sabato 8 maggio 2021

NOTA PER I COMMENTATORI DEL BLOG "MEDIOEVO ELETTRICO"

 


Una raccomandazione da UB

Lo spazio per i commenti di questo blog raggiunge mediamente poche centinaia di persone, ma è comunque uno spazio pubblico, accessibile a tutti quelli che passano da queste parti. E ho avuto commenti privati da parte di persone che mi dicevano che non è serio che un blog con qualche velleità scientifica accetti dei commenti come quelli che arrivano ogni tanto. Non mi è parso che avessero torto.

Non si pretende che i commenti siano tutti al livello degli articoli revisionati delle riviste scientifiche, ma un pochino di attenzione prima di sparare a caso senza pensarci troppo si potrebbe anche richiedere. Va bene nei social, dove la gente si sbraca come vuole a dire le peggio fesserie, ma a me piacerebbe che questo blog mantenesse uno standard un tantinello più elevato. 

Ci sono e continuano ad arrivare, per la verità, alcuni commenti interessanti e ragionati, ma nella media siamo messi maluccio. A parte quelli i razzisti e offensivi, ne ho cancellato non pochi che mi parevano semplicemente ripetitivi, inutili, non informati, e in generale poco interessanti. 

Vi dico onestamente che sono stato tentato dall'idea di chiudere semplicemente la sezione dei commenti del blog, ma per ora la lascio aperta. Se vi sembra di avere qualcosa da dire che è interessante anche per altre persone, mandatemelo in forma di un post da pubblicare. Non vi garantisco la pubblicazione, ma sicuramente di leggerlo criticamente e di pubblicarlo se lo merita. Altrimenti, per favore, non scrivete semplicemente quello che vi passa per la testa in quel momento. 

Allora, grazie per l'attenzione e vediamo di continuare. 


UB

mercoledì 5 maggio 2021

Idrogeno: I Veicoli Elettrici Sono Molto più Efficienti


Vi passo qui di seguito (cortesia di Veronica Aneris) l' "Executive Summary" del recente rapporto di "Transport and Environment" a proposito dell'idrogeno come combustibile per veicoli stradali. La conclusione è ed era scontata: l'idrogeno semplicemente non è comparabile con le batterie, specialmente in vista della transizione verso le rinnovabili. Tuttavia, sembra che anche le cose scontate debbano essere spiegate ai nostri decisori politici. Quindi ecco il riassunto, per il rapporto completo, questo è il link. .




Executive Summary

Quale deve essere il ruolo dell’idrogeno nel futuro del trasporto su strada? Sempre più frequentemente ne sentiamo parlare come soluzione strategica per la decarbonizzazione del settore. L’attenzione al tema si è intensificata notevolmente negli ultimi mesi in seno al dibattito sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Tuttavia, malgrado la centralità che gli viene conferita, i limiti dell’utilizzo dell’idrogeno come soluzione per decarbonizzare il trasporto su strada sono molteplici e noti da tempo.

Primo fra tutti l’efficienza energetica, che nel caso dei veicoli a idrogeno a celle combustibili è meno della metà rispetto agli elettrici a batteria. L’idea di utilizzare l’idrogeno come vettore energetico non è nuova. L’enfasi nei confronti dell’“economia basata sull’idrogeno” risale all’ottimismo degli anni ‘50 quando l’energia nucleare aveva fatto nascere il sogno - mai divenuto realtà - di un'energia abbondante e a basso costo. Un secondo - temporaneo - picco di interesse nei confronti di questa tecnologia si è manifestato con l'avvento delle energie rinnovabili nei primi anni del 21esimo secolo. Quello che ha sempre tagliato le gambe all’idrogeno è stata la bassa efficienza associata al processo di produzione, distribuzione ed utilizzo.

Oggi la presa di coscienza politica nei confronti della crisi climatica in atto e la necessità di decarbonizzare l’economia in tempi brevi ha generato un nuovo ritorno di interesse nei confronti di questa tecnologia. Di fatto l’idrogeno verde, prodotto al 100% da fonti rinnovabili, può rappresentare una soluzione importante nel complesso puzzle delle differenti tecnologie che si renderanno necessarie per raggiungere l’obiettivo europeo di zero emissioni nette al 2050. Se da un lato il tallone d’Achille dell’idrogeno - la sua bassa efficienza - resta uno dei limiti principali al suo sviluppo, dall’altro l'imprescindibilità dell’obiettivo di decarbonizzazione potrebbe giustificarne l’utilizzo in quei settori dove non esistono alternative migliori, più efficienti e meno costose, come ad esempio i settori hard-to-abate o l’aviazione.

L’impellenza di effettuare rapidamente la transizione ad un’economia climaticamente neutrale ha però messo in campo una nuova sfida di portata considerevole: il dispiegamento in tempi brevi di grandi quantità di energia rinnovabile. Questo obiettivo è particolarmente sfidante per il nostro paese, per il quale la velocità di installazione di rinnovabili è largamente inferiore a quella necessaria per raggiungere gli obiettivi climatici 2030 e 2050. L’attuale frazione di energia rinnovabile prodotta è troppo piccola e troppo preziosa perché si possa pensare di sprecarne oltre la metà in processi inefficienti quando vi sono alternative migliori. Se l’impegno dei governi a raggiungere la neutralità climatica è serio, l’efficienza energetica non può certo essere un’opzione e va messa al primo posto. Il criterio alla base della scelta di qualsiasi percorso di decarbonizzazione deve essere quello di favorire - ove possibile - l’impiego di tecnologie a maggior rendimento, minimizzando la necessità di energie rinnovabili addizionali necessarie per raggiungere l’obiettivo di zero emissioni nette.

