domenica 4 ottobre 2015

Una recensione del libro di Ugo Bardi "I limiti dello sviluppo rivisitati"


Dal blog di Badiale e Tringali

Pubblico una recensione ad un libro di Ugo Bardi del 2011, che solo recentemente ho avuto l'occasione di leggere.
(M.B.)



Ugo Bardi. The Limits to Growth Revisited, Springer 2011

Ugo Bardi insegna presso il Dipartimento di Chimica dell'Università di Firenze. Gestisce il blog“effetto risorse” e da tempo si occupa dei problemi del “picco del petrolio”. In questo libro ripercorre la storia del famoso testo commissionato dal Club di Roma a un gruppo di studiosi del MIT e uscito nel 1972 con il titolo “The Limits to Growth” (d'ora in poi LTG; in italiano “I Limiti dello Sviluppo”).
Bardi ricostruisce il percorso intellettuale che ha portato al libro, ma soprattutto fa la storia dei dibattiti successivi alla sua pubblicazione. Si tratta di una storia piuttosto interessante, che si può sostanzialmente dividere in tre fasi: un grande successo iniziale, seguito da aspre critiche che portarono, a partire più o meno dagli anni 90, all'oscuramento delle tematiche e delle impostazioni teoriche sviluppate nel testo, e infine una ripresa di interesse in tempi recenti. 

La rassegna di questi dibattiti, svolta da Bardi in vari capitoli del libro, è assai accurata, ed è finalizzata a far meglio comprendere al lettore, proprio grazie al confronto con i critici di LTG, il senso delle tesi fondamentali del libro. Bardi spazza subito via dal tavolo le critiche basate su fondamentali equivoci. Le più note in questo senso sono quelle che accusano lo studio di grossolani errori di previsione. Bardi risponde facilmente che LTG presentava non “una previsione” ma una serie di “scenari”, cioè differenti insiemi di previsioni dipendenti dalle possibili azioni umane nel futuro.Le cosiddette “previsioni sbagliate” su cui ponevano l'attenzione i critici di LTG erano ottenute semplicemente pescando alcuni dati dentro ad uno di questi scenari, dimenticando che appunto si trattava solo di uno scenario possibile fra i tanti delineati dallo studio stesso. Questa osservazione ci porta ad un altro tipo di discussione critica, più avveduta, che Bardi prende in considerazione. 

L'obiezione potrebbe infatti essere non più quella dell'erroneità di LTG, ma quella della sua inutilità: se in sostanza non fa previsioni precise, perché offre piuttosto una “batteria” di possibili previsioni, dipendenti dalle azioni umane, a che serve? La risposta di Bardi, che mi sembra condivisibile, è che lo studio non intendeva fornire previsioni numeriche precise sull'evoluzione dell'economia mondiale nei prossimi decenni (compito probabilmente impossibile), ma piuttosto individuare alcune linee di tendenza generali, che potessero indicare alle forze politiche e sociali prospettive abbastanza chiare per indirizzare l'azione politica. Bardi rileva infatti che, anche senza offrire previsioni numericamente precise, i vari “scenari” concordano nel mostrare che un certo tipo qualitativo di evoluzione appare sostanzialmente inevitabile, in mancanza di radicali cambiamenti della nostra organizzazione politica ed economica. In (quasi) tutti gli scenari delineati in LTG appare un crollo della produzione e della popolazione dopo un periodo di crescita simile all'attuale. Il “quasi” indica appunto che tale crollo si può evitare solo in uno scenario che preveda un deciso intervento umano di correzione degli attuali squilibri.

