lunedì 17 marzo 2014

L'importante e il secondario

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR

Secondario

di Antonio Turiel

Cari lettori,

Il problema della disponibilità di energia sta diventando sempre più evidente e questo inspessisce la discussione pubblica di questo problema in tutti gli ambiti, il che comprende i commenti delle notizie dei quotidiani online ma anche i forum delle pagine web più disparate, che vanno da quelle degli appassionati di automobili a quelle di coloro che denunciano le prossime bolle finanziarie spagnole; dalle pagine web ecologiste e ambientaliste a quelle degli appassionati di pallacanestro. Con troppa frequenza, ancora, si osservano errori di concetto che sono ricorrenti anche nella discussione pubblica, come per esempio identificare l'energia con l'energia elettrica (quando quest'ultima rappresenta solo il 21% dell'energia finale in Spagna e il 10% nel mondo) o confondere risorse con riserve, o riserve con produzione. Questo blog ha portato il suo granello di sabbia in questa discussione e vedo che di tanto in tanto viene citato questo o quell'articolo pubblicato qui per sostenere alcune argomentazioni. Parlo di questo perché ultimamente ho visto che vengono criticate le posizioni di chi divulga il problema della scarsità di risorse, e in particolare la posizione di questo blog, perché secondo i nostri detrattori prendiamo le previsioni peggiori, per quanto riguarda la produzione di petrolio ed altre risorse. A mo' di esempio, vi mostro un confronto recente fra diversi modelli della produzione di petrolio per i prossimi anni da parte di varie persone e gruppi di ricerca: 

Come si vede, c'è una certa disparità rispetto alla data esatta del picco di produzione di petrolio (inteso come tutti i liquidi del petrolio, visto che come sappiamo il petrolio greggio ha raggiunto il suo picco verso il 2006). Chi si trova in questa faccenda da poco tempo non si renderà conto di un dettaglio rilevante: le differenze fra le date stimate da parte diversi gruppi che con metodologie rigorose cercano di stimarle, sono sempre più piccole. Fino a solo 5 anni fa era comune trovare differenze che arrivavano fino a qualche decennio (lasciando da parte qualche sproposito senza basi tecniche che parlava di secoli, ovviamente non sostenuto da nessuno che fosse legato a questo campo). Oggigiorno, le differenze si riducono approssimativamente a un decennio e la maggior parte delle previsioni di trovano separate di pochi anni l'una dall'altra. E' ovvio che all'approssimarsi della data in questione (di nuovo insisto, per tutti i liquidi del petrolio, visto che il petrolio greggio, che è più del 80% del petrolio consumato, è già in declino) le possibili differenze diminuiscono e alla fine l'unica cosa che rimane da discutere è la rapidità del declino. Ma il fatto è che queste differenze, come ora spiegheremo, sono del tutto secondarie, visto che ci sono altri fattori che pesano molto di più sul corso che prenderanno gli eventi. 

La prima cosa che si deve capire è che non si possono fare correttamente modelli della parte destra della curva di produzione di petrolio. Tutti i modelli presumono sempre tassi di declino post-zenit abbastanza leggeri e progressivi, per cui si deve sempre supporre che ci sia un'altra fonte di energia a raccogliere il testimone. Pensate che la disponibilità di energia è fondamentale per poter produrre i metalli e il cemento che richiedono sia gli stessi sistemi di produzione di energia come l'industria, sia le abitazioni, per non parlare dell'energia consumata dai diversi macchinari. Se comincia a mancare l'energia anche semplicemente per la manutenzione, tutta la società potrebbe collassare rapidamente come un castello di carte. Ma non è chiaro quale fonte possa raccogliere il testimone in tempo (eccetto il carbone) e per un tempo prolungato (cosa che nemmeno il carbone potrà fare). Di fatto, la diminuzione dell'EROEI – il rendimento energetico – dei giacimenti che rimangono disponibili è da un po' che si verifica. Questa diminuzione di rendimento è ciò che ha fatto sì che le grandi compagnie petrolifere si siano lanciate in una folle corsa nella quale le loro spese aumentano ad una velocità frenetica, ma disgraziatamente la quantità di petrolio che producono è sempre più piccola, come mostra questo grafico preso dall'articolo del Wall Street Journal linkato sopra.   

E nonostante quanto quest'investimento sia colossale e poco profittevole, dal punto di vista della IEA, come riflette il suo ultimo rapporto, c'è un problema di mancanza di investimento. Di fatto, la IEA invia un messaggio ai naviganti per dire che se non si realizzano investimenti adeguati, la prospettiva per la produzione di petrolio è abbastanza nera, come illustra il seguente grafico preso dal rapporto annuale del 2013 (WEO 2013):

Questo discorso sulla necessità di aumentare l'investimento upstream (a monte) incorre nell'errore abituale di slegare l'economia dall'energia. Proprio perché l'energia è più difficile da ottenere (in termini energetici), per questo - si dice - bisogna investire più soldi per arrivare però a cosa? Soltanto ad estrarre meno petrolio. Il problema, alla fine, è che quelle petrolifere sono compagnie private come tutte le altre e logicamente ciò che cercano è aumentare il profitto. Gli amministratori delegati di queste compagnie sono sempre più criticati per il basso rendimento delle loro strategie di investimento e, anche se cercano di rimanere nell'affare, alla fine l'opzione più sensata consiste nello smettere di investire nella produzione di petrolio. Cosicché alla fine c'è da aspettarsi che il declino sia molto più rapido e improvviso di quello che risulta dai modelli ideali. 

