapevole che i pochi nomi citati siano quantitativamente un’inezia rispetto al gran numero di artisti che stanno tentando di raffigurare i danni da noi procurati alla natura.

Ma l’elemento che mi preme mettere in rilievo è l’importanza dell’unificazione degli sforzi in vista di un fine comune. Il singolo artista segue la sua ispirazione e, poiché ogni vero artista non può che essere in buona fede, certamente la sua rappresentazione del mondo rispecchia la drammatica situazione che stiamo vivendo.

Il rischio è che sia interpretata come la visione di un pittore, poeta o musicista isolato, come lo sfogo di una singola anima afflitta dal tormento per il brutto che avanza.

Il che non significa che ogni opera d’arte debba esprimere afflizione e sofferenza. Anzi. L’inno alla vita, la gioia per la natura che rifiorisce, l’esaltazione dell’amore per tutti gli esseri viventi sono altrettanti potenti eccitatori da contrapporre all’avidità del guadagno, al freddo calcolo della ricerca scientifica, alle brutalità compiute ai danni del mondo animale e vegetale.

Ma in un caso o nell’altro (esaltazione del bello o denigrazione del brutto) ciò che conta è l’obiettivo da raggiungere e cioè la graduale conversione dell’umanità a nuovi stili di vita.

Altre forze spingeranno nella medesima direzione e purtroppo saranno violente, come quelle che la natura offesa scatenerà sotto forma di tempeste, uragani, innalzamento dei mari e così via.

Anche per tentare di prevenire queste catastrofi è opportuno che il maggior numero possibile di persone si convinca quanto prima della necessità del cambiamento e, se gli argomenti razionali non sono in grado di generare questo convincimento, l’arte, o meglio, l’azione congiunta di tutti gli artisti, può forse ottenere risultati migliori, può forse “salvare il mondo”.

Mi faccio quindi interprete del pensiero (vero o presunto) di Fedor Dostoevskij e chiedo a tutti gli uomini che hanno orientato la loro attività in campo artistico (compresi gli autori teatrali e cinematografici, i fotografi, gli architetti, i romanzieri, i compositori musicali, i writers ecc.) di riconoscersi in questo comune sforzo di cambiamento globale.

Oggi forse il ruolo dell’arte appare offuscato rispetto ai secoli passati, come se la sua voce fosse sovrastata dal frastuono del traffico metropolitano, cionondimeno mi auguro che pittori, poeti e musicisti prendano sempre più coscienza del loro ruolo di “grilli parlanti” capaci di smuovere la coscienza collettiva dell’umanità e che promuovano questo nuovo romanticismo all’insegna del motto “la bellezza salverà il mondo”.


lunedì 26 aprile 2021

"La Locomotiva." La Parabola della Sinistra Italiana

 

 Francesco Guccini "La Locomotiva" (1972)


Il recente "manifesto" a favore del ministro Roberto Speranza non meriterebbe grande attenzione, di per se. Ma merita qualche considerazione per il fatto che lo hanno firmato molti membri della sinistra storica italiana, incluso Francesco Guccini.

Guccini.... un eroe della sinistra che io e tanti altri ci ricordiamo soprattutto per la sua canzone "La Locomotiva" del 1972. E, ripensandoci sopra, come per tante cose che una volta ci sembravano belle e intelligenti, ahimé, si vede quanto sono terribilmente invecchiate.

"La Locomotiva," la storia di un anarchico, un eroe che Guccini si immagina "giovane e bello." Uno che si impadronisce di una locomotiva e si lancia "a bomba contro l'ingiustizia" contro un "treno pieno di signori" perché "trionfi la giustizia proletaria."
 
Risentita oggi, questa canzone di Guccini non è gran cosa dal punto di vista musicale. Ma il successo che ha avuto negli anni ha delle ragioni. La canzone ha una sua forza che sta soprattutto nell'immagine della vera protagonista: la locomotiva.
 
Sentendo la canzone ci sentiamo a bordo della creatura che "divora la pianura", "un giovane puledro"  che "morde la rotaia con muscoli d' acciaio." E poi, la storia dell'eroe si intreccia perfettamente con la furia crescente della locomotiva che va sempre più veloce verso il suo destino, finche, nella scena finale, il mostro si autodistrugge con "un grido di animale," "eruttando lapilli e lava". Dell'eroe, sappiamo che "lo raccolsero che ancora respirava."

Si capisce perché la canzone ha avuto tanto successo. C'era dentro tutto l'idealismo della sinistra italiana del tempo delle rivolte giovanili del '68. La libertà, la giustizia, il sacrificio personale, la voglia di cambiare la società. Tutte cose che affascinavano quelli che hanno vissuto quei giorni, quando sembrava davvero che si potesse cambiare qualcosa.
 
Purtroppo, l'idealismo è sempre a un passo di distanza dal fanatismo e, in fondo, la canzone della locomotiva di Guccini ci racconta la storia della sinistra italiana in modo curiosamente profetico. Proprio come la locomotiva, la sinistra era partita in una folle corsa alla ricerca della "giustizia proletaria" non importa in che modo e non importa con che mezzi. Il risultato è stato un periodo di vera violenza, gli "anni di piombo." 
 
Certamente, non tutto quello che è successo in quegli anni era da attribuire alla sinistra, e forse nemmeno la maggior parte di quei tragici eventi. Ma tutto era adombrato già nel messaggio della canzone, con l'eroe che voleva compiere una strage ammazzando persone che lui definiva "signori,"  ma che, ammesso che lo fossero, includevano i macchinisti e il personale del treno contro il quale si era lanciato, necessariamente suoi fratelli proletari. 
 
Oggi, quelli che si comportano in questo modo li chiamiamo giustamente terroristi. Il termine è abusato, certo, ma indica bene quelli che ammazzano la gente per imporre la loro ideologia, o religione, o che altro di bacato che hanno in testa. E' la base del totalitarismo, una cosa che non implica necessariamente la violenza, ma che è tipica della sinistra: l'incapacità di accettare il dissenso. Ovviamente, non è solo la sinistra ad essere totalitaria -- diciamo che ci tengono altrettanto (e forse un tantino di più) di altre forze politiche. 
 
Alla fine, in ogni caso, l'ondata della sinistra italiana si è esaurita senza gridi animaleschi, e senza eruttare lapilli e lava incandescente, ma sicuramente lungo un binario morto. La sinistra è invecchiata alla ricerca della sicurezza economica, del posto statale garantito, della pensione tranquilla, della "sicurezza," senza ricordarsi che era stato detto che "un popolo che rinuncia alla sua libertà in nome della sicurezza perde entrambe le cose". 
 