Per il trasporto su strada, che nel frattempo ha visto l’affermazione della mobilità elettrica, largamente più efficiente, meno costosa e già tecnologicamente matura per molti segmenti, l’utilizzo dell’idrogeno non è giustificabile, se non in applicazioni di nicchia, né lo è lo spazio che esso occupa nel dibattito politico attuale italiano sulla transizione energetica. Non a caso alcuni emeriti esponenti della comunità scientifica italiana hanno definito “follia energetica” l’attenzione dedicata all’idrogeno nella definizione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza per tutti quei settori che non siano specificatamente nautica, aeronautica e grandi produzioni industriali (Energia per l’Italia, 2021).

Molte sono inoltre le questioni che ruotano intorno al tipo di idrogeno utilizzato, i costi di produzione e trasporto, e la prontezza commerciale dei veicoli. Questo briefing ha l’obiettivo di fornire alcune informazioni di base rispetto all'attuale catena di produzione, trasporto e distribuzione dell'idrogeno, lo stato dell’arte del mercato e l’eventuale ruolo che può giocare nella decarbonizzazione del trasporto terrestre.

La lettura dei documenti, dei progetti, delle esperienze e della letteratura tecnica e scientifica relativa alle applicazioni dell’idrogeno, quale vettore e stoccaggio energetico, nel settore dei trasporti terrestri, dimostra che non costituisce una strada percorribile e utile per la decarbonizzazione del settore. Anzi, nel caso di competizione tra risorse scarse, è di ostacolo ad altre alternative ambientalmente ed economicamente preferibili, come l’elettrificazione.

Per i veicoli leggeri la risposta alla decarbonizzazione è rappresentata dalla tecnologia elettrica a batteria e in questo senso il mercato ha già deciso. Per i veicoli pesanti, le economie di scala associate al rapido sviluppo del mercato delle auto elettriche amplificano il business case per i camion a batteria e sempre più numerosi sono gli annunci dei produttori di camion sulla messa in produzione di serie di autocarri elettrici, mentre i camion a idrogeno sono ancora in fase prototipale e bisognerà attendere almeno il 2026 per vederne la messa in produzione di serie in Europa.

Per il trasporto merci di lungo raggio (>500km) non è ancora chiaro se la mobilità elettrica sarà in grado di avere tutti i requisiti necessari per sopperire alle esigenze della logistica merci in termini di autonomia e tempi di ricarica. Ma il buon senso da un lato e lo stato dell’arte attuale della tecnologia e del mercato dall’altro indicano che il ruolo dell’idrogeno nella decarbonizzazione del trasporto su strada, se mai ne avrà uno, resterà limitato ad applicazioni di nicchia (decine di migliaia di mezzi, rispetto a milioni). Per queste ragioni è opportuno sviluppare ricerche e sperimentazioni, ma non accettabile lo sviluppo di progetti industriali, come per altro emerge con evidenza dai pochi progetti concreti tra le proposte del PNRR.


Rapporto completo

venerdì 30 aprile 2021

La bellezza salverà il mondo

 

Di Bruno Sebastiani

La frase di Dostoevskij “La bellezza salverà il mondo” (L’Idiota, parte III, capitolo V) è stata interpretata in un’infinità di modi e ha fornito spunto per un gran numero di dibattiti.

Diego Fusaro, nel corso di una conferenza tenutasi a San Pellegrino Terme nel 2015 (ora presente su Youtube), ha dissertato egregiamente su questa pluralità di impieghi che ne è stata fatta.

Io qui vorrei fornire la mia interpretazione personale, non necessariamente coincidente con quella del grande romanziere russo, sempre che Dostoevskij ne abbia avuta una e non abbia posto la locuzione in bocca ai suoi personaggi unicamente come “frase a effetto” (nel corso della narrazione l’argomento non viene approfondito).

In un recente post su Facebook ho scritto: “È tempo di utilizzare l’arte per divulgare la consapevolezza della nocività del genere umano per la Terra. Le idee faticano a farsi strada, e allora proviamo a dipingere, cantare, fotografare, declamare, scolpire, rappresentare in ogni modo questa nostra negatività per il pianeta, ciascuno con le proprie abilità.

Ecco questa per me è la “bellezza” che può, anzi deve, tentare di frenare la nostra folle corsa verso il baratro. Chiamiamola “bellezza”, “estetica” o “arte”, qualunque sia il suo nome fa riferimento a categorie del pensiero distinte e distanti da “ragione”, “logica” e “scienza”. E se queste ultime sono indubitabilmente le responsabili dell’estremo degrado ambientale in cui ci troviamo, perché non utilizzare nella nostra azione di contrasto le facoltà della mente non coinvolte nell’attuale ecocidio, quelle che nel corso della storia hanno invano tentato di arginare la crescente marea scientista?

Queste facoltà si esprimono con il linguaggio dell’arte: pittori e scultori hanno sempre tratto ispirazione dal mondo della natura, poeti e musicisti si sono sempre rivolti a quella “categoria dello spirito” che si chiama “sentimento”.

