L'estrazione del marmo sulle Alpi Apuane sta diventando un'operazione talmente costosa e distruttiva che la si può paragonare al fracking per il petrolio e il gas naturale - la potremmo chiamare "marming" secondo questa analisi di Jacopo Simonetta. E' un'illustrazione molto chiara del problema che stiamo avendo con tutte le risorse minerali. Non stiamo esaurendo niente, ma ci troviamo di fronte a ritorni economici decrescenti e costi ambientali crescenti. In questo caso, Simonetta fa vedere come il tentativo di mantenere in vita a tutti i costi il processo estrattivo finisca per diventare un costo per l'intera comunità
Di Jacopo Simonetta
"In ultima analisi, la nostra economia è un sistema di incentivi alla distruzione delle risorse" H. Daly, J. Farley.
Qualunque processo industriale si alimenta di risorse e produce contemporaneamente beni/servizi da un lato, costi ambientali e sociali dall'altro. In queste pagine, ci riferiremo quindi a “costi interni” per indicare le spese che figurano come uscite nei bilanci aziendali. Chiameremo invece “costi esterni” tutti quei costi che non figurano nei bilanci aziendali e che vengono spalmati sulla popolazione a livello locale (ad es. il traffico, l’esaurimento delle risorse, ecc.) o globale (ad es. emissioni di CO2).
Tenuto conto che le voci in uscita dal punto di vista
aziendale (stipendi, tasse, acquisti, ecc.) sono le voci in entrata dal punto
di vista collettivo, mentre le voci in uscita per il bilancio collettivo sono
in parte le entrate di quello aziendale (consumo risorse), in parte altre (inquinamento,
traffico, alterazione/distruzione habitat, paesaggio, ecc.), possiamo avere
quattro combinazioni possibili:
Osservando questo schema, si comprende che il fattore
discriminante fra le diverse situazioni è dato dal diverso rapporto fra costi
di produzione interni ed esterni. In sintesi:
·
Se i costi interni ed esterni sono in
equilibrio, l’attività avrà effetti economicamente positivi sia dal punto di
vista aziendale che da quello collettivo.
Se, invece, i costi esterni sono lievi e quelli
interni forti, l’azienda si troverà in cattive acque.
Se entrambi i costi sono pesanti l’attività sarà
passiva sia per l’azienda che per la comunità.
Se, infine, i costi esterni sono più importanti
di quelli interni, l’azienda potrà essere florida, ma contribuirà ad impoverire
anziché arricchire il territorio e la popolazione. In pratica, in situazioni come questa, la
collettività si fa carico di una serie di spese e di danni per permettere all'attività
industriale di proseguire.
Questi temi stanno diventando critici in un numero crescente
di casi ed, assieme ad un gruppo di operatori del settore lapideo, abbiamo cercato di capire come si declinassero
nel caso del marmo apuano. Senza alcuna
pretesa di completezza, i nostri risultati sono stati reiteratamente presentati
a tutti i livelli decisionali per anni, nella speranza, perlomeno, di suscitare
un più completo ed approfondito studio, ma invano: nessuno pare aver voglia di
veder chiaro sulla questione. Probabilmente il rischio di scoprire che
abbiamo ragione è troppo alto.
– L’industria lapidea in Versilia.
Per secoli l’estrazione e la lavorazione del marmo hanno costituito una delle basi economiche della Versilia, contribuendo in modo sostanziale a delinearne l’ambiente, il paesaggio, la storia e la società. Nel corso degli ultimi 30 anni circa, il settore è però andato incontro a progressivi cambiamenti nella sua struttura tecnica, operativa, economica e finanziaria, modificando in modo sostanziale i tradizionali rapporti fra il settore lapideo stesso, il territorio e la società. In particolare, la sempre più spinta meccanizzazione ha comportato un fortissimo aumento dei volumi estratti e dei consumi di energia, riducendo di pari passo la manodopera impiegata.
Nel contempo, la quota di mercato rappresentato dall'esportazione dei blocchi grezzi è salita del 54% a discapito della vendita di materiali lavorati in loco, diminuiti del 65%. Questi ultimi, anzi, trovano sempre di più a fronteggiare il “dumping” dei prodotti lavorati all'estero a partire dai blocchi apuani esportati. Anche in questo caso, dunque, si verifica una forte contrazione nel numero di aziende e di addetti, ma un aspetto ancora più preoccupante è quello della lievitazione costante dei costi esterni.
Come qualsiasi altra attività produttiva, infatti, l’estrazione e lavorazione del marmo comporta una serie di vantaggi e di svantaggi, anche limitandosi ai soli aspetti economici. Ma mentre i vantaggi sono direttamente correlati al fatturato ed al numero di addetti, gli svantaggi sono proporzionali ai volumi di materiale mosso. E’ quindi evidente che la politica di aumentare i quantitativi, abbassando i costi unitari e la manodopera impiegata crea una situazione perversa in cui i vantaggi gradualmente diminuiscono, mentre gli svantaggi aumentano. Certamente questi problemi sono determinanti nel fare dell’area apuana una delle 10 zone di maggiore criticità ambientale ed economica a livello toscano. Ed anche la più difficile da approcciare, a giudicare dal fatto che è questa l’unica fra le aree di crisi della Toscana per la quale non è stato neppure possibile attivare il tavolo istituzionale di concertazione previsto dal Piano Regionale di Azione Ambientale fin dal 2007.
