giovedì 27 marzo 2014

La potenza è nulla senza controllo: come perdere un impero

Da “Extracted”. Traduzione di MR

Immagine da una campagna pubblicitaria per la Pirelli degli anni 90.

Gli imperi sembrano essere una struttura umana tipica che riappare in continuazione nel corso della storia. Il problema è che gli imperi sono spesso così efficienti che tendono a sfruttare eccessivamente e distruggere anche le risorse teoricamente rinnovabili. Il risultato finale è una cascate distruttiva di retroazioni: non solo l'impero finisce gradualmente le risorse, ma finisce anche la capacità di controllarle, coi due effetti che rinforzano a vicenda. La potenza è niente senza controllo. E, di solito, il controllo sembra finire prima della potenza.

In pratica, gli imperi in difficoltà tendono a frammentarsi in piccoli blocchi indipendenti o staterelli prima di scomparire realmente come sistemi economici. E' il risultato dell'aumento dei costi di controllo, che non corrispondono più al diminuito flusso di risorse. Abbiamo visto questo fenomeno in tempi recenti con la frammentazione e la scomparsa dell'Unione Sovietica. Potremmo vederlo oggi col moderno impero mondiale che chiamiamo “Globalizzazione”. Gli eventi recenti in Ucraina sembrano mostrare che il sistema, infatti, abbia dei problemi nel controllare la propria periferia e potrebbe presto frammentarsi in blocchi indipendenti.

Naturalmente, è ancora troppo presto per dire se ciò cui stiamo assistendo oggi in Ucraina sia solo un'asperità sulla strada o un sintomo di un collasso sistemico imminente. Come al solito, tuttavia, la storia potrebbe essere una guida per capire ciò che si trova davanti a noi. Nel seguente post, esamino il collasso dell'Impero Romano alla luce di considerazioni basate sul controllo e le risorse. Risulta che, anche per quanto riguarda gli antichi Romani, la potenza non fosse nulla senza controllo.


Picco dell'oro: Come i Romani hanno perso il loro impero

Di Ugo Bardi

Un “Aureus” Romano coniato dall'Imperatore Settimo Severo nel 193 DC. Del peso di circa 8 grammi, l'Aureus era davvero una moneta imperiale – la personificazione della ricchezza e della potenza di Roma. (immagine da Wikipedia).

In questo post, sostengo che la moneta in metallo prezioso era un fattore fondamentale che teneva insieme l'Impero Romano e dava ai Romani il loro potere militare. Ma le miniere Romane che producevano oro e argento raggiunsero il picco nel primo secolo DC. E i Romani persero gradualmente la capacità di controllare le proprie risorse. In un certo senso, furono condannati dal “picco dell'oro”. 

Quando ho sentito dire per la prima volta che l'Impero Romano è caduto a causa dell'esaurimento delle sue miniere di argento e oro ero scettico. In confronto alla nostra situazione, in cu affrontiamo l'esaurimento dei combustibili fossili, il caso Romano mi sembrava completamente diverso. Oro e argento non producono energia, non producono niente di utile. Perché quindi l'Impero Romano è caduto a causa di qualcosa che potremmo chiamare “picco dell'oro”?

Eppure, quando ho approfondito l'argomento, ho notato quanto fosse evidente la correlazione della disponibilità in declino di oro e argento col declino dell'Impero Romano. Abbiamo dati scarsi sulla produzione delle miniere Romane, dislocate principalmente in Spagna, ma comunemente si crede che la produzione raggiunse il picco ad un certo momento durante il primo secolo DC (o forse all'inizio del secondo secolo). In seguito, è rapidamente diminuito a quasi zero, anche se l'estrazione mineraria dell'oro non si è mai fermata completamente (1).

Come potete vedere nella figura, la perdita della produzione del prezioso metallo è riflessa nel contenuto di argento della moneta Romana. I Romani non avevano la tecnologia necessaria per stampare banconote, quindi hanno semplicemente deprezzato la loro moneta d'argento, il “denarius” aumentando il suo contenuto di rame. Per la metà del terzo secolo, il denarius era costituito quasi da puro rame: “denaro forzoso”, se ce ne è mai stato uno. Durante quel periodo, le monete d'oro non furono deprezzate, ma scomparirono di fatto dalla circolazione (grafico sopra di Joseph Tainter (2)).

Come ho sostenuto in un post precedente, la scarsità progressiva dei metalli preziosi si collega bene coi vari eventi che ebbero luogo durante la fase di declino dell'impero e con la sua scomparsa finale. Naturalmente, correlazione non significa causazione ma, qui, la correlazione è così forte non si può pensare che sia solo una questione di fortuna. Col tempo, mi è sembrato chiaro che ci fossero collegamenti chiari anche fra diversi fattori nel collasso dell'Impero. 

In generale, i sistemi complessi tendono a crollare in maniera complessa e l'Impero Romano non cadde semplicemente a causa della mancanza della sua fonte primaria di energia che, a quel tempo, era l'agricoltura. Energia (e potenza) sono inutili senza controllo e per i Romani controllare l'energia generata dall'agricoltura richiedeva investimenti di capitale per truppe e burocrazia. Entrambe furono colpite dal declino della produzione di metalli preziosi. Col tempo, la ridotta efficacia militare dell'impero ha distrutto la capacità di controllare il sistema agricolo. Ciò condannò l'Impero al collasso. 

Questa è una storia enormemente complessa che probabilmente non può risolversi in un mero post. Ciononostante, il problema è molto generale e può essere condensato in una singola frase: “La potenza è niente senza controllo”. Quindi, credo sia possibile esporre gli elementi principali dell'interazione fra oro, potenza militare e cibo ai tempi dei Romani in uno spazio relativamente ridotto. Fatemi provare.


I Romani e l'oro

In definitiva, ciò che crea e tiene insieme gli imperi è la forza militare. L'Impero Romano era così grande e di successo perché era, probabilmente, la più grande potenza militare dei tempi antichi. I Romani hanno avuto tanto successo in questo non a causa di particolari innovazioni militari. La ricetta del loro successo era semplice: pagavano i loro combattenti con moneta di metallo prezioso. La tecnologia combinata dell'estrazione dell'oro e del conio di monete aveva consentito ai Romani di creare uno dei primi eserciti regolari della storia. Ancora oggi, chiamiamo i nostri uomini arruolati “soldati”, un termine che deriva dalla parola Romana “Solidus”, il nome della moneta d'oro del tardo impero.

Non solo i soldi possono creare un esercito regolare, possono anche farlo crescere fino a grandi dimensioni. Arruolarsi nelle legioni – la spina dorsale dell'esercito – era privilegio dei cittadini Romani, ma chiunque poteva arruolarsi nelle “auxilia”, le truppe “ausiliarie”. Nella figura vedete “Auxilia” Romani (riconoscibili dagli scudi rotondi) che presentano le teste tagliate dei Daci all'Imperatore Traiano durante la campagna di Dacia del secondo secolo DC. Normalmente i Romani non potevano tagliare le teste ai loro nemici, era una cosa vista come incivile, ma gli “auxilia” erano notoriamente un po' indisciplinati (notate come l'Imperatore, sulla sinistra, li guardi perplesso). Ma, ai tempi delle guerre di Dacia, gli auxilia erano diventati una parte fondamentale dell'esercito Romano e sarebbero rimasti tali per il resto della vita dell'Impero. 

Oro e argento erano elementi essenziali per i Romani nel pagamento delle truppe e questo era particolarmente vero per quelle straniere. Mettetevi nei caligae (sandali) di un combattente germanico. Perché dovreste mettere la vostra framea (lancia) al servizio di Roma se non perché vi pagano? E voleva essere pagati in soldi veri; le monete di rame non venivano accettate. Si volevano le monete d'oro e d'argento che si sapeva potevano essere riscattate ovunque in Europa e in particolare in quel gigantesco emporio di ogni sorta di beni di lusso che era la città di Roma, la più grande del mondo antico. E, a proposito, da dove venivano quegli articoli di lusso? In gran parte erano importati. Seta, avorio, perle, spezie, incenso e molto altro provenivano da India e Cina. Importare quegli articoli non era solo un hobby stravagante per l'élite Romana, era una manifestazione tangibile della potenza e della ricchezza dell'impero, qualcosa che costituiva un fattore importante nel convincere la gente ad arruolarsi nelle auxilia. Ma i cinesi non avrebbero spedito a Roma la seta in cambio di monete di rame senza valore – volevano l'oro e lo ottennero. Poi, quell'oro è stato perso per sempre dall'Impero che, fondamentalmente, poteva produrre solo due cose: grano e truppe, nessuna delle quali poteva essere esportata a lunghe distanze. 

Questa situazione spiega il graduale declino militare dell'Impero Romano. Col declino delle miniere di metallo prezioso, divenne sempre più difficile per gli imperatori reclutare le truppe. La mancanza di un forte potere centrale portò l'Impero ad essere inghiottito in guerre civili; con l'esercito principalmente impegnato a combattere pezzi di sé stesso e l'Impero che si divise in due parti: l'Oriente e l'Occidente. Durante questa fase, il numero di truppe non era ridotto, ma la loro qualità era fortemente declinata. Dopo la riforma militare dell'Imperatore Diocleziano durante il terzo secolo DC, l'esercito Romano era formato principalmente di limitanei; non proprio un esercito ma una polizia di frontiera incapace di fermare qualsiasi tentativo serio da parte di stranieri di bucare i confini. Per mantenere insieme l'Impero, gli Imperatori si affidarono ai “comitatenses” (anche con altri nomi) truppe mobili scelte che avrebbero tappato (o cercato di tappare) i buchi nel confine appena si formavano. 

La combinazione di limitanei e comitatenses ha funzionato nel mantenere i barbari al di fuori dell'Impero per un po'. Ma l'emorragia di oro e argento continuava. Così, durante l'ultimo decennio dell'Impero, le paradigmatiche truppe Romane erano i “bucellarii”, un termine che significa “mangiatori di gallette”. Il nome si può interpretare come se implicasse che quelle truppe combattessero in cambio di cibo. Naturalmente questo poteva non essere sempre vero, ma è una chiara indicazione della scarsità di soldi del tempo. Ci sono anche rapporti di truppe pagate con ceramica e in qualche caso con della terra – la seconda pratica potrebbe essere stata un fattore nella creazione del sistema feudale che ha sostituito l'Impero Romano in Europa.  

In un certo senso, come vediamo, i Romani erano condannati dal loro “picco dell'oro” (ed anche dal “picco dell'argento”). A causa della perdita della fornitura del loro prezioso metallo, i Romani persero la loro capacità di controllare le proprie truppe e di conseguenza le loro risorse. E la potenza è niente senza controllo. 

