domenica 16 marzo 2014

Cosa sono i norvegesi senza neve?

Da “Yr.no” Traduzione di MR (da una precedente traduzione in inglese di Francesca Ruscillo)


Cosa sono  i norvegesi senza neve? Inverno, neve e sci significano per noi tanto quanto la famiglia reale o la bandiera norvegese, dicono gli storici. Se la neve scompare, cosa ne sarà di noi? 


Metri e metri di neve e una capacità popolare di gestirla perfettamente. Questo è un tratto tipico dei norvegesi e di come pensiamo noi stessi, secondo lo storico Karsten Alnæs. 

Se il riscaldamento globale continua, per la fine di questo secolo la neve potrebbe essere storia nella Norvegia invernale. 

Se la neve scompare creerà molta frustrazione, dice lo storico, che spiega anche che la neve è un importante simbolo di identificazione come la bandiera o il Re.

18° secolo: la neve comincia ad essere parte dell'identità norvegese già nella seconda metà del secolo. 

La Norvegia era sotto la dominazione danese e a Copenhagen gli studenti norvegesi cercavano qualcosa che fosse tipicamente norvegese. E' quando vai in giro e incontri degli stranieri che cominci a vedere chi sei, dice Karsten Alnæs. 

Gli studenti si aggrappavano all'essenza norvegese: un clima rigido, freddo e neve. Scrivevano canzoni e poesie. Le leggende raccontano che Johan Nordal Brun andava in giro solo con la maglietta in pieno inverno, vantandosi di quanto poteva resistere. Il messaggio è chiaro: l'inverno e la neve rendono i norvegesi duri e resistenti, mentre i danesi e la gente delle latitudini più meridionali sono “deboli”. 

Più tardi nel 18° secolo, l'interesse per la neve e il freddo ha subito un nuovo rialzo, quando Nansen ha attraversato la Groenlandia e Roald Admunsen è diventato il primo a raggiungere il Polo Sud. 

2014: le competizioni sciistiche. 

Oggi i norvegesi adorano la neve in modo diverso, più romantico, dice Alnæs. Si tratta del desiderio koderno di allontanarsi dalla città e andare in campagna. Abbiamo tempo e soldi per avere uno stile di vita all'aperto e godere dell'inverno, non di sopravvivergli. Ha anche a che fare con la sciocchezza degli atleti e dello sport, aggiunge Alnæs. 

Therese Johaug che attraversa la linea del traguardo a Holmenkollen con un grido primordiale. La solare, forte e gioviale Marit Biørgen. Entrambe tengono in vita il mito secondo cui la “Norvegia è meglio con gli sci ai piedi”. 

La neve è un simbolo di identità così forte oggi come ieri, solo in un altro modo, indica Alnæs. 

La gente della costa può sciare? 

E' difficile da credere, ma già oggi la neve è rara in alcune zone della fredda Norvegia. Utsira, al largo di Haugesund, è uno di quei posti: lì la temperatura media in inverno è al di sopra dello zero. Ecco perché l'isola non ha un inverno proprio, non nel modo in cui lo definiscono i meteorologi. 

Su Utsira c'è un altro elemento meteorologico che da l'identità. Il vento influenza qualsiasi cosa, dal vestiario al modo in cui crescono gli alberi a dove attraccano i traghetti, sul lato settentrionale o meridionale dell'isola. 

La neve norvegese è minacciata 

L'inverno verde di Utsira in futuro potrebbe diventare una regola più che un'eccezione, visto che la previsione dei ricercatori climatici è che il clima diventerà più mite e più umido. Le analisi fatte da Dagrun Vikmar Schuler, ricercatore climatico all'Istituto di Meteorologia, mostrano che l'inverno sta cambiando in due modi: il primo è che la stagione della neve sta diventando più breve in tutto il paese. L'autunno e la primavera si stanno avvicinando fra loro (a spese dell'inverno). L'estate si gode la vittoriosa e diventa più lunga. Il secondo è che la quantità di neve sta cambiando in tutto il paese. Qui i ricercatori climatici dividono il secolo in 2 parti: 

fino al 2050 la quota della neve si ritirerà a 800-900 metri. 

Al di sopra di questa altitudine ci sarà sempre più neve, mentre ci sarà più pioggia nelle aree più basse. Le tipiche località sciistiche, come Ustaoset, Hemsedal o Geilo possono avere più neve nei prossimi decenni. Allo stesso tempo la cosa sembra preoccupante per luoghi come Tyrvann, che si trovano a 500 metri sul livello del mare. 

Nell'ultima metà del secolo, le quote della pioggia e della neve si ritireranno sempre di più. 

Ci sarà quindi meno neve anche in luoghi più alti. Le piste da sci a Ustaoset, Hemsedal e Geilo potrebbero quindi essere verdi per tutto l'anno, perché ci può essere una maggiore variazione di anno in anno. 

La previsione per il futuro mostra solo una media del meteo, sottolinea Schuler. Anche se la media implica poca neve, alcuni inverni nevosi come li conosciamo oggi potrebbero ancora verificarsi. 

La neve diventa un lontano ricordo.

Cosa succederebbe ai norvegesi ed alla loro identità se la neve scompare? Penso che provocherà una grande frustrazione, dice lo storico Karsten Alnæs. La gente cercherà la neve nella Nordmarka (foreste a nord di Oslo). 

Ciò ha sollevato grandi preoccupazioni, ma a così breve termine l'identità non era in pericolo. Ma se il futuro sarà senza neve, alla fine la neve diventerà un lontano ricordo e perderà di interesse, conclude lo storico. 

Mappa: gli inverni futuri possono rivelarsi così

La mappa mostra come potrebbe essere l'inverno secondo la previsione dei ricercatori climatici nel periodo fra il 2071 e il 2100, in confronto al periodo normale fra il 1961 e il 1990 (che è stato un periodo prodigo di neve). Qui si ipotizza che le nostre emissioni di gas serra saranno di livello medio in futuro. 

Dalla mappa, si può per esempio leggere questo:

  • Oslo potrebbe avere 50-60 giorni di neve in meno ogni anno, di media
  • Høyfjellet nel sud della Norvegia potrebbe avere 30-40 giorni in meno di neve ogni anno, in media. 
  • Finnmarksvidda potrebbe avere 30-40 giorni di neve in meno ogni anno, in media.
  • Høyereliggende e parti più alte della costa Norvegese potrebbero avere 80 giorni di neve in meno all'anno, di media. Praticamente, con questi 80 giorni di meno , significa che l'inverno dura un mese di meno sia all'inizio che alla fine. 

sabato 15 marzo 2014

Maledetti Troll!!!