E si è visto bene come è invecchiata la sinistra con questo "manifesto" in favore di un burocrate politicizzato, Roberto Speranza, che ha fatto a pezzi la Costituzione in nome della sicurezza, senza nemmeno riuscire a ottenerla, ma in compenso distruggendo la vita e il benessere di tante persone. Perlomeno, l'eroe della canzone di Guccini metteva la propria vita in gioco, ma questo non è certo il caso di Speranza
 
Tutto invecchia, sia le idee che le persone. Non è detto che si debba per forza invecchiare male, ma peggio di così mi sembra difficile. 
 
 
 
 

martedì 20 aprile 2021

Il Medioevo Illuminato: Prepariamoci a un Nuovo Modo di Gestire la Società

 

Il concetto di "ritorno al Medio Evo" si sta facendo sempre più diffuso. Non per niente, da il titolo a questo blog: dobbiamo cominciare a pensare seriamente non tanto a un "ritorno" al Medio Evo ma a un "Nuovo Medio Evo" che prenda dal vecchio le sue caratteristiche migliori, in particolare la gestione della società basata sulla giustizia e non sulla violenza, la decentralizzazione delle strutture di governance, l'economia basata su risorse locali, e la stabilità economica. Qui, ne parla Luisella Chiavenuto in un post apparso su "Umanesimo e Scienza"

Di Luisella Chiavenuto


Nonostante il suo successo e potere, la credibilità e la dignità della Scienza sono ai minimi storici.

Non si tratta più di opporsi solamente ad una gestione della crisi covid, ma anche - e nel contempo - opporsi ad una tecnocrazia scientista e disumanizzante che in assenza di opposizione non farà passi indietro - a prescindere da covid e varianti.

In un quadro di evaporazione dei posti di lavoro, l'assetto sociale si baserà molto probabilmente su un reddito di cittadinanza esteso - e subordinato a determinati comportamenti sociali.

Questo per mantenere livelli minimi di consumo e consenso - e unito ad un ulteriore sviluppo e aggiornamento del modello economico attuale - che sta distruggendo ovunque la rete della vita.



PROSPETTIVE FUTURE : MEDIOEVO ILLUMINATO ?

La prospettiva è quindi di lungo respiro: resistenza ed elaborazione di nuovi modelli di pensiero e di organizzazione sociale, volti alla riscoperta delle radici culturali del passato, e nel contempo orientati verso un futuro dal volto umano - in cui saperi teorici e pratici si intreccino ed evolvano liberamente, senza preconcetti spazio-temporali.

E' anche importante sostenere la trasversalità politica di intenti, che in piccola o grande misura già esiste nelle persone, all'interno di ogni organizzazione. Questo per rallentare i crolli sistemici, dando così tempo all'emergere di organizzazioni radicalmente diverse da quelle attuali. E ricordando che questa trasversalità esiste soprattutto fuori dai partiti e dalle istituzioni - nella maggioranza dei "politicamente disperati".

Per consentire una massima flessibilità - e fiducia "ontologica" - nel rispondere ai crolli sistemici in atto, si può forse pensare ad una sorta di "medioevo illuminato" in cui - per citare A.Langer e prima di lui altri - si ricerca tutto ciò che è "lento, dolce e profondo" - in un quadro di povertà materiale che sarà per molti condizione obbligata e dolorosa, ma insieme opportunità di rinascita diversa.



SCONTRO TRA PARADIGMI CULTURALI E SCIENTIFICI DIVERSI

In sintesi, si potrebbe parlare di resistenza contro una Tecnoscienza votata alla riprogrammazione bio.informatica e bio.ingegneristica della natura, e della vita, in ogni sua forma - una tecnoscenza in preda a un delirio di onnipotenza ed esaltazione, nel suo fondo oscura e disperata, perchè volta alla distruzione della nostra stessa natura umana.

A questa Tecnoscienza Riduttivista, si può opporre un nuovo Umanesimo della Complessità, che includa anche il meglio del pensiero Scientifico - ma su un piano di pari dignità culturale e politica.

E con la consapevolezza sia della grandezza, sia del lato oscuro, e dei crimini, di cui sono intessuti tutte le culture e tutte le correnti culturali - comprese ovviamente tutte quelle contemporanee.

Un Umanesimo della Complessità, dunque, basato su una Saggezza che si può definire non-duale, in quanto orientata alla ricomposizione delle fratture che attraversano e frammentano la nostra vita, la nostra psiche, la realtà in tutti i suoi livelli interconnessi.



INCONTRO TRA BIO-DIVERSITA' COLLABORANTI

Quindi lo scontro tra paradigmi culturali opposti deve essere, nel contempo, anche incontro umano e intellettuale tra le persone là dove possibile - e oltre l'impossibile - per superare e ricomporre le lacerazioni.

Questo significa anche sostenere sia la libertà di spostamento di tutti in ogni luogo, sia la libertà di rimanere nella propria terra e cultura di origine.

In definitiva, significa tendere a superare radicalmente la dicotomia amico/nemico, e avere il coraggio di parlare di empatia e fraternità universale, come ideale etico e politico - in un orizzonte di bio-diversità collaboranti.

Ideale etico, ma anche acquisizione intellettuale, unificante e non ingenua - in grado di tentare risposte globali e locali, a problemi che sono affrontabili solo su entrambi i versanti interconnessi.

Siamo all'altezza di questi compiti? Ovviamente no, nessuno lo è, inutile insistere.... e allora possiamo essere - e fare - quello che riusciamo e possiamo, accettando i nostri limiti.

Ma considerando anche che siamo un mistero a noi stessi, e che quindi le nostre risorse individuali e collettive sono in definitiva insondabili, come la vita stessa.

Luisella Chiavenuto aprile 2021

sabato 17 aprile 2021

Il problema delle "due culture" è una questione di essenza, di interpretazione, oppure di altro...

 

 

Post di Fabio Vomiero

Sono passati molti anni oramai dalla pubblicazione del famoso saggio di Charles P. Snow sulle due culture (1963) in cui l'autore, fisico di formazione, denunciava in modo franco e quasi provocatorio l'evidente spaccatura intellettuale che si era venuta a creare all'epoca tra gli umanisti e gli scienziati, ma da allora, la riflessione filosofica sul ruolo della scienza e delle discipline umanistiche nell'ambito del panorama socio-culturale contemporaneo non si è ancora minimamente risolta.

