martedì 23 giugno 2020

Siccità: galoppa nella nebbia parolaia e cementizia


                                                Fichi sofferenti per la siccità
 Post di Silvano Molfese

Nel dibattito pubblico sulla pandemia da Coronavirus una figura nuova per il grande pubblico è salita, suo malgrado, alla ribalta televisiva: quella dell’epidemiologo. Questi professionisti ci hanno spiegato come e perché si diffondono le epidemie e le misure preventive da adottare in attesa di un vaccino e di cure efficaci.

Al momento si dibatte sulla ripresa delle attività produttive, stiamo ascoltando anche giornalisti, politici e imprenditori: questi ultimi hanno parlato delle loro proposte imperniate come al solito sulla ripresa della crescita; il tutto è condito dalle polemiche governo-regioni, tra regioni e via dicendo.

Nonostante da diversi mesi si dia tanto spazio televisivo alla pandemia, sono quasi assenti dalla discussione quotidiana gli aspetti ecologici che ci hanno portato al blocco mondiale. Eppure in Italia non mancano gli ecologi che lavorano da tanti anni, tuttavia questi esperti non hanno spazio nei dibattiti in TV: perché? Secondo me forse interrogati su questo argomento potrebbero rispondere che il virus SARS-CoV 2 è "agente causale" di questa pandemia secondo la definizione di Lewontin (1).



Le cause che hanno favorito lo sviluppo del Covid 19, come di altre patologie animali e vegetali, sono legate all’intromissione sempre più massiccia dell’uomo negli ambienti naturali, alla concentrazione sempre più elevata di persone nei centri urbani, ai fitti scambi commerciali su scala globale, alla concentrazione sempre più spinta di animali domestici; all’inquinamento di tutto l’ambiente che ci circonda, con numerosissime sostanze di sintesi.

Il saccheggio metodico delle risorse naturali è praticato pure in Italia anche se spennellato di verde: per alimentare le centrali termoelettriche nostrane, che vanno a legna, adesso chiamata biomassa, annualmente si bruciano circa 5 milioni di tonnellate di pellet; di queste ne importiamo oltre 4 milioni dall’estero. Bruciare tali quantitativi di legna significa immettere nel giro di un solo anno milioni di tonnellate di CO2, biossido di carbonio, che saranno riassorbiti dalle piante in diversi decenni.

A livello globale in quasi due decenni, fino al 2018, sono stati rasi al suolo o incendiati qualcosa come 230 milioni di ettari di foreste primigenie, in pratica una superficie estesa quasi otto volte l’Italia! (2)

Le cause che ci hanno condotto a questo punto andrebbero ricercate nel sistema economico imposto in tutto il mondo e che favorisce la distruzione delle foreste, per trarre profitto e impossessarsi di vasti territori: non sia mai far parlare un ecologo tutti giorni in televisione!

Luca Mercalli, sul Fatto Quotidiano, segnala le preoccupanti anomalie termiche: ben 25 °C sopra la media in Siberia, a Khatanga, il 22 maggio (3); a Bologna il 14 aprile, nel giro di mezzora, la temperatura si è abbassata di ben 12 °C! (4)

Sono dati che dovrebbero destare una forte preoccupazione collettiva ed una quotidiana discussione pubblica a tutti i livelli perché è in discussione la sicurezza alimentare di quasi tutta la popolazione italiana. Le piante, come tutti gli esseri viventi, soffrono per queste elevate e rapide escursioni termiche e, se non deperiscono, certamente produrranno molto poco.

Dieci anni addietro la Russia bloccò le esportazioni di cereali per una intensa e prolungata ondata di calore ed il prezzo del grano si impennò: qualche mese più tardi quasi tutti i paesi del Nord Africa erano in rivolta.

Da ben due secoli si bruciano ingenti quantità di combustibili fossili e la distruzione delle foreste avviene proprio mentre aumenta la concentrazione di biossido di carbonio in atmosfera: per questo parametro siamo già molto oltre la soglia di sicurezza e le conseguenze sono il caos climatico e la siccità che aumentano anno dopo anno.

Per la siccità a Città del Capo, Sud Africa, l’acqua è razionata e la popolazione giornalmente può consumarne solo cinquanta litri a testa! (5) Cosa succederebbe se in Italia fossimo costretti ad un consumo idrico limitato a cento litri pro capite al giorno? Non oso immaginarlo.

La preoccupazione è più che motivata: le temperature medie aumentano, le portate medie dei principali fiumi italiani e le precipitazioni nevose stanno diminuendo come anche l’infiltrazione dell’acqua che ricarica le falde.

Questi fenomeni si verificano a livello mondiale e quindi non possiamo fare affidamento su aiuti alimentari esterni. Mentre la siccità avanza al galoppo, vengono riproposte colate di cemento per le tasche delle imprese cementizie e per la gioia dei politicanti e di numerosi sindacalisti.