Da ZeroHedge. Traduzione di MR

Perché i Troll iniziano le guerre dei flame: imprecare e insultare blocca la capacità di pensare e concentrarsi

Gli studi di psicologia mostrano che imprecare ed insultare nelle discussioni su Internet bloccano la nostra capacità di pensare. Due professori di scienza della comunicazione dell'Università del Wisconsin a Madison - Dominique Brossard e Dietram A. Scheufele – hanno scritto lo scorso anno sul New York Times:

In uno studio pubblicato in rete lo scorso mese nel Journal of Computer-Mediated Communication, noi e tre altri colleghi facciamo una relazione su un esperimento progettato per misurare quello che si potrebbe chiamare “l'effetto sgradevole”.

Abbiamo chiesto ai 1.183 partecipanti di leggere attentamente un post su un blog fittizio che spiegava i potenziali rischi e vantaggi di un nuovo prodotto tecnologico chiamato nanosilver. Queste particelle infinitesimali d'argento, più piccole di 100 miliardesimi di metro in ogni dimensione, hanno diversi benefici potenziali (come le proprietà antibatteriche) e rischi (come la contaminazione dell'acqua), riportava l'articolo online. 

Poi abbiamo fatto leggere ai partecipanti i commenti al post, presumibilmente di altri lettori, e rispondere a domande riguardanti il contenuto dell'articolo stesso. 

Metà del nostro campione è stato esposto a commenti di lettori civili e l'altra metà a commenti di lettori maleducati – anche se il contenuto, la lunghezza e l'intensità reale dei commenti, che variava dal sostenere la nuova tecnologia all'essere diffidente per i rischi, erano coerenti in entrambi i gruppi. La sola differenza era che quelli maleducati contenevano epiteti e parolacce, come: “Se non vedi i benefici dell'uso della nanotecnologia in questo tipo di prodotto, sei un'idiota” e “Sei stupido se non pensi ai rischi per i pesci e per le altre piante e animali nell'acqua contaminata con l'argento”. 

I risultati sono stati sia sorprendenti sia inquietanti. I commenti incivili non solo hanno polarizzato i lettori, ma hanno spesso cambiato l'interpretazione dei partecipanti della notizia stessa

Nel gruppo civile, coloro che inizialmente supportavano o non supportavano la tecnologia – che abbiamo identificato con domande in un sondaggio preliminare – hanno continuato a sentirsi allo stesso modo dopo aver letto i commenti. Coloro che sono stati esposti ai commenti maleducati, tuttavia, hanno finito per avere una comprensione molto più polarizzata dei rischi connessi alla tecnologia

Includere anche soltanto un attacco ad personam in un commento di un lettore è stato sufficiente a far pensare ai partecipanti che il lato negativo della tecnologia di cui si parlava fosse maggiore di quanto avessero pensato in precedenza

Mentre è difficile quantificare gli effetti distorsivi di tali cattiverie online, sono destinate ad essere piuttosto consistenti, in particolare – e forse ironicamente – nel campo delle notizie scientifiche. 
Quindi, perché la gente trolla in modo maleducato?

Gli psicologi dicono che gran parte di loro sono psicopatici, sadici e narcisisti che si divertono in questo modo. E' facile sottostimare quanti di questi tipi di squilibrati ci siano là fuori: ci sono milioni di sociopatici nei soli Stati Uniti.

Ma anche le agenzie di intelligence stanno intenzionalmente disturbando la discussione politica sul web e attacchi ad personam, insulti e tattiche da 'divide et impera' sono tutte tecniche di disturbo ben conosciute e frequentemente usate.

Ora sapete perché... le guerre dei flame polarizzano il pensiero e bloccano la capacità di concentrarsi sul reale argomento e sui fatti in discussione.

Infatti, questa tattica è così efficace che lo stesso sapientone potrebbe agire su entrambi i fronti della battaglia.

Postscriptum: Fortunatamente, non è poi così difficile fermare il loro disturbo... basta indicare quello che stanno facendo.

Per esempio, ho scoperto che postare una cosa di questo genere può essere molto efficace:

Buon Numero 1!

Questo potrebbe essere meglio se il troll è un sociopatico:

Questo tipo di "intrattenimento" non è più appropriato altrove?

(includete il link, così la gente può vedere a cosa vi state riferendo).

La ragione per cui questo funziona è che gli altri lettori impareranno come funzionano le tattiche di disturbo specifiche usate... contestualmente, come vedere la natura selvaggia avendo in mano una guida, di modo che si impara quello che si vede “sul campo”. Allo stesso tempo, risulterete divertenti, scanzonati e intelligenti... anziché oppressivi e troppo intensi.

Provate... funziona.

venerdì 14 marzo 2014

Picco del suolo: la civiltà industriale è sul punto di mangiare sé stessa

Da “The Guardian”. Traduzione di MR

Una nuova ricerca su terra, petrolio, api e cambiamento climatico indica una crisi alimentare globale imminente, se non si intraprende un'azione urgente


Il vento causa erosione del suolo nei campi coltivati. Suffolk, 18 aprile 2013. Foto: Alamy


Un nuovo rapporto dice che il mondo avrà bisogno di più che raddoppiare la produzione di cibo nei prossimi 40 anni per dar da mangiare ad una popolazione globale in aumento. Ma mentre le necessità alimentari sono in rapida ascesa, la capacità del pianeta di produrre cibo si confronta con limiti sempre maggiori provenienti da crisi sovrapposte che, se lasciate senza controllo, potrebbero portare miliardi di persone alla fame. L'ONU prevede che la popolazione globale crescerà dagli attuali 7 miliardi a 9,3 miliardi per metà secolo. Secondo il rapporto pubblicato la scorsa settimana dal World Resources Institute (WRI), “le calorie alimentari disponibili in tutto il mondo dovranno aumentare di circa il 60% dai livelli del 2006” per assicurare una dieta adeguata per questa popolazione più grande. Ai tassi attuali di perdita e spreco di cibo, per il 2050 il divario fra il fabbisogno della dieta quotidiana e il cibo disponibile si avvicinerebbe a “più di 900 calorie (kcal) per persona al giorno”. Il rapporto identifica una rete complessa e interconnessa di fattori ambientali alla base di questa sfida – molti dei quali generati dall'agricoltura industriale stessa. Circa il 24% delle emissioni di gas serra provengono dall'agricoltura, comprendendo il metano dal bestiame, ossido di azoto dai fertilizzanti, biossido di carbonio dai macchinari in loco, dalla produzione di fertilizzanti e dal cambiamento d'uso della terra.