Ma l'Impero Romano non cadde solo perché fu invaso da stranieri o perché si spaccò in molteplici settori. Sperimentò un collasso sistemico che non era solo un collasso militare, coinvolgeva l'intera economia e anche i sistemi sociale ed economico. Per capire le ragioni del collasso, dobbiamo andare più in profondità nel modo in cui funzionava il sistema economico Romano.  

I Romani e l'energia

L'energia dell'Impero Romano proveniva dall'agricoltura; principalmente sotto forma di grano. All'inizio della loro storia e per diversi secoli a seguire, sembra che i Romani avessero pochi problemi o nessuno nel produrre abbastanza cibo per la loro popolazione. Questo ha una certa logica, considerando che ai tempi dei Romani la popolazione europea era di meno di un decimo di quella di oggi e quindi c'era un sacco di spazio libero per le coltivazioni. Le notizie di problemi alimentari nell'Impero appaiono solo col primo secolo DC e carestie veramente disastrose appaiono solo col quinto secolo DC – quando l'Impero Romano d'Occidente era già nella sua fase terminale. Il “picco del cibo”, apparentemente, arrivò molto più tardi, circa 3-4 secoli dopo quello dell'oro. 

L'esistenza stessa di un “picco del cibo” per l'Impero Romano è qualcosa che lascia perplessi: l'agricoltura è, in linea di principio, una tecnologia rinnovabile che è stata in grado di alimentare la popolazione Romana per diversi secoli. Durante l'ultimo periodo dell'Impero, non ci sono prove di un aumento di popolazione; al contrario, è chiaro che questa era calata. Allora, perché l'agricoltura non poteva produrre abbastanza cibo?

Il problema è che produrre cibo non comporta solo arare qualche terreno e seminare colture. I rendimenti agricoli dipendono dai capricci del tempo e, ancora più importante, l'agricoltura ha la tendenza ad esaurire i terreni dal suolo fertile come conseguenza dell'erosione. Per evitare questo problema, gli antichi avevano una serie di strategie: una era il nomadismo. Dal “De Bello Gallico” di Cesare apprendiamo che, nel primo secolo AC, le popolazioni europee avevano ancora uno stile di vita nomade. Lo facevano per trovare nuova terra incontaminata e piantare colture nel suolo ricco che potevano produrre abbattendo e bruciando alberi. Questo era possibile perché l'Europa continentale, allora, era quasi vuota ed intere popolazioni potevano spostarsi senza impedimenti. 

I Romani, invece, erano una popolazione stanziale e avevano il problema dell'esaurimento del suolo. Quando la popolazione crebbe, l'erosione divenne un problema, specialmente in regioni montagnose come l'Italia (3). In aggiunta, alcuni centri urbani – come Roma – divennero così grandi che erano impossibili da alimentare usando solo risorse locali. Col primo secolo AC, la situazione portò allo sviluppo di un sofisticato sistema logistico basato su navi che portavano il grano a Roma dalle provincie africane, principalmente da Libia ed Egitto. Era una grande impresa per la tecnologia del tempo assicurare che gli abitanti di Roma ricevessero abbastanza grano e proprio quando ne avevano bisogno. Richiese grandi navi, impianti di stoccaggio e, più di tutto, una burocrazia centralizzata che andò sotto il nome di “annona” (dalla parola latina “annum”, anno). Questo sistema era così importante che Annona fu trasformata in una Dea a pieno titolo dalla propaganda imperiale (potete vedere il suo nome nell'immagine sopra, sul retro di una moneta coniata ai tempi dell'Imperatore Nerone - da Wikipedia). Per noi, trasformare la burocrazia in una entità divina potrebbe sembrare un po' inverosimile ma, forse, non ci siamo tanto lontani. 

Nonostante la sua complessità, il sistema logistico Romano del grano ebbe successo nel sostituire l'insufficiente produzione italiana e permise di sfamare una città grande come Roma, la cui popolazione si avvicinava (e forse superava) un milione di abitanti durante i tempi d'oro dell'Impero. Ma non era solo Roma che beneficiava del sistema di trasporto del grano e il sistema poté creare una densità di popolazione relativamente alta, concentrata lungo le coste del Mar Mediterraneo. Era questa più alta densità di popolazione che diede ai Romani un vantaggio militare sui loro vicini settentrionali, i “barbari”, la cui popolazione era limitata dalla mancanza di un simile sistema logistico.  

Ma che cosa spostava il grano dalle coste dell'Africa a Roma? In parte, era il risultato del commercio. Per esempio, le compagnie che spedivano il grano erano in mani private e venivano pagate per il loro lavoro. Ma il grano in sé non si spostava a causa del commercio: le provincie inviavano grano a Roma perché erano costrette a farlo. Dovevano pagare tasse al governo centrale e potevano farlo o in moneta o in natura. Sembra che i produttori di grano pagassero normalmente in natura e Roma non spediva nulla in cambio (eccetto in termini di truppe e burocrati). Quindi, l'intera operazione era un cattivo affare per le provincie ma, come sempre negli Imperi, rinunciare al sistema non era permesso. Quando, nel 66 DC, gli Ebrei di Palestina decisero che non volevano pagare più le tasse a Roma, la loro ribellione fu schiacciata nel sangue e Gerusalemme fu saccheggiata. Alla fine, era la forza militare che teneva sotto controllo il sistema.  

Il sistema Romano dell'annona potrebbe non essere stato equo, ma funzionò bene e per lungo tempo: almeno per qualche secolo. Sembra che il sistema agricolo africano fosse gestito dai Romani con ragionevole cura e che fu possibile evitare l'erosione del suolo quasi fino alla fine stessa dell'Impero d'Occidente. Notate anche che il sistema dell'annona non sembra essere stato condizionato  - di per sé – dal deprezzamento del denarius d'argento. Questo è ragionevole: i produttori di grano non avevano scelta, non potevano esportare i loro prodotti a lunghe distanze e avevano soltanto un mercato: Roma e le altre grandi città dell'impero. 

Ma il sistema che alimentava la città di Roma sembra essere declinato, e alla fine collassato, durante il quinto secolo DC. Abbiamo alcune prove (3) che fu in questo periodo che l'erosione trasformò le coste nordafricane dalla “cintura del grano” dei Romani al deserto che vediamo oggigiorno. Probabilmente, il disastro era inevitabile, ma è anche vero che  la guerra fa un sacco di danni all'agricoltura e questo è certamente vero per la regione nordafricana, oggetto di estese guerre durante l'ultimo periodo dell'Impero Romano. Più in generale, la tensione del sistema economico generata dalla guerra continua potrebbe aver portato i produttori a sfruttare troppo le loro risorse, privilegiando i guadagni a breve termine alla stabilità a lungo termine. Se non fosse per questi eventi, è probabile che la produttività agricola della terra avrebbe potuto essere mantenuta per un tempo molto più lungo. Ma così non è stato. 

Con le terre nordafricane che si trasformavano rapidamente in un deserto, il Re Genserico dei Vandali (si può vedere il suo volto su una moneta “siliqua” nella figura), al governo della regione, interruppe l'invio di grano a Roma nel 455 DC, procedendo poi a saccheggiare la città lo stesso anno. Quella fu la vera fine di Roma, la cui popolazione si ridusse da almeno alcune centinaia di migliaia di persone a circa 50.000. Era la fine di un'era e le coste del Nord Africa non sarebbero mai più state esportatrici di cibo.

La caduta dell'Impero Romano

I sistemi complessi tendono a crollare in modo complesso e diversi fattori interconnessi giocarono un ruolo insieme, prima nel creare l'Impero Romano, poi nel distruggerlo. All'inizio, fu un'innovazione tecnologica, il conio di metalli preziosi, che portò i Romani a sviluppare una grandezza militare che permise loro di accedere a risorse che sarebbero state impossibili da sfruttare altrimenti: i terreni agricoli nordafricani. Ma, come succede spesso, il meccanismo di sfruttamento era così efficiente che alla fine ha distrutto sé stesso. La produttività calante delle miniere di metallo prezioso ridussero l'efficienza del sistema militare Romano e questo, a sua volta, portò alla frammentazione e a guerre estese. Le aumentate necessità di risorse per la guerra furono un fattore importante nella distruzione del sistema agricolo il cui collasso, a sua volta, mise fine all'Impero. 

L'interazione dinamica dei vari elementi coinvolti nella crescita e nel crollo dell'Impero possono essere visti nella figura sotto, da un mio precedente saggio. Nel diagramma, la fonte di energia è l'agricoltura, ma è solo un elemento di un sistema complesso in cui le varie entità si rinforzano o smorzano a vicenda. 


Il diagramma è modellato su quello originariamente creato da Magne Myrtveit per la nostra società nello studio del 1972 “I Limiti dello Sviluppo”. Questo, come altri studi dello stesso tipo, forniscono una bella visione d'insieme della traiettoria di un sistema economico che tende a sfruttare eccessivamente le risorse che usa. Come modelli, tuttavia, non sono completamente soddisfacenti, nel senso che non includono la questione del controllo. E' un costo che dev'essere pagato e il graduale declino del flusso di risorse lo rende difficile. Di conseguenza, gli Imperi raramente collassano dolcemente e tutti insieme, ma piuttosto tendono a frammentarsi e ad ingaggiare guerre intestine prima di scomparire veramente. Questo fu il destino dell'Impero Romano, che ha sperimentato la legge generale per cui la potenza è niente senza controllo. 

I Romani e noi

E' sempre stato affascinante vedere l'Impero Romano come uno specchio lontano della nostra civiltà. E, infatti, vediamo che i punti di contatto sono molti. Pensate solo al sofisticato sistema logistico Romano: le navis oneraria che trasportavano grano dall'Africa a Roma sono l'equivalente delle nostre super petroliere che trasportano petrolio greggio dal Medio oriente ai paesi Occidentali. E pensate come Cina ed India stiano giocando oggi lo stesso ruolo che giocavano nei remoti tempi dei Romani: sono centri di produzione che stanno gradualmente risucchiando la ricchezza dell'Impero che chiamiamo, oggi, “globalizzazione”. 

Detto questo, c'è anche un'ovvia differenza. Il sistema energetico Romano era basato sull'agricoltura e quindi era teoricamente rinnovabile, almeno finché i Romani non lo hanno sfruttato eccessivamente. Quindi, tendiamo ad essere più preoccupati dell'esaurimento delle nostre risorse energetiche piuttosto che di quelle di oro e argento che – sembrerebbe – abbiamo potuto rimuovere in sicurezza dal nostro sistema finanziario senza problemi evidenti. 