Trattandosi di un lavoro preliminare, ci siamo concentrati
su tre fasi critiche della filiera: escavazione, trasporto a valle, segagione e
prima lucidatura delle lastre. Per
ognuno di questi passaggi sono state valutate le principali spese inerenti i
costi interni (stipendi tasse, acquisto di beni/servizi, ecc.) ed esterni
(consumo risorse, inquinamento, impatto sulle infrastrutture pubbliche, consumo
di suolo, ecc.). Abbiamo poi
considerato il valore commerciale del materiale in entrata ed in uscita da ogni
fase della filiera e, quindi, abbiamo avanzato un’ipotesi di saldo aziendale e
di saldo collettivo Le cifre si riferiscono ad una “tonnellata tipo”, vale a dire sui valori medi di una tonnellata
costituita per il 15% da blocchi squadrati, 15% da blocchi informi e 70% da
pietrame. Sono valori comuni sulle Apuane,
ma singole cave presentano valori anche molto diversi a seconda dei filoni,
delle tecniche, ecc. Inoltre, le cifre
sono ai valori del 2008, ma ai nostri fini quello che conta sono le proporzioni
fra i diversi costi e ricavi, non la cifra assoluta.
La
prima osservazione che balza evidente è che tutti i passaggi della filiera
presentano un saldo collettivo negativo, così da piazzare l’attività lapidea
nell'area economica in cui il bilancio risulta attivo per le aziende e gli
addetti, ma negativo per la collettività. Tuttavia,
tale saldo passivo risulta di importanza assai diversa a seconda delle
fasi.
Nel trasporto e nella lavorazione, infatti, il passivo collettivo appare inferiore al vantaggio aziendale. Ciò significa che, almeno teoricamente, sarebbe possibile imporre una serie di compensazioni e mitigazioni tali riportare sostanzialmente in equilibrio la situazione. Viceversa, nell’estrazione le esternalità sono superiori di un fattore dieci al valore commerciale del prodotto. Questo dato da solo, per quanto preliminare, rende evidente che, nelle condizioni attuali di mercato, l’attività di cava di per sé comporta una perdita di ricchezza collettiva considerevole e non realisticamente compensabile. E ciò malgrado le aziende interessate realizzino guadagni consistenti e gli addetti percepiscano stipendi di tutto rispetto.
Un’altra considerazione che risulta evidente, è che l’esportazione di materiale grezzo può essere interessante per le ditte, mentre rappresenta una grave perdita per la comunità. Un fatto questo empiricamente già ben noto, ma che siamo ora in grado di quantificare nell'ordine di oltre 150 € per tonnellata di roccia scavata. Ciò porterebbe a considerare l’industria lapidea come del tutto negativa nell'economia della Versilia, ma il problema non è così semplice in quanto nel bilancio sociale le perdite sono rappresentate da costi indiretti ed in parte dilazionati nel tempo, mentre le entrate sono dirette ed immediate. Fra queste, ovviamente, la principale è l’occupazione.
Abbiamo quindi stimato, come ordine di grandezza, quanta parte della montagna sia necessario rimuovere per generare un posto di lavoro nelle tre fasi della filiera. Ne è emerso che, mentre per far lavorare un operaio in fabbrica è necessario distruggere annualmente circa 1.000 ton. di roccia (circa 300 mc), per far lavorare un cavatore ne sono necessarie dieci volte tanto (10.000 ton.), mentre per far lavorare un camionista si arriva alla cifra di circa 200.000 ton./anno!
Infine, abbiamo considerato quando rende/costa all'azienda ed alla società un addetto a queste tre, diverse fasi della filiera.
Emerge
immediatamente evidente che la collettività si fa carico di costi considerevoli
per permettere ad un certo numero di persone di lavorare, ma in misura molto
diversa a seconda del lavoro che fanno.
Anche da questo punto di vista infatti, il costo sociale di un camionista
o di un operaio in fabbrica potrebbero essere riportati sotto controllo con opportuni
provvedimenti, mentre ogni singolo cavatore rappresenta un buco da oltre 1.000.000 di euro all'anno che vanno
spalmati in parte sulla collettività locale, in parte su quella globale. Ma
sempre, si badi bene, in termini non direttamente monetari e dunque difficili
da definire ed ancor più difficili da spiegare, specialmente quando sull'altro
piatto della bilancia ci sono “soldi subito”. E molti soldi, i titolari dei permessi di escavazione mettono a bilancio attivi compresi fra i 5 ed i 10 milioni di € l'anno, al netto di tutte le tasse e le spese, comprese quelle di "rappresentanza". In pratica, quello del marmo apuano è un affare in cui alcune decine di persone si arricchiscono in modo difficile a credere, alcune centinaia ne ricavano un buono stipendio; tutti gli altri pagano per loro.
Una
situazione molto ben conosciuta da tutti coloro che si occupano di risorse
naturali e su cui sono state scritte intere biblioteche, senza spostare di una
virgola l’ago della bilancia decisionale degli enti preposti, siano questi il
governo federale degli USA per il “fracking” del gas e del petrolio, od il comune di Stazzema per questa operazione che potremmo chiamare, per analogia, “marming”.