Bibliografia

(1) Lewontin R.C., 2010 – Biologia come ideologia. Bollati Boringhieri, 43 (Rimasi colpito dalla distinzione tra causa ed agente causale dell’Autore)
(2) Bertacchi A. 2019 - Relazione al convegno Resilienza o estinzione, Pisa 22 marzo 2019 http://mediaeventi.unipi.it/category/video/Resilienza-o-estinzione-parte-seconda/5eb581096cc392dfdbd8cd35cbec5bcf/206 al minuto 97.
(3) Mercalli L., 19 aprile 2020, - Il virus è poca cosa rispetto al disastro ambientale futuro. Il Fatto Quotidiano, 13
(4) Mercalli L., 24 maggio 2020, - In Italia arriveranno le notti “tropicali”, ai tropici tempeste. Il Fatto Quotidiano, 13

(5) Rai Tre – Acqua perduta - Presa Diretta di lunedì 3 settembre 2018

sabato 20 giugno 2020

Cancrismo e libero arbitrio


Annibale Carracci - Ercole al bivio (indeciso tra virtù e vizio)

Post di Bruno Sebastiani

Il pensiero umano, sin da quando ha iniziato a elaborare concetti astratti, si è diviso tra chi ritiene che Homo sapiens possa agire liberamente e chi lo nega.
Agli animali sarebbe preclusa questa possibilità poiché il loro cervello non elabora concetti astratti e il loro comportamento è guidato unicamente dall’istinto.
Già da questa introduzione appare chiaro come la diatriba sul “libero arbitrio” poggi sul fatto che il nostro cervello ha patìto una evoluzione abnorme, sconosciuta a ogni altra specie vivente.
E poiché, sin dal suo apparire, questa evoluzione abnorme è stata glorificata come l’evento più importante nella storia della biosfera, ne consegue che anche il libero arbitrio da allora è stato considerato condizione preminente rispetto alla “schiavitù” dell’istinto, tipica del mondo animale.
Le principali religioni, e in particolare le più diffuse, Cristianesimo e Islam, considerano il libero arbitrio una caratteristica imprescindibile della natura umana.
Questa attribuzione ha una sua ben precisa ragion d’essere: è l’espediente escogitato da profeti e teologi per giustificare la presenza del male nel mondo.
Come sarebbe stato possibile credere in un Dio perfettissimo che avesse creato degli esseri malvagi? L’ostacolo è stato aggirato dicendo che Dio aveva creato l’uomo (il “re del mondo”) tanto perfetto da essere libero, in grado cioè di decidere autonomamente del suo destino.
Salvo arrabbiarsi, lui, Dio, quando la scelta dell’uomo cade sul male anziché sul bene. E allora perché non “inclinarlo” verso il bene sin dall’inizio, impedendogli di fare il male?
Se è veramente onnipotente avrebbe potuto farlo!
In realtà il mondo della natura, come già detto, non gode di questa libertà. E, per di più, non conosce il concetto di bene e di male. O meglio. Il bene in ottica evoluzionista è ciò che tende a preservare la vita dell’individuo e a perpetrare quella della specie. Il male è ciò che vi si contrappone. Ciò all’interno di un complicatissimo sistema di pesi e contrappesi che mantiene la vita nel suo insieme in una perenne condizione di equilibrio instabile.
Ogni specie tende a espandersi ed è frenata in questa sua attività dalla capacità espansiva delle specie circonvicine, in un intreccio di territorialità e di convivenza che coinvolge tanto il mondo vegetale quanto quello animale.
La foresta con i suoi grovigli di piante, grida di animali, volo di uccelli, ombre, luci, vento e quant’altro è la rappresentazione vivente (o meglio: lo era) di questo mondo tanto complesso e tanto autoregolantesi.
Poi, come sappiamo, a un primate crebbe il volume del cervello e con esso la capacità di elaborazione delle idee.
Questo evento spostò gradualmente l’ago della bilancia a favore del primate in questione, divenuto nel frattempo “homo habilis”, poi “erectus” e infine “sapiens”.
Le specie circonvicine non furono più in grado di contrastare l’avanzata di questa specie, e iniziarono fatalmente a ritirarsi.
Ma la specie “homo” avrebbe potuto decidere di non espandersi ai danni delle specie circonvicine? Questa è la domanda fondamentale in merito alla questione del libero arbitrio.
Siamo tutti consapevoli di poter scegliere liberamente se andare al cinema o se restare a casa a guardare, la televisione.
Ma avremmo potuto scegliere di rinunciare all’utilizzo della parte superiore del nostro cervello, la neocorteccia, la quale, essendo intimamente connessa agli strati inferiori ove risiedono gli istinti primordiali, non poteva che sbilanciare a nostro vantaggio i delicati equilibri della natura?
Ebbene la risposta è no.
No in via teorica, per il semplice motivo che il cervello, sebbene tripartito, è tutt’uno (per un approfondimento su questo argomento si veda il primo capitolo del mio libro “Il cancro del pianeta consapevole” dal titolo “L’evoluzione abnorme del cervello”).
No in via empirica, in quanto tutta la storia del genere umano sta a dimostrare come dalle prime pietre levigate agli ultimi ritrovati della tecnica, ogni scoperta, invenzione, applicazione elaborata dal nostro cervello sia sempre stata usata per accrescere il nostro potere nei confronti del mondo della natura.
Tutto ciò premesso, vi è da dire che l’evoluzione umana, dopo aver conseguito a livello biologico l’abnorme evoluzione del cervello (la carcinogenesi), ha proseguito il suo cammino a livello culturale.
La ragione, frutto dell’evoluzione di primo tipo, si è dimostrata di gran lunga l’arma più potente nella lotta per la vita di darwiniana memoria, tanto potente da riuscire a modificare anche le proprie capacità elaborative.
Sinora lo ha fatto a proprio esclusivo vantaggio. Non solo. Lo ha fatto esaltando questa sua caratteristica, glorificando queste sue capacità: è il mito del continuo progresso che ha sospinto la ruota della storia sino al punto in cui ci troviamo.
Potrà la ragione modificare questo iter? Potrà assurgere al “libero arbitrio” e utilizzare se stessa contro se stessa?
Finora i segnali in questa direzione sono scarsi, diffusi solo a livello personale, del tutto insignificanti a livello socio - politico.
Il “servo arbitrio” impera a ogni latitudine. Tutti i popoli vogliono “progredire”, accrescere la produzione di ogni genere di beni, aumentare i consumi, arricchirsi, espandersi.
Questa è l’evoluzione culturale condizionata dagli istinti primordiali di sopravvivenza.
Contro questo modello c’è chi invoca la decrescita, la chiusura degli allevamenti intensivi, la rinuncia alla deforestazione e alle grandi monocolture, ma si tratta di una esigua minoranza, la cui predicazione, oltretutto, si scontra con il livello di complessità raggiunto dall’organizzazione sociale dell’impero del cancro del pianeta.
Una minoranza che esercita il libero arbitrio. È l’unico esempio che abbiamo.
Ed è per dare una voce più vigorosa a questa minoranza che nasce il Cancrismo.
Le idee possono muovere il mondo? Preferisco non pronunciarmi su ciò che accadrà in futuro, ma se esiste una tale possibilità, richiede senz’altro di poggiare su basi solide, su idee coerenti e ben strutturate intorno a una metafora fondante di sicuro impatto emotivo.
La metafora, l’immagine che io propongo è quella della cellula sana che si trasforma in cellula tumorale e si espande indefinitamente nel corpo dell’ammalato.
Lo choc provocato da questa immagine è del tutto voluto: intende smuovere le coscienze di quanti più umani è possibile dalla passiva accettazione degli impulsi originati a livello di cervello limbico e rettiliano per accedere finalmente ad uno spiraglio di libero arbitrio.
Se ciò non accadrà (e difficilmente accadrà), sarà la natura prima o poi a intervenire, presentandoci il conto del sontuoso banchetto sin qui consumato ai danni di tutte le altre specie vegetali e animali. C’è solo da augurarsi di non essere presenti nel momento in cui sul pianeta si scatenerà questo “redde rationem”.
Ma, visto che sto scrivendo queste pagine in tempo di pandemia, riflettiamo sul fatto che anche questo evento ha potuto verificarsi a causa della distruzione di tanti habitat naturali da noi causata, dalla nostra eccessiva concentrazione in spazi ristretti (le megalopoli) e dai numerosi mezzi di comunicazione che hanno trasformato il pianeta in un villaggio globale.
Le poche settimane di forzata inattività umana sono bastate alla natura per riprendersi qualche spazio che le era stato tolto.
Non so cosa accadrebbe se questo confinamento della nostra specie dovesse prolungarsi per mesi o anni.
A fianco di una espansione di tante specie vegetali e animali ai nostri danni, assisteremmo all’inceppamento della macchina sociale, con tutte le conseguenti gravi problematiche.
Ma cosa accadrà una volta superata l’emergenza sanitaria? Se tutti riprenderanno le loro abituali attività, proseguiremo la nostra folle corsa verso il baratro.
Vale dunque la pena di fare un estremo tentativo per conquistare realmente il libero arbitrio e volgere l’uso della ragione contro se stessa.
Il Cancrismo non vuol essere un “divertissement” letterario, ma una vera e propria rivoluzione culturale in questa direzione.