L'agricoltura industriale, constata il rapporto, da un grande contributo al cambiamento climatico che, a sua volta, innesca “ondate di calore e schemi di alluvioni e precipitazioni” più intensi, con “conseguenze avverse per il rendimento globale delle colture”. Infatti, l'agricoltura globale fa un uso molto intensivo dell'acqua, utilizzando il 70% di tutta l'acqua dolce. I nutrienti dilavati dai campi agricoli possono creare “zone morte” e “degradare le acqua costiere in tutto il mondo” e, mentre il cambiamento climatico contribuisce ad un maggiore stress idrico nelle regioni agricole, la produzione di cibo ne soffrirà ulteriormente.

Altri fattori collegati entreranno a loro volta in gioco, avverte il rapporto: la deforestazione causata da siccità e riscaldamento regionali, l'effetto dell'aumento dei livelli del mare nella produttività agricole delle regioni costiere e l'aumento di domanda d'acqua da parte di una popolazione più ampia. Tuttavia il rapporto evidenzia che un problema fondamentale è l'impatto delle attività umane sulla terra stessa, stimando che:

"... il degrado del suolo colpisce circa il 20% della aree coltivate del mondo”. 

Durante gli ultimi 40 anni, circa 2 miliardi di ettari di suolo – equivalenti al 15% dell'area della terraferma del pianeta (un'area più grande degli Stati uniti e del Messico messi insieme) – hanno subito un degrado da parte delle attività umane e circa il 30% delle terre coltivate sono diventate improduttive. Ma ci vuole in media un secolo intero solo per generare un solo millimetro di suolo perso per l'erosione. Il suolo è pertanto, effettivamente, una risorsa non rinnovabile ma rapidamente esauribile. Stiamo per esaurire il tempo. Entro soli 12 anni, dice il rapporto, le stime prudenti suggeriscono che il forte stress idrico affliggerà tutte le regioni-paniere in Nord e Sud America, Asia occidentale e orientale, Europa centrale e Russia, così come il Medio Oriente, e il sud e il sud-est asiatico. Sfortunatamente, però, il rapporto tralascia un altro fattore critico – il collegamento inestricabile fra petrolio e cibo. Durante l'ultimo decennio, i prezzi del cibo e del combustibile sono stati fortemente correlati. Non è un caso.

La scorsa settimana, un nuovo rapporto della Banca Mondiale che esamina cinque diversi beni alimentari – mais, grano, riso, soia e olio di palma – ha confermato che i prezzi del petrolio sono i più grandi contributori all'amento dei prezzi del cibo. Il rapporto, basato su un algoritmo progettato per determinare l'impatto di ogni dato fattore attraverso l'analisi di regressione, ha concluso che i prezzi del petrolio sono stati persino più significativi del rapporto fra riserve alimentari mondiali e livelli di consumo, o della speculazione sui beni. La Banca raccomanda così di controllare i movimenti del prezzo del petrolio come una chiave per moderare l'inflazione del prezzo del cibo. Uno studio dell'Università del Michigan evidenzia che ogni grande punto del sistema alimentare industriale – fertilizzanti chimici, pesticidi, macchinari agricoli, trasformazione degli alimenti, imballaggio e trasporto – dipende da grandi input di petrolio e gas. Infatti, il 19% dei combustibili fossili che sostengono l''economia americana vanno nel sistema alimentare, secondo solo alle auto. Nel 1940, per ogni caloria di energia da combustibili fossili usata, venivano prodotte 2,3 calorie alimentari. Ora, la situazione si è rovesciata: servono 10 calorie di energia da combustibili fossili per produrre una sola caloria di energia alimentare. In quando scrittore sui temi del cibo e attivista, Michael Pollan ha sottolineato sul New York Times:

“Mettiamola in un altro modo, quando mangiamo cibo proveniente dal sistema industriale alimentare, mangiamo petrolio e sputiamo gas serra”. 

Ma gli alti prezzi del petrolio sono qui per restarci – e secondo una valutazione del Ministero della Difesa di quest'anno, potrebbero salire a 500 dollari al barile nei prossimi 30 anni. Tutti questi punti che stanno rapidamente convergendo, fra un sistema alimentare industriale sempre più autolesionista e una popolazione mondiale inesorabilmente in espansione. Ma il punto di convergenza potrebbe arrivare molto prima a causa del jolly rappresentato dal catastrofico declino delle api. Durante gli ultimi 10 anni, gli apicoltori americani ed europei hanno riportate perdite annuali di sciami del 30% o maggiori. Lo scorso inverno, tuttavia, ha visto molti apicoltori americani sperimentare perdite dal 40 al 50% in più – con alcuni che hanno riportato perdite fino al 80-90%. Dato che un terzo del cibo mangiato nel mondo dipende dagli impollinatori, in particolare dalle api, l'impatto sull'agricoltura globale potrebbe essere catastrofico. Alcuni studi hanno dato la colpa a fattori interni ai metodi industriali – pesticidi, acari parassiti, malattie, nutrizione, agricoltura intensiva e sviluppo urbano.

Ma le prove che indicano specificatamente i pesticidi ampiamente usati sono da tempo schiaccianti. L'Autorità per la Sicurezza Alimentare Europea (EFSA), per esempio, ha evidenziato il ruolo dei neonicotinoidicon gran dispiacere del governo britannico – giustificando la parziale proibizione della UE di tre pesticidi. Ora, nel suo ultimo avvertimento scientifico messo fuori la settimana scorsa, la EFSA evidenzia come un altro pesticida, il fipronil, ponga un “rischio alto” per le api. Lo studio ha anche osservato grandi vuoti di informazione negli studi scientifici che impediscono una valutazione complessiva dei rischi per gli impollinatori. In breve, il dilemma globale del cibo ha di fronte una tempesta perfetta di crisi intimamente collegate che ci stanno già colpendo adesso e peggioreranno durante i prossimi anni senza un'azione urgente. Non è che ci manchino le risposte. Lo scorso anno, la Commissione per l'Agricoltura Sostenibile e il Cambiamento Climatico guidata dall'ex scienziato-capo del governo, professor Sir John Beddington – che aveva precedentemente avvisato riguardo ad una tempesta perfetta di carenza di cibo, acqua ed energia entro 17 anni – ha esposto sette raccomandazioni concrete basate su prove per generare uno spostamento verso un'agricoltura più sostenibile. Finora, tuttavia, i governi hanno in gran parte ignorato tali avvertimenti anche se sono emerse prove secondo le quali la linea temporale di Beddington è troppo ottimistica. Un recente studio condotto dall'Università di Leeds ha scoperto che le gravi siccità alimentate dal clima in Asia – specialmente in Cina, India, Pakistan e Turchia – entro i prossimi 10 anni minerebbero drammaticamente la produzione di grano e mais. Se teniamo conto in questo quadro di erosione del suolo, degrado del terreno, prezzi del petrolio, collasso delle colonie di api e crescita della popolazione, le implicazioni sono dure: la civiltà industriale è sul punto di mangiare sé stessa – se non cambiamo direzione, questo decennio passerà alla storia come l'inizio dell'apocalisse alimentare globale.