Abbiamo detto che in tempi recenti si è notata una ripresa di interesse nei confronti di LTG, collegata fra l'altro alle successive versioni dello studio (l'ultima è del 2004, ed è apparsa in italiano nel 2006 col titolo “I nuovi limiti dello sviluppo”). Naturalmente, questo non significa che le conclusioni dello studio siano accettate da tutti gli studiosi, o anche solo dalla maggioranza. Il dibattito infatti prosegue. Ma almeno, stando al resoconto di Bardi, sembra che siano superate le incomprensioni che hanno segnato, e un po', diciamo, “rovinato” il dibattito nei decenni precedenti. Secondo la ricostruzione di Bardi, oggi si tende a riconoscere che l'andamento effettivo delle variabili considerate in LTG, nei quattro decenni seguiti alla prima pubblicazione, ha seguito nella sostanza l'andamento previsto in uno degli scenari delineati all'epoca. Quindi l'obiezione sul fatto che le previsioni di LTG fossero “sbagliate” sembra per il momento aver perso efficacia. La discussione si è spostata su altri piani, a mio parere più interessanti. Si tratta dei temi discussi nei capitoli 8 e 9 del libro, dedicati allo stato attuale del dibattiti sull'esaurimento delle risorse minerali e sul ruolo della tecnologia. La tesi più significativa, fra coloro che rifiutano le conclusioni di LTG, è infatti quella che sostiene il ruolo centrale dello sviluppo tecnologico, e ritiene che il difetto fondamentale di LTG sia appunto quello di non tenerne conto. Secondo i sostenitori di questa tesi, lo sviluppo tecnologico permetterà di sfruttare altre risorse (energetiche, minerarie) quando le attuali saranno esaurite. In questo senso si può sostenere la tesi, che suona certo paradossale alle orecchie di chi si sia formato su testi come LTG, secondo la quale “le risorse naturali sono infinite”. Essa deve appunto essere intesa nel senso che lo sviluppo scientifico e tecnologico metterà a disposizione sempre nuove risorse quando quelle usuali saranno esaurite. Per capirci, il petrolio non era una risorsa energetica nel primo Ottocento: lo è diventato quando è stata sviluppata la tecnologia che permetteva di sfruttarlo. Allo stesso modo, nuove tecnologie permetteranno di far diventare “risorse” aspetti della realtà naturale che attualmente non lo sono. 

È ragionevole questa prospettiva? Bardi la discute a partire dal problema delle risorse minerarie non energetiche, come i metalli. Come è noto, essi sono diffusi ovunque, ma solo in pochi luoghi hanno la concentrazione sufficiente per rendere redditizia l'estrazione. Una possibile versione della tesi che stiamo discutendo, quella cioè che “le risorse naturali sono infinite”, potrebbe allora consistere nell'argomentare che l'esaurimento delle miniere redditizie porterà all'aumento del prezzo dei metalli, e questo a sviluppi tecnologici che renderanno redditizia l'estrazione del minerale a concentrazioni minori di quelle attualmente necessarie, cosicché la risorsa in questione tornerà ad essere estratta.

Il problema di questo schema, nota però Bardi, è quello dell'energia necessaria per l'estrazione, al diminuire della concentrazione. Il rapporto fra queste due grandezze è grossomodo quello della proporzionalità inversa: cioè, se il minerale da estrarre presenta una concentrazione dimezzata, occorre il doppio dell'energia, se la concentrazione si riduce ad un terzo occorre il triplo dell'energia, e così via. Se questa relazione si mantiene stabile al variare delle tecnologie, appare chiaro che l'estrazione di minerali da depositi sempre più poveri troverà un limite nella disponibilità dell'energia (e nei suoi costi). Il problema si sposta allora, appunto, alla disponibilità dell'energia. Il punto essenziale sta nel fatto che per l'estrazione di risorse energetiche sembrano valere principi analoghi. Il concetto di EROEI (Energy Return On Energy Invested), detto anche EROI, serve appunto a precisare questo punto. Esso è definito come il rapporto fra l'energia ottenuta in un processo di estrazione (di petrolio, per esempio) e l'energia consumata per l'estrazione. Indica cioè il “guadagno energetico” del processo di estrazione. Ovviamente, l'estrazione ha senso solo quando l'EROEI è maggiore di uno. Non è facile il calcolo preciso dell'EROEI, come nota lo stesso Bardi altrove, ma sembra comunque che la tendenza sia verso una sua lenta diminuzione, almeno per quella che è attualmente la principale fonte energetica, il petrolio (a questo proposito di veda anche il capitolo 6, pagg. 77-85, del libro di di Luca Pardi “Il paese degli elefanti”, edizioni LUCE, in particolare a pag.81). Questa lenta diminuzione pare essere avvenuta nonostante gli indubbi progressi tecnologici nelle tecniche di estrazione del petrolio. Tali sviluppi, cioè, possono sì rendere possibile estrarre petrolio “non convenzionale” come lo shale oil, ma non invertono la tendenza alla diminuzione dell'EROEI. In questo modo sembra che ci stiamo avvicinando, indipendentemente dagli sviluppi tecnologici, al punto in cui per estrarre un barile di petrolio occorrerà consumare un barile di petrolio, e a quel punto ovviamente il petrolio, per quanto abbondante possa ancora essere, cesserà di essere una risorsa energetica. 