Tuttavia, rimane il problema fondamentale che la potenza è inutile senza controllo. Il sistema di controllo dell'Impero della globalizzazione funziona su principi simili a quelli del vecchio Impero Romano. E' basato su un sofisticato sistema finanziario che, alla fine, funziona perché è integrato col sistema militare. Nell'esercito globalizzato, i soldati, proprio come quelli Romani, vogliono essere pagati. E vogliono essere pagati con una moneta che possano riscattare con beni e servizi da qualche parte. Il dollaro ha, finora, giocato questo ruolo, ma lo può giocare per sempre?

Alla fine, tutto ciò che fanno gli esseri umani è basato su qualche forma di credenza di cosa abbia valore in questo mondo. I Romani vedevano l'oro e l'argento come magazzini di valore. Per noi, c'è la credenza che i bit generati dentro dei computer siano magazzini di valore – ma potremmo esserne delusi – non che ci sarà mai un “picco dei bit” finché ci sono computer in giro, ma di sicuro un grande collasso finanziario non ci impoverirebbe soltanto, ma più di tutto distruggerebbe la nostra capacità di controllare le risorse energetiche di cui abbiamo così disperatamente bisogno. 

Quindi, quando gli esperti di petrolio allineano le riserve di petrolio come se ogni barile fosse un soldato pronto per la battaglia, assumono tacitamente che queste riserve siano disponibili ad uso dell'Impero globale. Questo non è necessariamente vero. Dipende dal sistema finanziario che potrebbe ben risultare essere l'anello debole della catena. Senza controllo, la potenza è inutile. 
L'Impero Romano fu perduto quando il sistema finanziario cessò di essere in grado di controllare il sistema militare. Quando i Romani persero il loro oro, persero tutto. Nel nostro caso, potrebbe essere che perderemo la nostra capacità di controllare il sistema militare prima di perdere la capacità di produrre energia da combustibili fossili. Se il dollaro perdesse la sua predominanza nel sistema finanziario mondiale, allora i produttori potrebbero essere tentati di tenere le proprie riserve di petrolio per sé o, almeno, non essere più così entusiasti di permettere all'Impero di accedervi. Ciò che sta avvenendo oggi in Ucraina potrebbe essere un primo sintomo della perdita imminente di controllo globale.



1. “Estrazione mineraria nel Tardo Impero Romano”, J.C Edmondson, The Journal of Roman Studies, 79, 1989, 84, http://www.jstor.org/stable/301182 
2. Tainter, Joseph A (2003. Prima pubblicazione 1988), Il collasso delle società complesse, New York & Cambridge, UK: Cambridge University Press,  ISBN0-521-38673-X
3. “L'Impero Romano: Caduta dell'Occidente; Sopravvivenza dell'Oriente”, James F Morgan, Bloomington 2012




mercoledì 26 marzo 2014

Il riscaldamento globale sta accelerando!

Da “Skeptical Science”. Traduzione di MR

Di James Wight 

Figura 1: Contenuto di calore globale dell'oceano 1955-2013. (Fonte


La Terra sta guadagnando calore più rapidamente che mai

Nel 2013, gli oceani terrestri hanno accumulato energia ad un tasso di 12 bombe atomiche di Hiroshima al secondo, come risulta dalle registrazioni del contenuto di calore nell'oceano da parte del Centro Nazionale di Dati Oceanografici degli Stati Uniti (NOCD). Questo rapido riscaldamento nel 2013 equivale a una media di 4 bombe atomiche di Hiroshima al secondo dal 1998 e 2 bombe atomiche al secondo da quando sono iniziate le registrazioni nel 1955.

Non è questo il modo usuale per iniziare un articolo sulle osservazioni sul riscaldamento globale, ma ho scelto di fare così perché il contenuto di calore dell'oceano è oggettivamente la prova più importante. La stragrande maggioranza del calore dal riscaldamento globale va negli oceani, quindi il contenuto di calore degli oceani, è un indicatore più affidabile che non la temperatura atmosferica o di superficie. Questi dati mostrano il riscaldamento globale ha accelerato negli ultimi 15 anni, contrariamente alle dichiarazioni dei negazionisti secondo le quali il riscaldamento globale ha “rallentato”, è “in pausa” o “si è fermato”, perché la parte superiore dell'oceano, l'atmosfera e la superficie si sono scaldati più lentamente negli anni recenti. Gli oceani che si scaldano alimentano gli uragani, aumentano il livello del mare, devastano le barriere coralline e spingono i pesci a migrare in acque più fredde.

Figura 2: Dove sta andando il riscaldamento globale

Le misure satellitari confermano che la Terra sta raccogliendo calore al tasso indicato dal contenuto di calore dell'oceano. Ci si può attendere che questo continui in quanto il CO2 atmosferico si trova attualmente a 400 ppm ed è in aumento (il suo livello più alto in almeno 13 milioni di anni e ben al di sopra del livello di sicurezza stimato di 350 ppm).

Altre prove dell'accelerazione

Un po' del calore finisce anche nel ghiaccio che fonde. La scomparsa dell'Artico ha accelerato drammaticamente, toccando il record minimo in volume nel 1999, 2002, 2003, 2004, 2005, 2006, 2007, 2010, 2011 e 2012. Al suo minimo, nel 2012, il volume del ghiaccio marino dell'Artico era un mero 20% del volume minimo del 1979. Nel 2013 è stato il 30% del volume del 1979, cosa che i negazionisti hanno rigirato come “recupero” dal 2012, ma in realtà la tendenza rimane fortemente alla diminuzione. La fusione sta procedendo molto più rapidamente di quanto previsto dai modelli usati dal IPCC. Se la tendenza viene estesa nel futuro, l'Oceano Artico sarà presto completamente liquido.

Figura 3: Percentuale del minimo del volume del ghiaccio marino dell'Artico nel 1979 rimasto dal 1979 al 2013. (Fonte) 

La scomparsa del ghiaccio marino dell'Artico sta riducendo la riflettività della superficie della regione polare settentrionale da molto alta a molto bassa. Questa è una retroazione che amplifica il riscaldamento globale e minaccia di scatenare una reazione a catena di punti di non ritorno, compreso un rilascio su larga scala di metano dal permafrost che si scongela e il collasso della calotta glaciale della Groenlandia. Il permafrost sta già cominciando a scongelarsi e ad emettere carbonio e la perdita di massa della calotta glaciale sta accelerando esponenzialmente.

Diversi studi hanno scoperto che gli scienziati del clima hanno sistematicamente sottostimato gli impatti del riscaldamento globale. E' più di 20 volte più probabile che i nuovi risultati siano peggiori del previsto che non che siano migliori. Sembra che gli scienziati abbiano corretto troppo in risposta alle accuse di allarmismo. Uno studio ha concluso:

Se l'intenzione è quella di offrire un equilibrio reale nel rapporto, “l'altra parte” scientificamente credibile è che, se le stime consensuali come quelle del IPCC sono sbagliate, è perché la realtà fisica è significativamente più minacciosa di quanto sia stato riconosciuto ampiamente ad ad oggi.

La superficie si sta ancora riscaldando

Quindi, al contrario di ciò che sostengono i negazionisti, non c'è nessun “rallentamento” del riscaldamento globale e di sicuro non c'è una “pausa” o “raffreddamento”, in quanto la Terra continua ad accumulare calore più rapidamente che mai. E vero che il tasso di riscaldamento della superficie sembra aver rallentato leggermente negli ultimi 15 anni. Tuttavia, il 2013 è stato comunque il quinto anno più caldo frai i 164 anni di registrazioni della temperatura globale, secondo l'Università di York.


Figura 4: Confronto delle tendenze della temperatura globale di superficie durante i periodi 1979-1997 e 1998-2013 nell'analisi dell'Università di York. (Fonte

La temperatura globale durante il 2013 è stata di 0,54°C al di sopra della media dal 1961 al 1990. (I climatologi di solito danno le temperature come anomalie relative ad una media, perché sono più facili da confrontare delle temperature assolute). Il 2013 ha avuto anche il settembre e novembre più caldi mai registrati, il quarto giugno più caldo, il 5 luglio e dicembre, il sesto agosto il settimo gennaio, l'ottavo aprile, il nono maggio e il decimo ottobre. Se si toglie il ciclo stagionale, novembre 2013 è stato il sesto più caldo di tutti i mesi.

I quattro anni più caldi sono stati il 2010 (0,63°C), il 2005 (0,59°C), il 2007 (0,56°C) e il 2009 (0,55°C). Ognuno dei 13 anni di questo ventunesimo secolo è uno dei 14 più caldi (l'altro anno anomalo preso spesso isolatamente ad esempio è il 1998). Gli anni del secondo decennio del 2000 sono al momento più caldi di quelli del primo, il decennio più caldo mai registrato (seguito dagli anni 90 e dagli anni 80). L'ultimo anno con una temperatura annuale più fredda della madia è stato il 1985.

L'insieme di dati dell'Università di York è una nuova analisi (troppo nuova per essere inclusa nel recente rapporto del IPCC) che interpola le temperature in regioni con minori stazioni meteorologiche. In particolare copre l'Artico, che si sta riscaldando più rapidamente del resto del pianeta a causa della retroazione di amplificazione regionale descritta sopra. E' considerata più precisa delle altre analisi che non usano l'interpolazione e rivela che il tasso di riscaldamento dal 1997 è stato il doppio più veloce di quanto si credeva in precedenza, identico alla tendenza dal 1951 e solo di un quarto meno della tendenza dal 1980.

Figura 5: Temperature globali di superficie 1850-2013. La linea blu mostra le temperature corrette per coprire tutto il globo. La linea rossa mostra le temperature non corrette. (Fonte) 

Ma non dovete fidarvi dell'Università di York. In tutte le analisi, il 2010 è l'anno più caldo; il 2013 è fra i più caldi (anche se la sua esatta posizione in classifica varia); c'è una tendenza al riscaldamento dal 1998; ognuno degli ultimi tre decenni è stato successivamente il più caldo mai registrato e la Terra si è scaldata di circa 0,8°C dall'era preindustriale. Persino una rianalisi da parte di una squadra di scettici conferma la tendenza al riscaldamento.

Fattori temporanei stanno mascherando il riscaldamento della superficie

Mentre il riscaldamento della superficie potrebbe aver rallentato (risultato che appare più significativo negli insiemi di dati che escludono il rapido riscaldamento dell'Artico), descrivere ciò come un “rallentamento” è fuorviante perché le sue cause sono meramente temporanee.

Cicli oceanici

La causa principale del più lento riscaldamento dell'atmosfera è una circolazione oceanica chiamata Oscillazione Inter-decennale del Pacifico (acronimo inglese IPO). I cicli oceanici redistribuiscono periodicamente il calore all'interno del sistema climatico terrestre (in particolare fra l'oceano e l'atmosfera) e sono scollegati dal cambiamento climatico sul lungo termine causato dal calore che entre ed esce dal sistema. Questa specie di variabilità interna è la ragione per cui gli scienziati del clima si concentrano slle tendenza a lungo termine al posto di quelle a breve termine e la quantità totale di calore che si accumula piuttosto che il tasso di riscaldamento della superficie.