Di fatto, non solo è difficile fare modelli del declino, non si possono fare nemmeno modelli accurati del picco: ci sono fattori che tendono a diminuire la produzione rispetto al modello, ma anche altri fattori che tendono ad aumentarla. Gli anni precedenti all'arrivo del picco si caratterizzano per un aumento della produzione inferiore a quello dei decenni passati, il che implica che neanche la domanda potrà crescere al tasso abituale. Ciò scatena molti meccanismi. In primo luogo, carenza di petrolio scatena una crisi economica. Ma poi provoca la mobilitazione di risorse di qualità peggiore per cercare di aumentare la produzione. Queste risorse, oltre a non poter essere prodotte che su una scala piuttosto limitata, hanno un rendimento energetico molto minore, cioè un EROEI più basso, generalmente al di sotto del valore limite di 10 che di solito segna la differenza fra ciò che è redditizio e ciò che non lo è. La produzione di questi petroli meno redditizi è coperta da quelli di maggior rendimento (EROEI alto) che sono ancora maggioritari, ma che sono già in declino. La combinazione di entrambi permette certamente di aumentare la produzione, ma fa abbassare l'EROEI dell'insieme, cosa pericolosa perché rende più probabile un collasso repentino, ma permette anche di prolungare un po' di più la festa. Ricordiamo, tuttavia, che l'energia netta che ci arriva dal petrolio è già in netta diminuzione.

Ma c'è dell'altro. Il crollo della produzione dell'energia mondiale non dice come lo vivranno i diversi paesi, ed anche prima di giungere al picco del petrolio certi paesi possono già iniziare il proprio declino. In un post recente, Ugo Bardi ci mostra che in meno di 10 anni in Italia il consumo di petrolio è sceso di più del 30%, mentre se si considera l'insieme degli idrocarburi (vedi grafico in basso), si trova intorno al 25%. Un tale crollo è stato accompagnato da un crollo del PIL, anche se di minor entità (e, significativamente dal punto di vista causale, il picco del consumo di idrocarburi precede di uno o due anni quello del PIL). 


I seguenti grafici (per gentile concessione di Juan Carlos Barba) illustrano il caso della Spagna, che è solo leggermente migliore di quello dell'Italia. Il primo grafico mostra che il consumo di petrolio della Spagna è crollato di più del 22% (non stagionale) dai sui massimi storici

mentre il PIL (espresso in indice normalizzato, a prezzi costanti, prendendo a riferimento il 2008) è crollato di più del 7%

(ancora una volta, il disaccoppiamento più che significativo fra consumo di petrolio e PIL suggerisce che le cifre ufficiali del PIL spagnolo vengano alterate). 

C'è ancora grasso da bruciare, come spiega Ugo Bardi nel suo post sull'Italia: in primo luogo si abbandonano gli usi ricreativi e voluttuari del petrolio (le gite nel fine settimana, l'acquisto di prodotti superflui), il che permette di mitigare la discesa del PIL associata alla mancanza di petrolio. Tuttavia, il consumo di energia ha sempre un significato economico, anche se all'inizio colpisce i settori meno produttivi e, ahimè, i redditi delle classi inferiori. Pero dopo un po' il grasso, il superfluo, finisce. E se continua ad arrivare meno petrolio si arriva all'osso e quindi il nucleo del sistema produttivo e della società si vedono compromessi. 

Pertanto, discutere se il picco del petrolio sia un po' prima o un po' dopo è una discussione vuota, visto che alla fine discutiamo del nostro arrivo ad un punto pericoloso, i cui effetti si stanno già manifestando. Tentare di sapere se con tutti i liquidi del petrolio si può arrivare un po' più lontano quando il petrolio greggio è arrivato al suo picco significa non voler vedere la gravità della situazione attuale. E non vi fate ingannare: il fracking è solo una bolla e gli Stati Uniti non saranno mai energeticamente autosufficienti. Solo con un grande sforzo contabile, mescolando tutte le categorie, riescono ad arrivare quasi al livello del 1970, come mostra il seguente grafico sulla previsione fatta dal Dipartimento dell'Energia sull'evoluzione della produzione di tutti i liquidi del petrolio negli Stati Uniti (il grafico è stato estratto da un post del blog di riferimento in francese Oilman): 

Come si vede, gli Stati Uniti non giungeranno mai ad essere autosufficienti (la fascia azzurra in alto rappresenta le importazioni nette), Peggio ancora, nella falsa percezione di abbondanza petrolifera degli Stati Uniti ifluisce molto l'aver confuso la definizione di quello che è il petrolio, come spiega Kurt Cobb in questo articolo

Chi si diverte a discutere se il picco sarà un po' più tardi o un po' prima si concentra sul superfluo, visto che non c'è niente che indichi che questo punto si possa posticipare se non di qualche anno, con conseguenze funeste, visto che non stiamo ammortizzando convenientemente il capitale investito nelle nostre infrastrutture. Tale atteggiamento somiglia a quello dei negazionisti del cambiamento climatico: un richiamo all'inattività centrato su dubbi di carattere tecnico e con poco contenuto reale, in realtà del tutto secondari. E la cosa che l'espressione di tali dubbi nasconde è il desiderio di non cambiare ciò che è importante: il nostro sistema economico in modo che sia sostenibile. 

Si può semplificare questa posizione (quella di concentrarsi sul dettaglio – quando avverrà esattamente il picco – e ignorare la cosa fondamentale – l'inesorabile necessità di cambiare il sistema economico) dicendo che è un processo di negazione di una realtà sgradevole (la prima fase del processo descritto da Kübler-Ross). Spesso, tuttavia, la cosa è più sottile. La critica al sistema capitalista e l'annuncio che è arrivata alla fine del suo ciclo utile è visto con molto sospetto da molti settori della popolazione, generalmente ben informati, che vedono la denuncia dei problemi del cambiamento climatico e della scarsità di risorse come scuse per introdurre un ordine del giorno “di sinistra” per smantellare il sistema economico che ha portato molto progresso e sviluppo all'umanità. Tuttavia, la critica che si fa da parte della Scienza (tanto per il Cambiamento Climatico quanto per lo studio della disponibilità di risorse naturali) non sono di carattere ideologico, solo di carattere logico. Non si tratta di introdurre dietro le quinte ricette di sinistra, visto che oltretutto queste, in generale, non mettono in discussione il sistema produttivo, pertanto non apportano un'alternativa reale al problema. Non si tratta, quindi, di un problema di sinistra e destra, così come vengono concepite in occidente. Si tratta di lasciare un futuro ai nostri figli, si tratta di aprire gli occhi e di accettare la realtà così com'è. Si tratta, insomma, di smettere di perder tempo su ciò che è secondario e approcciarsi a ciò che è importante. 

