domenica 30 agosto 2015

ENI: grande scoperta di gas in Egitto?






"ENI: grande scoperta di un giacimento di gas naturale in Egitto". Come al solito, la stampa da i numeri, ma non riesce mai a renderli comprensibili. Dopo aver detto che dentro questo giacimento è possibile che ci siano "850 miliardi di metri cubi di gas" (e notare il "possibile"), se non il metti in prospettiva, tanto valeva dire "millanta." E' un numero che piomba dal cielo sui lettori che non trovano in questi proclami i dati che permetterebbero di confrontare la dimensione del giacimento con quella delle altre riserve mondiali.

Eppure, ci vuole veramente poco per fare la proporzione. Basta digitare "riserve mondiali di gas naturali" e trovi subito il dato su Wikipedia. E se non ti fidi di Wikipedia, lo trovi in inglese sul sito di BP e lo trovi anche in tanti altri posti. Come sempre, i dati sono incerti, ma un ordine di grandezza lo abbiamo. Al mondo, si ritiene che ci siano qualcosa come 190.000 miliardi di metri cubi di gas naturale estraibile.

Ne consegue che la nuova scoperta aggiunge circa lo 0.45% alle riserve mondiali, sempre ammesso che le riserve "possibili" si rivelino poi reali. Non è che poi sia quella gran cosa epocale che sembrerebbe essere leggendo le iperboli dei giornali.

Intendiamoci, non è una scoperta da poco. Sul Financial Times, dicono che potrebbe soddisfare i consumi dell'Egitto per 10 anni e l'Egitto ha disperatamente bisogno di energia in una situazione economica molto difficile. Ed è anche un bel successo per l'ENI; che ne ha molto bisogno, vista la situazione non proprio brillante del campo di Kashagan, che ancora non produce e non produrrà fino al 2017 (perlomeno). Posto che poi che Kashagan produca qualcosa; è un giacimento molto costoso e con i prezzi del petrolio attuali non conviene di certo. Per non parlare poi del cambiamento climatico che galoppa e fa si che diventi sempre più essenziale lasciare almeno una parte degli idrocarburi fossili sottoterra.

Insomma, la scoperta sembrerebbe una cosa complessivamente seria, ma prima di mettersi a gridare al miracolo, cerchiamo perlomeno di mettere le cose in prospettiva!

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Nota: su "Argento fisico" ER ha anche fatto un po' di conti di quanto potrebbe durare questo gas (ammesso che esista veramente): 

Ah ... e' a mare ... ah, e' a piu' di 4 kilometri di profondita'.... pero' almeno ha delle dimensioni bibliche :) ... 850 miliardi di metri cubi di gas !!! Altro che picchi! .... bastano per .... ehm, in tutta la sua vita questo giacimento produrrà  abbastanza per soddisfare 3 mesi di consumo planetario di gas visto che se ne consumano circa 3.300 miliardi di metri cubi l'anno.

E a tutti quelli che stanno lanciando urla di gioia perché il gas Egiziano ci libererà da Vladimir Putin e dal suo gas Russo, prego di notare che non c'è nessun gasdotto che possa mettere in connessione l'Egitto con l'Italia. E se lo volessimo costruire, dovrebbe passare attraverso una delle regioni più instabili del mondo; la Libia......


sabato 29 agosto 2015

L'E-Cat di Andrea Rossi: la lenta morte di un meme

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi


Risultati di una ricerca usando Google “Trends”. L'E-Cat è morto, ma continua a rimbalzare, un po'.


Notizie dell'E-Cat, il famigerato reattore a fusione da tavolo: Andrea Rossi, l'inventore, ha annunciato che è finalmente riuscito ad ottenere un brevetto del suo dispositivo e che presto verrà commercializzato come scaldabagno domestico.

Dopo quattro anni di dichiarazioni analoghe da parte di Rossi, tutte regolarmente disattese, non vale la pena discutere di quest'ultima, eccetto, forse, per osservare che, nel brevetto, il celebre “reattore nucleare” ora è diventato semplicemente un reattore chimico, contraddicendo quindi tutte le precedenti dichiarazioni di Rossi. Ma, allo stesso tempo, in uno dei siti di Rossi (come descritto qui) si dichiara ancora che avviene una reazione nucleare, ma non più quella che veniva descritta prima, che coinvolgeva nichel ed idrogeno. Davvero, sembra che Rossi punti al record da Guinness dei primati del numero di volte che una persona si può contraddire nelle proprie dichiarazioni pubbliche.

venerdì 28 agosto 2015

La resa energetica ('EROEI') della guerra

DaThe Oil Crash”. Traduzione di MR



Di Antonio Turiel

Cari lettori,

Data la situazione di decrescita energetica alla quale ci vediamo inevitabilmente condannati come società, un aspetto antipatico, anche se necessario, da analizzare è quello del rendimento, non tanto economico quanto energetico, della guerra. Poiché di sicuro la guerra è un modo di ottenere risorse e in particolare risorse energetiche, che sono quelle che in ultima istanza muovono tutta l'economia. Inoltre, è importante analizzare ciò che rappresenta la guerra da questo punto di vista, perché senza un cambiamento di rotta deciso dalla politica internazionale (poco probabile in questo momento), il futuro ci riserva una serie di guerre che si andranno concatenando senza soluzione di continuità e senza che i nostri esperti più avvezzi comprendano quale sia il filo conduttore di tutte (proprio il contrario: in questo momento c'è un'autentica offensiva mediatica per negare che il picco del petrolio si stia approssimando, proprio quest'anno che sembra che si verificherà il picco del petrolio in volume – in energia è stato nel 2010.