L'IPO controlla la frequenza relativa delle fasi della Oscillazione Meridionale più breve, che si alterna fra El Niño (caldo), La Niña (freddo) e neutrale. In una fase di El Niño, gli alisei rallentano e la superficie dell'Oceano Pacifico tropicale è più caldo del solito. Il caldo anomalo del 1998 era dovuto ad un super El Niño. In una fase La Niña, l'acqua calda sprofonda, portando in superficie l'acqua fredda. Il 2011 e il 2012 sono stati più freddi degli anni vicini perché si sono verificati durante La Niña. Il riscaldamento del 2013 è avvenuto in condizioni di Oscillazione Meridionale neutra, in contrasto con gran parte degli anni più caldi che tendono a verificarsi durante El Niño. Gli anni con condizioni di Oscillazione Meridionale comparabili tendono a diventare più caldi.


Figura 6: Temperature globali annuali di superficie 1880 – 2013 dalla NASA, con gli anni di El Niño in rosso, gli anni de La Niña in blu e gli anni neutri in grigio. (Fonte) 

Dal 2001, l'IPO si è trovato in una fase fredda (ogni fase dura circa 20 anni) nella quale gli alisei accelerano e La Niña prevale. In questo modo, l'IPO sta temporaneamente nascondendo gran parte del calore in entrata da parte del riscaldamento globale nelle profondità dell'oceano.

Influenze di raffreddamento temporanee

L'accumulo di calore è continuato nonostante le influenze naturali abbiano avuto un effetto netto negativo sulla quantità di calore in entrata. Il fattore naturale più importante nell'ultimo decennio è stato il ciclo solare di 11 anni, che ha avuto un minimo insolitamente esteso durante il 2005-2010. L'effetto cumulativo delle particelle riflettenti emesse da piccole eruzioni vulcaniche potrebbe aver fornito un'altra influenza di raffreddamento. Questi fattori naturali hanno temporaneamente compensato parte del riscaldamento che altrimenti si sarebbe verificato a causa dei gas serra emessi dagli esseri umani.

Un'altra ragione possibile per un riscaldamento della superficie più lento è l'inquinamento aereo da particolati (che, al contrario dell'inquinamento da gas serra, raffredda temporaneamente la Terra riflettendo luce solare). La quantità e l'effetto di queste particelle sono misurati male al momento a causa della mancanza di finanziamento alla ricerca, ma le emissioni dall'aumento dell'attività industriale in Asia potrebbe annullare le riduzioni dei paesi sviluppati. Questo rappresenta un ulteriore potenziale fattore che aiuta a nascondere temporaneamente il riscaldamento globale.

Spiegare l'apparente rallentamento

Il tasso di riscaldamento della superficie rimane entro la gamma delle proiezioni dei modelli. I modelli climatici non sono mai stati progettati per prevedere le tendenze su 15 anni perché la tempistica dei cicli oceanici è imprevedibile. Piuttosto, sono state fatte molte simulazioni con le fluttuazioni casuali dell'oceano ed alcune di quelle simulazioni infatti hanno previsto periodi in cui il riscaldamento atmosferico sembrava avere una pausa mentre l'oceano profondo si scaldava più rapidamente.

Inoltre, i nuovi modelli climatici sono in grado di spiegare le temperature di superficie osservate negli ultimi anni tenendo conto dei cicli oceanici e solari osservati. Regolando la temperatura di superficie per rimuovere tutti i fattori naturali (oceani, Sole, vulcani) rivela di nuovo che il riscaldamento globale è continuato ed ha anche un po' accelerato, dal 2000.

Figura 7: Registrazioni della temperatura di superficie dell'Università di York con la rimozione delle influenze naturali. Linea blu = tendenza 1979-2000. Linea rossa = temperature previste se la tendenza 1979-2000 si estendesse fino ad oggi (notate che le temperature realmente osservate sono in gran parte al di sopra di questa linea). (Fonte)

Nel 2013 è stato caldo quasi ovunque

Gran parte del mondo è stato più caldo della media durante il 2013:

Figura 8: Mappa delle anomalie della temperatura in ogni regione del mondo durante il 2013. (Fonte

L'anno più caldo dell'Australia

Il caldo più estremo è stato registrato in Australia, che ha sofferto il suo anno più caldo mai registrato (1,20°C al di sopra della media 1961-1990), ondate di calore frequenti e temperature più alte della media durante tutto l'anno. Ancora una volta, il caldo australiano è avvenuto nonostante l'Oscillazione Meridionale neutra. L'Australia nel 2013 ha battuto tutti i record seguenti:


  • Temperatura nazionale diurna più alta (40,30°C il 7 gennaio)
  • Sette giorni consecutivi di temperatura massima di media nazionale oltre i 39°C (2-8 gennaio)
  • Gennaio più caldo
  • Mese più caldo di sempre (gennaio)
  • Temperatura della superficie del mare più alta in gennaio nei mari circostanti
  • Temperatura della superficie del mare più alta in febbraio nei mari circostanti
  • Estate più calda (dicembre 2012-febbraio 2013)
  • Ondata di calore record in marzo a Melbourne
  • Marzo più caldo in Tasmania
  • Stagione umida settentrionale più calda (ottobre 2012-aprile 2013)
  • Terzo autunno più caldo nell'Australia meridionale (marzo-maggio)
  • Seconda metà dell'anno più calda (gennaio-giugno)
  • Terzo inverno più caldo (giugno-agosto)
  • Giorno invernale più caldo ( 29,92°C il 31 agosto)
  • Settembre più caldo
  • Mese più caldo dopo aver rimosso il ciclo stagionale (2,75°C sopra la media in settembre)
  • Record precedente del settembre più caldo nell'Australia meridionale superato di 5,39°C
  • Giorno più caldo in ottobre (42,6°C il 31 agosto)
  • Periodo di 12 mesi più caldo (record battuto tre volte: settembre 2012-agosto 2013, ottobre 2012-settembre 2013, poi novembre 2012-ottobre 2013)
  • Seconda temperatura più alta della superficie del mare più alta in novembre nei mari circostanti
  • Primavera più calda (settembre-novembre)

Un'altra ondata di calore è già iniziata il 27 dicembre, è continuata fino al gennaio 2014 ed ha battuto i record in molti posti. E' stata subito seguita da una delle ondate di calore più significative del sudest dell'Australia (13–18 gennaio 2014), uccidendo circa 400 australiani e rivaleggiando con l'ondata di calore del 2009 che ha causato gli incendi boschivi del Sabato Nero.

Oltre l'Australia

Parti dell'Asia centrale, dell'Etiopia e della Tanzania hanno sofferto un caldo record. La Groenlandia ha registrato la sua temperatura dell'aria più alta (25,9°C il 30 luglio). In agosto, la Cina ha visto una delle sue ondate di calore peggiori, che ha ucciso più di 40 persone. La Russia ha vissuto i suoi novembre e dicembre più caldi (con la Siberia a +9°C al di sopra della media a dicembre). Sono poche le parti del mondo che sono state più fredde della media e da nessuna parte c'è stato un freddo record.

Le temperature di superficie degli oceani Artico, Atlantico, Indiano, Sud e Ovest del Pacifico sono state tutte più calde della media. Gli oceani caldi hanno contribuito ad alimentare una stagione dei tifoni al di sopra della media. Il tifone Haiyan è stato il ciclone tropicale più forte che abbia mai toccato terra, uccidendo oltre 5.700 persone. Anche se le precipitazioni globali sono state prossime alla media, alluvioni e siccità estreme sono avvenute in molte parti del mondo.

Il meteo freddo più notevole che sia avvenuto nel 2013 è stato in realtà un effetto collaterale del riscaldamento globale. L'insolito riscaldamento dell'Artico ha portato ad una fase negativa record dell'Oscillazione Artica in cui l'aria fredda artica si è spostata verso sud (come la porta di un congelatore lasciata aperta). Questo ha a sua volta causato una fredda primavera settentrionale negli Stati Uniti ed in Europa. Questo fenomeno di “Artico caldo e continenti freddi” è avvenuto in diversi anni recenti potrebbe essere uno spostamento permanente degli schemi meteorologici. Sfortunatamente, questo significa che il Nord America, il fulcro del negazionismo climatico, sta vivendo inverni coerentemente freddi mentre il resto della superficie terrestre cuoce.

Il modo in cui il cambiamento climatico alimenta gli eventi meteorologici estremi

Tutti gli eventi meteorologici estremi che viviamo oggi stanno avvenendo nel contesto di un sistema climatico che contiene molto più calore di quanto ne contenesse 50 anni fa. Un aumento delle temperature medie aumenta il meteo caldo estremo:

Figura 9: Illustrazione di come la temperatura media in aumento aumenti le temperature estremamente alte. (Fonte

Il meteo freddo non contraddice una tendenza al riscaldamento, proprio come un atleta che prende steroidi migliorerà la sua forza media e batterà molti record, ma avrà ugualmente momenti di debolezza. Le osservazioni confermano che la distribuzione delle temperature fredde e calde sta cambiando, come mostrato nel grafico sopra. Per esempio, i record di caldo in Australia ora si stanno verificando tre volte più di frequente di quelli di freddo.

L'aumento di energia nel sistema climatico causa anche l'intensificazione del ciclo dell'acqua: evapora più acqua dal terreno; l'aria contiene più acqua; cade più acqua sotto forma di pioggia. La combinazione dei temperature più alte e suoli più asciutto porta a incendi boschivi più frequenti e peggiori.

Perché il mito della “pausa” ha ottenuto così tanta pubblicità?

La conclusione centrale del rapporto del IPCC dello scorso anno è stata che il riscaldamento globale antropocentrico è più evidente che mai, anche se il rapporto ha trascurato di evidenziare le prove chiave che suggeriscono che il clima stia già raggiungendo pericolosi punti di non ritorno. Tuttavia come mi lamentavo al momento, la copertura mediatica del rapporto del IPCC era dominato dalla falsa narrativa della "pausa" di riscaldamento e dalle accuse di una cospirazione del IPCC pe esagerare il riscaldamento. Perché ciò è accaduto?

