Per via di tutta la faccenda del coronavirus, questo interessante post di Bruno Sebastiani è rimasto in coda nella lista dei post e ora arriva un po' in ritardo rispetto alla data del 1 Maggio che ne era l'origine. Comunque, meglio tardi che mai e vale comunque la pena di leggerlo.
Un post di Bruno Sebastiani
Il 1° maggio, in occasione della festa del lavoro, un membro del Gruppo Cancrismo di Facebook ha scritto questo post: “Buon 1° maggio a chi crede ancora nella giustizia e nella libertà e combatte la sopraffazione...” L’immagine mostrava un corteo di uomini e animali che sfilavano affiancati.
Il 1° maggio, in occasione della festa del lavoro, un membro del Gruppo Cancrismo di Facebook ha scritto questo post: “Buon 1° maggio a chi crede ancora nella giustizia e nella libertà e combatte la sopraffazione...” L’immagine mostrava un corteo di uomini e animali che sfilavano affiancati.
Io, in qualità di
amministratore del Gruppo nonché di ideologo del Cancrismo, ho così commentato:
“Per il Cancrismo il lavoro è lo strumento attraverso il quale abbiamo
devastato il pianeta! Non vedo cosa ci sia da festeggiare!”
L’estensore del post ha
replicato che “il senso di questo post era un altro e c’è scritto
chiaramente”.
A questo punto concedo al
mio interlocutore il beneficio della buona fede, ma credo che l’occasione sia
propizia per fare un po’ di chiarezza su tutto l’argomento.
Coloro che festeggiano il
1° maggio apprezzano lo spirito di questa festa, e cioè l’aspirazione alla
giustizia sociale da conseguire con l’accesso a forme di lavoro equamente
retribuite, prive di rischi, non degradanti né eccessivamente faticose.
In realtà anche i datori
di lavoro, imprenditori, industriali, amministratori ecc. hanno buon diritto a
celebrare questa festa, perché è proprio attraverso il lavoro (oltre che il
capitale) che essi conseguono i loro obiettivi produttivi e quindi economici.
Il lavoro in definitiva
costituisce uno dei miti fondanti della nostra società, tanto da essere stato
inscritto nell’articolo 1 della Costituzione italiana (“L'Italia è una
Repubblica democratica, fondata sul lavoro”) e da essere citato tra i
principali obiettivi del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa
(Art. 3: “L'Unione si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa,
basato […] su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva, che
mira alla piena occupazione e al progresso sociale […]”).
È un mito che è sempre
andato di pari passo con quello del progresso tecnico e scientifico, ma che
rischia, in un futuro ormai prossimo, di separarsi inesorabilmente da quest’ultimo:
l’automazione dei processi produttivi rende infatti sempre più superfluo l’intervento
dell’uomo, che, oltretutto, rappresenta uno degli elementi di costo maggiore di
tali processi.
Sulla graduale espulsione
dell’uomo dal mondo del lavoro e sulla sua progressiva sostituzione con dispositivi
automatici e robot esiste un’ampia letteratura e ad essa rimando chi volesse
approfondire l’argomento. In questi giorni sto leggendo “Homo Deus – Breve storia
del futuro” di Yuval Noah Harari e anche in questo saggio ho trovato un’ampia
descrizione di quella che sarà la società di domani, dominata dagli “algoritmi
informatici” anziché da quelli “biologici” (alias “uomini”; vedasi il capitolo
9 dove il paragrafo titolato “La classe inutile” si apre con questa
frase: “La più importante questione economica del XXI secolo potrebbe essere
come impiegare tutti gli individui superflui.”)
Ma tralasciamo in questa
sede il problema della disoccupazione prossima ventura e concentriamoci invece
sul significato della retorica del lavoro tuttora imperante.
Iniziamo col dire che la
glorificazione di questa attività tipica dell’essere umano è abbastanza recente.
Nasce e si diffonde tra la metà e la fine del settecento con la prima
Rivoluzione industriale e poi con la Rivoluzione francese.
Fino ad allora il lavoro
manuale non aveva goduto di buona fama.
Per chi crede nei miti, la
sua origine deriverebbe nientemeno che dalla maledizione divina conseguente al
peccato originale, quando Dio scacciò Adamo dal giardino di Eden perché lavorasse
il suolo, a sua volta maledetto e destinato a produrre spine e cardi. Questa
attività sarebbe stata dolorosa e Adamo avrebbe potuto mangiare il pane solo
con il sudore del suo volto. La donna avrebbe partorito tra grandi sofferenze. Così
il capitolo 3 della Genesi.
Fin qui il mito. Ma anche quando
dalla preistoria si passò alla storia, la considerazione per il lavoro non
crebbe gran che.
I Faraoni utilizzarono
migliaia e migliaia di schiavi per edificare le piramidi e stessa sorte toccò a
miriadi di cinesi (o loro schiavi) quando fu costruita la Grande Muraglia.
Le antiche società per
caste collocavano la categoria dei lavoratori al punto più basso della organizzazione
sociale.