giovedì 18 giugno 2020

La torre lego: una metafora per l'economia globale


Post di Federico Tabellini

Il grosso mattoncino lego che costituisce la base della torre presenta un dato numero e una data disposizione dei fori (non li abbiamo scelti noi, erano già così nella scatola, e al momento nel negozio di giocattoli non sono disponibili altre confezioni). Ne consegue che i mattoncini più piccoli che vi si andranno ad incastrare sopra, e che costituiranno l’edificio vero e proprio, combaceranno con la base nella misura in cui presentano un numero e una disposizione delle sporgenze compatibili con i fori di quest’ultima.
La stabilità dell’edificio, si dice, è funzione del grado di compatibilità dei mattoncini fra loro. Il mattoncino più importante è ovviamente quello posto più in basso. Qualora si forzasse l’inserimento di un mattoncino che non vi si adatti totalmente, tale forzatura potrebbe danneggiare, col tempo, i fori della base, fino al punto in cui anche i mattoncini che in precedenza vi avrebbero combaciato alla perfezione darebbero alla torre risultati sub-ottimali in termini di stabilità.
Dentro alla scatola un piccolo manualetto (di quelli che nessuno legge mai) riporta alcune definizioni utili al processo di costruzione e manutenzione della torre:
Economia neoclassica: l’idea che i mattoncini nella scatola siano scarsi ma le possibilità infinite.
Green economy: l’idea che fra le possibilità infinite dell’economia neoclassica vi sia quella di rendere infinitamente utilizzabili i mattoncini scarsi.
Consumismo: l’idea che i mattoncini siano infiniti e possano quindi essere sprecati. Paradossalmente, alla sua base vi è la convinzione che i mattoncini nella scatola siano scarsi ma le possibilità infinite.
Modernità: l’epoca storica in cui la torre raggiunse la sua altezza massima e si diffuse l’idea che in futuro potesse essere ancora più alta, e che l’altezza della torre fosse un bene a prescindere da qualsiasi altra considerazione.
Post-modernità: l’epoca storica in cui si iniziò a dedicare gran parte del tempo e dell’energia alla decorazione della torre, poiché la sua stabilità venne data erroneamente per scontata. Molti iniziarono a costruirsi una piccola torre personale, altri rimpiansero un’epoca senza torri. Le certezze si sgretolarono e tutti i mattoncini sembrarono divenire indistinguibili. Perciò iniziò la personalizzazione dei mattoncini e ognuno volle avere il suo pezzo unico.
Decrescita: l’idea che la torre non sia stabile perché troppo alta. La proposta di una nuova equazione: stabilità come funzione della compatibilità fra i mattoncini e del contenimento dell’altezza della torre.