Di fronte alla moltitudine di conflitti armati che sorgeranno dal collasso dei paesi produttori (oggi l'Egitto, Libia, Siria o Yemen, domani Nigeria, Venezuela e Algeria) e dando per scontato il travisamento mediatico che ci sarà su tutte queste guerre fino a che l'esplosione di qualche produttore (per esempio rivolte in Arabia Saudita nel prossimo decennio) ponga gli orgogliosi paesi occidentali in ginocchio, credo che sia importante analizzare cosa significano le guerre come strumento per garantire che le risorse continuino ad arrivare alle nazioni più ricche e, in ultima istanza, analizzare il loro EROEI, inteso in questo contesto come il guadagno di energia che ottiene un paese che entra in guerra in confronto all'energia che consuma nel fare la guerra stessa. Il fatto è che, analogamente a quello che succede con le fonti di energia, ci sono certi modi di fare la guerra, i più semplici, che hanno EROEI alti, mentre in scenari geopolitici più maturi l'EROEI delle guerre è sempre più basso fino a giungere al punto in cui la guerra non è una sorgente ma un pozzo di risorse.

Dal punto di vista etico, parlare del rendimento o beneficio della guerra sembra di un cinismo insopportabile, poiché innanzitutto la guerra è morte, feriti, distruzione, epidemie, fame, famiglie distrutte, illusioni perdute, caos, perdita di civiltà... Non c'è niente di eroico nella guerra per quanto la propaganda la glorifichi e pensare alla guerra in termini del proprio beneficio è deplorevole. Tuttavia, le guerre si fanno sempre per guadagnare qualcosa e la maggior parte delle volte (se non tutte) il beneficio preteso è abbastanza tangibile e materiale, persino prosaico. D'altra parte, discutere del beneficio materiale della guerra può essere utile se si può dimostrare che tale beneficio materiale non si realizzerà, perché non è raggiungibile o perché semplicemente non esiste. Di fatto, nella misura in cui la nostra civiltà va consumando il suo prevedibile transito di decrescita energetica, le guerre successive saranno sempre meno interessanti dal punto di vista del beneficio. Addirittura, passato un certo punto (quello dei ritorni decrescenti), andare in guerra accelererà il nostro cammino verso il collasso, anziché ritardarlo. La Storia mostra e dimostra, tuttavia, che riconoscere che ci si trova in un punto di ritorno negativo (in qualsiasi attività, non solo nella guerra) è molto difficile e generalmente si continua a fare la stessa cosa che si è sempre fatta, “abbiamo sempre fatto questo”, per inerzia, finché quella stessa inerzia è quella che accelera la nostra caduta. Quanti imperi aggressivamente espansionisti hanno collassato nella Storia ancora più rapidamente di quanto si siano espansi, proprio perché le nuove guerre finivano per porre un carico maggiore dei benefici che apportavano? Il fenomeno si ripete in continuazione nella Storia, dai Maya fino agli Unni, da Alessandro magno ad Annibale, dall'Impero Romano all'Impero ottomano, dall'Impero Austro-Ungarico al Terzo Reich. Comprendere e spiegare come mai la guerra sia materialmente onerosa può essere utile per far riflettere coloro che non vengono toccati dagli argomenti etici, ma che sono sensibili alle variazioni del loro portafoglio.

Distinguerò tre tipi di guerra, a seconda del loro rendimento energetico: le guerre di saccheggio, quelle di dominio e quelle egemoniche. Non è una classificazione molto esaustiva e probabilmente non l'unica possibile, ma personalmente mi quadra abbastanza con le grandi linee delle guerre.

Guerre di saccheggio: E' il tipo più semplice e di base di azione bellica, quello che ha l'EROEI più elevato. L'attaccante assalta un determinato territorio con l'intenzione più o meno dichiarata di prendere tutto ciò che può. Non si tratta di tenere una posizione, ma di prendersi il bottino e scappare di corsa. Questo tipo di conflitti di solito hanno dimensioni limitate, non essendo tipici di stati-nazione ma di bande mercenarie, pirati e simili. Esempi storici di questo tipo di guerra sarebbero su piccola scala, quelle intraprese dai Vichinghi su tutta la costa del nord Europa o quella dei pirati nei sette mari, ma grandi nazioni lo hanno tenuto come forma di finanziamento. Per esempio, la Spagna del XVI e XVII secolo finanziava le proprie armate, praticamente mercenari, col saccheggio delle popolazioni conquistate (in certe parti d'Europa sono ben ricordati alcuni “saccheggi” storici).