Nella mia raffigurazione della mente umana il sentimento non è altro che l’istinto sublimato dalla ragione, laddove per istinto intendo tutto ciò che ci deriva direttamente dalla natura, senza alcuna intermediazione di tipo “culturale” o “razionale”.

La ragione, sempre secondo la teoria che sostengo, è invece quel “surplus” di intelletto procuratoci da occasionali alterazioni geniche verificatesi nel corso dell’evoluzione, “surplus” da noi utilizzato per dar vita al mondo “artificiale” giustapposto a quello “naturale” (come la neocorteccia è sovrapposta al cervello limbico e a quello rettiliano …).

Se la ragione ha causato i guai che ben conosciamo, dalla sovrappopolazione all’esaurimento delle risorse (ecc. ecc.), è purtuttavia vero che solo la ragione può tentare di porre rimedio a tali guai, essendoci preclusa la via del ritorno allo stato di natura dalle troppe modifiche intervenute nel tempo ai danni del nostro organismo e dei nostri assetti sociali.

Ma ogni tentativo di riparazione prima di essere intrapreso deve essere desiderato.

Ed ecco il ruolo dell’arte: rappresentare la bellezza del mondo della natura e la mostruosità del mondo artificiale al punto da eccitare i sentimenti umani verso il desiderio della riparazione.

L’atto estetico va poi razionalizzato e tradotto in pratica riparatoria. Ma, senza la scintilla per l’innesco del processo “revisionista”, nulla di veramente decisivo può prendere avvio.

Qualcuno osserverà che molti uomini di buona volontà e tanti potenti del mondo hanno già preso coscienza della necessità di modificare i nostri comportamenti nei confronti dell’ambiente, come dimostrano numerose iniziative individuali e svariati accordi internazionali.

C’è il dubbio che tali prese di coscienza nascondano talvolta altrettante operazioni di facciata, destinate a consentire la prosecuzione dell’attuale modus vivendi a cuor leggero, con la coscienza risciacquata nella tinozza della green economy.

Ma pur senza voler pensare male e dando credito alla buona volontà dei singoli e delle istituzioni, appare evidente come le iniziative sin qui intraprese siano del tutto insufficienti a riparare i danni causati all’ambiente. La prova più macroscopica è fornita dalle difficoltà incontrate a raggiungere gli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi del 2015, a proposito del quale è interessante notare come il maggior contributo alla riduzione delle emissioni dei gas serra è stato fornito non tanto dalle iniziative degli Stati firmatari quanto dallo stop alle attività produttive imposto dalla dilagante pandemia.

Comunque sia, lo stimolo che le opere d’arte possono offrire alle moltitudini e alle classi dirigenti è sempre della massima importanza, anche laddove la spinta al cambiamento appaia sinceramente avviata: essa infatti va convintamente sostenuta contro i rigurgiti egoistici di specie che non mancano mai di manifestarsi.

Al fine di dare il buon esempio, come promotore della teoria cancrista ho rivolto un appello agli amici artisti che condividono con me la convinzione della nostra nocività per la biosfera e ho creato un’apposita pagina del mio blog con alcuni contributi illustrativi al riguardo. Un primo manipolo di pittori, poeti e musicisti ha già risposto all’appello, e precisamente:

-        Mario Giammarinaro, pittore (con le sue maree nere ha denunciato i danni dell’inquinamento)

-        Massimo D’Arcangelo, ecopoeta (“Il cancro del Pianeta siamo noi / ma il messaggio è omesso / vietato, nascosto alle masse”)

-        Maicol MP, musicista (L’uomo come cancro del Mondo)

-        Andrea Rayquaza Di Sanzo, cantautore rap (Autodistruzione)

-        Marco Sclarandis, scrittore e poeta (Mai ci parlerà l’aragosta)

-        Mario Famularo, poeta (“quest’uomo senza pace / è il cancro della terra”)

-        Cristina De Biasio, pittrice (tra le sue opere: Nuovo mondo, dopo l’estinzione umana)

-        Gabriele Buratti (Buga), pittore, fotografo e scultore (“Dal linguaggio rupestre a quello freddo e inumano dei codici a barre, la semiologia ha fatto un salto che allontana sempre più l'uomo dal mistero del sacro impadronendosi del nostro immaginario collettivo attraverso il mondo dell'economia.”)

Sono consapevole che i pochi nomi citati siano quantitativamente un’inezia rispetto al gran numero di artisti che stanno tentando di raffigurare i danni da noi procurati alla natura.

Ma l’elemento che mi preme mettere in rilievo è l’importanza dell’unificazione degli sforzi in vista di un fine comune. Il singolo artista segue la sua ispirazione e, poiché ogni vero artista non può che essere in buona fede, certamente la sua rappresentazione del mondo rispecchia la drammatica situazione che stiamo vivendo.

Il rischio è che sia interpretata come la visione di un pittore, poeta o musicista isolato, come lo sfogo di una singola anima afflitta dal tormento per il brutto che avanza.

Il che non significa che ogni opera d’arte debba esprimere afflizione e sofferenza. Anzi. L’inno alla vita, la gioia per la natura che rifiorisce, l’esaltazione dell’amore per tutti gli esseri viventi sono altrettanti potenti eccitatori da contrapporre all’avidità del guadagno, al freddo calcolo della ricerca scientifica, alle brutalità compiute ai danni del mondo animale e vegetale.