Buen vivir: l'idea che una torre più bassa non sia necessariamente una torre peggiore.
Resilienza: la capacità dei fori della base di ritornare alla condizione originale a seguito dell’inserimento forzato di un mattoncino poco compatibile. Pare che questa capacità non sia inesauribile.
Politica contemporanea: l’idea che la torre debba crescere in altezza perché tutti possano godere di un bel panorama contrapposta all’idea che la torre debba crescere in altezza perché alcuni possano godere di un panorama meraviglioso.
Terzo mondo: il luogo dove sono stati prodotti molti dei mattoncini della torre.
Primo mondo: il luogo dove la torre ha raggiunto la sua altezza massima.
Società, definizione 1: la torre.
Società, definizione 2: l’insieme delle idee e delle pratiche, individuali e collettive, attraverso le quali sono svolte (tra le altre) le seguenti funzioni: costruire la torre; conservare la torre; vivere nella torre; coordinare i vari piani della torre.
Ecosistema: la base della torre.
Nell’ultima pagina del manuale una nota di avvertimento:
“Attenzione a non danneggiare eccessivamente la base: la sua riparazione richiede numerose tonnellate di polvere stellare, qualche miliardo di anni e una discreta dose di fortuna."

martedì 16 giugno 2020

Ma le mascherine servono veramente a qualcosa? Cosa ci dice la letteratura scientifica.




Serve a qualcosa la mascherina contro il coronavirus? Dipende dalle condizioni.: l'OMS dice che non c'è evidenza scientifica di un beneficio derivante dall'uso genaralizzato di mascherine da parte di "persone in buona salute nella comunità". Però possono essere utili in condizioni particolari, ma quando esattamente? Qui, vi racconto che cosa ho trovato in proposito sulla letteratura scientifica.


Come al solito, ogni problema discusso sui social diventa una questione di tifoseria calcistica, con due opinioni opposte e contrapposte. E' successo anche per le mascherine, dove ci si divide fra quelli che dicono "non servono a nulla" (tipo Vittorio Sgarbi) e quelli che invece sostengono, "se non le mettiamo, moriamo tutti" (non scherzo, me lo sono sentito dire in un commento!)

Allora, ho fatto una piccola ricerca sulla letteratura scientifica e, senza pretendere di sapere di medicina, mi sento di potervi raccontare i risultati che ho trovato.

Per cominciare, qual'è la strada principale per la trasmissione di questi virus? Su questo vi potete leggere un rapporto del CNR che fa il punto della faccenda. Per approfondire, vi potete leggere l'articolo di Shaman e altri che non è recentissimo (2010) ma mi è parso veramente illuminante a proposito della natura stagionale delle malattie respiratorie.

Da questi e altri articoli e documenti si può concludere che che il vettore principale dell'epidemia sono le "droplets" emesse da persone infette con la respirazione. Invece, i cosiddetti "fomiti", particelle che stanno su superfici solide e infettano per contatto, hanno un ruolo marginale. Ma, in effetti, sembra logico che malattie che colpiscono l'apparato respiratorio si trasmettono principalmente attraverso le vie respiratorie.

Dopo di che, si tratta di stabilire come e in che condizioni si diffondono queste "droplets" e qui la faccenda si fa interessante. Risulta chiaro che le goccioline prodotte da starnuti o cose del genere, quelle visibili a occhio nudo, cadono a terra rapidamente -- fosse solo quello il problema, basterebbe mantenere le di distanze anche senza mascherina. Il problema sono quelle sotto il micron (milionesimo di metro). Si usa il termine di "aerosol" per una sospensione di queste particelle. Ne trovate una descrizione interessantissima a questo link.

In ambienti chiusi, queste particelle rimangono in sospensione a lungo e si diffondono anche a distanza di parecchi metri, rendendo inutile il distanziamento sociale. Non solo, ma la loro persistenza dipende dall'umidità assoluta dell'ambiente in cui si trovano. In ambienti secchi (una condizione tipica di ambienti chiusi), le goccioline evaporano parzialmente, diventano ancora più piccole e la loro persistenza aumenta. Il contrario succede per ambienti umidi.

Questo spiega come mai l'influenza è una malattia tipicamente stagionale, come spiegano bene Shaman e gli altri. In estate, l'umidità assoluta è più alta e quindi gli aerosol di nano particelle si diffondono meno bene. Aiuta che la gente tiene di più le finestre aperte, cosa che fa sparire rapidamente gli aerosol per ventilazione, come fanno vedere i ricercatori Giapponesi. Aiutano anche i raggi ultravioletti del sole, ma ovviamente solo all'aperto.