Se queste tendenze venissero confermate in futuro, sarebbe lecito un certo scetticismo nei confronti della tesi che “le risorse naturali sono infinite”. Verrebbe invece corroborata la tesi generale che la nostra organizzazione sociale sta entrando in una fase di “rendimenti decrescenti”, rendendo quindi necessaria una “grande transizione” ad una diversa organizzazione sociale. Queste tesi sono ormai sostenute da diverse voci: per un inquadramento generale, si veda il libro di Mauro Bonaiuti “La grande transizione”, Bollati Boringhieri 2013. Si tratta di temi rispetto ai quali c'è urgente bisogno di un dibattito razionale serio e approfondito e per chi voglia continuare, anche da posizioni diverse, nella pratica del dibattito razionale, il testo di Bardi è senz'altro di grande aiuto.

sabato 3 ottobre 2015

I sussidi ai combustibili fossili: più di cinquemila miliardi di dollari!

Da “triplepundit.com”. Traduzione di MR (via Daryl Hannah – sì, quella di Blade Runner)

Di Andrew Burger


Le aziende di combustibili fossili beneficeranno della somma di 5,3 trilioni di dollari nel 2015 da parte dei sussidi energetici governativi. E' più di tutta la spesa dei governi del mondo in sanità, secondo la nuova ricerca del Fondo Monetario Internazionale (FMI).

Raccontino dello scorso Agosto: chi si accorge del riscaldamento globale?



La caldissima estate del 2015 ha battuto tutti i record, seppellendo per sempre l'idea che il riscaldamento globale fosse in "pausa". Ma stiamo cominciando ad accorgerci qualcosa? Sembrerebbe di no: questo inverno, ai primi freddi, ci saranno i soliti allocchi che credono di essere originali a ritirar fuori la battuta, condita con una strizzatina d'occhio e un sorriso, "e allora, dov'è finito questo famoso riscaldamento globale?" Sembra proprio un'impresa impossible convincere la gente che la situazione è seria, anche da questo raccontino di una cosa che mi è successa questo Agosto.




Scena: terrazza al quinto piano di una casa di Firenze in un tardo pomeriggio di Agosto. Temperatura circa 35-36 gradi, umidità non quantificata, ma alta. Persone sedute, con un bicchiere di aperitivo in mano. Tutti sono sudati fradici.


Signora: Certo, è proprio caldo, oggi.

Io: Altro ché! E' un mese che stiamo soffrendo.

Signora: Proprio vero; è un caldo!

Io: Eh, si.... del resto era previsto.

Signora: Previsto? Ma come?

Io: Beh, è il calore accumulato negli oceani che viene rilasciato nell'atmosfera. E' per via di un oscillazione nella circolazione oceanica, una cosa che si chiama "El Niño"... Ci sono dei modelli.....

Signora: Ma allora c'è di mezzo il riscaldamento globale?

Io: Certamente..... piano piano, le temperature si alzano. L'anno prossimo sarà peggio.

Signora. Come sarebbe a dire?

Io: Il riscaldamento globale non si ferma. Ogni anno è un po' di più.

Signora: .... Ma, no... ma, no.....  l'anno scorso è piovuto sempre! (scuote la testa e si allontana)




venerdì 2 ottobre 2015

Geoingegneria? Quale geoingegneria?

Da “The Guardian”. Traduzione di MR (via Cristiano Bottone)

I ricercatori hanno dimostrato che anche se venisse scoperta una soluzione geoingegneristica per le emissioni di CO2, non sarebbe abbastanza per salvare gli oceani 


“L'eco chimica dell'inquinamento da CO2 di questo secolo riecheggerà per migliaia di anni”, ha detto il coautore del rapporto Hans Joachim Schellnhuber Foto: Doug Perrine/Design Pics/Corbis

Di Tim Radford

Dei ricercatori tedeschi hanno dimostrato ancora una volta che il modo migliore per limitare il cambiamento climatico è quello di smettere di bruciare combustibili fossili adesso. In un “esperimento mentale” hanno cercato un'altra opzione: la drammatica rimozione in futuro di enormi volumi di biossido di carbonio dall'atmosfera. Ciò riporterebbe l'atmosfera alle concentrazioni di gas serra esistite per gran parte della storia umana – ma non salverebbe gli oceani, hanno concluso.

giovedì 1 ottobre 2015

Mangio, quindi uccido: i limiti del vegetarianismo

Da “The Great Change”. Traduzione di MR

“Perché pensiamo di doverci appropriare di tutte le terre coltivabili del mondo per sfamare gli esseri umani?”