Le scienze sperimentali e le discipline umanistiche, infatti, sono certamente due attività molto diverse tra di loro e per questo non vanno forzate necessariamente a stare dentro lo stesso contenitore, tuttavia è anche vero che a volte i confini appaiono così sottili e artificiosi da essere probabilmente più indefiniti e mobili di quanto comunemente si creda.

Ma andiamo con ordine, perchè come spesso accade nel caso dei dibattiti e delle discussioni, il primo problema è sempre quello di intendersi sull'uso dei termini e dei significati. Che cosa si intende, infatti, per cultura scientifica e cultura umanistica, ed è veramente un problema di cultura, o piuttosto di diverse modalità cognitive di approccio alla conoscenza. E poi, siamo proprio sicuri che queste "due culture" rappresentino veramente due mondi completamente diversi e tra di loro incommensurabili? Inoltre la questione è davvero effettivamente riducibile a quell'estrema semplificazione volgare che vuole la scienza occuparsi soltanto dell'oggettivo e del vero e le discipline umanistiche invece unicamente del soggettivo e della bellezza, o il tema è in realtà un po' più complesso...

Innanzitutto cominciamo con il dire che l'origine di questa dicotomia intellettuale è piuttosto recente e collocabile grossomodo tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento. Soltanto poco tempo prima, infatti, molti di quelli che oggi non esitiamo a definire come dei grandi scienziati classici, come per esempio Galilei, Keplero e Newton, si occupavano anche di discipline umanistiche (per esempio di filologia), oltre che a possedere spesso una solida vocazione religiosa. Era una cosa del tutto normale, tanto che Galilei fu persino definito dal Leopardi come uno dei più «limpidi padri della lingua italiana».

In Italia, però, una separazione concettuale piuttosto netta tra le due culture prese origine intorno agli inizi del Novecento quando alcuni autori, tra i quali Benedetto Croce e Giovanni Gentile (che fu ministro dell'istruzione, vedi riforma Gentile), riuscirono ad imporre persino ai programmi scolastici un modello culturale orientato alla netta supremazia della cultura umanistica su quella scientifica, cavalcando posizioni ideologiche dubbie e difficilmente dimostrabili (neoidealismo).

Più o meno nello stesso periodo, il filosofo tedesco Wilhelm Windelband propose una sorta di classificazione delle scienze basata sulla metodologia di studio, che venne poi ripresa e approfondita recentemente dallo psicologo americano Jerome Kagan in un interessante saggio del 2009, nel quale le scienze vengono suddivise in tre categorie: le scienze naturali, le scienze umanistiche e le scienze sociali.

Mentre le scienze naturali (fisica, chimica, biologia) utilizzano un approccio cosiddetto "nomotetico", caratterizzato cioè dalla ricerca di principi e di pattern (leggi), quelle umanistiche, che si occupano invece dello studio della cultura umana nel corso della storia, utilizzano invece un approccio "idiografico", che guarda invece alla specificità e alla particolarità, caratteristiche tipiche della creatività umana. Le scienze sociali, infine, come per esempio la sociologia, l'antropologia e l'economia si servono invece, a seconda dei casi, di entrambi i metodi.

Ma sebbene questa visione abbia influenzato sensibilmente la filosofia, in particolare quella delle scienze umanistiche e ancora oggi la ritroviamo spesso come elemento di superficiale spartiacque tra le due culture, le cose non sono affatto così semplici e nette.

Una nota certamente interessante di questa classificazione è però l'utilizzo del termine "scienza" non soltanto per definire le scienze naturali sperimentali, ma anche quando ci si riferisce alle discipline umanistiche, il che ha perfettamente senso quando, invece di guardare alla sfera umanistica considerando soltanto la bellezza e la soggettività delle sue opere letterarie e artistiche, si voglia veramente cogliere e comprendere anche la complessità metodologica e procedurale di fondo di altre sue espressioni. Si pensi per esempio allo studio del linguaggio (linguistica) o alla grammatica, alla filologia, alla storiografia, alla musicologia, alla teoria dell'arte, alla logica. Tutte discipline che, inevitabilmente, non possono che essere guidate anche da una forte vocazione di tipo scientifico. Anche in questi campi della conoscenza, infatti, così come nelle scienze naturali, gli studiosi sono spesso alla ricerca sia di principi metodologici che di pattern empirici da formalizzare poi in strutture logiche, procedurali o matematiche. Si pensi ancora alla critica e alla ricostruzione delle fonti in storiografia e in filologia, oppure alla tridimensionalità o alla prospettiva nella teoria dell'arte o ancora al tentativo di stabilire la validità o meno di una linea di ragionamento per quanto riguarda la logica.

D'altro canto, invece, nel campo delle scienze naturali, le nuove consapevolezze epistemologiche acquisite principalmente in seguito alla relatività, alla teoria quantistica e alla teoria della complessità, hanno nel frattempo infranto quel plurisecolare sogno della fisica classica riduzionista di poter spiegare perfettamente, e di riuscire a prevedere nel dettaglio ogni fenomeno naturale, ponendo così di fatto una seria limitazione al mito positivista della calcolabilità ultima del mondo da parte della scienza.

La moderne scienze della vita ci hanno insegnato per esempio che, diversamente dalla visione per certi versi ingenua di stampo fisicalista, una "legge fisica" descrive soltanto classi di eventi e non i singoli eventi, e che quindi la legge fisica e la causa non escludono il caso, la fluttuazione, il "qui e ora" del singolo evento che invece può essere determinato e vincolato in larga parte anche dalle particolari e mutevoli condizioni al contorno.

Vi è pertanto la diffusa sensazione che oramai, per diversi motivi, i tempi siano tornati buoni per l'inaugurazione di una nuova epoca in cui le scienze naturali e le scienze umanistiche possano finalmente tornare a dialogare e a capirsi, con lo scopo dichiarato e condiviso di ampliare reciprocamente i propri tessuti teorici, metodologici e sperimentali.

D'altra parte, i risultati che si stanno conseguendo oggi nei programmi di ricerca più complessi e ambiziosi, come per esempio nel campo delle neuroscienze, della paleoantropologia evoluzionistica, della climatologia storica, o della sociobiologia, suggeriscono come l'approccio più fecondo e produttivo sia in realtà proprio quello pluri- e inter-disciplinare.