A questo punto, la domanda è se le mascherine bloccano l'emissione degli aerosol. La risposta è "in parte, si". Il problema qui è che ci sono talmente tanti tipi di mascherine che è difficile dire quali sono efficaci e quali no, e in che misura. Non ho trovato dati generali su questo punto, ma  qui trovate i risultati di un esperimento fatto usando un "damp cloth" (panno umido) che si rivela efficace. Però non è affatto detto che le mascherine ordinarie, quelle la gente porta in giro per la città, lo siano altrettanto. Diciamo che è ragionevole dire che le mascherine abbiano una certa efficacia, perlomeno in certe condizioni.

Ora possiamo riassumere la vicenda
  1. Il virus si trasmette principalmente come aerosol in ambienti chiusi e poco ventilati, in inverno. In queste condizioni, il distanziamento serve a poco.
  2. In questi ambienti, le mascherine possono avere una certa efficacia, ma sarebbe meglio evitare questo tipo di ambienti che sono comunque malsani. Come minimo, bisogna ventilare bene gli ambienti e cercare di tenerli umidi. Meglio ancora stare all'aperto il più possibile, esponendosi al sole.
  3. La mascherina non serve a niente all'aperto, in particolare in estate. Per non dire di quando andate in motorino!
  4. In condizioni dove non c'è affollamento e non c'è evidenza della presenza di persone infette, le mascherine non sono necessarie, in accordo con quello che dice OMS.  
Ci sono svariate altre deduzioni che si possono fare da questi dati. In particolare, io ne dedurrei che l'ambiente dove è più facile infettarsi è in casa propria, dove ci si trova spesso in ambienti poco ventilati e troppo secchi, specialmente in inverno. Dal che, si potrebbe dedurre che chiudere la gente in casa con lockdown potrebbe aver fatto più danni che altro, ma su questo per il momento non abbiamo dati a sufficienza per stabilire come stanno le cose. 


E questo è quello che ho trovato. Se ne sapete più di me o avete dati diversi, fatevi sentire sui commenti. Nella scienza, niente è mai scolpito nella roccia, si può e si deve cambiare idea sulla base di nuovi dati






lunedì 15 giugno 2020

La retorica del lavoro: più lavoriamo, più distruggiamo il pianeta


Per via di tutta la faccenda del coronavirus, questo interessante post di Bruno Sebastiani è rimasto in coda nella lista dei post e ora arriva un po' in ritardo rispetto alla data del 1 Maggio che ne era l'origine. Comunque, meglio tardi che mai e vale comunque la pena di leggerlo.