Il costo di questo tipo di guerra è molto limitato: un uomo, un'arma e un sacco in cui mettere tutto ciò che si può saccheggiare. Al contrario, il rendimento è molto elevato, soprattutto in regioni dove da tempo non si verificava un saccheggio. Possiamo fare una stima del rendimento del saccheggio in funzione della sua frequenza: più tempo passa fra un saccheggio e l'altro, maggiore è il rendimento del saccheggio precedente. L'EROEI è sicuramente alto, anche se la quantità totale di energia ottenuta è relativamente piccola (pertanto soddisfa una popolazione piccola di saccheggiatori). Le popolazioni di saccheggiatori non possono crescere in modo illimitato, visto che ci sono vari fattori che ne limitano l'espansione: la disponibilità di obbiettivi sufficientemente ricchi da garantire la sopravvivenza del gruppo come tale fino al saccheggio seguente, la necessità di lasciar passare un certo tempo prima di tornare a saccheggiare lo stesso luogo perché si possano riparare i danni e si troni a generare una ricchezza sufficiente che valga la pena di saccheggiare, la difficoltà crescente a saccheggiare se la presenza dei saccheggiatori è molto nota, visto che le città rafforzano le proprie difese, ecc. Le popolazioni saccheggiatrici si uniscono e si possono abbordare obbiettivi più pericolosi ma di maggior ricompensa. Se le circostanze peggiorano, il gruppo saccheggiatore può essere decimato ma la parte che sopravvive potrà sussistere saccheggiando popolazioni più piccola e indifese. Essenzialmente, i gruppi saccheggiatori svolgono il ruolo di predatori nei modelli predatore-preda, con popolazioni molto minori di quelle delle prede e governati dalla dinamica di queste ultime, comprendendo la lotta fra predatori come meccanismo di adattamento della propria popolazione se le prede cominciano a scarseggiare.

Questo modello di guerra ha una certa somiglianza con le società dei cacciatori-raccoglitori (con la differenza che questa non si dedicavano all'uccisione di nessuno), visto che si specializzano nel prendere le risorse dall'ambiente senza alterarlo, lasciandolo evolvere liberamente. Ma, al contrario dei cacciatori-raccoglitori, è molto difficile che i saccheggiatori raggiungano un equilibrio col proprio ecosistema e la cosa più probabile è che alla fine i saccheggiati si organizzino e finiscano per distruggerli, inseguendoli fino alle loro case se necessario.

Guerre di conquista: Questo tipo di guerra è quello preferito dagli stati-nazione. L'obbiettivo della guerra di conquista è mantenere il controllo permanente di un territorio e quindi delle sue risorse. Non basta, quindi, entrare in un territorio, bisogna occuparlo. Pertanto questo implica dispiegare un contingente militare ben addestrato e mantenerlo a tempo indeterminato su un territorio per garantire il flusso di risorse. Anticamente, gli Stati occupanti rimanevano fisicamente al comando dei paesi occupati. Oggigiorno, approfittando del fatto che tutto il mondo è organizzato in Stati-nazione, gli Stati occupanti collocano un'amministrazione locale favorevole ai propri interessi e si rivolgono allo stesso esercito locale come garante della pace e dell'ordine in favore dei suoi interessi. L'unica cosa che l'occupante mette in campo, a lungo termine, sono le imprese dedite all'estrazione delle risorse della nazione soggiogata. Grazie a questo sotterfugio di esternalizzare l'occupazione con “subappaltatori locali” si è riusciti a diminuire di molto i costi di questo tipo di guerra, che in passato era molto onerosa (in passato più di un impero ha ceduto a causa degli alti costi di una sola campagna militare fallita). Per questo motivo, le guerre di occupazione del passato avevano un EROEI molto basso e si occupavano soltanto paesi ricchi di risorse deisderate (un buon esempio di ciò è stata la spartizione dell'Africa alla Conferenza di Berlino del 1884). L'attuale sistema di esternalizzazione ha ridotto i costi per i paesi occupanti a quelli della prima campagna destinata ad annichilire la resistenza locale ed instaurare il governo amico, il che è molto più economico che incorrere in costi continui per anni, compreso quello di una opinione pubblica che di solito finisce per essere contraria, soprattutto quando si organizza una resistenza nel paese occupato che comporta vittime umane per l'occupante che si accumulano (e senza contare gli arruolamenti forzati).

L'esternalizzazione ha funzionato molto bene per tutto il XX secolo, permettendo di dissimulare il motivo della nostra ricchezza. Quando diciamo che l'EROEI del petrolio è di 20, di solito non teniamo conto del fatto che l'alto valore energetico per noi è il frutto del fatto che in origine è sicuramente maggiore (30 o più), ma che lì non si estrae ma viene importato ad un prezzo monetario che non corrisponde al guadagno energetico che ci porta. Tuttavia, col crollo naturale, per ragioni fisiche e geologiche, dell'EROEI dei giacimenti di materie prime energetiche, le aziende occidentali si ritrovano in una situazione compromessa: per mantenere l'alto rendimento energetico delle sue fonti per l'occidente devono ridurre il beneficio netto per la popolazione locale. Nascono così abusi ambientali e di diritti come quelli del delta del Niger o delle sabbie bituminose del Canada, arrivando persino a guerre con alcuni produttori importanti per garantire che il flusso di petrolio a buon mercato continui ad arrivare. Il problema è che la guerra è un metodo pessimo per combattere con la geologia. Un esempio paradigmatico lo troviamo in Libia. Pensate a come si è evoluta la produzione di petrolio in quel paese negli ultimi anni:




Si possono dare molte interpretazioni a quello che è successo in Libia, ma il grafico sopra ci mostra alcuni dati curiosi. Per esempio, che apparentemente è arrivata al proprio picco del petrolio nel gennaio del 2009 e che negli anni successivi, nonostante i prezzi del petrolio alti e i suoi sforzi, la Libia non è riuscita a recuperare i quasi 1,8 milioni di barili al giorno di allora. Nel gennaio 2011 comincia l'offensiva che praticamente ferma la produzione del paese e, una volta “liberato”, si riprendono livelli leggermente inferiori a quelli del 2011 per poco più di un anno, per poi crollare e vivere di continui alti e bassi. La situazione della Libia è talmente instabile che le diverse fazioni lottano fra loro, deteriorando il flusso della sua principale fonte di introiti e, senza un esercito occupante potente che imponga la propria legge, la situazione non si stabilizzerà. Ma i paesi occidentali si sono specializzati in eserciti di azione rapida e fulminante, che causano un grande danno iniziale con poco rischio per le proprie truppe, e non in occupazioni a lungo termine. Per questo le occupazioni a lungo termine, come quella dell'Afghanistan, sono tanto disastrose, perché hanno bisogno di un approccio militare diverso che implica un costo più alto che, semplicemente, non si vuole e non si può pagare. Pertanto, l'EROEI delle moderne guerre di conquista sta diminuendo in perfetto parallelo con l'EROEI delle fonti energetiche che si vogliono controllare. Per questa ragione, imbarcarsi in guerre in paesi che hanno già superato il loro picco del petrolio non è solo eticamente disprezzabile, è anche economicamente ed energeticamente rovinoso. Per questo invadere l'Iran non è solo un errore perché è un paese densamente popolato, con un'orografia che rende difficile le azioni militari sul terreno e una popolazione ed un esercito fortemente consapevoli, è che il premio per ciò per cui si lotta è un petrolio di qualità sempre peggiore, più pesante, di minore EROEI e, soprattutto, la produzione di petrolio dell'Iran è in declino.




Si potrebbero applicare ragionamenti simili, per esempio, al Venezuela e ad altri paesi che a loro volta sono nel mirino di alcune grandi potenze.

Le guerre di conquista hanno alcune analogie con le società agricole: si vuol ottenere il controllo permanente di una risorsa, anche modificando l'ambiente per migliorarne il rendimento. Il problema delle guerre di conquista attuali è che le risorse desiderate non sono rinnovabili, pertanto il rendimento è obbligato a cadere, fino a rendere questo tipo di guerra un pozzo, anziché una sorgente, di risorse.

Guerre per l'egemonia: questo tipo di guerra è quello proprio di un impero o, con una terminologia più moderna, di una superpotenza. L'obbiettivo della guerra per l'egemonia è mantenere lo status quo della metropoli. Queste guerre non hanno generalmente l'obbiettivo di ottenere il controllo di una risorsa, ma di mantenere un controllo che si ha già e a volte non si fa neanche contro il paese che ha le risorse, ma contro uno dei paesi satellite, a loro volta controllati, che danno sostegno logistico alle operazioni. Questo tipo di guerra è sempre un pozzo di risorse. Esempi di questo è il tipo di guerra che ha vissuto l'Afghanistan, sia con l'Unione Sovietica prima sia con gli Stati Uniti poi. Anche qui la tendenza è all'esternalizzazione: sono le guerre in prestito o guerre proxy, guerre fatte da manovalanza appoggiata dalle superpotenze che si disputano l'egemonia sul territorio. Un esempio di questo tipo è la guerra civile che sta avvenendo in Ucraina, col controllo del flusso di gas naturale russo all'Europa sullo sfondo.

Le guerre per l'egemonia, come abbiamo detto, hanno per definizione un EROEI minore di 1 (cioè, che si guadagna meno di quello che si consuma), quando non direttamente uguale a 0 (non si guadagna niente), perché l'obbiettivo molte volte non è tanto guadagnare ma non perdere. Nella misura in cui una superpotenza è più globale e controlla più territori, deve combattere, direttamente o indirettamente, sempre più guerre per mantenere quello che ha già. Essenzialmente sono guerre completamente territoriali, tipiche del maschio alfa, che hanno senso solo quando altri territori provvedono alle risorse necessarie per mantenerle. Sono anche, per il loro EROEI basso, il principale pozzo di risorse di molti imperi, siccome di solito sono ricorrenti nelle fasi di decadenza degli imperi, di solito sono anche la causa della loro perdizione.

Anche se queste guerre sono tipiche degli imperi, nella misura in cui questi si decompongono emergono paesi che si contendono lo spazio ora vacante, anche aspirando a diventare un impero che sostituisce un altro impero. Ma siccome a quel punto sono molti i paesi che si contendono quel luogo, su scala sempre più regionale, queste guerre sono sempre più complicate e in realtà non si possono mai vincere in modo definitivo. Servono semplicemente a dissipare risorse più rapidamente, in un processo frattale che ricorda la dissipazione di energia in un fluido turbolento. Un politico con una visione strategica potrebbe comprendere, a seconda della fase del declino nella quale si trova il suo paese, quali guerre non gli interessa scatenare e quali sono vitali per trattenere la parte salvabile fino fino a quel momento del suo potere. Tuttavia, questo tipo di capo di solito è raro, per cui pochissimi paesi riescono a prosperare a spese degli altri, semplicemente mantenendosi ai margini e senza richiamare l'attenzione né risvegliare l'avidità dei nuovi contendenti.

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Come vedete, a lungo termine non tornano i conti per nessun tipo di guerra e in realtà la più redditizia è la più banale: il saccheggio. Se la nostra società deve fare affidamento sulla guerra come modo di mantenere la propria sopravvivenza (anche se cinicamente negheremo di accettare che è per questo che si fanno le guerre, le nostre guerre), allora sicuramente non vale la pena che il nostro modello sociale sopravviva. Pensa a questo, caro lettore, quando i tamburi della guerra cominciano a rullare, gioiosi, vicino a casa tua.