Tra gli indù i “bramhani”
o sacerdoti erano al vertice gerarchico delle caste, seguiti dagli “kshatriya”
o guerrieri. Solo dopo di loro venivano i “vaishya”, agricoltori e mercanti e i
“shudra”, servi addetti ai lavori manuali più umili.
In Occidente le caste erano
forse meno rigide che in Oriente, ma fino al tardo Medio Evo, e anche dopo, il
clero e l’aristocrazia si spartirono i primi posti della gerarchia sociale,
lasciando alla nascente borghesia (gli abitanti delle città) e ai servi della
gleba (i lavoratori della terra) le posizioni meno degne.
Con la Rivoluzione
industriale le cose iniziarono a cambiare, ma con estrema gradualità. La classe
lavoratrice “urbana” e “operaia” andò acquistando consistenza numerica, ma non
ancora dignità e considerazione; i contadini rimasero per tutto l’Ottocento tristemente
subordinati ai proprietari terrieri (si veda il bell’affresco della società
contadina realizzato da Ermanno Olmi nel film “L’albero degli zoccoli”)
Ma i lavoratori
acquisirono un poco alla volta coscienza della loro importanza per il sistema industriale
e capitalistico. Si unirono in organizzazioni sindacali e dettero vita a vasti
movimenti rivoluzionari. Uno di questi conquistò il potere in Russia e lo tenne
per quasi tutto il Novecento, espandendo la sua influenza su buona parte del
globo terracqueo.
A est e a ovest il mito
del lavoro crebbe sempre più in diffusione e importanza.
Lo stesso simbolo
prescelto dai partiti delle classi lavoratrici (la falce e il martello) rendeva
assai bene l’idea del culto nutrito per questa attività umana.
D’altra parte analogo culto
venne tributato al mito del lavoro da parte delle classi egemoni (politici, industriali,
finanzieri), fino al punto, come abbiamo visto, di inserirlo in testa alle
Costituzioni nazionali e sovranazionali.
Ma in ottica cancrista quale
è il reale significato del lavoro? Quale il valore da attribuirgli?
Iniziamo a dire che il lavoro
è l’attività mediante la quale l’essere umano trasforma la materia a proprio
vantaggio.
Si manifesta originariamente
nella cosiddetta “industria litica”, oltre 2 milioni di anni fa, come
conseguenza delle accresciute capacità encefaliche dei nostri progenitori che da
ominidi si trasformarono in “Homo habilis”.
Proprio l’abilità è una
delle principali caratteristiche del lavoro, la capacità di trasformare la
materia prima (pietre, minerali, legno, esseri viventi) in “altro da sé”, in
qualcosa di diverso da ciò che sarebbe stata in natura in assenza dell’intervento
umano.
La pietra divenne la punta
di una lancia, il ramo si trasformò in un arco, la pelliccia degli animali fu
usata per ripararsi dal freddo.
La pietra non fu più
pietra, il ramo non fu più ramo e gli animali furono uccisi per il nostro
comfort.
Da allora è trascorso un
tempo immemorabile e il significato del lavoro dal punto di vista concettuale
non è cambiato.
Si è però modificato
enormemente da un punto di vista quantitativo e qualitativo.
I piccoli, insignificanti
sfregi perpetrati ai danni di un’ecosfera ricca di foreste lussureggianti sono
divenuti immani scempi su un corpo planetario esausto, sfruttato all’estremo
limite.
Tutto ciò grazie al
lavoro.
La responsabilità,
naturalmente, è della mente che ha guidato la mano, non della mano in sé. Ma l’atto
che ne è conseguito, l’atto lavorativo, è lo strumento attraverso il quale
abbiamo distrutto l’equilibrio che regnava nel mondo della natura e attraverso
il quale non siamo in grado di ricomporlo.
Come e perché festeggiamo dunque
questo strumento di distruzione?
La spiegazione che io do è
la seguente:
- con
il lavoro abbiamo edificato una società ultra-complessa e sovrappopolata,
quella che nel mio nuovo libro ho definito “l’impero del cancro del
pianeta”
- pur
se ci rendiamo conto dei guai combinati, la via del ritorno ci è preclusa
- non
resta pertanto che andare avanti sperando che il progresso tecnico /
scientifico trovi rimedi all’esaurimento delle risorse, all’inquinamento,
al riscaldamento globale ecc.
- l’andare
avanti implica nuovo lavoro, e ciò perpetua il mito di questa attività mediante
la quale abbiamo devastato la biosfera.
La retorica del lavoro
come valore fondante della società è destinato dunque ad accompagnarci ancora
per un certo numero di anni, unitamente agli altri miti corresponsabili della
distruzione dei tessuti sani di Gaia, il mito del progresso, della crescita
economica, dell’aumento della produzione e dei consumi.
Poi, come abbiamo già
accennato, qualcosa cambierà. Ma non intendo parlare di situazioni future che
non si sa con esattezza come evolveranno.
Preferisco rivolgermi ai
miei contemporanei e dire loro: non festeggiate il lavoro, rimpiangete piuttosto
il mondo che il lavoro ha distrutto e continua a distruggere! L’attività che
voi celebrate il 1° maggio è in tutto analoga a quella delle cellule tumorali nel
corpo dell’ammalato di cancro!