Pare allora che il problema vero non riguardi affatto la teoria della conoscenza e nemmeno l'incommensurabilità tra le discipline, ma sia piuttosto da ricercarsi nell'impostazione intellettuale dell'agente attore ed interprete di tutto questo e cioè del singolo scienziato (alcuni) e del singolo umanista (molti di più), i quali, complici anche un ambiente culturale formativo oramai inadeguato e una radicata predisposizione cognitiva alle lotte partitiche, si ostinano a rinvigorire un inutile conflitto tra posizioni scientiste da una parte e ascientifiche o addirittura antiscientifiche dall'altra, ostacolando di fatto il progresso sia delle scienze naturali che delle discipline umanistiche.

mercoledì 14 aprile 2021

Come i nostri cervelli vengono distrutti dalla troppa informazione

 

 
 L'ameba Amelia, è la protagonista di un capitolo del mio libro "Before the Collapse" (Springer 2019). Amelia è una Naegleria Fowleri che ha l'abitudine no troppo simpatica di divorare i cervelli umani ma, a parte questo, si è gentilmente prestata a fare da esempio per il libro dei meccanismi di crescita delle creature viventi. Nel post che segue, Alessandro Chiometti usa ancora l'esempio delle creature monocellulari per un'interessante ragionamento su come i nostri cervelli vengano distrutti, non da un'ameba antropofaga, ma da un eccesso di informazione disponibile. Va un po' contro i principi dell'informazione "usa e getta" moderna, nel senso che comincia facendovi una lezione di chimica. Ma se avete voglia di leggerlo, vedrete che è un post estremamente interessante e originale. 


Aspettando la fine del mondo – Il paradosso dello zucchero e dell’informazione.

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Ciò che siamo abituati a chiamare commercialmente “zucchero” è in realtà il saccarosio, uno dei tanti “zuccheri” esistenti e indicati in chimica organica come carboidrati. Questi possono essere formati da una molecola di un qualunque zucchero (monosaccaridi) o da più molecole di questi (polisaccaridi).
Il saccarosio è un disaccaride formato dall’unione dei due monosaccaridi glucosio e fruttosio.

Se pur le molecole di questi due hanno la stessa formula bruta (C6H12O6) in realtà sono molto diverse, tanto per dire il glucosio forma un anello a sei elementi mentre il fruttosio lo forma a cinque, ma soprattutto è il glucosio che è la fonte primaria di ogni richiesta di energia di ogni essere vivente.





Il suo ruolo nei vari cicli aerobiotici o anaerobiotici è fondamentale per la produzione di ATP e quindi per ogni motore cellulare che richiede energia.  Tutti nutrienti che assumiamo nel corso della vita sono trasformati dal corpo in glucosio o immagazzinati come precursori di questo in varie forme (ad es. glicogeno) pronte per l’uso.

Insomma si può dire che il glucosio (e quindi suoi vari precursori presenti in natura) è ciò che consente la “vita” così come la conosciamo, nel senso di di mobilità, spostamento, sport, sforzo fisico ed intellettuale, crescita. Non è certo un caso che quando si vuole coltivare una coltura batterica con un apposito terreno di crescita l’apporto zuccherino deve essere sempre garantito. Anche i batteri e gli altri microrganismi crescono, e si moltiplicano, grazie al glucosio e quindi allo zucchero ovviamente.

Tuttavia, avete mai fatto caso che il saccarosio lo conserviamo per decenni a temperatura ambiente e non gli succede nulla?

Non va a male, non ci crescono le muffe e, se non ci mettono le mani i figli golosi o le formiche in campeggio, anche dopo anni lo troviamo esattamente dove l’abbiamo lasciato e possiamo consumarlo tranquillamente senza paura che ci sia cresciuto qualche batterio.

E questo, ve lo garantisco per ogni soluzione di zucchero in cui la percentuale di questo sia maggiore del 70% (ad esempio il miele).

Questo perché i microrganismi sono molto sensibili all’azione di ciò che chiamiamo pressione osmotica e per loro depositarsi su cristalli di sale (o di zuccheri) puri, o in soluzioni troppo concentrate di questi, significa morte istantanea.

La cellula del microrganismo è tenuta insieme dalla membrana cellulare che in chimica fisica è ciò che si definisce “membrana semipermeabile“, ovvero una barriera che applicata ad una fase liquida lascia passare il solvente ma non i soluti in esso disciolti. In una soluzione acquosa in pratica attraverso questa membrana passerebbe l’acqua ma non il sale disciolto in essa.

Ma cosa succede quando una membrana semipermeabile separa due soluzioni a diversa concentrazione di soluto? Succede che il solvente (acqua in genere) passi attraverso di questa dalla parte più diluita alla parte più concentrata (grazie alla forza della pressione osmotica per l’appunto) per DILUIRE la stessa fino a quando quelle due concentrazioni non saranno identiche.

Ma se stiamo parlando di un sistema chiuso come una cellula è ovvio che questa più di tanta acqua non la può contenere e finirà per esplodere o, viceversa, se ciò che è all’esterno è più concentrato di quel che è all’interno il batterio esaurirà l’acqua per il tentativo di diluire la concentrazione esterna. Quindi, riassumendo il batterio se si trova a contatto con una soluzione di acqua distillata muore perché l’acqua entrerà al suo interno fino a farlo scoppiare, se si trova in presenza di soluzioni molto concentrate (o dei cristalli di sali e zuccheri puri) muore perché l’acqua che è al suo interno fuoriesce per tentare un impossibile diluizione dell’ambiente esterno.

Lo so, ho fatto una premessa lunghissima ma era necessaria per tentare l’azzardato ragionamento speculativo su ciò che sta succedendo nella nostra società per ciò che riguarda la possibilità di accesso alle informazioni.

Più passa il tempo e più mi sembra evidente che l’enorme mole di sapere che abbiamo a nostra disposizione o, per meglio dire,  a  cui abbiamo possibilità di accesso, non ha aumentato in nessun  la conoscenza delle persone o la loro capacità di elaborare conclusioni in seguiti a queste. Anzi.

Al netto di fake news e di disinformazione orchestrata, tutti noi oggi abbiamo accesso a una quantità di dati e di informazioni impensabile fino a qualche decennio fa. Possiamo accedere al sito della Nasa per sapere come va lo scioglimento del permafrost in tempo reale, possiamo accedere alla John Hopkins University per sapere ogni morto e ogni contagio a causa della Covid sul pianeta terra, possiamo metter ein relazione i provvedimenti presi da ogni paese e capire chi ha indovinato o meno la gestione della pandemia, possiamo accedere ai siti di biologia evoluzionistica e conoscere l’andamento della sesta estinzione di massa.