Saluti.
AMT


giovedì 27 agosto 2015

Come ridurre le dimensioni dell'economia senza distruggerla: un piano in dieci punti

Da15/15/15”. Traduzione di MR (via Antonio Turiel)

Di Richard Heinberg

L'economia umana attualmente è troppo grande per essere sostenibile. Lo sappiamo perché il Global Footprint Network, che metodicamente monitorizza i dati, ci informa che l'umanità attualmente sta usando risorse equivalenti ad una Terra e mezzo. Possiamo usare temporaneamente le risorse più rapidamente di quanto la Terra le rigeneri unicamente prendendole in prestito alla produttività futura del pianeta, lasciando di meno per i nostri discendenti. Ma non possiamo farlo molto a lungo. In un modo o nell'altro, l'economia (e qui stiamo parlando principalmente delle economie dei paesi industrializzati) deve ridursi fino a combaciare con ciò che la Terra può provvedere a lungo termine. Dire “in un modo o nell'altro” implica che questo processo può avvenire tanto in forma volontaria come involontaria. Vale a dire, se non restringiamo l'economia deliberatamente, si contrarrà da sola una volta raggiunti i limiti non negoziabili.


martedì 25 agosto 2015

Rileggendo Spinoza.

Di Jacopo Simonetta

Una delle calamità che hanno colpito l’umanità, a mio avviso, è stato il divorzio fra scienza, filosofia e teologia.   Ognuna di queste branche del sapere, infatti, da sola si è come smarrita, con conseguenze spesso terribili, sia pure in maniera indiretta.
Senza volermi auto-nominare professore di filosofia, penso che possa quindi essere interessante andare a ripescare dalle nebbie del nostro passato liceale alcuni personaggi che hanno avuto un ruolo importante nel periodo in cui tale divorzio maturò.   Ovviamente, i primi nomi che vengono in mente sono Galilei, Bacone, Cartesio e gli altri “padri” della rivoluzione scientifica del XVII secolo.

Tuttavia, vorrei proporre qui alcune riflessioni “postpicco” sull'opera di Baruch de Spinoza (1632 – 1677).   Un tipico “cane sciolto” che non ha avuto l’influenza di altri pensatori, ma la cui filosofia presenta aspetti particolarmente interessanti alla luce delle più recenti scoperte scientifiche e della piega che hanno preso le vicende umane.

Il concetto a mio avviso centrale nel modello di Spinoza è quello di “Necessità”, a mio avviso mediato da Giordano Bruno e dall’Ananke platonica.    Nella sua concezione, la realtà e la divinità erano sinonimi; un’idea riassunta nel motto “Deus sive Natura” (Dio, o piuttosto Natura).   Il Dio di Spinoza è infatti l’insieme di tutto ciò che esiste, di tutte le relazioni che legano anche indirettamente ciò che esiste e le imprescindibili leggi che governano il divenire della natura.   Leggi che sono strutturate con l’assoluta precisione e determinatezza della geometria.   Tradotto in termini contemporanei: Dio è sinonimo di Realtà: cioè materia, energia, complessità e leggi fisiche (in senso lato).

La realtà è dunque perfetta.   Non nel senso stupido illustrato nel Candide da Voltaire (sempre molto abile nel deridere ciò che non capiva); bensì nel senso che ciò che accade è l’unica cosa che avrebbe potuto accadere.    Una realtà perfetta non è una realtà in cui va tutto bene, evidentemente, bensì una realtà che non potrebbe essere diversa da com'è.   Dunque ciò che accade è necessario che accada esattamente così come avviene.

Per fare un esempio di attualità, nella ristretta cerchia degli ambientalisti e dei "picchisti" è frequente lagnarsi del fatto che i punti essenziali circa lo sconvolgimento climatico ad opera delle emissioni antropogeniche erano già sufficientemente noti e sicuri agli inizi degli anni ’70.   Ci sarebbe quindi stato tutto il tempo per ridurre le emissioni ed evitare la tragedia che appare oggi inevitabile.
Ebbene, a mio avviso, no.

Di alterazione del clima, limiti dello sviluppo eccetera se ne parlava molto all'epoca, ma solo nel mondo occidentale.   In Unione Sovietica qualunque deroga al culto del progresso infinito del popolo era punito col carcere.   Di conseguenza, solo in occidente, teoricamente, si sarebbero potuti prendere dei provvedimenti efficaci.   Provvedimenti che avrebbero certamente giovato al Pianeta, ma che avrebbero fatto pendere la bilancia geo-politica a favore dell’URSS, con conseguenze facili da immaginare.   Di conseguenza, quand'anche fosse stato possibile soperchiare le enormi resistenze di imprenditori e consumatori, non era possibile che i governi occidentali optassero per una politica che avrebbe si ridotto i rischi climatici a lungo termine, ma a costo di aumentare quelli bellici e politici immediati.

Una seconda finestra di possibilità si poteva aprire negli anni ’90, quando gli USA erano in grado di imporre la propria volontà praticamente al mondo intero.   Ma avrebbero potuto, gli americani collettivamente, optare per uno stile di vita monastico e, contemporaneamente, impegnarsi per impedire qualunque sviluppo industriale fuori dai confini propri o dei satelliti più fidati?   Una simile politica avrebbe scontentato contemporaneamente destra e sinistra, finanzieri e missionari, ricchi e poveri, altruisti ed egoisti.    Per non parlare del fatto che, con ogni probabilità, una simile politica avrebbe ridotto il potere degli USA sul mondo, vanificando lo sforzo.
Spinoza avrebbe detto che se non è accaduto, non c’era la possibilità che accadesse.