Ma in un caso o nell’altro (esaltazione del bello o denigrazione del brutto) ciò che conta è l’obiettivo da raggiungere e cioè la graduale conversione dell’umanità a nuovi stili di vita.

Altre forze spingeranno nella medesima direzione e purtroppo saranno violente, come quelle che la natura offesa scatenerà sotto forma di tempeste, uragani, innalzamento dei mari e così via.

Anche per tentare di prevenire queste catastrofi è opportuno che il maggior numero possibile di persone si convinca quanto prima della necessità del cambiamento e, se gli argomenti razionali non sono in grado di generare questo convincimento, l’arte, o meglio, l’azione congiunta di tutti gli artisti, può forse ottenere risultati migliori, può forse “salvare il mondo”.

Mi faccio quindi interprete del pensiero (vero o presunto) di Fedor Dostoevskij e chiedo a tutti gli uomini che hanno orientato la loro attività in campo artistico (compresi gli autori teatrali e cinematografici, i fotografi, gli architetti, i romanzieri, i compositori musicali, i writers ecc.) di riconoscersi in questo comune sforzo di cambiamento globale.

Oggi forse il ruolo dell’arte appare offuscato rispetto ai secoli passati, come se la sua voce fosse sovrastata dal frastuono del traffico metropolitano, cionondimeno mi auguro che pittori, poeti e musicisti prendano sempre più coscienza del loro ruolo di “grilli parlanti” capaci di smuovere la coscienza collettiva dell’umanità e che promuovano questo nuovo romanticismo all’insegna del motto “la bellezza salverà il mondo”.


lunedì 26 aprile 2021

"La Locomotiva." La Parabola della Sinistra Italiana

 

 Francesco Guccini "La Locomotiva" (1972)


Il recente "manifesto" a favore del ministro Roberto Speranza non meriterebbe grande attenzione, di per se. Ma merita qualche considerazione per il fatto che lo hanno firmato molti membri della sinistra storica italiana, incluso Francesco Guccini.

Guccini.... un eroe della sinistra che io e tanti altri ci ricordiamo soprattutto per la sua canzone "La Locomotiva" del 1972. E, ripensandoci sopra, come per tante cose che una volta ci sembravano belle e intelligenti, ahimé, si vede quanto sono terribilmente invecchiate.

"La Locomotiva," la storia di un anarchico, un eroe che Guccini si immagina "giovane e bello." Uno che si impadronisce di una locomotiva e si lancia "a bomba contro l'ingiustizia" contro un "treno pieno di signori" perché "trionfi la giustizia proletaria."
 
Risentita oggi, questa canzone di Guccini non è gran cosa dal punto di vista musicale. Ma il successo che ha avuto negli anni ha delle ragioni. La canzone ha una sua forza che sta soprattutto nell'immagine della vera protagonista: la locomotiva.
 
Sentendo la canzone ci sentiamo a bordo della creatura che "divora la pianura", "un giovane puledro"  che "morde la rotaia con muscoli d' acciaio." E poi, la storia dell'eroe si intreccia perfettamente con la furia crescente della locomotiva che va sempre più veloce verso il suo destino, finche, nella scena finale, il mostro si autodistrugge con "un grido di animale," "eruttando lapilli e lava". Dell'eroe, sappiamo che "lo raccolsero che ancora respirava."

Si capisce perché la canzone ha avuto tanto successo. C'era dentro tutto l'idealismo della sinistra italiana del tempo delle rivolte giovanili del '68. La libertà, la giustizia, il sacrificio personale, la voglia di cambiare la società. Tutte cose che affascinavano quelli che hanno vissuto quei giorni, quando sembrava davvero che si potesse cambiare qualcosa.
 
Purtroppo, l'idealismo è sempre a un passo di distanza dal fanatismo e, in fondo, la canzone della locomotiva di Guccini ci racconta la storia della sinistra italiana in modo curiosamente profetico. Proprio come la locomotiva, la sinistra era partita in una folle corsa alla ricerca della "giustizia proletaria" non importa in che modo e non importa con che mezzi. Il risultato è stato un periodo di vera violenza, gli "anni di piombo." 
 
Certamente, non tutto quello che è successo in quegli anni era da attribuire alla sinistra, e forse nemmeno la maggior parte di quei tragici eventi. Ma tutto era adombrato già nel messaggio della canzone, con l'eroe che voleva compiere una strage ammazzando persone che lui definiva "signori,"  ma che, ammesso che lo fossero, includevano i macchinisti e il personale del treno contro il quale si era lanciato, necessariamente suoi fratelli proletari. 
 
Oggi, quelli che si comportano in questo modo li chiamiamo giustamente terroristi. Il termine è abusato, certo, ma indica bene quelli che ammazzano la gente per imporre la loro ideologia, o religione, o che altro di bacato che hanno in testa. E' la base del totalitarismo, una cosa che non implica necessariamente la violenza, ma che è tipica della sinistra: l'incapacità di accettare il dissenso. Ovviamente, non è solo la sinistra ad essere totalitaria -- diciamo che ci tengono altrettanto (e forse un tantino di più) di altre forze politiche. 
 