Eppure c’è qualche meccanismo che si intoppa. L’analfabetismo funzionale è alle stelle, non sappiamo distinguere fra un sito di astronomia e uno di astrologia, di fronte a un grafico a tre variabili abbiamo lo stesso atteggiamento degli scimmioni di kubrikiana memoria di fronte al monolite nero.

Molte persone hanno sempre più difficoltà a completare la lettura di un articolo che rientra in una pagina A4 a carattere 12. (A proposito, state ancora leggendo?)

E molte di esse anche se lo leggono restano convinte che l’articolo gli dia ragione anche se c’è scritto l’opposto di quello che loro sostenevano.

Dov’è l’intoppo? Dov’è il paradosso osmotico che possa giustificare ciò?

A voler trovare una correlazione (avviso: speculazione sul ragionamento già speculativo di per se)  con il “paradosso” dello zucchero sembra che più la quantità di informazione disponibile arriva a contatto con le le nostre menti e più il buon senso holbachiano esce dalle nostre teste. Quel buon senso che non si apprende sui libri forse, ma che pure una volta sembrava essere sufficiente per distinguere un ciarlatano da uno scienziato.

Lo dichiariamo a scanso di equivoci: sappiamo benissimo che non c’è mai stata nessun età dell’oro e che gli approfittatori della buona fede ci sono sempre stati (lo “schema Ponzi” nasce nel 1918 mica l’altro ieri); però forse peccavamo di ottimismo positivista lo riconosciamo senza vergona, ma si sperava davvero che avendo al possibilità dell’accesso a tutte queste informazioni le persone sarebbero state se non migliori almeno più consapevoli.

E invece no, direbbe Brunori Sas.

Pazienza, sarà per la prossima specie.

martedì 13 aprile 2021

Greta Thunberg e i Bastoncini Cinesi

 


Fake news, fake news, fake news.... non so quante volte avete ricevuto voi la notizia che Greta Thunberg avrebbe esortato cinesi e giapponesi a non usare i bastoncini per salvare le foreste. E che "i cinesi" gli avrebbero risposto che i bastoncini sono di bambù e di non usare carta igienica per le stesse ragioni. 
 
E' una tale scemenza che non si sa da che parte cominciare: a parte che è una storia vecchia (gira dall'inizio del 2020), semplicemente NON E' VERO NULLA. Greta Thunberg non ha mai detto niente del genere. E "i cinesi" (ma chi?) come avrebbero potuto rispondere a qualcosa che non è mai stato detto? (https://www.reuters.com/article/uk-factcheck-greta-thunberg-chopsticks-idUSKBN22P2PV).
 
A parte che i bastoncini sono spesso di legno, ed è vero che le foreste siberiane stanno venendo distrutte per il mercato cinese, anche per fare bastoncini, e infine anche se uno fa bastoncini di bambù, deve comunque deforestare per piantare il bambù..... 
 
Insomma, una fesseria totale, interessante soltanto perché ci dà un'idea di come è facile costruire una propaganda negativa destinata a demonizzare qualcuno che ti sta antipatico. 
 
Ma il problema non è che ci sia qualche furbacchione che si inventa queste scemenze. E' il fatto che la gente ci crede: gli arriva la prima fesseria che gli sembra corretta, ci clicca sopra e condivide. Putin mangia i bambini, il Papa è un satanista, i cinesi si nutrono di pipistrelli, gli gnomi di Zurigo controllano il mondo, eccetera....
 
 
 
 
 

mercoledì 7 aprile 2021

Il Fattore Rt nella Pandemia: Serve Veramente a Qualcosa?


di Ugo Bardi,

In queste note, non intendo sostituirmi agli specialisti di epidemiologia, il mio scopo è più che altro divulgativo e cerca di fornire qualche dato e qualche informazione utile a tutti quanti in questa situazione, dove la pandemia è diventata più una questione politica che scientifica. Per cui, se dobbiamo prendere delle decisioni informate, bisogna avere gli strumenti per capire di cosa si parla -- cosa assai difficile nell'attuale cacofonia di dati e di ragionamenti. Qui, ho fatto del mio meglio per chiarire la faccenda del fattore Rt usando come esempio un'ipotetica epidemia, la "bluite", che vi fa diventare blu come i personaggi del film "Avatar". 


Avrete notato come questo "fattore Rt" di cui si parla tanto a proposito della pandemia sia molto popolare fra i politici e i virologi televisivi. E' un numeretto che sembra darci delle informazioni utili in forma semplice e sappiamo tutti che i politici sono sempre alla ricerca di soluzioni semplici per problemi complicati. Ed è anche sulla base del fattore Rt che si decide dei vari colori delle zone, rossa, arancione, rosa shocking o che altro.

Però, mi sa che nè i politici e neppure molti dei tele-virologi che imperversano sui media abbiano veramente capito cosa sia esattamente questo fattore Rt. In effetti, nel mondo reale, le cose non sono mai semplici. Come ha notato anche il professor Antonello Maruotti (1), ordinario di statistica alla Lumsa, l'uso del fattore Rt potrebbe fare più danni che altro. Maruotti non ha peli sulla lingua quando parla della "persistente cecità da parte dei decisori politici.” 

Allora, cos’è esattamente questo fattore Rt? Come lo si determina? Quanto ci possiamo fidare della sua accuratezza? Ed è veramente un parametro sul quale vale la pena di basare tutta la politica delle restrizioni che sta facendo il governo? Vediamo di capire come stanno le cose.

Si sente dire spesso che il fattore Rt è “il numero medio di persone infettate da una persona già infetta in un certo intervallo di tempo.”  

Se ci pensate sopra, qui c'è un grosso problema. Se prendiamo la definizione letteralmente, questo vuol dire che l'epidemia non può decrescere mai. Se c'è qualche persona infetta, infetterà sempre qualcun altro (meno che Rt non sia uguale a zero) e quindi ci sarà qualche infetto in più. La definizione non è sbagliata ma è incompleta. Bisogna tener conto anche delle persone che guariscono (o muoiono) nell'intervallo di tempo considerato.

La faccenda è resa più complessa dal fatto che in epidemiologia ci sono due termini simili, uno viene detto Ro e l'altro Rt (anche semplicemente “R”). Se volete farvi un idea della confusione che regna in questo campo, leggetevi l'articolo di Wikipedia su Ro. Tanto per capirsi, ci leggiamo che la definizione "non è universalmente condivisa" e che "L'incoerenza nel nome e nella definizione del parametro Ro è stata potenzialmente una causa di incomprensione del suo significato." e addirittura che "Il processo di definizione, calcolo, interpretazione e applicazione di R0 è tutt'altro che semplice. Sono state proposte numerose definizioni simili ma non identiche." Insomma, un bel pasticcio per non dire di peggio. 