I negazionisti hanno dichiarato fin dal 2006 che il riscaldamento globale si era fermato, ma fino a poco tempo fa il mito era confinato alla camera dell'eco della destra (già una sfera vasta che comprende l'impero multimediale di News Corp, radio contrarie e gran parte della stampa d'affari). Il suo profilo è stato alzato considerevolmente lo scorso aprile, quando la Reuters ha cominciato a promuovere l'idea con un articolo intitolato “Gli scienziati del clima lottano per spiegare il rallentamento del riscaldamento” (non lo nobiliterò con un link diretto). Ciò è indicativo di una più ampia tendenza nella copertura climatica della Reuters. La ragione è divenuta chiara a luglio, quando il corrispondente climatico dall'Asia David Fogarty ha lasciato la Reuters ed ha rivelato:

Sin dai primi giorni del 2012 mi è stato ripetutamente detto che clima e ambiente non erano più le massime priorità per la Reuters e mi è stato chiesto di esplorare altre aree. Essendo testardo ed appassionato al mio ritmo sul cambiamento climatico, ho ampiamente ignorato la direttiva... 

Ad aprile dello scorso anno Paul Ingrassia (allora vice-redattore capo [da allora promosso a caporedattore]) ed i ci siamo incontrati ed abbiamo chiacchierato in una funzione aziendale. Mi ha detto di essere uno scettico del cambiamento climatico. Non uno scettico fanatico, solo uno che voleva vedere più prove sul fatto che l'umanità stesse cambiando il clima globale. 

Progressivamente, riuscire a pubblicare una qualsiasi storia legata al tema del cambiamento climatico è diventato più difficile. Era una lotteria. Alcuni editori rimpiazzavano felicemente e pigiavano il bottone. Altri tormentati facevano mille domande. Il dibattito su alcune idee di storie generavano una burocrazia infinita da parte di editori spaventati nel prendere la decisione, riflesso di un diverso tipo di clima nella Reuters – il clima della paura. 
  
Da metà ottobre, sono stato informato che il cambiamento climatico semplicemente non era una grande storia per il presente, ma che lo sarebbe se ci fosse un cambiamento significativo nella politica globale, tipo che gli Stati Uniti introducessero un sistema di tetto e scambio (cap-and-trade). 

Subito dopo quella conversazione mi è stato detto che la mia funzione sul cambiamento climatico è stata abolita. 

Gli autori del IPCC sapevano che il supposto rallentamento era un non problema, ma secondo l'autore principale e coordinatore Dennis Hartmann:

era diventato sempre di più un problema pubblico, così abbiamo sentito di dover dire qualcosa su questo, anche se da un punto di vista di osservazione, non è una misura molto affidabile del riscaldamento a lungo termine.

Ad agosto, una bozza del rapporto “Sommario per Decisori Politici”che conteneva l'affermazione “I modelli non riproducono generalmente la riduzione osservata nella tendenza al riscaldamento della superficie negli ultimi 10-15 anni” è trapelato alla Reuters. Questa frase era facile togliere dal contesto per sostenere la narrativa negazionista di un rallentamento che gli scienziati non sanno spiegare. Il linguaggio è stato moderato per il rapporto finale in settembre (che l'IPCC ha fatto l'errore di pubblicare di venerdì), ma il danno era fatto. Tutti i giornalisti volevano parlare della supposta pausa.

(Fonte

Il rapido riscaldamento della superficie tornerà a vendicarsi

Riassumendo, la Terra sta acquisendo calore più rapidamente che mai. Il ghiaccio marino dell'Artico si sta fondendo ad un tasso sorprendentemente accelerato e potrebbe sparire presto. Gran parte delle indicazioni si stanno rivelando peggiori di quanto previsto dagli scienziati. Se si include l'Artico in rapido cambiamento, il riscaldamento di superficie negli ultimi 15 anni è continuato ad un tasso soltanto leggermente più lento. Questo “rallentamento” apparente nel riscaldamento della superficie è temporaneo e può essere spiegato da una combinazione di cicli solari ed oceanici, con un possibile contributo delle particelle riflettenti emesse dai vulcani e/o dall'industria asiatica. Il riscaldamento globale sta alimentando un aumento del meteo estremo, con le temperature più alte del normale quasi dappertutto nel 2013. L'idea della “pausa” del riscaldamento globale è una narrativa falsa promossa da negazionisti motivati ideologicamente, propugnata acriticamente da giornalisti e involontariamente rafforzata dal IPCC. L'apparente rallentamento del riscaldamento della superficie non solo ci da un falso senso di sicurezza; di fatto indica che il riscaldamento accelererà in futuro.

Il “rallentamento” del riscaldamento di superficie non continuerà per sempre perché i cicli naturali sono proprio quello: cicli. Anche se attualmente stanno contrastando la tendenza sottostante al riscaldamento, prima o poi i cicli si capovolgeranno e la rinforzeranno, causando un riscaldamento di superficie che raggiungerà il punto in cui altrimenti si troverebbe. L'attività solare sta già riprendendo. E quando l'IPO tornerà inevitabilmente in una fase calda, tutto il calore che ora è immagazzinato nelle profondità degli oceani verrà rilasciato nell'atmosfera. Anche se i cicli si bloccassero in qualche modo, verranno sopraffatti dall'aumento dei gas serra, visto che le emissioni continuano (anche se l'attività solare è caduta al suo minimo del 17° secolo, l'effetto sarebbe controbilanciato da soli sette anni di emissioni di gas serra). I cicli naturali ora sono meramente onde sulla marea montante del riscaldamento-serra.

Anche l'inquinamento dell'aria da particolati non può continuare in modo sostenibile perché (per definizione) causa altri effetti pericolosi. In ogni caso, rimane in atmosfera per un tempo molto inferiore del CO2 e non può contrastare i suoi impatti sull'acidificazione dell'oceano.

Le temperature durante i prossimi due anni saranno ampiamente determinate dall'Oscillazione Meridionale. I modelli a breve termine prevedono che o rimarrà neutrale o passerà ad una fase El Niño a metà del 2014. Nel secondo caso, il 2014 sarà probabilmente più caldo del 2013 e il 2014 o il 2015 è probabile che siano anni da caldo record.

Il totale cumulativo delle emissioni di CO2 sarà il fattore principale nella grandezza del riscaldamento globale a lungo termine. Sotto le politiche mondiali attuali sul clima, siamo indirizzati ad un riscaldamento di +4°C per il 2100, una temperatura senza precedenti per la specie umana e probabilmente al di là della nostra capacità di adattamento. Se vogliamo davvero che il riscaldamento globale faccia una pausa, dobbiamo premere il tasto pausa. Dobbiamo lasciare la grande maggioranza delle riserve di combustibili fossili nel sottosuolo, anche solo per avere una buona possibilità di limitare il riscaldamento globale al pericoloso livello di <2°C. Per avere qualche speranza di stabilizzare il clima, dobbiamo urgentemente eliminare le emissioni di gas serra più rapidamente possibile. E, cosa più importante, dobbiamo eliminare la causa più grande e duratura del riscaldamento globale, le emissioni di CO2 da combustibili fossili.

Non c'è tempo da perdere. Il rapido riscaldamento di superficie tornerà – più rapido che mai.

martedì 25 marzo 2014

Il picco degli investimenti segnala l'imminente collasso della produzione petrolifera

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR


Questo di Turiel è un post molto importante che va letto insieme a quello di Gail Tverberg sullo stesso argomento. In sostanza, stiamo vedendo un momento epocale nella storia planetaria del petrolio: sebbene la produzione totale di liquidi riesca ancora a mantenersi costante o anche in leggero aumento, l'industria non ce la fa più a reggere i tremendi costi necessari. Siamo al "picco degli investimenti" - preludio dell'inevitabile declino (o collasso produttivo). E ora che facciamo? Beh, il primo passo è capire qual'è la verità. (U.B.)


di Antonio Turiel

Cari lettori,

l'inquietante articolo di Gail Tverberg sull'attuale tendenza delle grandi compagnie petrolifere a disinvestire nel cosiddetto upstream, cioè nell'esplorazione e lo sviluppo di nuovi giacimenti porta ad una riflessione profonda sul futuro immediato della nostra società. Nel momento più critico della crisi energetica, le compagnie petrolifere gettano la spugna. Non è una sorpresa. Quattro anni fa, su questo stesso blog, spiegavamo come alcune di queste compagnie stessero abbandonando l'investimento sull'upstream.

Il miraggio del fracking (soprattutto nella ricerca di petrolio leggero di roccia compatta, LTO nell'acronimo inglese) è stato l'ultimo tentativo di continuare in questo busisness. Come diceva recentemente un analista del mondo del petrolio, gli Stati Uniti avevano la necessità di cercare una risorsa da sfruttare perché non potevano permettersi il lusso di lasciare all'industria dell'estrazione degli idrocarburi più potente del mondo senza lavoro, visto che le conseguenze sociali ed economiche sarebbero inaccettabili. Così, si sono inventati il miracolo del fracking e con questa chimera hanno mantenuto l'illusione che si potesse continuare ad andare avanti sulla stessa strada per questi quattro anni; grazie alle sabbie bituminose del Canada, ai petroli ultrapesanti del Venezuela e al LTO, la produzione di petrolio si è potuta mantenere stabile intorno ai 76 milioni di barili al giorno (Mb/g) per tre anni e quella di tutti i liquidi del petrolio (che comprende i liquidi del gas naturale, PG nei grafici che seguono) intorno ai 90 Mb/g, come mostrano i seguenti grafici di un file di Burbuja.info:



Tuttavia, gli stessi grafici mostrano che il petrolio convenzionale, dopo un lungo plateau di produzione di poco più di 70 Mb/g di media all'anno iniziata verso il 2004 e con forti saliscendi che hanno seguito il ciclo economico, sembra aver già iniziato la sua inesorabile discesa. Niente di nuovo: il plateau produttivo risulta già dal rapporto del 2010 della IEA (che tende ad essere un po' più ottimista della EIA) e nel rapporto del 2012 si riconosce l'inizio del declino del petrolio convenzionale. Peggio ancora, come abbiamo già spiegato analizzando il rapporto del 2013 la IEA avverte che se non si producono gli investimenti in tempo, la produzione di petrolio può scendere rapidissimamente, creando problemi seri.

E qual è la reazione a questo avvertimento? Comincia ad essere evidente persino per il mondo degli affari il LTO da fracking sta arrivando alla sua fine e questa era l'ultima scommessa. Fine. Non c'è nient'altro; siamo realmente rimasti senza opzioni.