Saluti.
AMT


domenica 16 marzo 2014

Previsioni climatiche: mettiamo le cose in chiaro

Da “NEF”. Traduzione di MR

Foto: James Willamor 

Di Griffin Carpenter 

Le previsioni climatiche sono precise. E' un fatto. Coloro che argomentano contro il cambiamento climatico cercano sempre di discreditare la scienza – i modelli usati dai climatologi in particolare. Insistono che tali previsioni sono troppo imprecise ed incerte per giustificare l'adozione di provvedimenti, ma una nuova ricerca di NEF mostra che questo proprio non è vero. Ora abbiamo oltre vent'anni di previsioni da parte del IPCC. Nonostante una infinita raffica di critiche nei media, queste previsioni si stanno dimostrando molto precise. Come mostrato sotto, le tendenze annuali delle concentrazioni di carbonio, le temperature globali e i livelli del mare sono bene allineate con le previsioni originarie riportate dall'IPCC e la maggioranza dei cambiamenti climatici ricadono nell'intervallo previsto. La scienza del clima si sta guadagnando i propri galloni:

Fonte: IPCC

Infatti, le previsioni climatiche stanno di fatto superando molte delle previsioni economiche chiave citate dai dipartimenti governativi e dai giornalisti.

Guardando una selezione di previsioni a lungo termine – popolazione, debito/PIL e prezzo del petrolio – possiamo vedere che non solo molte delle osservazioni reali ricadono ben al di fuori dell'intervallo previsto, anche la tendenza prevista è ben al di fuori del segno. Ma avete mai sentito condannare queste misure come “parole senza senso” nei media?












Fonti: ONS (Ufficio Nazionale di Statistica), HM Treasury (Tesoreria di Sua Maestà), EIA


Il buon senso ci dice che le decisioni di politica pubblica devono essere basate sulle informazioni e gli strumenti che abbiamo a disposizione. Ciò che mette in chiaro il nostro nuovo saggio è che le previsioni del cambiamento climatico offrono la stessa certezza, se non maggiore delle previsioni economiche a lungo termine. La polemica secondo la quale la scienza del clima è troppo incerta per informare le decisioni di spesa a lungo termine non può più essere usata come copertura intellettuale.



Cosa sono i norvegesi senza neve?

Da “Yr.no” Traduzione di MR (da una precedente traduzione in inglese di Francesca Ruscillo)


Cosa sono  i norvegesi senza neve? Inverno, neve e sci significano per noi tanto quanto la famiglia reale o la bandiera norvegese, dicono gli storici. Se la neve scompare, cosa ne sarà di noi? 


Metri e metri di neve e una capacità popolare di gestirla perfettamente. Questo è un tratto tipico dei norvegesi e di come pensiamo noi stessi, secondo lo storico Karsten Alnæs. 

Se il riscaldamento globale continua, per la fine di questo secolo la neve potrebbe essere storia nella Norvegia invernale. 

Se la neve scompare creerà molta frustrazione, dice lo storico, che spiega anche che la neve è un importante simbolo di identificazione come la bandiera o il Re.

18° secolo: la neve comincia ad essere parte dell'identità norvegese già nella seconda metà del secolo. 

La Norvegia era sotto la dominazione danese e a Copenhagen gli studenti norvegesi cercavano qualcosa che fosse tipicamente norvegese. E' quando vai in giro e incontri degli stranieri che cominci a vedere chi sei, dice Karsten Alnæs. 

Gli studenti si aggrappavano all'essenza norvegese: un clima rigido, freddo e neve. Scrivevano canzoni e poesie. Le leggende raccontano che Johan Nordal Brun andava in giro solo con la maglietta in pieno inverno, vantandosi di quanto poteva resistere. Il messaggio è chiaro: l'inverno e la neve rendono i norvegesi duri e resistenti, mentre i danesi e la gente delle latitudini più meridionali sono “deboli”. 

Più tardi nel 18° secolo, l'interesse per la neve e il freddo ha subito un nuovo rialzo, quando Nansen ha attraversato la Groenlandia e Roald Admunsen è diventato il primo a raggiungere il Polo Sud. 

2014: le competizioni sciistiche. 

Oggi i norvegesi adorano la neve in modo diverso, più romantico, dice Alnæs. Si tratta del desiderio koderno di allontanarsi dalla città e andare in campagna. Abbiamo tempo e soldi per avere uno stile di vita all'aperto e godere dell'inverno, non di sopravvivergli. Ha anche a che fare con la sciocchezza degli atleti e dello sport, aggiunge Alnæs. 

Therese Johaug che attraversa la linea del traguardo a Holmenkollen con un grido primordiale. La solare, forte e gioviale Marit Biørgen. Entrambe tengono in vita il mito secondo cui la “Norvegia è meglio con gli sci ai piedi”. 

La neve è un simbolo di identità così forte oggi come ieri, solo in un altro modo, indica Alnæs. 

La gente della costa può sciare? 