Cavalli islandesi
Di Albert Bates

Siamo tutto ciò che che pensiamo come “individui” in comunità viventi di fatto. Qui in Islanda abbiamo partecipanti a corsi di permacultura da questo paese e da Germania, Stati Uniti, Danimarca, Messico, Canada, Australia, Svizzera, Francia, Norvegia, Svezia, Indonesia, Bulgaria e Costa Rica. Ognuno di noi sta fertilizzando in modo incrociato tutti gli altri col proprio microbioma – le spore e i microbi che trasportiamo dalle nostre bioregioni e trasmettiamo liberamente per contatto attraverso la pelle, l'aria, i fluidi e varie superfici che tocchiamo. Ognuno di noi se ne va con un nuovo microbioma, leggermente alterato e più diversificato di quello con cui è arrivato.

Raccogliamo ed incorporiamo anche nuovi microbi dall'ambiente del luogo. Potremmo ingerire parti e pezzi che sono già passati attraverso il corpo di un antico vichingo, o del suo cavallo, prima che venissero interrate nel suolo per qualche tempo, per poi trovare la loro strada nel cibo e nell'acqua ed ora per venir via con noi per diventare parte del suolo da qualche altra parte. Alla fine, veniamo tutti dalla polvere di stelle e veniamo continuamente riciclati.

Il padre della Permacultura, Bill Mollison, amava canzonare i vegetariani per le loro scelte dietetiche perché pensava che ogni argomentazione per scendere più in basso nella catena alimentare fosse un po' sospetta. “Non ho passato diversi milioni di anni ad arrampicarmi con unghie e denti fino al vertice per poi mangiare tofu”, ci ha detto una volta a pranzo. Abbiamo guardato imbarazzati il nostro tofu.

In quel periodo stavamo partecipando ad un incontro sulla Permacultura a Perth, in Australia Occidentale e al personale della cucina è stato detto che ci si attendevano principalmente persone che mangiavano carne. Sfortunatamente c'erano tre volte più vegetariani fra i permacultori partecipanti, il che ha significato lunghe code per l'opzione vegetariana e che il personale che serviva i pasti ha vissuto una piccola crisi per mancanza di lungimiranza.

Islanda: campi di lava coperti da un leggero strato di erba da pascolo; vaste aree sono adatte soltanto ad allevare animali.

Robyn Francis, che è stata una delle prime studentesse di Bill e lo ha aiutato a compilare il Manuale di progettazione in Permacultura nei primi anni 80, fa a pezzi alcune delle argomentazioni etiche più comuni. “La carne è solo clorofilla concentrata su un bastoncino di calcio”, dice, prendendo a prestito un'intuizione unica nel suo genere da un ex studente.

La rotazione del pascolo dei maiali spezza le zolle e approfondisce il profilo del suolo, rendendolo coltivabile per verdure e cereali.

La banale frase vegana sul non mangiare cose che hanno occhi o che cercano di scappare potrebbe essere divertente, ma come sappiamo da studi sui meccanismi sensori e le “emozioni” delle piante, anche quelle hanno sentimenti, conoscono la paura, cercano di preservarsi la vita e preferirebbero non essere la vostra cena se fosse offerta loro una scelta. Inoltre, ognuna di loro ha un microbioma fatto di molti piccoli animali con occhi che cercano di scappare.

Zoocentrismo: il relegare le piante in fondo alla gerarchia della vita intelligente.

La Robyn ha fatto una slide prendendo spunto da uno studio sulla coltivazione di cereali in Australia che mostra quante cose viventi – rettili, uccelli, furetti, topi di campagna – vengono massacrati ogni anno per ettaro di cereali che viene raccolto dalle mietitrebbie. Nell'area di studio del Nuovo Galles del Sud, i raccoglitori di cereali uccidono 25 volte più animali per ettaro degli analoghi pascoli di mucche destinate al macello. Messa in un altro modo, il rapporto di bulbi oculari di cose che cercano di scappare è circa di 25:1 in sfavore del lato vegano della contabilità. In un'altra slide, la Robyn spiega che possedere un cane pastore consuma il costo di risorsa equivalente di possedere un SUV. Ed è meglio che non parliamo dei gatti domestici.