Naturalmente continuerà la ripetizione assurda degli stessi meme, le stesse chimere (gli idrati di metano un giorno, gli scisti bituminosi un altro, il petrolio Artico o persino quello Antartico, i giacimenti pre-sale in Brasile, le sue controparti sull'altro lato dell'Atlantico... la stessa cosa che si va dicendo da un paio di decenni o più) mentre altri sognano che le rinnovabili ci tireranno fuori dalla buca (cosa poco verosimile alla luce dei problemi che abbiamo discusso nella serie di post “I limiti delle rinnovabili”), o con i reattori nucleari a fusione (che probabilmente non saranno mai fattibili, che sia per la via ITER o per confinamento inerziale – diffidate dei comunicati stampa falsificati!), o quelli di quarta generazione (sui quali si sperimenta da 70 anni senza che si siano risolti i problemi cruciali che li affliggono) o con l'uso del gas naturale per autotrazione (che richiederebbe un investimento ingente non per la motorizzazione, ma per la distribuzione, quando il picco del gas è a sua volta dietro l'angolo), o con qualsiasi altra distrazione che paresse avere a che fare con l'energia (che siano tecnologie per batterie, grafene, magnesio o concentratori di energia infrarossa). Il fatto è che le aziende petrolifere sono esauste, come si spiegava nel post precedente ed hanno cominciato un'aggressiva politica di disinvestimento (guardate, per esempio, questa presentazione della Shell che riassume i suoi risultati del 2013 e le sue strategie per il 2014) Nel post di Gail Tverberg si mostrava il grafico di Steve Kopits che sintetizza la previsione di diminuzione dell'investimento delle compagnie multinazionali:


Nel grafico sopra, la linea grigia orizzontale rappresenta l'investimento in beni di capitale delle compagnie petrolifere private che si prevedeva di recente, a ottobre dello scorso anno, appena sei mesi fa; la linea grigia che scende, rappresenta la revisione fatta questo stesso mese, la linea nera tratteggiata, la previsione attuale e la rossa punteggiata quella che indicano le ultime dichiarazioni delle compagnie multinazionali: una caduta totale di circa un 30% in un solo anno. Pensate che in realtà, per conservare lo status quo, l'investimento in beni comuni dovrebbe crescere col tempo, visto che le risorse che rimangono sono sempre peggiori e richiedono uno sforzo maggiore, così che una caduta di un 30% dell'investimento anticipa una caduta molto più grande della nuova produzione. E non dimenticate che i giacimenti attualmente in produzione diminuiscono già di un 6% all'anno (come riconosceva a novembre la stessa IEA). Qualche specialista di energia furbo si è precipitato a dire che qui non succede niente, che il disinvestimento è frutto di un ciclo di sovra-investimento. Questa interpretazione ha un errore fondamentale, come evidenziava l'altro giorno Juan Carlos Barba: quando si produce un eccesso di investimento in un'attività produttiva (perché gli investitori vedono un buon affare e lo fanno crescere troppo in fretta) la produzione sale molto, più di quello che in realtà chiede il mercato, pertanto alla fine il prezzo scende. In quel momento gli investitori escono dall'affare e crolla l'investimento finché la cosa non sis tabilizza. Tuttavia, quello che succede qui è che mentre l'investimento saliva e saliva, la produzione è caduta e il prezzo è rimasto stabile.

Pertanto, spiegazione volgare secondo la quale si tratta di un normale ciclo di sovra-investimento non sta in piedi. Non preoccupatevi: sicuramente i nostri analisti economici di punta troveranno una qualche spiegazione contorta per giustificare la loro visione aprioristica; Qualsiasi cosa pur di non accettare che il picco del petrolio è già qui, perché il picco del petrolio era questo in realtà, che semplicemente è questa la puzza che fa il picco del petrolio. Certamente stiamo parlando del disinvestimento delle compagnie private e queste coprono solo un terzo del mercato mondiale del petrolio, ma le compagnie nazionali che forniscono gli altri due terzi hanno bisogno delle multinazionali per rilanciare la propria produzione, visto che hanno perdite più che significative (per esempio la messicana Pemex o la norvegese Statoil, ma è un fenomeno generalizzato – pensate a questa curiosa notizia sull'Arabia Saudita). E la ricetta per uscire da questo pantano, la stessa che viene ripetuta insistentemente in tutti i paesi con problemi di produzione di petrolio, che sia il Messico, il Venezuela, il Brasile, l'Argentina, il Bahrein, la Libia, l'Iran o la Norvegia, è quella di aprire all'investimento straniero. Naturalmente, chi proverà a investire in questa pletora di nuove e dubbie opportunità? Gli investitori naturali sarebbero le grandi multinazionali del petrolio, ma proprio queste stanno scappando dai giacimenti di dubbia redditività e concentrandosi sui benefici e sul buttare i dividendi, nel continuare ad aumentare la propria redditività ad ogni costo, anche a costo di diminuire l propria dimensione. Peggio ancora, queste si stanno disfacendo dei loro beni più problematici. Tanti giacimenti in vendita da un lato insieme a tanti paesi che cercano l'investimento per le proprie estrazioni nazionali dall'altro formano un eccesso di offerta che proietta più dubbi sulla redditività e scaccia la maggior parte degli investitori. E' pertanto ovvio che i problemi delle multinazionali del petrolio vanno a causare una forte diminuzione nel petrolio su scala mondiale tanto nel settore privato quanto in quello pubblico.

La conseguenza più diretta di tutto questo a breve termine è che non ci sarà un quarto ciclo di investimento come si ipotizzava nel post del mio amico Antonio García-Olivares: siccome la società non può tollerare prezzi più alti, le compagnie non possono andare avanti nell'estrazione delle risorse più care. Pertanto, se non cambia la tendenza attuale di disinvestimento non ci sarà un plateau di produzione di petrolio fino al 2040 come diceva Antonio García-Olivares (per quanto sarebbe un male già quello), ma il declino della produzione di tutti i liquidi del petrolio (non solo il petrolio convenzionale) comincerà subito. Di fatto, se non si agisce rapidamente, la perdita di investimento che stanno già applicando le compagnie multinazionali ed i movimenti prevedibili che faranno quelle nazionali possono condurre ad un crollo della produzione di tutti i liquidi del petrolio fra i 5 e i 10 milioni di barili al giorno (fino ad un 11% di quello che si produce adesso) in un lasso di tempo inferiore ai due anni. Se un crollo così rapido di questa dimensione si materializza, gli effetti sull'economia possono essere devastanti e la capacità di adattamento dei diversi paesi dipenderà dalla loro capacità di mettere mano ad altre risorse.

Se tutto questo fosse poco, c'è un altro problema: la forte dipendenza dal petrolio dell'estrazione di altre risorse naturali, energetiche e non. Alcuni dei giacimenti più estremi di carbone, gas e uranio richiedono l'uso di un'ingente quantità di carburanti per spostare tutti i macchinari necessari. E siccome il carbone, il gas e l'uranio a buon mercato si stanno a loro volta esaurendo, il peso del combustibile sui costi di produzione sta salendo: pensate per esempio che proprio ora il costo del diesel usato nell'estrazione rappresenta il 10% del prezzo dell'uranio. E questo senza entrare nel merito dell'impatto sul settore agricolo, fortemente dipendente dal petrolio, che colpisce non solo la redditività nulla dei biocombustibili, ma l'alimentazione umana. Per quanto riguarda l'estrazione dei minerali in generale, i costi crescenti di produzione (riflesso del maggior consumo di combustibile nella misura in cui i filoni rimanenti hanno concentrazioni di minerale più povere) compromettono la fattibilità dello sfruttamento di molti minerali (come mostra questo articolo, le miniere d'oro potrebbero chiudere in sei mesi se non sale il prezzo).

Alicia Valero ha scritto una tesi estesa e dettagliata qualche anno fa che a volte cito in questo blog, la quale usa un'approssimazione interessante per affrontare il problema della scarsità di materie prime, che siano energetiche o meno. L'idea consiste nel calcolare l'exergia di qualsiasi materia, quantificata come la quantità di lavoro utile che rappresenta per la società. Questa approssimazione exergetica permette di trattare il picco del rame o dell'oro allo stesso modo che il picco del petrolio o del carbone. Essenzialmente, il nostro problema non è solo che l'energia utile che ci arriva dal petrolio e dall'uranio sta già diminuendo e che quelle del carbone e del gas sono dietro l'angolo, ma che inoltre l'exergia di molte materie prime fondamentali per la nostra società (che sia rame, neodimio, acciaio o cemento) sta già diminuendo o non è lontana dal farlo.

L'approssimazione economicistica che domina la visione della nostra società, tanto lontana dalla Termodinamica, vede solo i costi monetari e i cicli di investimento ed è incapace di riconoscere che i tetti di produzione si stanno abbassando. Credono semplicemente che con più investimenti si potrebbe ottenere un aumento della produzione, senza comprendere che un mucchio di banconote verdi non afferrano la pirite o un pezzo di carbone dal fondo di una miniera. Nel momento in cui la diminuzione della produzione sia evidentemente minore dei livelli attuali i guru di questo credo che chiamiamo Economia tireranno fuori qualche loro assurda teoria ad hoc, riedizioni della vecchia falsità del Peak Demand, e ci diranno che i gusti della società sono diventati più austeri e che abbiamo deciso di usare meno di tutto per coscienza ecologica o altri motivi, come se la penuria fosse una scelta. Niente di nuovo dai tempi di Esopo, insomma.

Lasciando da parte questo pensiero sociopatico e ignorante della realtà fisica, lo scenario che si profila per il nostro futuro immediato è quello della Grande Scarsità. Se non si agisce subito, la probabilità di sperimentare nei prossimi anni, persino nell'arco di non troppi mesi, una transizione fortemente non lineare è molto elevata. Il livello di stress del sistema  ora è altissimo. In tutto il mondo stanno scoppiando conflitti in cui l'energia, anche senza essere sempre il fattore fondamentale, è uno dei fattori importanti. Ciò aumenta il rischio di un crollo repentino del flusso di energia e materiali; pensate, per esempio, cosa succederebbe se aumentassero le ostilità con la Russia, paese che si alterna con l'Arabia saudita al primo posto della produzione mondiale di petrolio e che fornisce il 26% del gas naturale e più del 40% del petrolio che si consuma in Europa. Pensate cosa succederebbe se l'instabilità attuale e crescente in Bahrein o in Yemen finissero per degenerare ion guerre civili e contagiassero un'Arabia Saudita in cui i costi di produzione crescono con l'invecchiare dei suoi giacimenti, compromettendo la sua stabilità di bilancio e la pace sociale. O se l'Iran, il Venezuela o l'Algeria finissero in una guerra civile. Oltre alla tragedia nei paesi disgraziati che soccombessero, vi immaginate dove finirà il benessere dell'occidente quando questi smettono di mandarci puntualmente il loro petrolio e il loro gas naturale?