E questo vale per Ro. Ma allora cos'è Rt? Guardiamo di nuovo Wikipedia, e qui ti dicono che la definizione di Rt "è analoga a quella di Ro, con la differenza che Rt viene calcolato in un preciso momento" Insomma, ti definiscono una cosa sulla base di un'altra della quale ti dicono che è mal definita! Il pasticcio è totale. 

Ora, capisco che quelli che sono specialisti in qualcosa tendano a tenere all'oscuro quelli che non lo sono. Ma qui si esagera. Comunque, lasciamo perdere e cerchiamo di districarsi fra le varie definizioni per capire come funziona la faccenda. 

Ne tiriamo fuori le gambe quando scopriamo che Rt in epidemiologia è del tutto analogo a quello che in una popolazione biologica si chiama Il tasso netto di riproduzione, cioè il tasso di riproduzione al netto delle morti. 

Questo è un concetto facilmente comprensibile: prendete una popolazione (diciamo, conigli). Si misura il numero dei coniglietti nati per ogni generazione e si fa il rapporto con i conigli mangiati nel frattempo dalle volpi. Il risultato è questo tasso netto di riproduzione: capite bene che se nascono più conigli di quanti ne vengono mangiati, deve essere Rt maggiore di 1. E' il contrario se Rt è minore di 1. Se Rt è uguale a 1, la popolazione è stabile.

 Una popolazione di virus non è diversa da una popolazione di conigli in termini di riproduzione. I virus si moltiplicano quando qualcuno infetta qualcun altro, ma muoiono quando qualcuno guarisce. Messa in questi termini, le faccenda non è poi tanto complicata, almeno dal punto di vista concettuale. Basta guardare il valore di Rt per capire se l'epidemia è in crescita o in calo. Ma, come sempre, il diavolo sta nei dettagli e ci dobbiamo lavorare sopra un po' per capire come stanno le cose.

Si sa che le cose si capiscono sempre più facilmente se le esponiamo in termini di un esempio concreto. Nel seguito, vi propongo una spiegazione basata su un’epidemia ipotetica, la "bluite", molto semplificata. Ci sono un po’ di numeri e di calcoli, ma se avete voglia di seguirli vi potranno servire per farvi un "modello mentale" di come funziona questo fattore Rt.


La “bluite”: un’epidemia semplificata

Immaginiamoci un’ipotetica malattia infettiva che si trasmette per contatto e che si chiama "bluite" perché vi fa diventare blu, portata sulla terra da uno degli alieni del film “Avatar”. Incidentalmente, esiste veramente una malattia che fa diventare blu: si chiama “argiria”. Viene se uno ingerisce dei sali di argento, c'è chi lo fa come terapia "alternativa" per certe malattie. E' una fesseria da non fare assolutamente perché uno si rovina la pelle in modo irreversibile, a meno che non vogliate trovarvi un lavoro come comparse sul set di un film di fantascienza. 

Ma non entriamo in questo argomento: in ogni caso, l'argiria non è infettiva. Il punto è che la bluite di questo esempio (se esistesse) si può diagnosticare semplicemente guardando il colore della pelle di una persona. Supponiamo anche che la bluite sia una malattia al 100% benigna, ovvero non da sintomi spiacevoli e non ammazza nessuno.  Quindi, nessuno prende precauzioni particolari per evitare di infettarsi. Supponiamo anche che chi l’ha avuta diventa immune per un tempo lungo in confronto alla durata dell'epidemia. Gli rimane la pelle di color grigio chiaro, ma a lungo andare anche quello passa. 

Questo vuol dire che in qualsiasi momento nella popolazione ci sono persone con la pelle bianca, oppure blu, oppure grigia (siccome è un esempio del tutto ipotetico, per semplicità possiamo trascurare la presenza di persone di pelle scura nella popolazione). Queste tre categorie, bianco, blu, grigio, corrispondono alle tre categorie del modello epidemiologico chiamato SIR (suscettibili, infettivi, e rimossi), ma non entriamo in questo argomento.

Infine, ammettiamo che la bluite abbia un ciclo molto breve: in un giorno passa, la pelle non è più blu e questo vale per tutti. Andrebbe bene anche considerare un periodo diverso, per esempio una settimana, ma teniamo questa durata breve come esempio.

Cominciamo ammettendo di aver contato, un certo giorno, il numero di persone con la pelle blu che passano per una certa strada, e ammettiamo anche che questo sia un buon campione statistico. Diciamo che sono passate 1000 persone e che 10 hanno la faccia blu. Questo vuol dire che il’1% della popolazione è infetto. Se lo riportiamo alla popolazione in generale, supponiamo in Italia con 60 milioni di abitanti, possiamo estrapolare che in tutto il paese ci sono 600 mila persone con la bluite. La frazione di infetti nella popolazione, si chiama "prevalenza."

E fin qui va bene, ma questo non ci dice niente di come sta andando l’epidemia. Per questo abbiamo bisogno di informazioni in funzione del tempo. Ammettiamo allora di rifare la stessa misura il giorno dopo. Troviamo che adesso ci sono 20 blu, sempre su 1000 persone. Chiaramente, l’epidemia si sta diffondendo. Il numero di nuove infezioni in un certo periodo si chiama "incidenza." In questo caso particolare, siccome facciamo una misura al giorno e l'infezione dura un giorno, l'incidenza è uguale alla prevalenza. 

Possiamo misurare adesso il fattore Rt? Certo. Ragioniamo sull'intervallo di un giorno. Abbiamo detto che Rt è il tasso netto di riproduzione della popolazione. Allora, abbiamo 20 nuovi infetti, ma 10 persone guarite. Ne consegue che Rt= 20/10 = 2. Facile, vero?

Si, facile, ma attenzione che spesso la faccenda viene capita male: Se in un giorno le persone infette sono raddoppiate, qualcuno si potrebbe aspettare che il loro numero continui a raddoppiare. Ovvero, 10, 20, 40, 80 … eccetera. 

Questo è l’errore che fanno quelli che parlano di “crescita esponenziale” dell’epidemia; è un'approssimazione accettabile soltanto nei primissimi stadi della diffusione. Fate un po’ di conti e vedrete che se il numero di casi di bluite raddoppiasse tutti i giorni, in una settimana ci sarebbero più infetti che persone. Cosa leggermente improbabile, per non dire altro.