Diciamocelo. Se siamo vivi lo rimaniamo solo uccidendo qualcos'altro. E' così che circolano i nutrienti fra roccia, suolo, piante, materia in decomposizione, insetti, batteri, funghi ed animali. E' un processo di gruppo, ognuno di noi ha un ruolo, ad un certo punto, come predatore o come preda. Potrebbe non piacerci di mangiare vermi, ma alla fine loro sono più che felici di mangiare noi.

“In pratica, non esiste l'autonomia. In pratica, c'è solo una distinzione fra dipendenze responsabili ed irresponsabili”.

Wendell Berry, L'arte del luogo comune


Pubblicata su Facebook il 27 agosto, 

questa immagine ha 12.000 like e 2877 condivisioni, finora.
Considerate il più ampio problema della fornitura globale di cibo. Gli esseri umani ora sono 7 miliardi e continuano ad espandersi. Fornitura di energia, cibo ed acqua permettendo. Un terzo della massa terrestre della terra è adatta all'agricoltura ma solo un terzo di questa è realmente coltivabile a cereali, verdure, frutta o il tipo di cose che mangiano i vegani. Gli altri due terzi non sono in grado di far crescere vegetali e potrebbero non avere acqua sufficiente per la coltivazione di alberi, ma possono, con una gestione accurata e una giusta presenza di bestiame, sostenere animali commestibili. Infatti, se seguite la discussione di massa sulla rotazione dei pascoli iniziata da Allan Savory, potreste credere che solo le grandi mandrie di animali al pascolo, raggruppati ed in movimento, siano in grado di ripristinare ecologicamente quelle tipologie di terreni danneggiati, ri-sequestrando il carbonio che avevano un tempo e ripristinando i cicli idrologici e climatici del pre-Antropocene – il regime di acqua e suolo un tempo costruito e conservato da bufali, mammut, tigri e lupi.

Ecco un punto di contesa che portiamo con questa discussione, e diamo il benvenuto alla discussione. Per estensione, possiamo dire che se la terra coltivabile è il premio, allora la terra buona con molta acqua dev'essere dedicata ai cereali, alle verdure, alla frutta ed al tipo di cose che mangiano i vegani. Di gran lunga più persone possono essere nutrite con proteine di alta qualità, carboidrati e grassi da quella terra se mangiamo dalla parte bassa della catena alimentare, perché far passare i cereali attraverso gli animali ci fa perdere ritorni nutrizionali di grandi fattori, da 10:1 nel caso del pollame a 40:1 nel caso dei bovini. Secondo la logica usata dalla Robyn, dobbiamo allevare animali domestici esclusivamente sulle terre marginali che non possono sostenere nient'altro. Ciò elimina la fattoria di Joel Salatin in Virginia e molte delle operazioni con animali ad alto rendimento in Nord e Sud America, Europa, Africa, Asia ed Australia. Niente più Manzo di Kobe o Sauerbraten tedesco.

L'argomentazione per mangiare animali da allevamento assume che non possiamo nutrire il mondo se togliessimo l'allevamento di animali e ci concentrassimo sulle piante. Possiamo – solo sulla porzione di terra coltivabile primaria che ha una buona stagione agricola e un sacco di acqua. Un acro di soia biologica, coltivata senza arare, nutrito con biochar che fissa l'azoto e non OGM, non trasformato in mangime animale o plastiche, può fornire proteine di alta qualità come 40 o più acri di bovini. Eliminate l'allevamento di animali nei terreni agricoli migliori e non avrete bisogno di usare l'altro 60% delle terre coltivabili per animali da nutrimento.

Perché pensiamo di doverci appropriare di tutte le terre coltivabili del mondo per sfamare gli esseri umani?

Produrre cibo per le popolazioni umane nei climi secchi o con suoli poveri importandolo da terre migliori è una proposta rischiosa, dato che il paradigma della globalizzazione ora è in vita ed è costruito su uno schema di debito Ponzi che è un vero furto nei confronti dei nostri figli. Il mondo è costretto dall'inesorabilità della fisica dell'energia fossile a rilocalizzare, e rapidamente. Continuare a seguire la curva esponenziale consumistica – di uso di acqua, perdita di suolo, esaurimento del petrolio, estinzione di pesci, popolazione e inquinamento – è pura follia. Al di là di ogni bugia, un Dirupo di Olduvai.