E' difficile da credere, ma già oggi la neve è rara in alcune zone della fredda Norvegia. Utsira, al largo di Haugesund, è uno di quei posti: lì la temperatura media in inverno è al di sopra dello zero. Ecco perché l'isola non ha un inverno proprio, non nel modo in cui lo definiscono i meteorologi. 

Su Utsira c'è un altro elemento meteorologico che da l'identità. Il vento influenza qualsiasi cosa, dal vestiario al modo in cui crescono gli alberi a dove attraccano i traghetti, sul lato settentrionale o meridionale dell'isola. 

La neve norvegese è minacciata 

L'inverno verde di Utsira in futuro potrebbe diventare una regola più che un'eccezione, visto che la previsione dei ricercatori climatici è che il clima diventerà più mite e più umido. Le analisi fatte da Dagrun Vikmar Schuler, ricercatore climatico all'Istituto di Meteorologia, mostrano che l'inverno sta cambiando in due modi: il primo è che la stagione della neve sta diventando più breve in tutto il paese. L'autunno e la primavera si stanno avvicinando fra loro (a spese dell'inverno). L'estate si gode la vittoriosa e diventa più lunga. Il secondo è che la quantità di neve sta cambiando in tutto il paese. Qui i ricercatori climatici dividono il secolo in 2 parti: 

fino al 2050 la quota della neve si ritirerà a 800-900 metri. 

Al di sopra di questa altitudine ci sarà sempre più neve, mentre ci sarà più pioggia nelle aree più basse. Le tipiche località sciistiche, come Ustaoset, Hemsedal o Geilo possono avere più neve nei prossimi decenni. Allo stesso tempo la cosa sembra preoccupante per luoghi come Tyrvann, che si trovano a 500 metri sul livello del mare. 

Nell'ultima metà del secolo, le quote della pioggia e della neve si ritireranno sempre di più. 

Ci sarà quindi meno neve anche in luoghi più alti. Le piste da sci a Ustaoset, Hemsedal e Geilo potrebbero quindi essere verdi per tutto l'anno, perché ci può essere una maggiore variazione di anno in anno. 

La previsione per il futuro mostra solo una media del meteo, sottolinea Schuler. Anche se la media implica poca neve, alcuni inverni nevosi come li conosciamo oggi potrebbero ancora verificarsi. 

La neve diventa un lontano ricordo.

Cosa succederebbe ai norvegesi ed alla loro identità se la neve scompare? Penso che provocherà una grande frustrazione, dice lo storico Karsten Alnæs. La gente cercherà la neve nella Nordmarka (foreste a nord di Oslo). 

Ciò ha sollevato grandi preoccupazioni, ma a così breve termine l'identità non era in pericolo. Ma se il futuro sarà senza neve, alla fine la neve diventerà un lontano ricordo e perderà di interesse, conclude lo storico. 

Mappa: gli inverni futuri possono rivelarsi così

La mappa mostra come potrebbe essere l'inverno secondo la previsione dei ricercatori climatici nel periodo fra il 2071 e il 2100, in confronto al periodo normale fra il 1961 e il 1990 (che è stato un periodo prodigo di neve). Qui si ipotizza che le nostre emissioni di gas serra saranno di livello medio in futuro. 

Dalla mappa, si può per esempio leggere questo:

  • Oslo potrebbe avere 50-60 giorni di neve in meno ogni anno, di media
  • Høyfjellet nel sud della Norvegia potrebbe avere 30-40 giorni in meno di neve ogni anno, in media. 
  • Finnmarksvidda potrebbe avere 30-40 giorni di neve in meno ogni anno, in media.
  • Høyereliggende e parti più alte della costa Norvegese potrebbero avere 80 giorni di neve in meno all'anno, di media. Praticamente, con questi 80 giorni di meno , significa che l'inverno dura un mese di meno sia all'inizio che alla fine. 

sabato 15 marzo 2014

Maledetti Troll!!!






Da ZeroHedge. Traduzione di MR

Perché i Troll iniziano le guerre dei flame: imprecare e insultare blocca la capacità di pensare e concentrarsi

Gli studi di psicologia mostrano che imprecare ed insultare nelle discussioni su Internet bloccano la nostra capacità di pensare. Due professori di scienza della comunicazione dell'Università del Wisconsin a Madison - Dominique Brossard e Dietram A. Scheufele – hanno scritto lo scorso anno sul New York Times:

In uno studio pubblicato in rete lo scorso mese nel Journal of Computer-Mediated Communication, noi e tre altri colleghi facciamo una relazione su un esperimento progettato per misurare quello che si potrebbe chiamare “l'effetto sgradevole”.

Abbiamo chiesto ai 1.183 partecipanti di leggere attentamente un post su un blog fittizio che spiegava i potenziali rischi e vantaggi di un nuovo prodotto tecnologico chiamato nanosilver. Queste particelle infinitesimali d'argento, più piccole di 100 miliardesimi di metro in ogni dimensione, hanno diversi benefici potenziali (come le proprietà antibatteriche) e rischi (come la contaminazione dell'acqua), riportava l'articolo online. 

Poi abbiamo fatto leggere ai partecipanti i commenti al post, presumibilmente di altri lettori, e rispondere a domande riguardanti il contenuto dell'articolo stesso. 

Metà del nostro campione è stato esposto a commenti di lettori civili e l'altra metà a commenti di lettori maleducati – anche se il contenuto, la lunghezza e l'intensità reale dei commenti, che variava dal sostenere la nuova tecnologia all'essere diffidente per i rischi, erano coerenti in entrambi i gruppi. La sola differenza era che quelli maleducati contenevano epiteti e parolacce, come: “Se non vedi i benefici dell'uso della nanotecnologia in questo tipo di prodotto, sei un'idiota” e “Sei stupido se non pensi ai rischi per i pesci e per le altre piante e animali nell'acqua contaminata con l'argento”. 