Questo è un punto di non ritorno nella Storia dell'Umanità. Le contraddizioni del nostro sistema economico non possono essere ignorate ancora per molto, ma i nostri leader continuano a sognare l'uscita dalla crisi e al ritorno alla crescita economica. Ma in pochissimo tempo dovranno prendere misure d'urgenza per evitare che la società collassi. E' facile prevedere che nel momento in cui nostri governanti si rendono conto che il petrolio necessario sta smettendo di arrivare, a causa del disinvestimento delle grandi compagnie, gli Stati entrino nel capitale di queste imprese per prendersi in carico i progetti meno redditizi. Tale misura garantirà un flusso minimo di base per l'attività economica, ma sarà possibile a costo di mettere tasse molto superiori a quelle attuali, per cui questa ultima intenzione di mantenere lo status quo allargherà rapidamente la povertà e la miseria nella società. In aggiunta, dato il costo eccessivo che implicherà questo intervento per ogni paese, il commercio del petrolio soffrirà, poiché i paesi saranno riluttanti a condividere una materia tanto essenziale e che costa loro tanti sacrifici.

Ora guardatevi attorno. Su che risorse può contare il vostro paese? Quale sforzo sociale implicherà il loro sfruttamento autarchico? Come vi condizionerà la miseria che viene, che potenziale avete per resistere alla prossima onda?

Si può tratteggiare il caso della Spagna come un caso tipo. Se si conserva la modalità di reazione dimostrata durante questi primi anni di crisi energetica, nel prossimo decennio la Spagna si appoggerebbe al proprio carbone autoctono. Le centrali elettriche in attività sarebbero principalmente quelle idroelettriche, eoliche e termiche a carbone, le quali permetteranno di mantenere un livello di fornitura non molto inferiore all'attuale, anche se il consumo crollerebbe considerevolmente, per cui non ci si dovrebbero aspettare grandi cadute della rete durante i prossimi decenni. Il problema è, come abbiamo ripetuto tante volte, che l'elettricità è solo il 21% del consumo di energia finale nella Spagna di oggi. Per il resto degli usi energetici si convertirebbe il carbone nazionale in idrocarburo liquido usando il processo di Fisher-Tropsch anche se si perderebbe per strada il 50% della sua energia. Siccome la produzione sarebbe insufficiente a coprire la domanda attuale, si restringerebbe progressivamente il suo uso, che si concentrerebbe nell'agricoltura, nell'Esercito e nei servizi essenziali e si abbandonerebbe la mobilità privata, alla portata soltanto di più ricchi. Questo farebbe sprofondare la maggior parte dell'attività economica attuale del paese e condannerebbe una gran massa della popolazione alla povertà ed alla sopravvivenza nei limiti più miserabili della società. Un fenomeno che abbiamo già descritto qui: la Grande Esclusione. Col tempo, l'organizzazione sociale potrebbe diventare un nuovo feudalesimo.

Questo è inevitabile? No, perbacco. Non abbiamo motivo di seguire una strada così triste. Non è il nostro destino inesorabile finire schiavizzati, né molto meno, come non lo è nemmeno il collasso della società o l'estinzione della razza umana; sicuramente non deve finire in Apocalisse. Ma se non facciamo attenzione il nostro destino può essere davvero poco brillante. Possiamo ancora evitarlo. Per questo il primo passo è quello di riconoscere la verità, una verità dura che deve essere detta in faccia. E infine passare dall'idea all'azione. Ma alla svelta, non c'è più molto tempo..

Saluti.

AMT


lunedì 24 marzo 2014

Il riscaldamento globale si auto-rinforza

Da “Common dreams”. Traduzione di MR

Circolo vizioso: la quantità di riscaldamento coinvolto nella perdita di ghiaccio dell'Artico ora ammonta a circa un quarto di tutto il riscaldamento. 

Di Jacob Chamberlain


Ghiaccio marino dell'Artico che fonde (Foto: Ian Joughin / Fonte: LiveScience)

Una delle difese fondamentali della natura contro il riscaldamento globale – la riflessione dei raggi solari dalla Terra da parte del ghiaccio marino dell'Artico – è vittima del... riscaldamento globale. E, secondo uno studio pubblicato lunedì, l'anello di retroazione malefico è peggiore di quanto si pensasse. La nuova ricerca, pubblicata negli Atti dell'Accademia Nazionale delle Scienze, mostra che la capacità del ghiaccio artico di riflettere la luce del Sole – conosciuta scientificamente come albedo – è diminuita drammaticamente dal 1979, con i calcoli che mostrano la capacità della regione di riflettere la luce solare ridotta di più del doppio di quanto hanno mostrato studi precedenti. Quando una quantità minore di raggi solari viene riflessa verso lo spazio, l'oceano aperto assorbe più calore, portando ad una ulteriore fusione di ghiaccio nella regione. Il problema si auto alimenta ed è fonte di grande preoccupazione per gli scienziati e per coloro che sono preoccupati dal cambiamento climatico.

“E' una cosa grossa – inaspettatamente grossa”, ha detto l'autore principale dello studio Ian Eisenman, uno scienziato del clima dell'istituzione Scripps di Oceanografia in California, sul tasso di perdita. “Il ritiro del ghiaccio marino dell'Artico è stato un attore importante nel riscaldamento globale che abbiamo osservato negli ultimi decenni”. E Mark Flanner, un ricercatore climatico all'Università del Michigan, ha detto al New Scientist che lo studio “riafferma che la retroazione dell'albedo è un potente amplificatore del cambiamento climatico, forse anche di più di quanto simulato dall'attuale generazione di modelli climatici”. Il rapporto è il primo che usa misurazioni satellitari che risalgono al 1979 per valutare la diminuzione della riflessione della luce solare nella regione. La quantità di riscaldamento dell'Artico causata da questo fenomeno ora ammonta a circa un quarto del riscaldamento totale causato dall'effetto serra, hanno detto i ricercatori. “Fondamentalmente, questo significa più riscaldamento”, ha detto Eisenman.

Dallo studio:


Il ritiro del ghiaccio marino dell'Artico è stato uno dei cambiamenti climatici più drammatici degli ultimi decenni. Circa 50 anni fa era stato previsto che un inscurimento dell'Artico associato alla scomparsa del ghiaccio sarebbe stata una conseguenza del riscaldamento globale. Usando le misurazioni satellitari, questa analisi quantifica direttamente quanto l'Artico si sia inscurito visto dallo spazio in risposta al recente ritiro del ghiaccio marino. Pensiamo che questo declino abbia causato 6,4 ± 0.9 W/m2 di riscaldamento radiativo dal 1979, considerevolmente maggiore delle aspettative dei modelli e delle recenti stime dirette. In media, a livello globale, questo cambiamento dell'albedo equivale al 25% della forzante diretta del CO2 durante gli ultimi 30 anni. 



domenica 23 marzo 2014

2°C di riscaldamento:disastro incombente per l'agricoltura

Da “Climate Progress”. Traduzione di MR (non più online).


Mentre gli agricoltori seminano le colture di quest'anno potrebbero essere distratti dal fatto che dal 2030 – fra poco più di 15 anni – i rendimenti dei raccolti nelle regioni temperate e in quelle tropicali soffriranno in modo significativo a causa del cambiamento climatico. Pubblicato sabato sulla rivista Nature Climate Change, un si possono saggio ha scoperto che, senza adattamento, ci si possono aspettare perdite nella produzione di grano, riso e mais con soli 2°C di riscaldamento. Lo studio inasprirà le scoperte già allarmanti della sezione del Gruppo di Lavoro II del Quinto Rapporto di Valutazione del IPCC, che dev'essere pubblicato alla fine di marzo. Il Gruppo di Lavoro II si concentra sugli impatti ambientali, economici e sociali che il cambiamento climatico avrà e a quale livello di vulnerabilità i diversi settori ecologici e socio-economici saranno soggetti.

Il Quarto Rapporto di Valutazione, nel 2007, ha scoperto che le regioni dal clima temperato come Europa e Nord America avrebbero retto a un paio di gradi di riscaldamento senza un effetto rilevabile sui rendimenti dei raccolti. Alcuni studi pensavano persino che l'aumento delle temperature avrebbe aumentato la produzione. Tuttavia, il nuovo studio, che ha attinto dall'insieme di dati più completo ad oggi sulle risorse delle colture – più del doppio del numero disponibile nel 2007 – ha scoperto che le colture verrebbero influenzate negativamente dal cambiamento climatico molto prima di quanto ci si aspettasse.

“Mentre diventavano disponibili altri dati, abbiamo visto uno spostamento nel consenso che ci dice che gli impatti del cambiamento climatico nelle regioni temperate avverrà prima piuttosto che dopo”, ha detto in una dichiarazione il professor Andy Challinor della Scuola della Terra e dell'Ambiente dell'Università di Leeds e autore principale dello studio. “Inoltre, l'impatto del cambiamento climatico sui raccolti varierà sia di anno in anno sia di luogo in luogo – con la variabilità che diventa maggiore quando il meteo diventa sempre più imprevedibile. Il cambiamento climatico significa un raccolto meno prevedibile, con diversi paesi che vincono e perdono in anni diversi”. Secondo lo studio, a partire dal 2030 i rendimenti dei raccolti sperimenteranno un impatto sempre più negativo con diminuzioni di oltre il 25% che diventano più comuni dalla seconda metà del secolo. Il cambiamento climatico è già una grande preoccupazione per coloro che lavorano in agricoltura in quanto i cambiamenti meteo, della qualità del terreno e della disponibilità d'acqua si ripercuotono in tutto il settore.

I prezzi del cibo delle colture di base come il grano e il mais sono alti quest'anno, in quanto la produzione globale lotta per tenere il passo con l'aumento della domanda. I prezzi delle colture sono soggetti ad impatti molto localizzati e la crisi in Ucraina ha causato un'impennata dei prezzi del mais e del grano, visto che quel paese è uno dei 10 principali esportatori di entrambe le colture. Il cambiamento climatico agirà solo da amplificatore della natura precaria dell'industria. Un altro studio recente ha scoperto che l'effetto medio del cambiamento climatico sul prezzo dei raccolti per il 2050 sarà di un 20% in più, con alcuni prezzi che non cambiano affatto mentre altri aumentano di oltre il 60% a seconda della regione.

In California, dove una siccità record è un indicatore di una normalità più calda e più secca portata dal cambiamento climatico nella regione, quasi 500.000 acri di terra coltivabile – circa il 12% della disponibilità di terra coltivabile dello scorso anno – potrebbe essere esclusa quest'anno, causando miliardi di dollari di danno economico. I prezzi di verdure come carciofi, sedano, broccoli e cavolfiori potrebbe aumentare del 10%. La California produce circa l'80% delle mandorle del mondo, con una produzione che è più che raddoppiata dalle 912 milioni di libbre del 2006 alle 1,88 milioni di libbre dello scorso anno. Con una domanda globale di mandorle in pieno boom, specialmente in Asia, la siccità della California è probabile che abbia un impatto negativo sui prezzi delle mandorle nel mondo. Mentre i mandorli non sono l'ideale per il clima già secco della California e richiedono un'irrigazione significativa, l'industria ha messo radici e sarà costretta ad adattarsi a qualsiasi condizione di coltura ci sarà in futuro.

venerdì 21 marzo 2014

La bolla scientifica e tecnologica


Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR


di Antonio Turiel


Cari lettori,

qualche mese fa Tasio Urra mi ha inviato questo saggio. In questo periodo lo ha pubblicato su Attac e ripubblicato su Rebelión, oltre all'apparizione su altri media. Tasio mi ha chiesto di ripubblicarlo anche qui per migliorarne la diffusione e per la sua rilevanza in questo contesto. Di sicuro non vi lascerà indifferenti.