Cavallo islandese arrosto. Il cavallo era
la carne tradizionale del Sauerbraten tedesco. 
In un mondo localizzato, in assenza di un declino indotto catastroficamente, immaginiamo che la popolazione umana frenerà gradualmente verso qualcosa che si avvicina all'equilibrio di stato stazionario fra offerta e domanda in cui gli indigeni erano maestri. Quella era la vecchia normalità prima dell'ultima era Glaciale e andrà probabilmente in quel modo nell'Era delle Conseguenze.

Gli esseri umani delle società locali potrebbero scegliere di equilibrare le loro diete in qualsiasi modo sia più efficace per il loro clima e i loro costumi. Alcuni potrebbero essere vegani, molti probabilmente no.



mercoledì 30 settembre 2015

Lo scioglimento catastrofico del permafrost: una cosa “reale e imminente”.

Da “Robertscribbler”. Traduzione di MR (via Sam Carana)

C'è molto carbonio immagazzinato nel permafrost dell'Artico che fonde. Secondo le nostre migliori stime, intorno ai 1.300 miliardi di tonnellate (vedete Cambiamento climatico e retroazione del permafrost). E' più del doppio della quantità di carbonio già emesso dai combustibili fossili globalmente dagli anni 80 del 1800. E la triste ironia è che il continuo bruciare combustibili fossili rischia di superare un punto di svolta oltre il quale una rapida destabilizzazione e rilascio di quel carbonio diventa irreversibile.


Copertura globale del permafrost come è stata registrata dalla World Meteorological Organization. In generale si pensa che una soglia di riscaldamento globale di 2°C sia il punto in cui una parte sufficiente del permafrost artico si destabilizzerà in modo catastrofico, diventando una retroazione di amplificazione del riscaldamento globale che quindi fonde gran parte o tutto il resto. La soglia di 2°C è stata scelta perché è il limite minimo del Pliocene – un periodo in cui è iniziata la formazione di questa riserva di permafrost. Tuttavia, potrebbero esserci dei rischi che una parte sufficiente della riserva possa diventare instabile a livelli più bassi di riscaldamento – superando quel punto di svolta prima di quanto ci si attende. Fonte dell'immagine: WMO.

martedì 29 settembre 2015

L’invenzione del Progresso.


di Jacopo Simonetta


Per noi il progresso è un fatto auto-evidente che ha portato l’uomo dalle caverne alle stelle e che lo porterà verso sempre più elevate mète.    Al netto di incidenti di percorso, magari drammatici, ma temporanei.   Si tratta di un’idea per noi così scontata e congeniale che ci pare debba essere sempre esistita.
   
Ebbene no. Il progresso è stato inventato nel 1794 dal signor Marie-Jean-Antoine-Nicolas de Caritat, marchese di Condorcet.  Matematico, enciclopedista e rivoluzionario.

Ovviamente, come tutti, anche Condorcet elaborò le sue idee a partire di quelle di altri che lo avevano preceduto.   Può quindi essere di un qualche interesse tracciare l’origine di questa idea che, vedremo, ha parecchio a che fare con quel divorzio fra scienza, filosofia e teologia cui facevo riferimento in un precedente post.

Spesso, quale “padre nobile” del progresso si cita nientedimeno che Leonardo da Vinci, in forza delle centinaia di marchingegni più o meno strampalati che aveva disegnato nei suoi appunti.   Tuttavia, Leonardo studiava le leggi della Natura tramite l’osservazione delle forme e tuonava contro la superbia dell’uomo che osa attaccare il creato.   Un approccio decisamente medioevale alla scienza.
Più appropriatamente, vengono indicati quali precursori dell’idea di progresso alcuni dei padri della rivoluzione scientifica del XVII secolo: gente del calibro di Bacone, Galileo e Cartesio.   Effettivamente,  costoro avevano inteso la scienza come motore di un sempre maggiore potere dell’Uomo sulla Natura, ma non avevano mai letto la storia come una marcia trionfale verso forme di civiltà sempre superiori.   

La vera culla dell’idea di “progresso”, così come oggi lo intendiamo oggi, è stata dunque l’Enciclopedia.   Fu infatti nel circolo di coloro che curarono quest’opera epocale, tutti amici di Condorcet,  che prese corpo l’idea che il costante miglioramento delle conoscenze scientifiche e delle capacità tecniche avrebbe condotto necessariamente ad un miglioramento indefinito delle condizioni di vita umane e, di conseguenza, ad un miglioramento indefinito dell’uomo stesso.   Venendo meno il bisogno, sarebbero infatti venute meno la ferocia, l’avidità e tutti gli altri vizi che da sempre ostacolano lo sviluppo spirituale dell’umanità.   