I risultati sono stati sia sorprendenti sia inquietanti. I commenti incivili non solo hanno polarizzato i lettori, ma hanno spesso cambiato l'interpretazione dei partecipanti della notizia stessa

Nel gruppo civile, coloro che inizialmente supportavano o non supportavano la tecnologia – che abbiamo identificato con domande in un sondaggio preliminare – hanno continuato a sentirsi allo stesso modo dopo aver letto i commenti. Coloro che sono stati esposti ai commenti maleducati, tuttavia, hanno finito per avere una comprensione molto più polarizzata dei rischi connessi alla tecnologia

Includere anche soltanto un attacco ad personam in un commento di un lettore è stato sufficiente a far pensare ai partecipanti che il lato negativo della tecnologia di cui si parlava fosse maggiore di quanto avessero pensato in precedenza

Mentre è difficile quantificare gli effetti distorsivi di tali cattiverie online, sono destinate ad essere piuttosto consistenti, in particolare – e forse ironicamente – nel campo delle notizie scientifiche. 
Quindi, perché la gente trolla in modo maleducato?

Gli psicologi dicono che gran parte di loro sono psicopatici, sadici e narcisisti che si divertono in questo modo. E' facile sottostimare quanti di questi tipi di squilibrati ci siano là fuori: ci sono milioni di sociopatici nei soli Stati Uniti.

Ma anche le agenzie di intelligence stanno intenzionalmente disturbando la discussione politica sul web e attacchi ad personam, insulti e tattiche da 'divide et impera' sono tutte tecniche di disturbo ben conosciute e frequentemente usate.

Ora sapete perché... le guerre dei flame polarizzano il pensiero e bloccano la capacità di concentrarsi sul reale argomento e sui fatti in discussione.

Infatti, questa tattica è così efficace che lo stesso sapientone potrebbe agire su entrambi i fronti della battaglia.

Postscriptum: Fortunatamente, non è poi così difficile fermare il loro disturbo... basta indicare quello che stanno facendo.

Per esempio, ho scoperto che postare una cosa di questo genere può essere molto efficace:

Buon Numero 1!

Questo potrebbe essere meglio se il troll è un sociopatico:

Questo tipo di "intrattenimento" non è più appropriato altrove?

(includete il link, così la gente può vedere a cosa vi state riferendo).

La ragione per cui questo funziona è che gli altri lettori impareranno come funzionano le tattiche di disturbo specifiche usate... contestualmente, come vedere la natura selvaggia avendo in mano una guida, di modo che si impara quello che si vede “sul campo”. Allo stesso tempo, risulterete divertenti, scanzonati e intelligenti... anziché oppressivi e troppo intensi.

Provate... funziona.

venerdì 14 marzo 2014

Picco del suolo: la civiltà industriale è sul punto di mangiare sé stessa

Da “The Guardian”. Traduzione di MR

Una nuova ricerca su terra, petrolio, api e cambiamento climatico indica una crisi alimentare globale imminente, se non si intraprende un'azione urgente


Il vento causa erosione del suolo nei campi coltivati. Suffolk, 18 aprile 2013. Foto: Alamy


Un nuovo rapporto dice che il mondo avrà bisogno di più che raddoppiare la produzione di cibo nei prossimi 40 anni per dar da mangiare ad una popolazione globale in aumento. Ma mentre le necessità alimentari sono in rapida ascesa, la capacità del pianeta di produrre cibo si confronta con limiti sempre maggiori provenienti da crisi sovrapposte che, se lasciate senza controllo, potrebbero portare miliardi di persone alla fame. L'ONU prevede che la popolazione globale crescerà dagli attuali 7 miliardi a 9,3 miliardi per metà secolo. Secondo il rapporto pubblicato la scorsa settimana dal World Resources Institute (WRI), “le calorie alimentari disponibili in tutto il mondo dovranno aumentare di circa il 60% dai livelli del 2006” per assicurare una dieta adeguata per questa popolazione più grande. Ai tassi attuali di perdita e spreco di cibo, per il 2050 il divario fra il fabbisogno della dieta quotidiana e il cibo disponibile si avvicinerebbe a “più di 900 calorie (kcal) per persona al giorno”. Il rapporto identifica una rete complessa e interconnessa di fattori ambientali alla base di questa sfida – molti dei quali generati dall'agricoltura industriale stessa. Circa il 24% delle emissioni di gas serra provengono dall'agricoltura, comprendendo il metano dal bestiame, ossido di azoto dai fertilizzanti, biossido di carbonio dai macchinari in loco, dalla produzione di fertilizzanti e dal cambiamento d'uso della terra.

L'agricoltura industriale, constata il rapporto, da un grande contributo al cambiamento climatico che, a sua volta, innesca “ondate di calore e schemi di alluvioni e precipitazioni” più intensi, con “conseguenze avverse per il rendimento globale delle colture”. Infatti, l'agricoltura globale fa un uso molto intensivo dell'acqua, utilizzando il 70% di tutta l'acqua dolce. I nutrienti dilavati dai campi agricoli possono creare “zone morte” e “degradare le acqua costiere in tutto il mondo” e, mentre il cambiamento climatico contribuisce ad un maggiore stress idrico nelle regioni agricole, la produzione di cibo ne soffrirà ulteriormente.

Altri fattori collegati entreranno a loro volta in gioco, avverte il rapporto: la deforestazione causata da siccità e riscaldamento regionali, l'effetto dell'aumento dei livelli del mare nella produttività agricole delle regioni costiere e l'aumento di domanda d'acqua da parte di una popolazione più ampia. Tuttavia il rapporto evidenzia che un problema fondamentale è l'impatto delle attività umane sulla terra stessa, stimando che:

"... il degrado del suolo colpisce circa il 20% della aree coltivate del mondo”. 