Sulla base della Necessità, Spinoza giunge ad una serie di conclusioni particolarmente interessanti per noi.   Per lui non ha infatti senso attribuire alcun primato all'uomo sul resto della Natura, dal momento che noi siamo una parte di essa e siamo quindi soggetti esattamente alle stesse leggi che governano gli altri esseri viventi.   E’ assurdo cercare una finalità nel divenire della storia, dal momento che ciò che accade è semplicemente un’inevitabile evoluzione del passato.   E’ futile cercare di distinguere le cause dagli effetti, giacché gli effetti sono a loro volta cause, e così via all'infinito.    E’ sciocco pensare che le cose avrebbero potuto andare diversamente da come stanno andando e non ha neppure senso attribuire alla Sacre Scritture un valore altro da quello di indurre gli uomini a rispettare delle norme di civile coabitazione e buon comportamento.

A questo proposito, vorrei per inciso ricordare che Spinoza scrisse subito dopo la Guerra dei Trent'anni: il periodo più nero delle persecuzioni religiose e della caccia alle streghe.   Probabilmente non fu bruciato e se la cavò con una maledizione perché era un marrano nato in Olanda; ma ad ogni buon conto pubblicò anonime le sue opere principali.

Comunque, lo scoglio su cui lo spinozismo si incagliò fu proprio questo determinismo assoluto che eliminava qualunque spazio di scelta e qualunque margine di incertezza.   Un problema fondamentale che si sforzò di risolvere trattando della libertà umana, senza però giungere a conclusioni molto convincenti, se non per il fatto che lo Stato aveva il dovere di assicurare libertà di pensiero e di parola ai cittadini.

Mi diverte immaginare la felicità che avrebbero dato a Spinoza concetti attuali come le strutture dissipative, i sistemi a retroazione ed i principi della termodinamica.   Ma forse il punto su cui la scienza contemporanea potrebbe meglio incontrarsi con lo spinozismo è proprio quello di una possibile conciliazione fra l’assoluto determinismo delle leggi naturali (nientedimeno che Dio, secondo Spinoza) e l’irriducibile indeterminatezza della realtà (anche’essa Dio, non dimentichiamolo).

L’apparente paradosso scompare, infatti, non appena si cessa di pensare in termini geometrici e si inizia a pensare in termini di dinamica dei sistemi complessi.   Una cosa che lui non poteva fare, ma noi si.

Forse la maggiore scoperta del XX secolo è stata infatti quella dei sistemi caotici: sistemi cioè regolati da una serie di leggi, ognuna delle quali strettamente deterministica, ma il cui effetto complessivo è, viceversa, imprevedibile ed incontrollabile.   Perfino quando si tratta di sistemi interamente teorici in cui si ha quindi una conoscenza perfetta di tutte le variabili in gioco.

Questi sistemi sono fondamentali  in Natura (il clima è forse il più noto fra i sistemi caotici) ed hanno molte caratteristiche peculiari.    La prima è che il livello di indeterminatezza dipende dal livello di complessità del sistema (numero di variabili e di relazioni in gioco) e dalla velocità con cui avvengono i fenomeni (ad es. il passaggio da un flusso lineare ad un flusso turbolento).   Un’altra peculiarità è che una variazione minima in un determinato punto spazio-temporale può modificare l’evoluzione del sistema in modo crescente, portando a conseguenze enormi in un altro punto spazio-temporale.    E’ il famoso paradosso della farfalla che può scatenare un uragano, ma anche no.

In altre parole, oggi sappiamo che Spinoza aveva ragione:  la Natura è perfetta e tutto ciò che accade è determinato da leggi inviolabili come funzioni matematiche, ma ciò non impedisce agli esseri viventi di scegliere fra una gamma variabile di possibilità, con conseguenze imprevedibili.   Applicato alle civiltà umane, il concetto si può riassumere nei seguenti termini: ogni civiltà è destinata certamente a dissolversi, ma i modi ed i tempi con cui un tale fato si compie sono tanti quanti le civiltà stesse.

Ma non solo.   All'interno di una civiltà in collasso, niente impedisce che singoli individui o gruppi trovino il modo di vivere bene, talvolta anche meglio di prima.   La storia degli imperi succedutisi in Cina è forse l’esempio più calzante che si possa fare a questo proposito.

Insomma, senza essere filosofo, credo che lo spinozismo potrebbe essere un buon punto di partenza per ricucire quello strappo fra scienza, filosofia e teologia cui accennavo in apertura.   Un lavoro considerevole che potrebbe allontanarci da quello “scientismo” che, nipote della rivoluzione scientifica del XVII secolo, è degenerato col tempo in una malattia mentale grave, per usare le parole di Konrad Lorenz.   La certezza che il progresso tecnologico possa risolvere ogni problema che affligge l’umanità è infatti diventata una vera e propria superstizione che ha non poca parte nel mantenerci nell'impasse in cui ci troviamo.   Ognuno ha la sua tecnologia del cuore.   Reale, come l’elettricità fotovoltaica, o presunta, come la fusione fredda, ma quasi tutti concordano che una o più invenzioni porteranno il benessere per tutti.

Indicatori evidenti di questa sorta di fede son ben evidenti in tutte le rubriche e le istituzioni dedicate a “scienza e tecnica”, in cui gli aspetti prettamente ingegneristici ed industriali fanno ampiamente aggio sulla cosiddetta “scienza di base”.   Per non parlare delle questioni filosofiche, scomparse o ridotte al lumicino.