Alla fine, in ogni caso, l'ondata della sinistra italiana si è esaurita senza gridi animaleschi, e senza eruttare lapilli e lava incandescente, ma sicuramente lungo un binario morto. La sinistra è invecchiata alla ricerca della sicurezza economica, del posto statale garantito, della pensione tranquilla, della "sicurezza," senza ricordarsi che era stato detto che "un popolo che rinuncia alla sua libertà in nome della sicurezza perde entrambe le cose". 
 
E si è visto bene come è invecchiata la sinistra con questo "manifesto" in favore di un burocrate politicizzato, Roberto Speranza, che ha fatto a pezzi la Costituzione in nome della sicurezza, senza nemmeno riuscire a ottenerla, ma in compenso distruggendo la vita e il benessere di tante persone. Perlomeno, l'eroe della canzone di Guccini metteva la propria vita in gioco, ma questo non è certo il caso di Speranza
 
Tutto invecchia, sia le idee che le persone. Non è detto che si debba per forza invecchiare male, ma peggio di così mi sembra difficile. 
 
 
 
 

martedì 20 aprile 2021

Il Medioevo Illuminato: Prepariamoci a un Nuovo Modo di Gestire la Società

 

Il concetto di "ritorno al Medio Evo" si sta facendo sempre più diffuso. Non per niente, da il titolo a questo blog: dobbiamo cominciare a pensare seriamente non tanto a un "ritorno" al Medio Evo ma a un "Nuovo Medio Evo" che prenda dal vecchio le sue caratteristiche migliori, in particolare la gestione della società basata sulla giustizia e non sulla violenza, la decentralizzazione delle strutture di governance, l'economia basata su risorse locali, e la stabilità economica. Qui, ne parla Luisella Chiavenuto in un post apparso su "Umanesimo e Scienza"

Di Luisella Chiavenuto


Nonostante il suo successo e potere, la credibilità e la dignità della Scienza sono ai minimi storici.

Non si tratta più di opporsi solamente ad una gestione della crisi covid, ma anche - e nel contempo - opporsi ad una tecnocrazia scientista e disumanizzante che in assenza di opposizione non farà passi indietro - a prescindere da covid e varianti.

In un quadro di evaporazione dei posti di lavoro, l'assetto sociale si baserà molto probabilmente su un reddito di cittadinanza esteso - e subordinato a determinati comportamenti sociali.

Questo per mantenere livelli minimi di consumo e consenso - e unito ad un ulteriore sviluppo e aggiornamento del modello economico attuale - che sta distruggendo ovunque la rete della vita.



PROSPETTIVE FUTURE : MEDIOEVO ILLUMINATO ?

La prospettiva è quindi di lungo respiro: resistenza ed elaborazione di nuovi modelli di pensiero e di organizzazione sociale, volti alla riscoperta delle radici culturali del passato, e nel contempo orientati verso un futuro dal volto umano - in cui saperi teorici e pratici si intreccino ed evolvano liberamente, senza preconcetti spazio-temporali.

E' anche importante sostenere la trasversalità politica di intenti, che in piccola o grande misura già esiste nelle persone, all'interno di ogni organizzazione. Questo per rallentare i crolli sistemici, dando così tempo all'emergere di organizzazioni radicalmente diverse da quelle attuali. E ricordando che questa trasversalità esiste soprattutto fuori dai partiti e dalle istituzioni - nella maggioranza dei "politicamente disperati".

Per consentire una massima flessibilità - e fiducia "ontologica" - nel rispondere ai crolli sistemici in atto, si può forse pensare ad una sorta di "medioevo illuminato" in cui - per citare A.Langer e prima di lui altri - si ricerca tutto ciò che è "lento, dolce e profondo" - in un quadro di povertà materiale che sarà per molti condizione obbligata e dolorosa, ma insieme opportunità di rinascita diversa.



SCONTRO TRA PARADIGMI CULTURALI E SCIENTIFICI DIVERSI

In sintesi, si potrebbe parlare di resistenza contro una Tecnoscienza votata alla riprogrammazione bio.informatica e bio.ingegneristica della natura, e della vita, in ogni sua forma - una tecnoscenza in preda a un delirio di onnipotenza ed esaltazione, nel suo fondo oscura e disperata, perchè volta alla distruzione della nostra stessa natura umana.

A questa Tecnoscienza Riduttivista, si può opporre un nuovo Umanesimo della Complessità, che includa anche il meglio del pensiero Scientifico - ma su un piano di pari dignità culturale e politica.

E con la consapevolezza sia della grandezza, sia del lato oscuro, e dei crimini, di cui sono intessuti tutte le culture e tutte le correnti culturali - comprese ovviamente tutte quelle contemporanee.

Un Umanesimo della Complessità, dunque, basato su una Saggezza che si può definire non-duale, in quanto orientata alla ricomposizione delle fratture che attraversano e frammentano la nostra vita, la nostra psiche, la realtà in tutti i suoi livelli interconnessi.



INCONTRO TRA BIO-DIVERSITA' COLLABORANTI

Quindi lo scontro tra paradigmi culturali opposti deve essere, nel contempo, anche incontro umano e intellettuale tra le persone là dove possibile - e oltre l'impossibile - per superare e ricomporre le lacerazioni.

Questo significa anche sostenere sia la libertà di spostamento di tutti in ogni luogo, sia la libertà di rimanere nella propria terra e cultura di origine.

In definitiva, significa tendere a superare radicalmente la dicotomia amico/nemico, e avere il coraggio di parlare di empatia e fraternità universale, come ideale etico e politico - in un orizzonte di bio-diversità collaboranti.