Durante gli ultimi 40 anni, circa 2 miliardi di ettari di suolo – equivalenti al 15% dell'area della terraferma del pianeta (un'area più grande degli Stati uniti e del Messico messi insieme) – hanno subito un degrado da parte delle attività umane e circa il 30% delle terre coltivate sono diventate improduttive. Ma ci vuole in media un secolo intero solo per generare un solo millimetro di suolo perso per l'erosione. Il suolo è pertanto, effettivamente, una risorsa non rinnovabile ma rapidamente esauribile. Stiamo per esaurire il tempo. Entro soli 12 anni, dice il rapporto, le stime prudenti suggeriscono che il forte stress idrico affliggerà tutte le regioni-paniere in Nord e Sud America, Asia occidentale e orientale, Europa centrale e Russia, così come il Medio Oriente, e il sud e il sud-est asiatico. Sfortunatamente, però, il rapporto tralascia un altro fattore critico – il collegamento inestricabile fra petrolio e cibo. Durante l'ultimo decennio, i prezzi del cibo e del combustibile sono stati fortemente correlati. Non è un caso.

La scorsa settimana, un nuovo rapporto della Banca Mondiale che esamina cinque diversi beni alimentari – mais, grano, riso, soia e olio di palma – ha confermato che i prezzi del petrolio sono i più grandi contributori all'amento dei prezzi del cibo. Il rapporto, basato su un algoritmo progettato per determinare l'impatto di ogni dato fattore attraverso l'analisi di regressione, ha concluso che i prezzi del petrolio sono stati persino più significativi del rapporto fra riserve alimentari mondiali e livelli di consumo, o della speculazione sui beni. La Banca raccomanda così di controllare i movimenti del prezzo del petrolio come una chiave per moderare l'inflazione del prezzo del cibo. Uno studio dell'Università del Michigan evidenzia che ogni grande punto del sistema alimentare industriale – fertilizzanti chimici, pesticidi, macchinari agricoli, trasformazione degli alimenti, imballaggio e trasporto – dipende da grandi input di petrolio e gas. Infatti, il 19% dei combustibili fossili che sostengono l''economia americana vanno nel sistema alimentare, secondo solo alle auto. Nel 1940, per ogni caloria di energia da combustibili fossili usata, venivano prodotte 2,3 calorie alimentari. Ora, la situazione si è rovesciata: servono 10 calorie di energia da combustibili fossili per produrre una sola caloria di energia alimentare. In quando scrittore sui temi del cibo e attivista, Michael Pollan ha sottolineato sul New York Times:

“Mettiamola in un altro modo, quando mangiamo cibo proveniente dal sistema industriale alimentare, mangiamo petrolio e sputiamo gas serra”. 

Ma gli alti prezzi del petrolio sono qui per restarci – e secondo una valutazione del Ministero della Difesa di quest'anno, potrebbero salire a 500 dollari al barile nei prossimi 30 anni. Tutti questi punti che stanno rapidamente convergendo, fra un sistema alimentare industriale sempre più autolesionista e una popolazione mondiale inesorabilmente in espansione. Ma il punto di convergenza potrebbe arrivare molto prima a causa del jolly rappresentato dal catastrofico declino delle api. Durante gli ultimi 10 anni, gli apicoltori americani ed europei hanno riportate perdite annuali di sciami del 30% o maggiori. Lo scorso inverno, tuttavia, ha visto molti apicoltori americani sperimentare perdite dal 40 al 50% in più – con alcuni che hanno riportato perdite fino al 80-90%. Dato che un terzo del cibo mangiato nel mondo dipende dagli impollinatori, in particolare dalle api, l'impatto sull'agricoltura globale potrebbe essere catastrofico. Alcuni studi hanno dato la colpa a fattori interni ai metodi industriali – pesticidi, acari parassiti, malattie, nutrizione, agricoltura intensiva e sviluppo urbano.

Ma le prove che indicano specificatamente i pesticidi ampiamente usati sono da tempo schiaccianti. L'Autorità per la Sicurezza Alimentare Europea (EFSA), per esempio, ha evidenziato il ruolo dei neonicotinoidicon gran dispiacere del governo britannico – giustificando la parziale proibizione della UE di tre pesticidi. Ora, nel suo ultimo avvertimento scientifico messo fuori la settimana scorsa, la EFSA evidenzia come un altro pesticida, il fipronil, ponga un “rischio alto” per le api. Lo studio ha anche osservato grandi vuoti di informazione negli studi scientifici che impediscono una valutazione complessiva dei rischi per gli impollinatori. In breve, il dilemma globale del cibo ha di fronte una tempesta perfetta di crisi intimamente collegate che ci stanno già colpendo adesso e peggioreranno durante i prossimi anni senza un'azione urgente. Non è che ci manchino le risposte. Lo scorso anno, la Commissione per l'Agricoltura Sostenibile e il Cambiamento Climatico guidata dall'ex scienziato-capo del governo, professor Sir John Beddington – che aveva precedentemente avvisato riguardo ad una tempesta perfetta di carenza di cibo, acqua ed energia entro 17 anni – ha esposto sette raccomandazioni concrete basate su prove per generare uno spostamento verso un'agricoltura più sostenibile. Finora, tuttavia, i governi hanno in gran parte ignorato tali avvertimenti anche se sono emerse prove secondo le quali la linea temporale di Beddington è troppo ottimistica. Un recente studio condotto dall'Università di Leeds ha scoperto che le gravi siccità alimentate dal clima in Asia – specialmente in Cina, India, Pakistan e Turchia – entro i prossimi 10 anni minerebbero drammaticamente la produzione di grano e mais. Se teniamo conto in questo quadro di erosione del suolo, degrado del terreno, prezzi del petrolio, collasso delle colonie di api e crescita della popolazione, le implicazioni sono dure: la civiltà industriale è sul punto di mangiare sé stessa – se non cambiamo direzione, questo decennio passerà alla storia come l'inizio dell'apocalisse alimentare globale.