Un post di Bruno Sebastiani


Il 1° maggio, in occasione della festa del lavoro, un membro del Gruppo Cancrismo di Facebook ha scritto questo post: “Buon 1° maggio a chi crede ancora nella giustizia e nella libertà e combatte la sopraffazione...” L’immagine mostrava un corteo di uomini e animali che sfilavano affiancati.
Io, in qualità di amministratore del Gruppo nonché di ideologo del Cancrismo, ho così commentato: “Per il Cancrismo il lavoro è lo strumento attraverso il quale abbiamo devastato il pianeta! Non vedo cosa ci sia da festeggiare!
L’estensore del post ha replicato che “il senso di questo post era un altro e c’è scritto chiaramente”.
A questo punto concedo al mio interlocutore il beneficio della buona fede, ma credo che l’occasione sia propizia per fare un po’ di chiarezza su tutto l’argomento.
Coloro che festeggiano il 1° maggio apprezzano lo spirito di questa festa, e cioè l’aspirazione alla giustizia sociale da conseguire con l’accesso a forme di lavoro equamente retribuite, prive di rischi, non degradanti né eccessivamente faticose.
In realtà anche i datori di lavoro, imprenditori, industriali, amministratori ecc. hanno buon diritto a celebrare questa festa, perché è proprio attraverso il lavoro (oltre che il capitale) che essi conseguono i loro obiettivi produttivi e quindi economici.
Il lavoro in definitiva costituisce uno dei miti fondanti della nostra società, tanto da essere stato inscritto nell’articolo 1 della Costituzione italiana (“L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”) e da essere citato tra i principali obiettivi del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa (Art. 3: “L'Unione si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa, basato […] su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale […]”).
È un mito che è sempre andato di pari passo con quello del progresso tecnico e scientifico, ma che rischia, in un futuro ormai prossimo, di separarsi inesorabilmente da quest’ultimo: l’automazione dei processi produttivi rende infatti sempre più superfluo l’intervento dell’uomo, che, oltretutto, rappresenta uno degli elementi di costo maggiore di tali processi.
Sulla graduale espulsione dell’uomo dal mondo del lavoro e sulla sua progressiva sostituzione con dispositivi automatici e robot esiste un’ampia letteratura e ad essa rimando chi volesse approfondire l’argomento. In questi giorni sto leggendo “Homo Deus – Breve storia del futuro” di Yuval Noah Harari e anche in questo saggio ho trovato un’ampia descrizione di quella che sarà la società di domani, dominata dagli “algoritmi informatici” anziché da quelli “biologici” (alias “uomini”; vedasi il capitolo 9 dove il paragrafo titolato “La classe inutile” si apre con questa frase: “La più importante questione economica del XXI secolo potrebbe essere come impiegare tutti gli individui superflui.”)
Ma tralasciamo in questa sede il problema della disoccupazione prossima ventura e concentriamoci invece sul significato della retorica del lavoro tuttora imperante.
Iniziamo col dire che la glorificazione di questa attività tipica dell’essere umano è abbastanza recente. Nasce e si diffonde tra la metà e la fine del settecento con la prima Rivoluzione industriale e poi con la Rivoluzione francese.
Fino ad allora il lavoro manuale non aveva goduto di buona fama.
Per chi crede nei miti, la sua origine deriverebbe nientemeno che dalla maledizione divina conseguente al peccato originale, quando Dio scacciò Adamo dal giardino di Eden perché lavorasse il suolo, a sua volta maledetto e destinato a produrre spine e cardi. Questa attività sarebbe stata dolorosa e Adamo avrebbe potuto mangiare il pane solo con il sudore del suo volto. La donna avrebbe partorito tra grandi sofferenze. Così il capitolo 3 della Genesi.
Fin qui il mito. Ma anche quando dalla preistoria si passò alla storia, la considerazione per il lavoro non crebbe gran che.
I Faraoni utilizzarono migliaia e migliaia di schiavi per edificare le piramidi e stessa sorte toccò a miriadi di cinesi (o loro schiavi) quando fu costruita la Grande Muraglia.
Le antiche società per caste collocavano la categoria dei lavoratori al punto più basso della organizzazione sociale.
Tra gli indù i “bramhani” o sacerdoti erano al vertice gerarchico delle caste, seguiti dagli “kshatriya” o guerrieri. Solo dopo di loro venivano i “vaishya”, agricoltori e mercanti e i “shudra”, servi addetti ai lavori manuali più umili.
In Occidente le caste erano forse meno rigide che in Oriente, ma fino al tardo Medio Evo, e anche dopo, il clero e l’aristocrazia si spartirono i primi posti della gerarchia sociale, lasciando alla nascente borghesia (gli abitanti delle città) e ai servi della gleba (i lavoratori della terra) le posizioni meno degne.
Con la Rivoluzione industriale le cose iniziarono a cambiare, ma con estrema gradualità. La classe lavoratrice “urbana” e “operaia” andò acquistando consistenza numerica, ma non ancora dignità e considerazione; i contadini rimasero per tutto l’Ottocento tristemente subordinati ai proprietari terrieri (si veda il bell’affresco della società contadina realizzato da Ermanno Olmi nel film “L’albero degli zoccoli”)
Ma i lavoratori acquisirono un poco alla volta coscienza della loro importanza per il sistema industriale e capitalistico. Si unirono in organizzazioni sindacali e dettero vita a vasti movimenti rivoluzionari. Uno di questi conquistò il potere in Russia e lo tenne per quasi tutto il Novecento, espandendo la sua influenza su buona parte del globo terracqueo.
A est e a ovest il mito del lavoro crebbe sempre più in diffusione e importanza.
Lo stesso simbolo prescelto dai partiti delle classi lavoratrici (la falce e il martello) rendeva assai bene l’idea del culto nutrito per questa attività umana.
D’altra parte analogo culto venne tributato al mito del lavoro da parte delle classi egemoni (politici, industriali, finanzieri), fino al punto, come abbiamo visto, di inserirlo in testa alle Costituzioni nazionali e sovranazionali.
Ma in ottica cancrista quale è il reale significato del lavoro? Quale il valore da attribuirgli?
Iniziamo a dire che il lavoro è l’attività mediante la quale l’essere umano trasforma la materia a proprio vantaggio.
Si manifesta originariamente nella cosiddetta “industria litica”, oltre 2 milioni di anni fa, come conseguenza delle accresciute capacità encefaliche dei nostri progenitori che da ominidi si trasformarono in “Homo habilis”.
Proprio l’abilità è una delle principali caratteristiche del lavoro, la capacità di trasformare la materia prima (pietre, minerali, legno, esseri viventi) in “altro da sé”, in qualcosa di diverso da ciò che sarebbe stata in natura in assenza dell’intervento umano.
La pietra divenne la punta di una lancia, il ramo si trasformò in un arco, la pelliccia degli animali fu usata per ripararsi dal freddo.
La pietra non fu più pietra, il ramo non fu più ramo e gli animali furono uccisi per il nostro comfort.
Da allora è trascorso un tempo immemorabile e il significato del lavoro dal punto di vista concettuale non è cambiato.
Si è però modificato enormemente da un punto di vista quantitativo e qualitativo.
I piccoli, insignificanti sfregi perpetrati ai danni di un’ecosfera ricca di foreste lussureggianti sono divenuti immani scempi su un corpo planetario esausto, sfruttato all’estremo limite.
Tutto ciò grazie al lavoro.
La responsabilità, naturalmente, è della mente che ha guidato la mano, non della mano in sé. Ma l’atto che ne è conseguito, l’atto lavorativo, è lo strumento attraverso il quale abbiamo distrutto l’equilibrio che regnava nel mondo della natura e attraverso il quale non siamo in grado di ricomporlo.
Come e perché festeggiamo dunque questo strumento di distruzione?
La spiegazione che io do è la seguente:
  • con il lavoro abbiamo edificato una società ultra-complessa e sovrappopolata, quella che nel mio nuovo libro ho definito “l’impero del cancro del pianeta”
  • pur se ci rendiamo conto dei guai combinati, la via del ritorno ci è preclusa
  • non resta pertanto che andare avanti sperando che il progresso tecnico / scientifico trovi rimedi all’esaurimento delle risorse, all’inquinamento, al riscaldamento globale ecc.
  • l’andare avanti implica nuovo lavoro, e ciò perpetua il mito di questa attività mediante la quale abbiamo devastato la biosfera.
La retorica del lavoro come valore fondante della società è destinato dunque ad accompagnarci ancora per un certo numero di anni, unitamente agli altri miti corresponsabili della distruzione dei tessuti sani di Gaia, il mito del progresso, della crescita economica, dell’aumento della produzione e dei consumi.
Poi, come abbiamo già accennato, qualcosa cambierà. Ma non intendo parlare di situazioni future che non si sa con esattezza come evolveranno.
Preferisco rivolgermi ai miei contemporanei e dire loro: non festeggiate il lavoro, rimpiangete piuttosto il mondo che il lavoro ha distrutto e continua a distruggere! L’attività che voi celebrate il 1° maggio è in tutto analoga a quella delle cellule tumorali nel corpo dell’ammalato di cancro!