giovedì 13 marzo 2014

Un dramma petrolifero





Image da "Our Finite World"

Nota introduttiva di Ugo Bardi



Quando ho visto per la prima volta i dati sulla produzione petrolifera nello Yemen, sono rimasto veramente impressionato. Non avevo mai visto un picco petrolifero così ovvio ed evidente, e un paese che aveva percorso totalmente il ciclo: da zero al massimo e poi vicino allo zero di nuovo. Sono rimasto Talmente impressionato che ne ho voluto sapere di più. Ho trovato un notiziario yemenita in inglese, lo "Yemen Times" e mi sono abbonato con il mio feed. Ad oggi, ho seguito costantemente per parecchi mesi le notizie da un posto dove non sono mai andato  - e dove probabilmente non andrò mai - ma che trovo incredibilmente affascinante.

Quello che si legge sullo Yemen Times suona come una tragedia di Shakespeare: per farvene un idea, provate a leggere questo "Carrying out a death sentence," che però è solo un esempio di una serie infinita di disastri che avvengono nel paese, incluso circa 4000 persone uccise tutti gli anni, incluso un certo numero  bersagliati dai droni Americani che svolazzano sullo Yemen.

Certamente, non tutti i disastri che arrivano addosso agli Yemeniti sono da attribuirsi all'esaurimento del petrolio ma, di certo, con la produzione che oggi incrocia il consumo e con il governo che ha  circa il 70% dei suoi introiti dal petrolio, allo Yemen non rimane che l'esportazione della droga chiamata "Qat" per tenere in piedi in qualche modo la baracca. Ma le cose vanno sempre peggio considerando anche che la popolazione continua a crescere. Lo Yemen ha oggi circa 25 milioni di abitanti (e 50 milioni di armi da fuoco).

Quello che impressiona di più nel leggere lo "Yemen Times" è che il petrolio non viene nominato quasi mai, eccetto per dire che tutto va bene e che presto la produzione tornerà a salire. Sembra che sia una regola generale che le ragioni vere del collasso rimangono nascoste a chi lo subisce. Lo Yemen, di sicuro, non è un'eccezione.

Sebbene il problema dell'esaurimento petrolifero sia raramente menzionato sullo Yemen Times, occasionalmente lo è e recentemente è apparso un articolo che parla di petrolio, sia pure di sfuggita, e perlomeno dandoci un'analisi spietata della situazione. Qais Ghanem, l'autore, definisce il futuro dello Yemen come "desolante." Ma non è soltanto un problema con lo Yemen. Vivere in un paese post-picco è desolante ovuque.




Da “Yemen Times”. Traduzione di MR



Di Qais Ghanem

Perché un titolo così pessimista? Perché non parlare di speranza per incoraggiare le persone prossime alla disperazione? E' perché la situazione è spaventosa e uno scrittore ha il dovere di descrivere la situazione per come la vede. Ancora di più visto che serve un'azione urgente, se si vuole evitare un disastro di proporzioni giganti.


Sullo Yemen incombono disastri molteplici.

Uno che si sta avvicinando rapidamente è quello della scarsità d'acqua. Di già, la disponibilità di acqua pro capite in Yemen è la più bassa del mondo. Uno studio del 2005 di Al Asbahi ha stimato che il fabbisogno totale annuale di acqua dello Yemen è di 3,4 miliardi di metri cubi. Allo stesso tempo, le fonti rinnovabili nel tempo, come la pioggia, possono fornire fino a 2,5 miliardi di metri cubi. C'è, pertanto, un deficit di 0,9 miliardi di metri cubi che devono provenire dalle falde acquifere di profondità che si stanno esaurendo e potrebbero prosciugarsi per quando Obama terminerà il suo mandato e comincerà a scrivere la sua autobiografia! Sappiamo questo perché i pozzi devono essere scavati sempre più in profondità, molti fino a mezzo chilometro di profondità.

La cattiva gestione delle risorse idriche è scioccante. A causa della mancanza di manutenzione, lo spreco causato dalle perdite delle tubature possono arrivare al 60%. La contaminazione dell'acqua a causa di fognature che penetrano nel terreno è difficile da misurare, ma significativa. L'irrigazione dispendiosa per allagamento è la norma in Yemen, mentre l'irrigazione goccia a goccia sarebbe più efficiente del 50%.

Come previsto, l'agricoltura usa il 90% dell'acqua disponibile, ma metà di questa viene sperperata per coltivare qat, il famigerato stimolante leggero dello Yemen e dei paesi del Corno d'Africa, che ha un PIL pro capite di meno di 1.000 dollari (Dh3,673), il più basso del mondo.

I contadini yemeniti coltivano qat perché si vende e dà profitti di almeno 5 volte più alti delle altre colture. Nel luglio 2013, il sito del Ministero degli Affari Esteri ha pubblicato un articolo intitolato “Come lo Yemen ha masticato sé stesso fino a prosciugarsi”.

Lo Yemen ha delle alluvioni occasionali causate da forti piogge, è accaduto nel 2010. Ma non ha dighe o competenze per salvare una tale enorme quantità d'acqua – per quando non piove!

A differenza di alcuni paesi della regione del Golfo, lo Yemen non può né permettersi il costo della desalinizzazione né quello di pompare l'acqua dal livello del Mar Rosso verso le montagne della capitale.

L'attuale popolazione di Sana’a di 2 milioni di abitanti è prevista raggiungere i 4 milioni in un decennio.

Le conseguenze sono prevedibilmente gravi. Per prima cosa, la produzione di cibo ne soffrirà e i prezzi del cibo andranno alle stelle. Quando le terre coltivabili finiscono l'acqua, anche gli animali muoiono di fame e i turisti non vengono più. Quando la povertà raggiunge livelli critici, si comincia a combattere fra vicini per le risorse idriche. In un paese che ha 25 milioni di persone e 50 milioni di pistole, la guerra civile è solo in attesa di scoppiare. Persino oggi, circa 4.000 persone vengono uccise ogni anno in dispute che riguardano la terra – molte di più delle vittime del terrorismo e dei droni.

Non è solo l'acqua che si sta costantemente esaurendo, anche il petrolio. L'aiuto estero è molto imprevedibile e arriva a certe condizioni, come avere carta bianca per assassinare yemeniti coi droni di Obama.