giovedì 13 marzo 2014

Un dramma petrolifero





Image da "Our Finite World"

Nota introduttiva di Ugo Bardi



Quando ho visto per la prima volta i dati sulla produzione petrolifera nello Yemen, sono rimasto veramente impressionato. Non avevo mai visto un picco petrolifero così ovvio ed evidente, e un paese che aveva percorso totalmente il ciclo: da zero al massimo e poi vicino allo zero di nuovo. Sono rimasto Talmente impressionato che ne ho voluto sapere di più. Ho trovato un notiziario yemenita in inglese, lo "Yemen Times" e mi sono abbonato con il mio feed. Ad oggi, ho seguito costantemente per parecchi mesi le notizie da un posto dove non sono mai andato  - e dove probabilmente non andrò mai - ma che trovo incredibilmente affascinante.

Quello che si legge sullo Yemen Times suona come una tragedia di Shakespeare: per farvene un idea, provate a leggere questo "Carrying out a death sentence," che però è solo un esempio di una serie infinita di disastri che avvengono nel paese, incluso circa 4000 persone uccise tutti gli anni, incluso un certo numero  bersagliati dai droni Americani che svolazzano sullo Yemen.

Certamente, non tutti i disastri che arrivano addosso agli Yemeniti sono da attribuirsi all'esaurimento del petrolio ma, di certo, con la produzione che oggi incrocia il consumo e con il governo che ha  circa il 70% dei suoi introiti dal petrolio, allo Yemen non rimane che l'esportazione della droga chiamata "Qat" per tenere in piedi in qualche modo la baracca. Ma le cose vanno sempre peggio considerando anche che la popolazione continua a crescere. Lo Yemen ha oggi circa 25 milioni di abitanti (e 50 milioni di armi da fuoco).

Quello che impressiona di più nel leggere lo "Yemen Times" è che il petrolio non viene nominato quasi mai, eccetto per dire che tutto va bene e che presto la produzione tornerà a salire. Sembra che sia una regola generale che le ragioni vere del collasso rimangono nascoste a chi lo subisce. Lo Yemen, di sicuro, non è un'eccezione.

Sebbene il problema dell'esaurimento petrolifero sia raramente menzionato sullo Yemen Times, occasionalmente lo è e recentemente è apparso un articolo che parla di petrolio, sia pure di sfuggita, e perlomeno dandoci un'analisi spietata della situazione. Qais Ghanem, l'autore, definisce il futuro dello Yemen come "desolante." Ma non è soltanto un problema con lo Yemen. Vivere in un paese post-picco è desolante ovuque.




Da “Yemen Times”. Traduzione di MR



Di Qais Ghanem

Perché un titolo così pessimista? Perché non parlare di speranza per incoraggiare le persone prossime alla disperazione? E' perché la situazione è spaventosa e uno scrittore ha il dovere di descrivere la situazione per come la vede. Ancora di più visto che serve un'azione urgente, se si vuole evitare un disastro di proporzioni giganti.


Sullo Yemen incombono disastri molteplici.

Uno che si sta avvicinando rapidamente è quello della scarsità d'acqua. Di già, la disponibilità di acqua pro capite in Yemen è la più bassa del mondo. Uno studio del 2005 di Al Asbahi ha stimato che il fabbisogno totale annuale di acqua dello Yemen è di 3,4 miliardi di metri cubi. Allo stesso tempo, le fonti rinnovabili nel tempo, come la pioggia, possono fornire fino a 2,5 miliardi di metri cubi. C'è, pertanto, un deficit di 0,9 miliardi di metri cubi che devono provenire dalle falde acquifere di profondità che si stanno esaurendo e potrebbero prosciugarsi per quando Obama terminerà il suo mandato e comincerà a scrivere la sua autobiografia! Sappiamo questo perché i pozzi devono essere scavati sempre più in profondità, molti fino a mezzo chilometro di profondità.

La cattiva gestione delle risorse idriche è scioccante. A causa della mancanza di manutenzione, lo spreco causato dalle perdite delle tubature possono arrivare al 60%. La contaminazione dell'acqua a causa di fognature che penetrano nel terreno è difficile da misurare, ma significativa. L'irrigazione dispendiosa per allagamento è la norma in Yemen, mentre l'irrigazione goccia a goccia sarebbe più efficiente del 50%.

Come previsto, l'agricoltura usa il 90% dell'acqua disponibile, ma metà di questa viene sperperata per coltivare qat, il famigerato stimolante leggero dello Yemen e dei paesi del Corno d'Africa, che ha un PIL pro capite di meno di 1.000 dollari (Dh3,673), il più basso del mondo.

I contadini yemeniti coltivano qat perché si vende e dà profitti di almeno 5 volte più alti delle altre colture. Nel luglio 2013, il sito del Ministero degli Affari Esteri ha pubblicato un articolo intitolato “Come lo Yemen ha masticato sé stesso fino a prosciugarsi”.

Lo Yemen ha delle alluvioni occasionali causate da forti piogge, è accaduto nel 2010. Ma non ha dighe o competenze per salvare una tale enorme quantità d'acqua – per quando non piove!

A differenza di alcuni paesi della regione del Golfo, lo Yemen non può né permettersi il costo della desalinizzazione né quello di pompare l'acqua dal livello del Mar Rosso verso le montagne della capitale.

L'attuale popolazione di Sana’a di 2 milioni di abitanti è prevista raggiungere i 4 milioni in un decennio.