Ideale etico, ma anche acquisizione intellettuale, unificante e non ingenua - in grado di tentare risposte globali e locali, a problemi che sono affrontabili solo su entrambi i versanti interconnessi.

Siamo all'altezza di questi compiti? Ovviamente no, nessuno lo è, inutile insistere.... e allora possiamo essere - e fare - quello che riusciamo e possiamo, accettando i nostri limiti.

Ma considerando anche che siamo un mistero a noi stessi, e che quindi le nostre risorse individuali e collettive sono in definitiva insondabili, come la vita stessa.

Luisella Chiavenuto aprile 2021

sabato 17 aprile 2021

Il problema delle "due culture" è una questione di essenza, di interpretazione, oppure di altro...

 

 

Post di Fabio Vomiero

Sono passati molti anni oramai dalla pubblicazione del famoso saggio di Charles P. Snow sulle due culture (1963) in cui l'autore, fisico di formazione, denunciava in modo franco e quasi provocatorio l'evidente spaccatura intellettuale che si era venuta a creare all'epoca tra gli umanisti e gli scienziati, ma da allora, la riflessione filosofica sul ruolo della scienza e delle discipline umanistiche nell'ambito del panorama socio-culturale contemporaneo non si è ancora minimamente risolta.

Le scienze sperimentali e le discipline umanistiche, infatti, sono certamente due attività molto diverse tra di loro e per questo non vanno forzate necessariamente a stare dentro lo stesso contenitore, tuttavia è anche vero che a volte i confini appaiono così sottili e artificiosi da essere probabilmente più indefiniti e mobili di quanto comunemente si creda.

Ma andiamo con ordine, perchè come spesso accade nel caso dei dibattiti e delle discussioni, il primo problema è sempre quello di intendersi sull'uso dei termini e dei significati. Che cosa si intende, infatti, per cultura scientifica e cultura umanistica, ed è veramente un problema di cultura, o piuttosto di diverse modalità cognitive di approccio alla conoscenza. E poi, siamo proprio sicuri che queste "due culture" rappresentino veramente due mondi completamente diversi e tra di loro incommensurabili? Inoltre la questione è davvero effettivamente riducibile a quell'estrema semplificazione volgare che vuole la scienza occuparsi soltanto dell'oggettivo e del vero e le discipline umanistiche invece unicamente del soggettivo e della bellezza, o il tema è in realtà un po' più complesso...

Innanzitutto cominciamo con il dire che l'origine di questa dicotomia intellettuale è piuttosto recente e collocabile grossomodo tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento. Soltanto poco tempo prima, infatti, molti di quelli che oggi non esitiamo a definire come dei grandi scienziati classici, come per esempio Galilei, Keplero e Newton, si occupavano anche di discipline umanistiche (per esempio di filologia), oltre che a possedere spesso una solida vocazione religiosa. Era una cosa del tutto normale, tanto che Galilei fu persino definito dal Leopardi come uno dei più «limpidi padri della lingua italiana».

In Italia, però, una separazione concettuale piuttosto netta tra le due culture prese origine intorno agli inizi del Novecento quando alcuni autori, tra i quali Benedetto Croce e Giovanni Gentile (che fu ministro dell'istruzione, vedi riforma Gentile), riuscirono ad imporre persino ai programmi scolastici un modello culturale orientato alla netta supremazia della cultura umanistica su quella scientifica, cavalcando posizioni ideologiche dubbie e difficilmente dimostrabili (neoidealismo).

Più o meno nello stesso periodo, il filosofo tedesco Wilhelm Windelband propose una sorta di classificazione delle scienze basata sulla metodologia di studio, che venne poi ripresa e approfondita recentemente dallo psicologo americano Jerome Kagan in un interessante saggio del 2009, nel quale le scienze vengono suddivise in tre categorie: le scienze naturali, le scienze umanistiche e le scienze sociali.

Mentre le scienze naturali (fisica, chimica, biologia) utilizzano un approccio cosiddetto "nomotetico", caratterizzato cioè dalla ricerca di principi e di pattern (leggi), quelle umanistiche, che si occupano invece dello studio della cultura umana nel corso della storia, utilizzano invece un approccio "idiografico", che guarda invece alla specificità e alla particolarità, caratteristiche tipiche della creatività umana. Le scienze sociali, infine, come per esempio la sociologia, l'antropologia e l'economia si servono invece, a seconda dei casi, di entrambi i metodi.

Ma sebbene questa visione abbia influenzato sensibilmente la filosofia, in particolare quella delle scienze umanistiche e ancora oggi la ritroviamo spesso come elemento di superficiale spartiacque tra le due culture, le cose non sono affatto così semplici e nette.

Una nota certamente interessante di questa classificazione è però l'utilizzo del termine "scienza" non soltanto per definire le scienze naturali sperimentali, ma anche quando ci si riferisce alle discipline umanistiche, il che ha perfettamente senso quando, invece di guardare alla sfera umanistica considerando soltanto la bellezza e la soggettività delle sue opere letterarie e artistiche, si voglia veramente cogliere e comprendere anche la complessità metodologica e procedurale di fondo di altre sue espressioni. Si pensi per esempio allo studio del linguaggio (linguistica) o alla grammatica, alla filologia, alla storiografia, alla musicologia, alla teoria dell'arte, alla logica. Tutte discipline che, inevitabilmente, non possono che essere guidate anche da una forte vocazione di tipo scientifico. Anche in questi campi della conoscenza, infatti, così come nelle scienze naturali, gli studiosi sono spesso alla ricerca sia di principi metodologici che di pattern empirici da formalizzare poi in strutture logiche, procedurali o matematiche. Si pensi ancora alla critica e alla ricostruzione delle fonti in storiografia e in filologia, oppure alla tridimensionalità o alla prospettiva nella teoria dell'arte o ancora al tentativo di stabilire la validità o meno di una linea di ragionamento per quanto riguarda la logica.