La Teologia è oramai da tempo una specie di fossile conservato nei seminari.
Per citare un esempio importante di questa evoluzione, si pensi a Leonardo da Vinci che, in vita, fu rinomato come artista e, secondariamente, per le sue ricerche scientifiche.   I trabiccoli che disegnava sui suoi quaderni erano, viceversa, considerati con sufficienza, se non con sospetto, dai suoi mecenati.   Viceversa, se oggi visitiamo un sito internet od una mostra su Leonardo, nella quasi totalità dei casi l’enfasi è posta sulla sua genialità inventiva.   Secondariamente sul suo talento artistico, mentre le sue ricerche, ad esempio in fisica ed anatomia, le ricordano solo gli specialisti.


Una parabola in qualche modo analoga la hanno compiuta anche altri personaggi, magari più lontani dai libri di scuola, ma più vicini al cuore ed alla mente degli scolari.   Ad esempio Archimede Pitagorico, nato dalla matita di Barks con il nome assai meno impegnativo di Gyro Gearloose.   In origine, era un personaggio buffo e pasticcione, sempre intento ad aggeggiare marchingegni che non funzionano, o peggio.    Col tempo, è invece diventato uno scienziato, capace di risolvere qualunque problema con una geniale invenzione.   Se un fallimento talvolta sopravviene, è solo per l’avidità di Paperone, non per i limiti che la realtà pone all'ingegno.

Forse, l’evoluzione del pensiero occidentale ha sbagliato strada da qualche parte lungo la parabola che ci ha condotti da Spinoza ad Archimede Pitagorico.


Ringraziamenti:  per questo post devo ringraziare Luca Pardi che non ha alcuna responsabilità sulle eventuali sciocchezze che vi si possono trovare, ma che mi ha dato ottimi suggerimenti su come affrontare la questione senza cadere nelle mie solite geremiadi.



domenica 23 agosto 2015

In che modo gli scienziati affrontano il timore per la propria esistenza?

Daslate.com”. Traduzione di MR (via Ugo Bardi)

In che modo gli scienziati affrontano il timore per la propria esistenza? 

Di Eric Holthaus


Uomini che dormono sul pavimento durante un'ondata di calore in una moschea presso la sede del Jinnah Postgraduate Medical Centre (JPMC) a Karachi, in Pakistan, il 28 giugno 2015. 

C'è stata una ressa di notizie distopiche sul cambiamento climatico durante la scorsa settimana, più o meno. Una raffica di venti occidentali fuori scala nell'Oceano Pacifico sta bloccando uno degli El Niño più forti mai registrati, garantendo virtualmente che il 2015 sarà l'anno più caldo mai registrato nella storia umana. Il sistema meteorologico ha generato una rara tripletta di tifoni in Cina.
Temperature record sono state stabilite in Spagna, Francia, Regno Unito e Germania in una ondata di calore soffocante. Incendi diffusi in Alaska stanno bruciando il permafrost e il fumo persistente degli enormi incendi canadesi hanno portato a Minneapolis l'aria peggiore del decennio. Nel nordest del Pacifico, sotto una siccità in intensificazione, persino la foresta pluviale è in fiamme. Se il cambiamento climatico è già così, il futuro è praticamente fottuto, giusto? Be', forse. Nonostante alcuni momenti memorabili di intenso realismo sulla scena mondiale, i capi del mondo non hanno fatto essenzialmente niente. Il timore per la propria esistenza è piuttosto comune fra coloro che lavorano sul cambiamento climatico quotidianamente. Questo è l'argomento esaminato questa settimana da John H. Richardson su Esquire in una discussione affascinante e franca con Jason Box ed altri scienziati del clima. Ho avuto anch'io le mie fasi di disperazione da cambiamento climatico e questo articolo mi colpisce come affascinante excursus nella psicologia di una scienza sempre più apocalittica. Dovreste leggerlo per intero, ma eccovi alcune perle. Richardson descrive Box come “stranamente distaccato dalle cose che dice, esponendo previsioni orribili una dopo l'altra senza emozione, come se fosse un antropologo che che osserva il ciclo di vita di una civiltà lontana”.

sabato 22 agosto 2015

Argomento cruciale: la mandria umana che si sta mangiando il pianeta

Da  “Mercury”.  Traduzione  di  MR  (via  Luca  Pardi)


L'attuale crescita della popolazione sulla Terra è insostenibile. Immagine: NASA

Per decine di migliaia di anni la popolazione della Terra è stata stazionaria a circa mezzo miliardo di persone di cui 10.000 in Tasmania. Era la capacità di carico naturale.

Dopo la Rivoluzione Agricola di 10.000 anni fa, la mandria umana globale è cresciuta rapidamente ad un miliardo nel 1800 (di cui sempre 10.000 in Tasmania). Con la Rivoluzione Industriale è raddoppiata a due miliardi nel 1900 (in Tasmania 170.000) e, nonostante due guerre mondiali ed una pandemia di influenza, ha raggiunto i 2,7 miliardi quando sono nato nel 1944 (in Tasmania 248.000). Quindi, ancora più impensabile, nel 1960 il mondo aveva tre miliardi di persone e nel 2000 quel numero è raddoppiato – 12 volte la naturale capacità di carico. Ora, nel 2015, siamo 7,3 miliardi (in Tasmania 517.000) e , mentre agli attuali tassi di crescita la popolazione globale raggiungerebbe i 27 miliardi nel 2100, le Nazioni Unite calcolano che si riduca a 12 miliardi o 24 volte la naturale capacità di carico della Terra. L'acclamato cosmologo e fisico Stephen Hawking ha calcolato che “se se continuasse a questo ritmo, con la popolazione che raddoppia ogni 40 anni, nel 2600 ci ritroveremmo letteralmente in piedi spalla a spalla”.