Non era certo la prima utopia, ma questa presentava alcuni caratteri esclusivi e nuovi che la differenziavano nettamente da precedenti illustri quali “Utopia” (di Tommaso Moro - 1516) e “La Città del Sole” (di Tommaso Campanella - 1602), entrambe di chiara ispirazione platonica.
  
Tanto per cominciare, il Progresso non fu l’idea di un solo pensatore e non fu narrato in un solo libro, descrivendo la società ideale.   Al contrario, fu il prodotto di un’intera generazione di filosofi, scienziati e scrittori; e divenne un modello mentale mediante il quale leggere ed interpretare passato, presente e futuro.
   
Un secondo punto assolutamente nuovo dell’utopia progressista fu l’avere nel suo cuore “La Macchina”.   Non più vista come un mero oggetto utile, divenne lo strumento principe per affrancare l’uomo dalla miseria materiale e morale.    La meccanizzazione divenne quindi sinonimo di progresso ed il progresso sinonimo di un miglioramento della condizione umana che sarebbe avvenuto  grazie, soprattutto, allo sviluppo di macchine sempre più potenti e perfezionate.   Fino, in prospettiva, alla possibilità di sostituire interamente il lavoro manuale con il lavoro meccanico, liberando così del tutto le infinite potenzialità dell’intelletto umano dai ceppi del lavoro manuale.   Insomma, una riedizione della schiavitù, ma priva dei problemi etici connessi con questa.    Un sogno tuttora ben vivo nella cultura contemporanea.

Un terzo punto fondamentalmente nuovo fu che, in questo salvifico disegno, un ruolo fondamentale fu  assegnato alla nascenda scienza economica.   Anche se il principale teorico di questo aspetto del mito fu uno scozzese: un certo Adam Smith, per la precisione.

Infine, un ultimo punto che caratterizzò i principali enciclopedisti, e che influenzò moltissimo il pensiero occidentale seguente, fu il considerare la religione, quale che fosse, un ostacolo anziché un ausilio al sapere.   In pratica, fu l’illuminismo a celebrare il divorzio fra filosofia e scienza da una parte e teologia dall'altra.   La Ragione da una parte, ignoranza e superstizione dall'altra; nel mezzo un baratro incolmabile.

L’utopia progressista, ben prima di essere formalizzata nell'ultimo libro di Condorcet, impregnò di sé l’intera opera dell’Enciclopedia, ma non solo.   Fu divulgata in tutto l’occidente e nelle colonie da un fiume di scritti, opera di un gran numero di entusiasti sostenitori, primo fra tutti François-Marie Arouet, meglio conosciuto come Voltaire (1694-1778).

Un altro canale di rapida diffusione e profondo radicamento di questa idea fu la Massoneria.   Nata in una birreria di Londra nel 1717, agli albori del movimento illuminista, ne divenne il principale strumento di diffusione.   Massone era infatti Condorcet, come lo erano Voltaire e tutti i principali protagonisti di questa stagione del pensiero europeo, assieme a migliaia di anonimi adepti.

Dunque l’idea di progresso fu il frutto di un’intera epoca, ma nel suo “Equisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain” Condorcet fu il primo a riscrivere l’intera storia dell’umanità usando come filo conduttore l’idea di un miglioramento infinito ed inarrestabile della nostra specie.   Per l’appunto quella marcia trionfale dalle caverne alle stelle che ancora da forma al nostro modo di intendere noi stessi, la storia, il mondo che ci circonda ed il futuro che ci attende.
Emblematico il fatto che questo suo testamento spirituale sia stato pubblicato postumo, nel 1795, dopo che il suo autore si era suicidato in carcere per sfuggire alla ghigliottina di quella stessa rivoluzione che egli aveva contribuito a scatenare in nome e per conto del progresso.

Il paradigma progressista fu da più parti respinto. Tutti conoscono Rousseau ed il romanticismo, ma non furono solo scrittori e filosofi a criticare l’ideale del progresso.   Ad esempio, fra la fine del ‘700 ed i primi decenni dell’800, in Inghilterra, i luddisti tentarono di fermare la meccanizzazione della produzione tessile con sommosse ed attentati.   Più pacificamente, nel 1781, sempre in una birreria londinese, nasceva il druidismo moderno.   Una confraternita per molti aspetti simile alla Massoneria, ma di segno filosofico opposto.