Saluti.
AMT

La bolla scientifica e tecnologica: mercificazione, controllo della conoscenza e opportunismo...

Di Jokin_Zabal@

Jokin_Zabal@ è l'alter ego di José Anastasio Urra Urbieta, docente ordinario di gestione aziendale all'Università di Valencia, membro di ATTAC País Valencià, delegato sindacale del CGT e autore del libro “Le bugie della crisi... Un aneddoto del cyberspazio?, di Jokin_Zabal@” (http://www.attacpv.org/public/www/web3/images/file/LasMentirasDeLaCrisis.pdf).

Colpisce il fatto di verificare la generalizzazione delle istituzioni mondiali e delle persone che intonano il mantra della crescita economica, senza tuttavia considerare le restrizioni fisiche di tale crescita in una biosfera finita e limitata, come soluzione a tutti i mali socioeconomici del nostro tempo, dagli imprenditori, ai governi, ai politici, a tutti gli elettori di tutte le tendenze politiche in tutti i territori, passando per il principali sindacati maggioritari. Né risulta meno stupefacente il numero crescente di istituzioni e persone che, di fronte ai problemi socioeconomici ed ecologici che stiamo attraversando, confida quasi ciecamente, in vere e proprie manifestazioni di fede, nella scienza, nel sapere e nella tecnologia come motori di questa crescita e pietre filosofali di fronte a tutte le avversità e le sfide.

Tuttavia, se consideriamo le grandi sfide che abbiamo di fronte, il cambiamento climatico antropogenico, il sovraccarico degli ecosistemi e la crisi energetica e, allo stesso tempo, allo stato attuale della scienza, del sapere e della tecnologia, siamo fregati. Doppiamente fregati.

Senza nemmeno entrare nella valutazione delle restrizioni che il cambiamento climatico antropogenico o il sovraccarico degli ecosistemi stanno già introducendo nel nostro pianeta, e che aumenteranno soltanto nei prossimi decenni, la IEA come è risaputo, o dovrebbe esserlo, ha esplicitamente riconosciuto per la prima volta nel suo rapporto World Energy Outlook de 2010 che il “picco” mondiale del petrolio, o il momento a partire dal quale il petrolio comincia irreversibilmente a declinare, è avvenuto nel 2006. Nel World Energy Outlook de 2013, la IEA afferma già che, in assenza di ulteriori investimenti [sic], nel 2035 dovremo “arrangiarci” con una produzione di petrolio di uno scarso 18% della disponibilità attuale, che tocca i 75 Mb/g. Considerare il cambiamento climatico che abbiamo già provocato, la pressione ecologicamente insopportabile del nostro modello di sviluppo economico sugli ecosistemi e il “picco” del petrolio, come stiamo facendo, presuppone di accettare il fatto che siamo fregati, visto che con tali restrizioni e scarse possibilità di sostituzione energetica molte cose devono cambiare un pochissimo tempo perché nel giro di pochi anni possiamo organizzarci socio-economicamente senza cadere in un collasso di civiltà, peraltro già iniziato, insormontabile.

Ma se di fronte alla realtà di tale scenario consideriamo in più lo stato attuale della scienza, del sapere e della tecnologia, siamo fregati due volte. Lo siamo già perché la scienza, il sapere e la tecnologia, che sono gli strumenti sui quali potrebbe, e dovrebbe, fare leva il formidabile cambiamento senza precedenti che abbiamo di fronte, attualmente sono controllati politicamente, mercificati e presi da un opportunismo grave, si prostituiscono al Business As Usual, o al “più della stessa cosa che ci ha portato sin qui” e che ha generato una bolla scientifica e tecnologica simile alla bolla economica e finanziaria che già conosciamo, che in un futuro non lontano molto probabilmente può solo scoppiare.

Le recenti dichiarazioni del professor Andre Geim dell'Università di Manchester – vincitore del Nobel per la Fisica nel 2010 per la sua scoperta del grafene, materiale tanto di moda – vanno in questa direzione, quando ci avverte che “Temiamo, temiamo molto, la crisi tecnologica” in cui ci siamo cacciati negli ultimi decenni. In occasione della celebrazione del Forum Economico Mondiale del 2012 di Davos, Geim descrive come la crescente mercificazione della conoscenza scientifica e la ricerca del profitto rapido a detrimento della ricerca scientifica pura, o di base, durante gli ultimi decenni ci abbiano portato ad una riduzione allarmante, e con implicazioni gravi, del tasso mondiale di scoperte scientifiche.

Sfortunatamente, sono brutte notizie ma non nuove. Nel 2005, in uno degli studi di maggior portata sull'evoluzione mondiale della tecnologia, sorprendentemente poco divulgato, pubblicato in una delle principali riviste accademiche mondiali sulla tecnologia e gli affari,  uno scienziato indipendente, Jonathan Huebner, Fisico per l'esattezza, ha dimostrato con un alto grado di certezza, come riflette la figura allegata a queste frasi, che l'innovazione tecnologica radicale, quella che ha un grande impatto socioeconomico capace di produrre pietre miliari nello sviluppo e nel progresso dell'umanità, ha raggiunto il suo “picco” nel 1873 [sic], anno dal quale il tasso mondiale di di innovazione radicale non ha mai smesso di declinare. Evidentemente, questi risultati non sono per niente piaciuti in determinati circoli vicini all'industria e i risultati di Huebner hanno subito il tentativo di messa in discussione dal momento della pubblicazione, anche se con poco successo. Se fossero veri e coerenti, come sembra, l'esperienza e l'intuizione di Andre Geim arriverebbe soltanto a ratificare una tendenza abbastanza più pesante di soli “pochi decenni”.


Se lo scenario descritto da tali ricerche e casistica non fosse sufficientemente grigio, un numero crescente di scienziati e intellettuali si avvicinano, sempre di più, a questa prospettiva della nostra realtà, andando anche più il là facendo un'ipotesi più opprimente: non si tratta solo del fatto che il tasso di scoperta scientifica sia diminuito, e che sia pertanto minore, ma che la quantità assoluta di progresso scientifico nel suo insieme può essere inferiore nella misura in cui trascendiamo nel tempo. E' l'ipotesi che fondamentalmente mantengono e argomentano il medico e professore di psichiatria evolutiva all'Università di Newcastle, Bruce Charlton o l'analista di sistemi cibernetici e programmatore di software Anthony Burgoyne, fra gli altri, oltre ad offrirci innumerevoli chiavi e tracce su come siamo arrivati a questa situazione.

Secondo Charlton, la chiave si trova, di nuovo, in una mercificazione della conoscenza scientifica che ha incentivato un “professionalizzazione” della scienza e del lavoro scientifico e generato un opportunismo collettivo che ha portato a convertire in “cartamoneta” la pubblicazione di articoli irrilevanti sulle riviste accademiche, confondendo collettivamente la vera crescita della conoscenza e progresso scientifico con una mera espansione di “chiacchiere e cose senza valore” [sic].

Questa stessa cosa è quello che alcuni di noi stanno presenziando, osservando e denunciando nel nostro contesto nazionale, sopportando da vicino, a volte, l'opportunismo e l'arroganza di molti il cui unico fine sembra farsi una posizione di carriera universitaria e/o politica e di una grande maggioranza che aspira semplicemente a conservare o migliorare il proprio status quo. Mentre si riduce il finanziamento all'università e ai centri di ricerca pubblici, come il CSIC, fiore all'occhiello della nostra ricerca, si gratificano le università private, che hanno una capacità di ricerca praticamente nulla e approfittano dei tagli per concedere un ruolo ancora più determinate in tutta l'attività universitaria alla valutazione dell'attività di ricerca del personale universitario, che in Spagna viene fatto da anni medianti i cosiddetti sessenni (complementi salariali che sono nati per retribuire la produttività della ricerca e che hanno finito per diventare in misura della sua “qualità”, requisito di promozione e sviluppo di carriera) ed i procedimenti di accreditamento che porta a termine l'ANECA (Agenzia Nazionale di Valutazione della Qualità e dell'Accreditamento)  e le agenzie di valutazione autonome.

In parole povere, sono completamente a favore che si valuti l'attività di insegnamento e quella di ricerca degli universitari e degli scienziati, funzionari o meno, ma non che detta valutazione si converta in un elemento di controllo politico oscuro e discrezionale che incentivi e legittimi il “si salvi chi può” e che castighi chiunque la cui motivazione sia prima di tutto il mero piacere della scoperta scientifica e il progresso della scienza, oltre il valore economico immediato o la “convenienza” dei risultati della ricerca.

Oltre a contribuire ad una enorme bolla dalle conseguenza prevedibili, tale controllo politico, mercificazione e perversione della scienza e del progresso scientifico produce dei paradossi significativi. Come osserva il professor Juan Torres, la ricercatrice Saskia Sassen, che ha ricevuto di recente il Premio Principe delle Asturie di Scienza Sociale, una delle scienziate più importanti della nostra epoca, non ha ottenuto nessun sessennio, nessun accreditamento, di fronte ai criteri delle nostre agenzie di valutazione, che antepongono sempre lo stesso criterio, le pubblicazioni JCR (Journal Citation Reports) negli ultimi 5 anni. La Sassen non ne ha nessuna, ma ha pubblicato libri e saggi, frutto di progetti di ricerca veri e referenze fondamentali per accademici compromessi ed ha pubblicato numerosi articoli su media di grande diffusione, ma ha resistito alla pratica di il suo curriculum con articoli standardizzati senza interesse né lettori al di là dei circoli di amici che si citano reciprocamente e cattedratici con insaziabili ansie di farsi una posizione a qualsiasi prezzo.

Ma, quando la bolla scientifica scoppierà, cosa resterà dopo l'esplosione? Come afferma il professor Charlton, magari solo la vecchia scienza, quella di un'era nella quale la maggioranza degli scienziati erano almeno onesti nel cercare di scoprire la verità sul mondo naturale. Nel migliore dei casi potremmo subire un regresso scientifico di vari decenni più che di qualche anno, ma probabilmente è molto peggio di così...