L'errore qui è confondere il tasso netto (Rt) con il tasso semplice di riproduzione. Quest'ultimo è la probabilità che ha un “blu” di infettare un “bianco” quando lo incontra. In generale non lo possiamo misurare direttamente, né per la bluite nè per epidemie reali. Lo possiamo solo stimare. Tanto per scegliere dei numeri, ammettiamo che in media ognuno nella popolazione incontri 4 persone ogni giorno a distanza abbastanza ravvicinata da poterli infettare. Siccome c’erano 10 blu all'inizio, e ne sono venuti fuori 20 nuovi, sembrerebbe di poter dire che la probabilità di infezione a distanza ravvicinata era il 50% per ogni incontro. Ma non è così.

Non tutte le persone che un blu incontra sono "bianche", ovvero “suscettibili,” ovvero infettabili. Sappiamo già che ci sono 10 blu nella popolazione e ammettiamo anche che ci siano 10 grigi (persone infettate in precedenza, adesso immuni). Ne consegue che solo il 98% delle persone sono infettabili. Quindi la probabilità per un blu di infettare un bianco (suscettibile) è 0.5/0.98= 51%. È una piccola differenza, ma è la chiave di tutta la faccenda. 

Da questo, possiamo ora stimare il valore di Ro, quando il primo alieno blu dal pianeta Pandora è atterrato e ha cominciato a infettare i terrestri. Siccome il tasso di riproduzione è 0.51 (fisso), ne consegue che Ro = 0.51x4=2.4. Questo era il valore iniziale, quando l'epidemia era appena cominciata e il numero di infetti e di immuni era trascurabile.

Vediamo adesso di calcolare come andranno le cose nei giorni successivi a quello da cui siamo partiti. Con 20 persone infette, in un giorno costoro interagiranno ciascuna con 4 persone, un totale di 80 persone. Di queste, non tutte sono infettabili. La frazione degli infettabili è uguale a 1000 (numero totale di persone) – 20 (i blu del giorno) – 20 (i grigi dei giorni precedenti), ovvero 960/1000. Ne consegue che le 20 persone infette generano 20*0.51*4*.960/1000 = 39 nuovi infetti e non 40, come sarebbe stato il caso se il numero di infettabili fosse rimasto costante. 

A questo punto, Rt si è ridotto a 39/20= 1.96 senza che sia cambiato niente nella probabilità che un blu passi l’infezione a un suscettibile. Quello che cambia è la probabilità che un blu incontri un suscettibile. 

Da qui, potete divertirvi a fare un calcolo con un foglio excel, ma l’ho fatto io per voi. Ecco qua i risultati, la curva rossa è un fitting con una curva sigmoide asimmetrica:

 

Vedete la curva delle infezioni giornaliere (rossa) che ha la tipica forma “a campana” delle curve epidemiche. Notate che non abbiamo ipotizzato cure, distanziamenti, niente del genere. Le infezioni vanno a zero semplicemente perché col passare del tempo rimangono sempre meno persone da infettare. In questo particolare caso, il numero di persone che hanno contratto l’infezione si stabilizza a circa il 74% del totale alla fine del ciclo epidemico. Vedete come funziona la “immunità di gregge”? Oltre un quarto delle persone non si infettano, nonostante che nessuno prenda precauzioni di nessun genere. È una proprietà intrinseca della diffusione di un’epidemia.

Notate anche come la curva per Rt, invece, scende sempre, perlomeno in questo caso semplificato. Vedete che quando l’epidemia è al picco, Rt è uguale a uno. Alla fine si stabilizza intorno a 0,5. A seconda dei vari parametri, si può stabilizzare su valori diversi, ma sempre meno di 1. 

 

Effetto delle restrizioni sulla bluite

Ora divertiamoci a usare questo modello per vedere gli effetti delle restrizioni. Dovrebbero servire a ridurre la probabilità che, quando un blu incontra un bianco, gli passi l'infezione. Questo si chiama alle volte "schiacciare la curva". Per prima cosa, rivediamo i risultati di prima, ottenuti senza assumere nessuna restrizione.

 

Adesso proviamo a ridurre del 25% la probabilità di infezione in qualche modo non specificato. Ecco i risultati

 


Vedete che la curva è in effetti schiacciata. Notate però anche che la durata dell'epidemia si allunga e Rt, al contrario di quello che uno si potrebbe aspettare, aumenta leggermente invece di diminuire. Per quanto riguarda il numero totale di infetti, le restrizioni li hanno ridotti dal 74% a della popolazione a circa il 58%. Infine, notate che questo è possibile solo se le restrizioni sono imposte fin dall'inizio e mantenute tutto il ciclo epidemico. Se assumiamo che l'effetto delle restrizioni sia ancora maggiore, per esempio al 50%, possiamo schiacciare anche di più la curva e ridurre i casi a circa il 15% della popolazione. Riducendo ancora la probabilità di infezione, l'epidemia non si sviluppa proprio.

Proviamo ora a vedere cosa succede se, invece, le restrizioni si fanno su una "finestra" temporale limitata. Si suppone che le restrizioni con effetto del 25% di riduzione siano iniziate al terzo giorno e si riapre al nono giorno.


Notate che la curva dei contagi mantiene più o meno la forma "a campana," anche se un po' distorto. Invece, il fattore Rt mostra delle discontinuità abbastanza nette. Notate anche che l'infezione dura più a lungo. Abbiamo ridotto l'intensità dell'epidemia in cambio di una sua maggior durata. In queste assunzioni, il numero totale dei casi è intermedio rispetto ai due esempi precedenti: il numero di persone infettate si attesta sul 67%.

Uno si può divertire cambiando i parametri, ma i risultati si possono riassumere come segue. 

1. Le restrizioni hanno l'effetto previsto: ovvero schiacciano la curva. 

2. Portare la curva a "contagi zero" è quasi impossibile e richiede che le restrizioni siano mantenute per tempi molto lunghi.

3. L'effetto delle restrizioni si vede come una discontinuità nella curva del fattore Rt meglio che nella curva dei contagi. 