giovedì 11 giugno 2020

Una nuova speranza? Come evitare di andare in overshoot






Guest post di Jacopo Simonetta



Ci sono due cose che sono indispensabili agli umani per affrontare le difficoltà: avere una speranza e poter vedere un senso in ciò che accade, di conseguenza in ciò che si fa.

Viceversa, ostinarsi a vivere nelle proprie illusioni è esattamente ciò che può trasformare una crisi in una trappola mortale.

In fondo è esattamente questo che ci ha portati nella situazione attuale: ostinarci a credere che una qualunque combinazione di arrangiamenti tecnologici, politici, economici e culturali avrebbe potuto garantire ad un numero indefinito di persone di vivere un’eccellente e lunga vita, mentre la “Natura” prosperava tutto intorno a noi.

Eppure sappiamo molto bene da almeno 50 anni che non può essere così e anche perché. Sapevamo anche, approssimativamente, quando il collasso della nostra civiltà sarebbe cominciato e perché, ma i nostri sogni erano troppo più belli e quasi solo di questi si è parlato e tuttora si parla nei vari “Earth Summit”, COP x, y, z, eccetera. Questa, alla fin fine, è la causa del loro completo fallimento.

Ora che il temuto "Picco di tutto" è passato ed il conseguente collasso sistemico è cominciato (durerà a lungo, non mettetevi fretta), esiste ancora spazio per la speranza?

Secondo me si, ma solo a condizione di trovare un senso a ciò che accade e che accadrà e stavolta lo dobbiamo trovare nella realtà dei fatti e non nei sogni. La pandemia in corso può essere un buon punto di partenza.

Il Covid-19 ha infatti sparso il panico a tutti i livelli ed in praticamente tutti i paesi, ma non è tanto il virus di per sé a rappresentare un pericolo per l’umanità, mentre lo sono eccome il panico con le sue conseguenze economiche e politiche. In pratica, una malattia che probabilmente ucciderà alcune centinaia di migliaia, forse qualche milione di persone nel mondo, ha già innescato processi che rischiano di portarne alla tomba decine di milioni nel breve termine, forse miliardi nel giro di alcuni decenni. Come è stato possibile?

E’ accaduto perché alla fine del XVIII secolo una combinazione di eventi unica nella storia ha reso temporaneamente possibile una crescita economica, tecnologica e demografica che in due secoli ha surclassato di parecchi ordini di grandezza quella verificatasi nei 50.000 anni precedenti (cioè da quando è approssimativamente cominciata la diffusione planetaria della nostra specie).

Il risultato è stato esattamente quello a suo tempo previsto: il degrado delle risorse e dell’ambiente hanno condotto lo sviluppo economico in un vicolo cieco in cui siamo ora contemporaneamente minacciati dal collasso economico e da quello ecosistemico.

In estrema sintesi, una qualunque economia funziona come una pompa che aspira risorse dall'ambiente, ci fa qualcosa che poi riscarica nell'ambiente stesso. Maggiore è l’energia che possiamo applicare alla pompa, maggiore è la quantità di beni e servizi che si possono produrre, dunque maggiore è la popolazione che può vivere e maggiore è il livello tecnologico che si raggiunge. Questo, a sua volta, consente di aumentare i flussi di energia e di materia, dunque la produzione di beni e servizi che, alla fine, diventano comunque rifiuti e via di seguito.

Finché il sistema economico è piccolo rispetto alla Biosfera, il gioco funziona, ma via via che l’economia cresce, la qualità delle risorse si degrada e la disponibilità di servizi ecosistemici si riduce, mentre la popolazione aumenta.

Se una tendenza alla crescita eccessiva si trova in tutte le economie, il capitalismo ha fatto di questa il suo fondamento. Il sistema capitalista è infatti strutturato su una ridondanza di retroazioni positive, senza alcun freno al suo interno. Anzi, con efficaci sistemi per ritardare l’effetto frenante del degrado ambientale e della sovrappopolazione. I principali di questi sistemi sono lo sviluppo tecnologico, il debito e la globalizzazione. Il loro effetto combinato è stato amalgamare tutte le economie del mondo in un’unica mega-macchina spaventosamente efficace nell'estrarre risorse dalla Terra e produrre beni o servizi di ogni sorta, ma che funziona solo se riesce a mantenere un costante tasso di crescita dei flussi di merci, persone e denaro attraverso l’intero Pianeta. E' sufficiente che il tasso di crescita rallenti ed il sistema va in affanno. Se l'economia si contrae in misura significativa, come sta accadendo, entra in una crisi strutturale dai risultati del tutto imprevedibili perché le stesse retroazioni che auto-alimentano la crescita, possono auto-alimentare la decrescita. Detto in termini fisici, ciò che mantiene funzionale la rete economica globale è un tasso costante di aumento nella dissipazione di energia. Cosa che, alla fine, è la causa prima ed ultima del degrado del Pianeta con tutte le conseguenze del caso.