D'altro canto, invece, nel campo delle scienze naturali, le nuove consapevolezze epistemologiche acquisite principalmente in seguito alla relatività, alla teoria quantistica e alla teoria della complessità, hanno nel frattempo infranto quel plurisecolare sogno della fisica classica riduzionista di poter spiegare perfettamente, e di riuscire a prevedere nel dettaglio ogni fenomeno naturale, ponendo così di fatto una seria limitazione al mito positivista della calcolabilità ultima del mondo da parte della scienza.

La moderne scienze della vita ci hanno insegnato per esempio che, diversamente dalla visione per certi versi ingenua di stampo fisicalista, una "legge fisica" descrive soltanto classi di eventi e non i singoli eventi, e che quindi la legge fisica e la causa non escludono il caso, la fluttuazione, il "qui e ora" del singolo evento che invece può essere determinato e vincolato in larga parte anche dalle particolari e mutevoli condizioni al contorno.

Vi è pertanto la diffusa sensazione che oramai, per diversi motivi, i tempi siano tornati buoni per l'inaugurazione di una nuova epoca in cui le scienze naturali e le scienze umanistiche possano finalmente tornare a dialogare e a capirsi, con lo scopo dichiarato e condiviso di ampliare reciprocamente i propri tessuti teorici, metodologici e sperimentali.

D'altra parte, i risultati che si stanno conseguendo oggi nei programmi di ricerca più complessi e ambiziosi, come per esempio nel campo delle neuroscienze, della paleoantropologia evoluzionistica, della climatologia storica, o della sociobiologia, suggeriscono come l'approccio più fecondo e produttivo sia in realtà proprio quello pluri- e inter-disciplinare.

Pare allora che il problema vero non riguardi affatto la teoria della conoscenza e nemmeno l'incommensurabilità tra le discipline, ma sia piuttosto da ricercarsi nell'impostazione intellettuale dell'agente attore ed interprete di tutto questo e cioè del singolo scienziato (alcuni) e del singolo umanista (molti di più), i quali, complici anche un ambiente culturale formativo oramai inadeguato e una radicata predisposizione cognitiva alle lotte partitiche, si ostinano a rinvigorire un inutile conflitto tra posizioni scientiste da una parte e ascientifiche o addirittura antiscientifiche dall'altra, ostacolando di fatto il progresso sia delle scienze naturali che delle discipline umanistiche.

mercoledì 14 aprile 2021

Come i nostri cervelli vengono distrutti dalla troppa informazione

 

 
 L'ameba Amelia, è la protagonista di un capitolo del mio libro "Before the Collapse" (Springer 2019). Amelia è una Naegleria Fowleri che ha l'abitudine no troppo simpatica di divorare i cervelli umani ma, a parte questo, si è gentilmente prestata a fare da esempio per il libro dei meccanismi di crescita delle creature viventi. Nel post che segue, Alessandro Chiometti usa ancora l'esempio delle creature monocellulari per un'interessante ragionamento su come i nostri cervelli vengano distrutti, non da un'ameba antropofaga, ma da un eccesso di informazione disponibile. Va un po' contro i principi dell'informazione "usa e getta" moderna, nel senso che comincia facendovi una lezione di chimica. Ma se avete voglia di leggerlo, vedrete che è un post estremamente interessante e originale. 


Aspettando la fine del mondo – Il paradosso dello zucchero e dell’informazione.

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Ciò che siamo abituati a chiamare commercialmente “zucchero” è in realtà il saccarosio, uno dei tanti “zuccheri” esistenti e indicati in chimica organica come carboidrati. Questi possono essere formati da una molecola di un qualunque zucchero (monosaccaridi) o da più molecole di questi (polisaccaridi).
Il saccarosio è un disaccaride formato dall’unione dei due monosaccaridi glucosio e fruttosio.

Se pur le molecole di questi due hanno la stessa formula bruta (C6H12O6) in realtà sono molto diverse, tanto per dire il glucosio forma un anello a sei elementi mentre il fruttosio lo forma a cinque, ma soprattutto è il glucosio che è la fonte primaria di ogni richiesta di energia di ogni essere vivente.





Il suo ruolo nei vari cicli aerobiotici o anaerobiotici è fondamentale per la produzione di ATP e quindi per ogni motore cellulare che richiede energia.  Tutti nutrienti che assumiamo nel corso della vita sono trasformati dal corpo in glucosio o immagazzinati come precursori di questo in varie forme (ad es. glicogeno) pronte per l’uso.

Insomma si può dire che il glucosio (e quindi suoi vari precursori presenti in natura) è ciò che consente la “vita” così come la conosciamo, nel senso di di mobilità, spostamento, sport, sforzo fisico ed intellettuale, crescita. Non è certo un caso che quando si vuole coltivare una coltura batterica con un apposito terreno di crescita l’apporto zuccherino deve essere sempre garantito. Anche i batteri e gli altri microrganismi crescono, e si moltiplicano, grazie al glucosio e quindi allo zucchero ovviamente.