 

Il mondo reale

Tutto questo vale per un’epidemia ipotetica che abbiamo chiamato bluite e per un modello semplificato. Nel caso di un’epidemia reale, la situazione è più complessa, ma i risultati non sono molto diversi. La previsione di base del modello, quella della forma "a campana" della curva dei contagi, è confermata dai dati del mondo reale. Nella figura, vediamo un esempio, una recente epidemia di colera a Kinshasa, in Congo (https://www.who.int/csr/don/02-march-2018-cholera-drc/en/)

 


In questo, come in molti altri casi reali, vediamo bene la curva "a campana," simile a quella del modello. Notate come, in questo come molti altri esempi, il numero dei casi non va mai veramente a zero, al contrario di quello che il modello prevede. L'epidemia si "endemizza", pronta a ritornare in scena quando troverà condizioni favorevoli per ricominciare. 

Cosa possiamo dire a proposito di Rt nel mondo reale? Qui, il calcolo è molto più complesso che per l'ipotetica bluite. L’infezione non ha una durata fissa ed è anche possibile re-infettarsi. Poi ci sono le varie incertezze nella determinazione dei contagi, come pure i ritardi con la disponibilità dei dati. Per non parlare poi dei vari effetti delle varianti, delle restrizioni, e dei vaccini. Il risultato è che calcolare Rt è una cosa complessa che possono fare solo gli specialisti. 

L’articolo che è un po’ la “Bibbia” di queste cose è questo documento della Royal Society (86 pagine di formule varie) (1). Se poi volete solo vedere i risultati, potete trovarli nel sito di Maurizio Rainisio “La Peste” (2).  Contentiamoci di sapere che il fattore Rt si può calcolare per l’epidemia di Covid, sia pure con metodi complessi e con alcune incertezze. Con questi metodi, la previsione di base, ovvero che Rt debba scendere nel tempo durante ogni ciclo epidemico, è verificata in generale, ma è anche vero che molte epidemie hanno più cicli, per cui il fattore Rt può anche risalire.

Ecco qua qualche dato recente, dal sito FB di Maurizio Rainisio (2). Qui, vedete un equivalente di Rt (che Rainisio chiama “Tasso di Crescita Settimanale”). Qui l’epidemia ha avuto due fasi, probabilmente dovute a fattori stagionali, o forse anche all’effetto delle “varianti” del virus. Notate come il picco della fase più recente corrisponda a Rt=1.

 

Qui, vedere un effetto delle varie zone rosse, arancioni, gialle, eccetera è molto difficile. Per esempio, Rt ha mostrato un aumento piuttosto ripido all'inizio di Febbraio, mentre ha cominciato a scendere a partire dal 20 febbraio circa. C'è una correlazione con qualche fenomeno specifico che abbia a che vedere con le restrizioni? Mah? Forse c'è, ma è certamente debole.


 Conclusione: Rt serve a qualcosa?

L'utilità di qualcosa dipende sempre dal contesto. Per esempio, un bel fucile mitragliatore può essere molto utile in certe circostanze, ma è una pessima idea se è in mano a un Talebano, specialmente se c'è un negozio di televisori nelle vicinanze. Questo vale anche per i modelli statistici se finiscono in mano a persone che non li capiscono.

Così, in primo luogo, il calcolo del fattore Rt non vi dà, e non vi potrebbe mai dare, nessuna informazione in più rispetto a quella che è già presente nella curva dell'andamento dell'epidemia. Abbiamo visto che le curve epidemiche tendono ad avere una forma "a campana" per cui si può capire qualitativamente se l'epidemia cresce o cala anche semplicemente dalla forma della curva.

C’è poi il problema che il valore di Rt ci può dire se l’epidemia cresce o declina, ma niente sul numero di persone infette. Chiaramente, c’è una bella differenza se abbiamo 100 persone infette su 1000 o se ne abbiamo soltanto una o due, ma il valore di Rt potrebbe essere lo stesso. E questo non è un dettaglio: a seconda del valore assoluto dei contagi, gli ospedali potrebbero rischiare oppure no di andare in saturazione. Ma il fattore Rt, da solo, non ci dice niente su questo punto.

Soprattutto, quando gli infetti sono pochi cambia l’importanza degli inevitabili errori di misura e delle approssimazioni (3). Se avete 100 casi su 1000, un errore di qualche unità fa poco effetto: che siano 101 o 99 non cambia nulla. Ma se un giorno avete due casi, mentre il giorno prima ne avevate uno, vi può sembrare che Rt sia molto alto e che sia il caso di lanciare l’allarme. Chiaramente, il sensazionalismo dei media, con queste cose ci va a nozze e rilancia per raccogliere quanti più click possibile. E così vi potreste ritrovare a chiudere un intero paese per colpa di una fluttuazione statistica.

Ma il problema più grosso è proprio nel concetto. Come dicevo prima, molta gente non ha capito come funziona un meccanismo epidemico e crede veramente che un’epidemia cresca in modo esponenziale finché non si sono infettati tutti. E, di conseguenza, sono convinti che se vediamo che la curva dei contagi cala, questo è merito solo e soltanto delle misure di contenimento: restrizioni oppure vaccini. Lo trovate scritto esplicitamente, certe volte: "il fattore Rt misura l'effetto delle misure di contenimento". Ma non è assolutamente così!

Attenzione, non è che uno non debba fare niente per rallentare un'epidemia in corso! I vaccini, per esempio, forzano il raggiungimento dell’immunità nei singoli e fanno sì che l’immunità di gregge sia raggiunta più rapidamente. Ma se vedete che l'epidemia cala o sale, non lo dovete necessariamente mettere in relazione soltanto alle restrizioni o ai vaccini. L'epidemia ha un suo ciclo, lo potete rallentare, ma ne dovete tener conto.

Sfortunatamente, da un pezzo il dibattito si è bloccato sulla conclusione che la sola cosa (a parte i vaccini) che può fermare l’epidemia sono le restrizioni. E le restrizioni hanno un costo enorme non solo sull’economia ma anche sulla salute dei cittadini. Ma finché non ci ragioniamo sopra continueremo a insistere su delle misure che potrebbero essere esagerate e non giustificate in confronto ai costi.

In sostanza, il problema è che molte persone, anche fra i decisori politici, non sanno leggere un grafico cartesiano e non hanno la minima idea di come funziona un ciclo epidemico. Per cui, tendono ad affidarsi a un singolo numero magico, "Rt" per semplificare. Ma la situazione non si presta a semplificazioni estreme e, come sempre, l'ignoranza paga solo dividendi negativi.

 

1. https://www.romatoday.it/attualita/coronavirus-professore-lumsa-sbagliate-decisioni-su-rt.html

2. https://www.facebook.com/La-Peste-111172767208456

3. http://www.radiocora.it/post?pst=39381&cat=news