Le prospettive sono persino peggiori se teniamo conto del tasso di natalità dello Yemen, uno dei più alti del mondo. La scorsa settimana, ho assistito ad una conferenza di un giorno sullo Yemen alla London School of Oriental and African Studies, dove ho imparato che ci sarà un enorme aumento della popolazione adolescente nei prossimi 15 anni.

Normalmente, questa sarebbe uno sviluppo incoraggiante. Non in questo caso, in quanto questi giovani saranno disoccupati ma saranno molto capaci nei social media e quindi ben connessi e presumibilmente ben informati – i requisiti giusti per disordini e rivoluzioni.

Quindi, se queste spaventose previsioni sono corrette, cosa dovrebbero fare gli yemeniti?

Vorrei rispettosamente suggerire ad amici e parenti che prima di tutto si rendano conto che le soluzioni devono porvenire da loro stessi. La comunità internazionale intraprenderà solo azioni deboli, temporanee e condizionate.

Secondo, gli yemeniti devono trovare un modo di proibire il qat. Ecco, l'ho detto! Ci saranno molti che potrebbero dire che ho perso la testa. Non sarà facile. Richiederà una campagna educativa intensiva ed estensiva pan-yemenita, come quella messa in piedi contro il fumo, e dovrà essere una campagna graduale – sull'arco di 5 anni.

Gli yemeniti dovrebbero guardare numerosi spot quotidiani su come aiutare sé stessi, al posto di sprecare tempo a guardare il via vai studiato del presidente.

Fortunatamente, il qat non è una droga che da dipendenza, perché non causa i calssici sintomi di astinenza. Molti yemeniti che si sono trasferiti in altri paesi del GCC (Gulf Cooperation Council) hanno abbandonato il qat ed ora prosperano. L'acqua così risparmiata potrebbe essere usata per il consumo umano, così come per il turismo e per la coltivazioni di verdure e frutta. Gli animali da cortile potrebbero così prosperare.

Se gli yemeniti non sono disposti a far questo, be', allora che la smettano di lamentarsi di sete, diarrea, malattie epatiche, povertà, assenza di uno stato moderno e corruzione. Che la smettano anche di cercare sussidi. E' ironico che il Regni di  Sheba abbia instaurato la sua prosperità con la costruzione della diga di Mareb, 3.000 anni fa.

Il dottor Qais Ghanem è un neurologo in pensione, ospite di shoe radiofonici, poeta e scrittore. I suoi racconti sono “L'ultimo volo da Sana'a” e “Due ragazzi dell'Aden College”. Il suo ultimo lavoro non di fantasia è “La mia primavera araba, il mio Canada”  (Amazon.com) ed il suo libro di poesie bilingue inglese/arabo “Da destra a sinistra”. Seguitelo su Twitter www.twitter.com/@QaisGhanem

mercoledì 12 marzo 2014

Ritorno Energetico dall'Investimento (EROEI): la situazione

Da “The Rational Pessimist”. Traduzione di MR

di "Rational Pessimist"


Nel mio ultimo post, ho fatto riferimento al lavoro di Charles Hall sul Ritorno Energetico dall'Investimento (EROEI) e sull'economia biofisica. A seguito di uno scambio di e-mail col professor Hall, egli mi ha diretto ad una parte del suo recente lavoro, compreso un saggio del gennaio 2014 intitolato “l'EROEI dei diversi combustibili e le implicazioni per la società”, pubblicato su Energy Policy (ad accesso libero). Il saggio si occupa della questione cruciale dell'EROI: “Quante unità di energia si estraggono per ogni unita di energia che si investe”?

Il saggio è un vero e proprio festival di grafici di ogni cosa sull'EROEI, ma suzzicherò il vostro appetito con soltanto 3 di questi. Il primo è un confronto di EROEI fra diversi combustibili fossili e fonti di energia da biomassa:


La cattiva notizia qui, è che il carbone rimane il re dell'EROEI visto che si ottiene 40 volte l'energia che viene impiegata (40:1). Non buono per le traiettorie delle emissioni di CO2 e per il cambiamento climatico. Il secondo è il declino degli EROEI globali di petrolio e gas:


Il declino non sorprende, visto stiamo cercando di estrarre sempre di più fonti geologicamente marginali di petrolio e gas in modi sempre più non convenzionali. Infine, un grafico che mostra i combustibili fossili contro le rinnovabili:


Sono stato davvero sorpreso da questo grafico perché sia eolico sia fotovoltaico (FV) hanno si presentano migliori di quanto mi aspettassi. Hall segnala tutti i grandi problemi dell'eolico e del FV (necessità di carico di base e così via) ed anche i punti controversi nella disputa sulla metodologia per l'EROEI del FV. Ciononostante, ho sentito argomentazioni in passato secondo le quali il FV è quasi alla pari in termini di EROEI (*). Ma non sembra che sia così. C'è molto di più nel saggio, compresi numerori riferimenti interessanti. Quando avrò tempo, tornerò sull'EROEI delle rinnovabili, in quanto sembra un tema molto importante. 



(*) nota di UB: non è chiaro nel testo originale a cosa questa "parità" si riferisca

martedì 11 marzo 2014

Il marmo sulle Alpi Apuane: ritorni economici decrescenti e costi per la comunità sempre più elevati.


L'estrazione del marmo sulle Alpi Apuane sta diventando un'operazione talmente costosa e distruttiva che la si può paragonare al fracking per il petrolio e il gas naturale - la potremmo chiamare "marming" secondo questa analisi di Jacopo Simonetta. E' un'illustrazione molto chiara del problema che stiamo avendo con tutte le risorse minerali. Non stiamo esaurendo niente, ma ci troviamo di fronte a ritorni economici decrescenti e costi ambientali crescenti. In questo caso, Simonetta fa vedere come il tentativo di mantenere in vita a tutti i costi il processo estrattivo finisca per diventare un costo per l'intera comunità

Di Jacopo Simonetta


"In ultima analisi, la nostra economia è un sistema di incentivi alla distruzione delle risorse" H. Daly, J. Farley.