Tuttavia, avete mai fatto caso che il saccarosio lo conserviamo per decenni a temperatura ambiente e non gli succede nulla?

Non va a male, non ci crescono le muffe e, se non ci mettono le mani i figli golosi o le formiche in campeggio, anche dopo anni lo troviamo esattamente dove l’abbiamo lasciato e possiamo consumarlo tranquillamente senza paura che ci sia cresciuto qualche batterio.

E questo, ve lo garantisco per ogni soluzione di zucchero in cui la percentuale di questo sia maggiore del 70% (ad esempio il miele).

Questo perché i microrganismi sono molto sensibili all’azione di ciò che chiamiamo pressione osmotica e per loro depositarsi su cristalli di sale (o di zuccheri) puri, o in soluzioni troppo concentrate di questi, significa morte istantanea.

La cellula del microrganismo è tenuta insieme dalla membrana cellulare che in chimica fisica è ciò che si definisce “membrana semipermeabile“, ovvero una barriera che applicata ad una fase liquida lascia passare il solvente ma non i soluti in esso disciolti. In una soluzione acquosa in pratica attraverso questa membrana passerebbe l’acqua ma non il sale disciolto in essa.

Ma cosa succede quando una membrana semipermeabile separa due soluzioni a diversa concentrazione di soluto? Succede che il solvente (acqua in genere) passi attraverso di questa dalla parte più diluita alla parte più concentrata (grazie alla forza della pressione osmotica per l’appunto) per DILUIRE la stessa fino a quando quelle due concentrazioni non saranno identiche.

Ma se stiamo parlando di un sistema chiuso come una cellula è ovvio che questa più di tanta acqua non la può contenere e finirà per esplodere o, viceversa, se ciò che è all’esterno è più concentrato di quel che è all’interno il batterio esaurirà l’acqua per il tentativo di diluire la concentrazione esterna. Quindi, riassumendo il batterio se si trova a contatto con una soluzione di acqua distillata muore perché l’acqua entrerà al suo interno fino a farlo scoppiare, se si trova in presenza di soluzioni molto concentrate (o dei cristalli di sali e zuccheri puri) muore perché l’acqua che è al suo interno fuoriesce per tentare un impossibile diluizione dell’ambiente esterno.

Lo so, ho fatto una premessa lunghissima ma era necessaria per tentare l’azzardato ragionamento speculativo su ciò che sta succedendo nella nostra società per ciò che riguarda la possibilità di accesso alle informazioni.

Più passa il tempo e più mi sembra evidente che l’enorme mole di sapere che abbiamo a nostra disposizione o, per meglio dire,  a  cui abbiamo possibilità di accesso, non ha aumentato in nessun  la conoscenza delle persone o la loro capacità di elaborare conclusioni in seguiti a queste. Anzi.

Al netto di fake news e di disinformazione orchestrata, tutti noi oggi abbiamo accesso a una quantità di dati e di informazioni impensabile fino a qualche decennio fa. Possiamo accedere al sito della Nasa per sapere come va lo scioglimento del permafrost in tempo reale, possiamo accedere alla John Hopkins University per sapere ogni morto e ogni contagio a causa della Covid sul pianeta terra, possiamo metter ein relazione i provvedimenti presi da ogni paese e capire chi ha indovinato o meno la gestione della pandemia, possiamo accedere ai siti di biologia evoluzionistica e conoscere l’andamento della sesta estinzione di massa.

Eppure c’è qualche meccanismo che si intoppa. L’analfabetismo funzionale è alle stelle, non sappiamo distinguere fra un sito di astronomia e uno di astrologia, di fronte a un grafico a tre variabili abbiamo lo stesso atteggiamento degli scimmioni di kubrikiana memoria di fronte al monolite nero.

Molte persone hanno sempre più difficoltà a completare la lettura di un articolo che rientra in una pagina A4 a carattere 12. (A proposito, state ancora leggendo?)

E molte di esse anche se lo leggono restano convinte che l’articolo gli dia ragione anche se c’è scritto l’opposto di quello che loro sostenevano.

Dov’è l’intoppo? Dov’è il paradosso osmotico che possa giustificare ciò?

A voler trovare una correlazione (avviso: speculazione sul ragionamento già speculativo di per se)  con il “paradosso” dello zucchero sembra che più la quantità di informazione disponibile arriva a contatto con le le nostre menti e più il buon senso holbachiano esce dalle nostre teste. Quel buon senso che non si apprende sui libri forse, ma che pure una volta sembrava essere sufficiente per distinguere un ciarlatano da uno scienziato.

Lo dichiariamo a scanso di equivoci: sappiamo benissimo che non c’è mai stata nessun età dell’oro e che gli approfittatori della buona fede ci sono sempre stati (lo “schema Ponzi” nasce nel 1918 mica l’altro ieri); però forse peccavamo di ottimismo positivista lo riconosciamo senza vergona, ma si sperava davvero che avendo al possibilità dell’accesso a tutte queste informazioni le persone sarebbero state se non migliori almeno più consapevoli.

E invece no, direbbe Brunori Sas.

Pazienza, sarà per la prossima specie.