Nel nostro caso, abbiamo il problema ulteriore che la produzione industriale, anche di cibo, è efficiente solo entro una ristretta variazione dei flussi; se questi si riducono eccessivamente, la produzione si ferma del tutto. In pratica, possiamo produrre molto o nulla, non siamo attrezzati per il "poco" e questo rischia di rimbalzarci di colpo da una crisi di sovrapproduzione ad una di carenza.

Già molte società del passato hanno degradato il proprio ambiente fino a provocarne il collasso, ma finora il fenomeno era rimasto delimitato a specifiche regioni. L’energia dei combustibili fossili, e soprattutto del petrolio, ha invece permesso alla nostra civiltà di crescere fino a minare la struttura portante della Biosfera a livello planetario, scatenando fenomeni come la catastrofe climatica, l’estinzione di massa, l’alterazione di tutti i cicli bio-geo-chimici e molto altro ancora.

Tecnicamente, questa situazione si definisce “overshoot”. Un termine che in ecologia indica quando una determinata popolazione supera la “capacità di carico” del territorio in cui vive (solitamente indicata con “K”). Cioè quando la popolazione supera la capacità del territorio di sostentarla a tempo indeterminato. In pratica, lo possiamo considerare un sinonimo di “sovrappopolazione” perché, con buona approssimazione, se c’è sovrappopolazione, c’è degrado dell’ambiente e, di solito, viceversa.

Tuttavia, l’impatto delle popolazioni umane (solitamente indicato con “I”) non dipende solo dalla loro consistenza, bensì da una combinazione di fattori demografici, economici e tecnologici. Per poter parlare di sovrappopolazione, occorre poi tener conto anche dei fattori ambientali e di come questi variano in rapporto alla nostra presenza.

In pratica, siamo in overshoot ogni volta che I supera K:

I > K

Una condizione che non può durare a lungo perché, quali che ne siano le cause, quando una popolazione supera la capacità di carico, il suo habitat comincia a degradarsi, costringendo la popolazione stessa, prima o poi, a diminuire. E “prima o poi” è esattamente il punto su cui focalizzare l’attenzione perché “rientrare nei ranghi” è inevitabile, ma le cose possono andare molto diversamente a seconda di quanto tempo ci si impiega.

Se, infatti, il declino di “I” è più rapido del degrado del suo ambiente, si potrà tornare ad un relativo equilibrio abbastanza presto e ad un livello demografico elevato. Se, invece, il declino di “I” è più lento di quello di "K", lo stato di sovrappopolamento perdura a lungo e l’equilibrio non sarà raggiunto che più tardi e più in basso. Tanto più tardi e tanto più in basso quanto più a lungo la popolazione rimane in overshoot.




Figura 1 Se gli impatti diminuiscono più rapidamente della capacità di carico la popolazione si salva, altrimenti si estingue.

Questi due semplici grafici illustrano ad un tempo il senso di ciò che accade e quale deve essere la strategia per uscirne il prima ed il meglio possibile.

La diminuzione di “I” dipende infatti da una combinazione di declino demografico, riduzione dei consumi e della tecnologia. Tutto ciò comporta certamente sofferenze e morti, ma lungi da essere la malattia, è invece metà della medicina.

L’altra metà della cura è sostenere “K”, il che vuol dire, in sintesi, conservare/ripristinare il funzionamento degli ecosistemi e proteggere la biodiversità.
All'interno di questa meta-strategia rientrano infinite combinazioni di provvedimenti in tutti i campi che dovrebbero essere modulati in base alle molteplici situazioni locali, ma in ogni caso abbiamo una “pietra di paragone”:

Tutto ciò che contribuisce a ridurre I e/o a sostenere K ci avvicina ad una possibile salvezza; tutto il resto ce ne allontana.

Per esempio, su I si può agire riducendo i redditi eccessivi, la mobilità intercontinentale, i consumi di energia e di risorse primarie o la natalità; oppure abbandonando determinate tecnologie, per citare solo alcune azioni possibili che non sono però valide ovunque nella stessa misura. Per fare un esempio banale, in alcuni paesi è più urgente ridurre i consumi, mentre in altri la natalità.

Contemporaneamente, su K si può agire proteggendo boschi e paludi, o ampliando i parchi nazionali, rinaturalizzando porzioni di territorio (rewilding), fermando il consumo di suolo, eccetera. La rapidità con cui abbiamo visto piccoli, ma interessanti miglioramenti nonappena la quarantena ci ha costretti a ridurre temporaneamente il nostro impatto sostiene la speranza. Certo, la strategia non può essere quella di tenere metà dell’umanità agli arresti, ma abbiamo visto che la Biosfera non ha ancora esaurito la sua resilienza e questa è la migliore notizia che fosse possibile avere.

In estrema sintesi, la sostenibilità non è una scelta, bensì un'ineluttabile destino. La scelta è come arrivarci, ma i nostri gradi di libertà diminuiscono col tempo. Oramai le occasioni per evitare la fine della nostra civiltà le abbiamo lasciate passare, accecati dei nostri sogni; ora possiamo in una qualche misura governare il collasso, oppure continuare a bruciare tutto quello che ci rimane, sperando di riportare indietro le lancette della storia. Ci adatteremo comunque, ma lo possiamo fare in modo stupido, subendo i colpi del Fato senza capire; oppure attivamente, accettando l’inevitabile e cercando di portare la barca fuori dalla tempesta il prima possibile.