Le conseguenze sono prevedibilmente gravi. Per prima cosa, la produzione di cibo ne soffrirà e i prezzi del cibo andranno alle stelle. Quando le terre coltivabili finiscono l'acqua, anche gli animali muoiono di fame e i turisti non vengono più. Quando la povertà raggiunge livelli critici, si comincia a combattere fra vicini per le risorse idriche. In un paese che ha 25 milioni di persone e 50 milioni di pistole, la guerra civile è solo in attesa di scoppiare. Persino oggi, circa 4.000 persone vengono uccise ogni anno in dispute che riguardano la terra – molte di più delle vittime del terrorismo e dei droni.

Non è solo l'acqua che si sta costantemente esaurendo, anche il petrolio. L'aiuto estero è molto imprevedibile e arriva a certe condizioni, come avere carta bianca per assassinare yemeniti coi droni di Obama.

Le prospettive sono persino peggiori se teniamo conto del tasso di natalità dello Yemen, uno dei più alti del mondo. La scorsa settimana, ho assistito ad una conferenza di un giorno sullo Yemen alla London School of Oriental and African Studies, dove ho imparato che ci sarà un enorme aumento della popolazione adolescente nei prossimi 15 anni.

Normalmente, questa sarebbe uno sviluppo incoraggiante. Non in questo caso, in quanto questi giovani saranno disoccupati ma saranno molto capaci nei social media e quindi ben connessi e presumibilmente ben informati – i requisiti giusti per disordini e rivoluzioni.

Quindi, se queste spaventose previsioni sono corrette, cosa dovrebbero fare gli yemeniti?

Vorrei rispettosamente suggerire ad amici e parenti che prima di tutto si rendano conto che le soluzioni devono porvenire da loro stessi. La comunità internazionale intraprenderà solo azioni deboli, temporanee e condizionate.

Secondo, gli yemeniti devono trovare un modo di proibire il qat. Ecco, l'ho detto! Ci saranno molti che potrebbero dire che ho perso la testa. Non sarà facile. Richiederà una campagna educativa intensiva ed estensiva pan-yemenita, come quella messa in piedi contro il fumo, e dovrà essere una campagna graduale – sull'arco di 5 anni.

Gli yemeniti dovrebbero guardare numerosi spot quotidiani su come aiutare sé stessi, al posto di sprecare tempo a guardare il via vai studiato del presidente.

Fortunatamente, il qat non è una droga che da dipendenza, perché non causa i calssici sintomi di astinenza. Molti yemeniti che si sono trasferiti in altri paesi del GCC (Gulf Cooperation Council) hanno abbandonato il qat ed ora prosperano. L'acqua così risparmiata potrebbe essere usata per il consumo umano, così come per il turismo e per la coltivazioni di verdure e frutta. Gli animali da cortile potrebbero così prosperare.

Se gli yemeniti non sono disposti a far questo, be', allora che la smettano di lamentarsi di sete, diarrea, malattie epatiche, povertà, assenza di uno stato moderno e corruzione. Che la smettano anche di cercare sussidi. E' ironico che il Regni di  Sheba abbia instaurato la sua prosperità con la costruzione della diga di Mareb, 3.000 anni fa.

Il dottor Qais Ghanem è un neurologo in pensione, ospite di shoe radiofonici, poeta e scrittore. I suoi racconti sono “L'ultimo volo da Sana'a” e “Due ragazzi dell'Aden College”. Il suo ultimo lavoro non di fantasia è “La mia primavera araba, il mio Canada”  (Amazon.com) ed il suo libro di poesie bilingue inglese/arabo “Da destra a sinistra”. Seguitelo su Twitter www.twitter.com/@QaisGhanem

mercoledì 12 marzo 2014

Ritorno Energetico dall'Investimento (EROEI): la situazione

Da “The Rational Pessimist”. Traduzione di MR

di "Rational Pessimist"


Nel mio ultimo post, ho fatto riferimento al lavoro di Charles Hall sul Ritorno Energetico dall'Investimento (EROEI) e sull'economia biofisica. A seguito di uno scambio di e-mail col professor Hall, egli mi ha diretto ad una parte del suo recente lavoro, compreso un saggio del gennaio 2014 intitolato “l'EROEI dei diversi combustibili e le implicazioni per la società”, pubblicato su Energy Policy (ad accesso libero). Il saggio si occupa della questione cruciale dell'EROI: “Quante unità di energia si estraggono per ogni unita di energia che si investe”?

Il saggio è un vero e proprio festival di grafici di ogni cosa sull'EROEI, ma suzzicherò il vostro appetito con soltanto 3 di questi. Il primo è un confronto di EROEI fra diversi combustibili fossili e fonti di energia da biomassa:


La cattiva notizia qui, è che il carbone rimane il re dell'EROEI visto che si ottiene 40 volte l'energia che viene impiegata (40:1). Non buono per le traiettorie delle emissioni di CO2 e per il cambiamento climatico. Il secondo è il declino degli EROEI globali di petrolio e gas:


Il declino non sorprende, visto stiamo cercando di estrarre sempre di più fonti geologicamente marginali di petrolio e gas in modi sempre più non convenzionali. Infine, un grafico che mostra i combustibili fossili contro le rinnovabili:


Sono stato davvero sorpreso da questo grafico perché sia eolico sia fotovoltaico (FV) hanno si presentano migliori di quanto mi aspettassi. Hall segnala tutti i grandi problemi dell'eolico e del FV (necessità di carico di base e così via) ed anche i punti controversi nella disputa sulla metodologia per l'EROEI del FV. Ciononostante, ho sentito argomentazioni in passato secondo le quali il FV è quasi alla pari in termini di EROEI (*). Ma non sembra che sia così. C'è molto di più nel saggio, compresi numerori riferimenti interessanti. Quando avrò tempo, tornerò sull'EROEI delle rinnovabili, in quanto sembra un tema molto importante. 



(*) nota di UB: non è chiaro nel testo originale a cosa questa "parità" si riferisca