Qualunque processo industriale si alimenta di risorse e produce contemporaneamente beni/servizi da un lato, costi ambientali e sociali dall'altro.  In queste pagine, ci riferiremo quindi a “costi interni” per indicare le spese che figurano come uscite nei bilanci aziendali.   Chiameremo invece “costi esterni” tutti quei costi che non figurano nei bilanci aziendali e che vengono spalmati sulla popolazione a livello locale (ad es. il traffico, l’esaurimento delle risorse, ecc.) o globale (ad es. emissioni di CO2).
Tenuto conto che le voci in uscita dal punto di vista aziendale (stipendi, tasse, acquisti, ecc.) sono le voci in entrata dal punto di vista collettivo, mentre le voci in uscita per il bilancio collettivo sono in parte le entrate di quello aziendale (consumo risorse), in parte altre (inquinamento, traffico, alterazione/distruzione habitat, paesaggio, ecc.), possiamo avere quattro combinazioni possibili:

Osservando questo schema, si comprende che il fattore discriminante fra le diverse situazioni è dato dal diverso rapporto fra costi di produzione interni ed esterni.   In sintesi:
   ·         Se i costi interni ed esterni sono in equilibrio, l’attività avrà effetti economicamente positivi sia dal punto di vista aziendale che da quello collettivo.  Se, invece, i costi esterni sono lievi e quelli interni forti, l’azienda si troverà in cattive acque.     Se entrambi i costi sono pesanti l’attività sarà passiva sia per l’azienda che per la comunità.    Se, infine, i costi esterni sono più importanti di quelli interni, l’azienda potrà essere florida, ma contribuirà ad impoverire anziché arricchire il territorio e la popolazione.  In pratica, in situazioni come questa, la collettività si fa carico di una serie di spese e di danni per permettere all'attività industriale di proseguire.

Questi temi stanno diventando critici in un numero crescente di casi ed, assieme ad un gruppo di operatori del settore lapideo, abbiamo cercato di capire come si declinassero nel caso del marmo apuano.   Senza alcuna pretesa di completezza, i nostri risultati sono stati reiteratamente presentati a tutti i livelli decisionali per anni, nella speranza, perlomeno, di suscitare un più completo ed approfondito studio, ma invano: nessuno pare aver voglia di veder chiaro sulla questione. Probabilmente il rischio di scoprire che abbiamo ragione è troppo alto.

L’industria lapidea in Versilia.

Per secoli l’estrazione e la lavorazione del marmo hanno costituito una delle basi economiche della Versilia, contribuendo in modo sostanziale a delinearne l’ambiente, il paesaggio, la storia e la società. Nel corso degli ultimi 30 anni circa,  il settore è però andato incontro a progressivi cambiamenti nella sua struttura tecnica, operativa, economica e finanziaria, modificando in modo sostanziale i tradizionali rapporti fra il settore lapideo stesso, il territorio e la società. In particolare, la sempre più spinta meccanizzazione ha comportato un fortissimo aumento dei volumi estratti e dei consumi di energia, riducendo di pari passo la manodopera impiegata.  

Nel contempo, la quota di mercato rappresentato dall'esportazione dei blocchi grezzi è salita del 54% a discapito della vendita di materiali lavorati in loco, diminuiti del 65%.   Questi ultimi, anzi, trovano sempre di più a fronteggiare il “dumping” dei prodotti lavorati all'estero a partire dai blocchi apuani esportati. Anche in questo caso, dunque, si verifica una forte contrazione nel numero di aziende e di addetti, ma un aspetto ancora più preoccupante è quello della lievitazione costante dei costi esterni.

Come qualsiasi altra attività produttiva, infatti, l’estrazione e lavorazione del marmo comporta una serie di vantaggi e di svantaggi, anche limitandosi ai soli aspetti economici. Ma mentre i vantaggi sono direttamente correlati al fatturato ed al numero di addetti, gli svantaggi sono proporzionali ai volumi di materiale mosso.   E’ quindi evidente che la politica di aumentare i quantitativi, abbassando i costi unitari  e la manodopera impiegata crea una situazione perversa in cui i vantaggi gradualmente diminuiscono, mentre gli svantaggi aumentano. Certamente questi problemi sono determinanti nel fare dell’area apuana una delle 10 zone di maggiore criticità ambientale ed economica a livello toscano. Ed anche la più difficile da approcciare, a giudicare dal fatto che è questa l’unica fra le aree di crisi della Toscana per la quale non è stato neppure possibile attivare il tavolo istituzionale di concertazione previsto dal Piano Regionale di Azione Ambientale fin dal 2007.

Trattandosi di un lavoro preliminare, ci siamo concentrati su tre fasi critiche della filiera: escavazione, trasporto a valle, segagione e prima lucidatura delle lastre. Per ognuno di questi passaggi sono state valutate le principali spese inerenti i costi interni (stipendi tasse, acquisto di beni/servizi, ecc.) ed esterni (consumo risorse, inquinamento, impatto sulle infrastrutture pubbliche, consumo di suolo, ecc.). Abbiamo poi considerato il valore commerciale del materiale in entrata ed in uscita da ogni fase della filiera e, quindi, abbiamo avanzato un’ipotesi di saldo aziendale e di saldo collettivo Le cifre si riferiscono ad una “tonnellata tipo”,  vale a dire sui valori medi di una tonnellata costituita per il 15% da blocchi squadrati, 15% da blocchi informi e 70% da pietrame.  Sono valori comuni sulle Apuane, ma singole cave presentano valori anche molto diversi a seconda dei filoni, delle tecniche, ecc.  Inoltre, le cifre sono ai valori del 2008, ma ai nostri fini quello che conta sono le proporzioni fra i diversi costi e ricavi, non la cifra assoluta.

La prima osservazione che balza evidente è che tutti i passaggi della filiera presentano un saldo collettivo negativo, così da piazzare l’attività lapidea nell'area economica in cui il bilancio risulta attivo per le aziende e gli addetti, ma negativo per la collettività. Tuttavia, tale saldo passivo risulta di importanza assai diversa a seconda delle fasi.  

Nel trasporto e nella lavorazione, infatti,  il passivo collettivo appare inferiore al vantaggio aziendale.   Ciò significa che, almeno teoricamente, sarebbe possibile imporre una serie di compensazioni e mitigazioni tali riportare sostanzialmente in equilibrio la situazione. Viceversa, nell’estrazione le esternalità sono superiori di un fattore dieci al valore commerciale del prodotto. Questo dato da solo, per quanto preliminare, rende evidente che, nelle condizioni attuali di mercato,  l’attività di cava di per sé comporta una perdita di ricchezza collettiva considerevole e non realisticamente compensabile. E ciò malgrado le aziende interessate realizzino guadagni consistenti e gli addetti percepiscano stipendi di tutto rispetto.

Un’altra considerazione che risulta evidente, è che l’esportazione di materiale grezzo può essere interessante per le ditte, mentre rappresenta una grave perdita per la comunità.  Un fatto questo empiricamente già ben noto, ma che siamo ora in grado di quantificare nell'ordine di oltre 150 € per tonnellata di roccia scavata. Ciò porterebbe a considerare l’industria lapidea come del tutto negativa nell'economia della Versilia, ma il problema non è così semplice in quanto nel bilancio sociale le perdite sono rappresentate da costi indiretti ed in parte dilazionati nel tempo, mentre le entrate sono dirette ed immediate.  Fra queste, ovviamente, la principale è l’occupazione. 