Se ci fidiamo di Michel Greer, arcidruido americano ben noto nella ristretta cerchia dei "picchisti", la molla che portò alla nascita di questo movimento fu infatti lo shock psicologico prodotto dalla diffusione delle prime aree industriali nelle periferie urbane.  

Come è andata poi lo sappiamo:  né druidi, né luddisti; né Rousseau né Schelling riuscirono a contrastare la forza del mito del Progresso che, fra continui rimaneggiamenti ed aggiornamenti, è giunto intatto fino a noi.   Anzi, col tempo si è evoluto giungendo ad una nuova sintesi tra filosofia, scienza e religione che ha chiuso il cerchio da cui l’idea moderna di progresso era nata.

Precisiamo.  Se consideriamo “religione” un insieme di credenze afferenti ad una o più divinità, certo l’idea di “Progresso” non può assolutamente essere considerato una religione, semmai il contrario.   Tuttavia, uno dei maggiori storici delle religioni, Georges Dumézil, ha proposto una diversa e, secondo me, scientificamente più valida definizione: “La religione è una spiegazione generale e coerente dell’universo che sostiene ed anima la vita delle società e degli individui.”

In questo senso allargato, la religione è dunque il modello mentale attraverso il quale cerchiamo di capire la realtà e prendiamo le nostre decisioni.   In questo senso dunque, la fede nel progresso è, a mio avviso, pienamente assimilabile ad una religione.   Fra l’altro, una religione che, non avendo divinità proprie, ha potuto svilupparsi sia in maniera atea, sia assorbirsi ad altre religioni precedenti.   Un po’ come aveva già fatto il Buddismo, altra grande religione priva di Dei, oltre duemila anni prima.

Del resto, chi oggi mette in dubbio l’esistenza del progresso facilmente suscita sentimenti assai negativi fra i suoi simili.    In un suo post che non saprei ritrovare, Michael Greer fece un’analogia polemica, ma azzeccata.   In sostanza, sostenne che oggi dire a qualcuno che il progresso e la tecnologia non possono fare niente per risolvere i suoi problemi è come dire ad un contadino medioevale che le ossa del suo santo patrono non possono far cessare la siccità.   Se è di buon umore ti guarda con commiserazione, se è nervoso ti insulta, o peggio.

Si può capire.   E’ indubbio che la sinergia fra scienza e tecnologia sia alla base delle straordinarie conquiste dell’Uomo nei due secoli che seguirono la morte di Condorcet.   Perlomeno nei paesi occidentali abbiamo potuto credere di aver raggiunto o quasi quell'empireo che il progresso aveva promesso ai nostri avi.   E ciò in forza del centinaio di “schiavi meccanici” che, mediamente, ognuno di noi ha avuto a disposizione grazie all'industria petrolifera.   Ma tanto progresso aveva un prezzo nella devastazione della biosfera e del clima, così come nell'annientamento di innumerevoli civiltà, quando non di interi popoli.

Man mano che questi  “effetti collaterali” sono diventati evidenti, sono andati maturando altri divorzi. Quello fra scienza e filosofia, oramai separati in casa da tempo.   E perfino fra tecnica ed alcune delle branche in cui la scienza di è intanto parcellizzata. La prima proiettata verso fare sempre di più, le seconde sempre più preoccupate di ciò che, viceversa,  era bene non-fare.   Di qui il conflitto filosofico, scientifico e religioso che, dalla fine degli anni ’60, anima l’occidente senza peraltro aver finora prodotto alcun risultato pratico.   In fondo, se ad oggi nessun provvedimento serio è stato preso per contrastare la distruzione del Pianeta è proprio per non rinunciare al mito fondante della nostra civiltà.

Tuttavia, qualcosa forse sta cambiando.   Da un lato, abbiamo infatti l’accumulo e la divulgazione di conoscenze scientifiche sempre maggiori al riguardo dei come e dei perché del disastro che si svolge sotto i nostri occhi.   Dall'altro assistiamo al diffondersi di movimenti religiosi di ispirazione “naturalista” come i citati druidi ed altri movimenti neo-pagani, senza dimenticare l’epocale svolta francescana voluta dall'attuale pontefice e l’attenzione all'ambiente del Patriarca di Costantinopoli.

Si tratta di una moda passeggera o dell’inizio di una nuova età nella storia del pensiero?   Lo sapranno i nostri discendenti fra un paio di secoli.