Stiamo già consumando il 140% delle risorse viventi sostenibili della Terra – cioè, l'ecosistema vivente della Terra sta collassando.

Il fisico Stephen Hawking. Foto: AFP
Il corollario più distruttivo della popolazione è il consumo. Siccome i più poveri vogliono mettersi in pari coi più ricchi, i più ricchi non condivideranno e quasi tutti vogliono di più, il consumo di risorse terrestri sta crescendo anche più rapidamente del numero di abitanti. Siamo in un disastro. Come sappiamo tutti, la biosfera, o mantello vivente del pianeta, viene rapidamente distrutto dalla più grande mandria di mammiferi ci vi abbia mai pascolato. Stiamo già consumando il 140% delle risorse viventi sostenibili della Terra, cioè, l'ecosistema vivente della Terra sta collassando. Ogni giorno ci sono meno foreste, meno bacini di pesca (il 90% è andato o sta per andarsene) e meno barriere coralline, meno fiumi naturali, meno specie (l'attuale tasso di estinzione è 500 volte il tasso naturale e sta accelerando) e molta meno natura selvaggia che mai. Tre cose ci aiuteranno ad uscire da questa calamità che si sta sviluppando.

La prima è di assicurarsi che ogni ragazza e ragazzo sul pianeta vengano istruiti e venga dato loro accesso alla contraccezione, con incentivi ad avere meno figli. Questa priorità dipende dal secondo imperativo – che le persone ricche (e i paesi) condividano molto di più e finanzino quell'educazione i requisiti dei suoi operatori sanitari, alla svelta. Vale a dire noi. Gli australiani sono fra le persone più ricche che siano mai esistite. La terza cosa che si deve fare è mettere fine al dogma ridicolo della promozione della crescita dei consumi delle riserve finite di risorse della Terra. Il dio senza speranza della crescita deve essere sostituito dal dio promettente del riusare, riciclare, riparare, innovare e condividere. Il buon senso ordina una relazione sostenibile degli ecosistemi interconnessi dell'Homo Sapiens e del pianeta Terra, anche se quel futuro rimarrebbe ampiamente aperto all'indagine ed alla scoperta e alla crescente creatività umana. Per cogliere pienamente la promessa di vita sulla Terra, dobbiamo sostituire la spirale della crescita della popolazione e dei consumi con una miscela intelligente di auto-preservazione. Non si tratta di un'idea nuova – il moralista ed economista britannico Kenneth Boulding mezzo secolo fa osservava che “chiunque creda che la crescita esponenziale possa continuare per sempre in un mondo finito o è un pazzo o è un economista”.

Il dio senza speranza della crescita deve essere sostituito dal dio promettente del riusare, riciclare, riparare, innovare e condividere.

La Tasmania è in una situazione vantaggiosa per dare l'esempio. Per esempio, i tasmaniani potrebbero ottenere più prontamente emissioni di gas serra negative e perdita zero di specie native, di ecosistemi (sia marini sia terrestri) e di bellezza selvaggia e spettacolare di quasi qualsiasi altra società sulla Terra. Allo steso tempo questi risultati farebbero aumentare il nostro lavoro più in prospettiva e la nostra storia economica più di successo – le industrie del turismo e dell'ospitalità che prosperano sulla base della nostra reputazione internazionale di uno stile di vita sicuro e verde con grandi quantità di cibo ed acqua, vita e natura selvaggia e bellezza incontaminati. In un mondo sempre più mobile diretto a più di otto miliardi di persone entro un decennio, la sicurezza e la naturalezza della Tasmania sono diventate il nostro bene economico più grande. Affollati e tormentati come sono in miliardi di persone, la Tasmania offre loro un'avventura solitaria nella natura per il corpo e un rilassamento per l'anima che non sono secondi a nessuno. Paradossalmente, più affolliamo l'isola, meno questa sarà attrattiva. Il nostro miglior obbiettivo deve essere una popolazione residente relativamente bassa e un grande flusso di visitatori.

Una politica della popolazione sensibile per la Tasmania punterebbe ad una popolazione in naturale diminuzione e ad un afflusso di una parte dei diseredati del mondo finché la crisi globale non è finita.

La politica del governo Hodgman di raddoppiare il tasso di crescita della popolazione della Tasmania nei prossimi 35 anni si inchina all'economia convenzionale della crescita. Comunque sia, i pianificatori dovrebbero piuttosto preoccuparsi del fatto che una politica del genere verrà prima o poi sommersa da migrazioni di massa globali dovute a cambiamento climatico, guerre ed altre imprevedibili calamità. Una politica della popolazione sensibile per la Tasmania punterebbe ad una popolazione in naturale diminuzione e ad un afflusso di una parte dei diseredati del mondo finché la crisi globale non è finita. E perché non rendere partecipe di quella politica uno stato d'oltremare finanziando, diciamo, l'incremento di educazione e salute nelle vicine Papua Nuova Guinea o Timor Est dove le popolazioni stanno esplodendo? La popolazione non è l'argomento preferito di nessuno. Con una eguale misura di istinto ed assurdità, non vogliamo parlarne. Tuttavia, che piaccia o no, la popolazione è un problema di tutti. Possiamo ringraziare il premier, perlomeno per aver sollevato di nuovo questo problema importante.