Abbiamo quindi stimato, come ordine di grandezza, quanta parte della montagna sia necessario rimuovere per generare un posto di lavoro nelle tre fasi della filiera.   Ne è emerso che, mentre per far lavorare un operaio in fabbrica è necessario distruggere annualmente circa 1.000 ton. di roccia (circa 300 mc), per far lavorare un cavatore ne sono necessarie dieci volte tanto (10.000 ton.), mentre per far lavorare un camionista si arriva alla cifra di circa 200.000 ton./anno!

Infine, abbiamo considerato quando rende/costa all'azienda ed alla società un addetto a queste tre, diverse fasi della filiera.

Emerge immediatamente evidente che la collettività si fa carico di costi considerevoli per permettere ad un certo numero di persone di lavorare, ma in misura molto diversa a seconda del lavoro che fanno.    Anche da questo punto di vista infatti, il costo sociale di un camionista o di un operaio in fabbrica potrebbero essere riportati sotto controllo con opportuni provvedimenti, mentre ogni singolo cavatore rappresenta un buco da  oltre 1.000.000 di euro all'anno che vanno spalmati in parte sulla collettività locale, in parte su quella globale.    Ma sempre, si badi bene, in termini non direttamente monetari e dunque difficili da definire ed ancor più difficili da spiegare, specialmente quando sull'altro piatto della bilancia ci sono “soldi subito”.    E molti soldi, i titolari dei permessi di escavazione mettono a bilancio attivi compresi fra i 5 ed i 10 milioni di € l'anno, al netto di tutte le tasse e le spese, comprese quelle di "rappresentanza".  In pratica, quello del marmo apuano è un affare in cui alcune decine di persone si arricchiscono in modo difficile a credere, alcune centinaia ne ricavano un buono stipendio; tutti gli altri pagano per loro.

Una situazione molto ben conosciuta da tutti coloro che si occupano di risorse naturali e su cui sono state scritte intere biblioteche, senza spostare di una virgola l’ago della bilancia decisionale degli enti preposti, siano questi il governo federale degli USA per il “fracking” del gas e del petrolio, od il comune di Stazzema per questa operazione che potremmo chiamare, per analogia, “marming”.





Il cambiamento climatico spiegato ai miei studenti

Da “The frog that jumped out”. Traduzione di MR



Di Ugo Bardi



 Questa è una versione scritta di qualcosa che ho detto qualche giorno fa ai miei studenti in una lezione per la scuola di “Sviluppo Economico e Cooperazione Internazionale” (SECI) dell'Università di Firenze

La domanda: Professore, ma ho sentito bene quello che ha detto? Lei dice che il cambiamento climatico ci porterà dei problemi nel giro di decenni? Ora, io sapevo che gli scienziati stavano parlando di secoli o tempi anche più lunghi. Com'è possibile?

La mia risposta: Lei ha sentito bene: ho detto “decenni”, non secoli, ed avrei potuto dire anche “anni” - anche se forse decenni è una scala temporale più corretta per i problemi che ci aspettano – e voi in particolare, visto che siete così giovani. Ora, capisco anche il perché avete l'impressione che il cambiamento climatico sia una questione di secoli, qualcosa con cui avranno a che fare le future generazioni. Questo è il risultato del modo in cui sono presentati certi dati, in particolare dal IPCC. Sono molto cauti, cercano di evitare di dare l'impressione di essere “catastrofisti” e il risultato è che il cambiamento climatico, secondo il modo in cui lo presentano, sembra che sia molto dolce e graduale e che vada avanti per secoli. Non è necessariamente così.

La scala temporale del cambiamento climatico dipende da cosa consideriamo. Alcuni effetti sono molto lenti: se pensiamo, per esempio, alla calotta glaciale dell'Antartide che fonde e scompare, be', ci vorranno secoli o anche millenni. Ma se si considera la calotta glaciale dell'Artico, si vede che sta fondendo rapidamente e sta fondendo ora! E la conseguenza è un grande cambiamento negli schemi meteorologici dell'emisfero settentrionale – è una cosa che stiamo vedendo tutti in termini di siccità, uragani, tempeste di neve e cose del genere.

Ma è anche vero che non moriremo per il cattivo tempo e la probabilità che voi anneghiate a causa di un mega-uragano è piuttosto bassa, specialmente se vivete in Italia. La domanda è più specifica e la capisco molto bene: quale sarà l'importanza del cambiamento climatico per persone come voi, che avete poco più di vent'anni?

Vediamo di riformulare la domanda per renderla più chiara. Potrei dire che, dal mio punto di vista personale – ora ho 61 anni – potrei organizzare la mia vita sulla scommessa che il cambiamento climatico non mi condizionerà troppo per il tempo che devo ancora passare su questo pianeta. Probabilmente è una scommessa ragionevole per me (ma è una scommessa). La domanda è, quindi, è ragionevole che voi scommettiate allo stesso modo? Io penso proprio di no e lasciate che vi spieghi il perché.

Vediamo... l'aspettativa di vita alla nascita in Italia è di circa 80 anni, quindi avete più di mezzo secolo davanti a voi, in linea di principio. Ma diciamo che non vi interessa il fatto di arrivare a essere decrepiti e colpiti dal morbo di Alzheimer. Volete solo arrivare, diciamo, a 70 anni in buona salute. Quindi avete ancora circa 40 anni; questo è il lasso di tempo di cui vi dovete preoccupare, supponendo, naturalmente, che non vi importi nulla dei vostri figli e dei vostri nipoti il che sembra essere il modo di pensare standard intorno a noi: dopo tutto, cosa hanno fatto i miei discendenti per me? Dati questi presupposti, in che modo il cambiamento climatico è rilevante per voi?

Se si guardano gli scenari belli e addomesticati del IPCC, vedrete che in 40 anni da adesso, parliamo di 1-2°C di aumento di temperatura. Detto così, sembra un effetto davvero piccolo. Che differenza fa un grado e mezzo? Solo un piccolo fastidio. D'estate  accenderemo in nostri condizionatori e in inverno risparmieremo un sacco di soldi nel riscaldamento. La stessa cosa vale per l'aumento del livello del mare: l'IPCC  parla di circa 20 cm per la metà del 21° secolo; cosa sono 20 centimetri? Possiamo costruire un muro di 20 centimetri per tenere lontane le acque in men che non si dica. Quindi non c'è niente di cui preoccuparsi troppo? Ho paura che le cose non siano così semplici.

Il vero problema ha a che fare con la resilienza della nostra società. Forse avrete sentito il termine “resilienza” in vari contesti – fondamentalmente è la capacità di un sistema di resistere ai cambiamenti, in particolare a cambiamenti rapidi o persino violenti. L'opposto di resiliente è “fragile”. Per esempio, un bicchiere di vetro è duro, ma non molto resiliente, naturalmente; è fragile. Il trucco quando si parla di resilienza è che spesso è il risultato di un compromesso con le prestazioni. Se si vogliono avere alte prestazioni – diciamo – per una macchina sportiva, allora questa macchina sarà più propensa alle rotture: pensate di usare una Ferrari F1 per andare al supermercato a fare la spesa.

Questo tipo di problema esiste anche per cose molto più grandi: il modo in cui funziona il nostro mondo, diciamo, industria, commercio, trasporti e agricoltura. Ora che ho detto questo, pensate a quanto sia fragile l'agricoltura moderna. Avrete probabilmente sentito parlare della “Rivoluzione Verde”, il nuovo modo di produrre cibo che sta sfamando più di sette miliardi di persone su questo pianeta. E' vero, c'è stata una rivoluzione del genere nella seconda metà del ventesimo secolo. Si è basata sull'ibridazione delle piante in un modo tale da ottenere prestazioni sempre migliori. Il grano che viene coltivato oggi ha un rendimento di almeno 10 volte di quello che veniva coltivato uno o due secoli fa. E' veramente la Ferrari dei cereali.

Sfortunatamente, il fatto che la nuova generazione di grano è un tale miracolo, non significa che sia anche resiliente. Infatti non lo è. Come tutte le varietà di cereali ingegnerizzate, questa è fatta per essere coltivata in condizioni specifiche. Ha bisogno d'acqua, di fertilizzanti e di meccanizzazione. Il che va bene; finora siamo stati in grado di provvedere l'agricoltura con tutto questo e in questo modo siamo in grado di sfamare 7 miliardi di persone. Be', non proprio 7 miliardi. Nonostante i cereali miracolosi che abbiamo, molta gente ha fame tutti i giorni, ho letto che sono intorno agli 850 milioni, il che significa che più di una persona su dieci, oggi, non ha abbastanza da mangiare. In un certo senso è un successo, perché anni fa la situazione era peggiore, ma durante gli ultimi anni questo numero non è sceso – il successo della Rivoluzione Verde sembra essersi gradualmente esaurito. Ciononostante, il problema oggi è più una questione di distribuzione che di produzione. In linea di principio, la nostra agricoltura sarebbe perfettamente in grado di sfamare 7 miliardi di persone – probabilmente anche di più, anche se sembra che ci stiamo avvicinando ai limiti fisici di quello che può essere prodotto in una certa area di terreno.

Allora, qual'è il problema? E' che le alte prestazioni normalmente sono ottenute con una bassa resilienza e questo è vero anche per l'agricoltura. I cereali miracolosi della nostra epoca hanno grandi prestazioni ma bassa resilienza. Sono stati sviluppati per una situazione in cui il clima era relativamente stabile, ora è diventato instabile, è un'altra storia. Siccità periodiche e alluvioni sono ovviamente molto dannose per l'agricoltura e persino un cereale miracoloso è inutile senz'acqua; è come una Ferrari senza dei buoni pneumatici. E pensate a come le alluvioni dilavano il suolo fertile necessario per le piante, per non dire nulla dei danni provocati dagli incendi.

Non prendetemi per un agronomo, non lo sono. La produzione di cibo è una materia complessa e potrebbero succedere molte cose che migliorano (o peggiorano) la situazione. Sto semplicemente osservando che il cambiamento climatico potrebbe impattare fortemente – quasi letteralmente – sul ventre molle dell'umanità: l'agricoltura. Ma non si tratta solo di questo. Pensate alle malattie infettive, spesso trasmesse da insetti come le zanzare, la cui distribuzione dipende da piccoli cambiamenti di temperatura. Pensate alle migrazioni di massa generate dalla desertificazione di grandi porzioni di terreno. Poi, accoppiate il cambiamento con l'altro grande problema che abbiamo, l'esaurimento delle risorse, e vedrete che i due problemi si rinforzano a vicenda. Abbiamo detto che un paio di gradi centigradi non sono nulla se abbiamo il condizionatore; bene, ma per avere il condizionatore serve energia, e quell'energia – oggi – proviene dai combustibili fossili. Ma i combustibili fossili si stanno rapidamente esaurendo: avrete energia a sufficienza per il condizionatore fra 30-40 anni? Forse, ma non ci scommetterei.

Torniamo quindi alla domanda iniziale. Vi stavo dicendo che avete molto di che preoccuparvi a causa del cambiamento climatico durante la vostra aspettativa di vita di circa 40-50 anni. Non significa necessariamente che non arriverete alla mia età, ma che non è ovvio che ci arriverete. Prima ho detto che ci sono circa 850 milioni di persone malnutrite su questo pianeta e non sarei sorpreso se diventassero una percentuale più grande del totale nel prossimo futuro. Il vostro problema principale, in questo caso, è se sarete o meno parte di quella percentuale.

Come ho detto, agire in vista del futuro è come scommettere su qualcosa. Se io fossi in voi, non scommetterei sul fatto che il futuro sarà come il passato (non lo è mai, in realtà). Così, penso che sarebbe una cattiva idea per voi quella di passare i problemi che verranno a causa del cambiamento climatico alla prossima generazione, proprio come ha fatto la mia generazione con voi. Ad un certo punto, qualcuno deve essere lasciato fuori al freddo (più correttamente, al caldo) ed ho paura che ci siano buone possibilità che sarà la vostra generazione.

Questo porta alla domanda di cosa fare per evitare di diventare un dato delle statistiche sulla malnutrizione (se possibile, evitando che chiunque diventi parte di quella statistica) ma questa è una lunga storia di cui parleremo in un'altra occasione. Per il momento, lasciate solo che vi dica che questa discussione mi ha ricordato una cosa che ha detto Marco Aurelio. Citando a memoria, era qualcosa tipo “Tutti vivono solo nel momento fugace, si potrebbe vivere per molte migliaia di anni e questo non farebbe alcuna differenza (*)”. Quindi non preoccupatevi troppo di quanti anni avete ancora da vivere. Non potete saperlo. Ma sapete che avete molto lavoro da fare se volete fare qualcosa di utile per voi e per tutti gli altri. Quindi è meglio che cominciate a farlo adesso.




(*) Ricorda che anche se dovessi vivere per tremila anni, o trentamila, non potresti perdere nessuna altra vita di quella che hai e non ci sarà altra vita dopo di quella. Quindi le vite più lunghe e le vite più corte sono la stessa cosa. Il momento presente è condiviso da tutte le creature viventi, ma il tempo passato è andato per sempre. Nessuno può perdere il passato o il futuro, perché se non ti appartengono, come ti possono essere rubati?  Marco Aurelio (121-180)