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lunedì 5 gennaio 2015

Il picco dell'unica risorsa della quale non possiamo assolutamente fare a meno (e non è il petrolio)

Da “trust.org”. Traduzione di MR

Rimangono solo 60 anni di agricoltura se il degrado del suolo continua
 
Di Chris Arsenault



I funzionari del locale Ufficio per la Conservazione dell'Acqua camminano ai margini di un deserto in cui è stata piantata erba per prevenire la desertificazione. Contea di Mingin, nordest della provincia Gansu  in Cina, 8 dicembre 2010. REUTERS/Stringer

Roma (Thomson Reuters Foundation) – Generare tre centimetri di suolo richiede 1.000 anni e se gli attuali tassi di degrado continuano, tutto il suolo mondiale potrebbe scomparire entro 60 anni, ha detto venerdì un alto funzionario dell'ONU. Circa un terzo del suolo mondiale è stato già degradato, ha detto Maria-Helena Semedo della FAO ad un forum che contrassegnava la Giornata Mondiale del Suolo. Le cause della distruzione del suolo comprendono le pesanti tecniche di agricoltura chimica, la deforestazione che aumenta l'erosione e il riscaldamento globale. La Terra sotto i nostri piedi viene troppo spesso ignorata dai politici, dicono gli esperti.

“I suoli sono la base della vita”, ha detto Semedo, vice direttore generale della FAO delle risorse naturali. “Il 95% del nostro cibo proviene dal suolo”. A meno che non vengano adottati nuovi approcci, la quantità globale di terra coltivabile e produttiva per persona nel 2050 sarà solo un quarto del livello del 1960, ha detto la FAO, a causa della crescita delle popolazioni e del degrado del suolo. I suoli giocano un ruolo chiave nell'assorbire carbonio e nel filtrare l'acqua, ha detto la FAO. La distruzione del suolo crea un circolo vizioso, in cui viene immagazzinato meno carbonio, il mondo si riscalda e la terra si degrada ulteriormente. “Stiamo perdendo 30 campi di calcio al minuto di suolo, principalmente a causa dell'agricoltura intensiva”, ha detto Volkert Engelsman, un attivista della Federazione Internazionale dei Movimenti per l'Agricoltura Biologica al forum nel quartier generale della FAO a Roma. “L'agricoltura biologica potrebbe non essere la sola soluzione, ma è la migliore opzione a cui possa pensare”.

lunedì 9 giugno 2014

Il CO2 non fa necessariamente bene alle piante

Da “BBC News”. Traduzione di MR (h/t Nicola Caporaso). 

Di Matt McGrath


Il contenuto di nutrienti delle grandi colture come il grano viene probabilmente ridotto dall'aumento delle temperature

L'aumento dei livelli di CO2 nel mondo avrà un impatto significativo sul contenuto di nutrienti, secondo un nuovo studio. 

Gli esperimenti mostrano che è probabile che i livelli di zinco, ferro e proteine vengano ridotti fino al 10% nel grano e nel riso per il 2050. Gli scienziati dicono che questo potrebbe avere implicazioni sulla salute per miliardi di persone, specialmente nel mondo in via di sviluppo. Il rapporto è stato pubblicato sulla rivista Nature. I ricercatori negli ultimi due decenni si sono sforzati per progettare sperimentazioni sul campo su larga scala per modellare con precisione gli impatti dell'aumento dei livelli di CO2 nella composizione dei nutrienti delle colture. Ora, una squadra internazionale ha messo insieme un'analisi globale basata su esperimenti in Giappone, Australia e Stati Uniti. Hanno coltivato 41 diverse varietà di cereali e legumi in campo aperto, coi livelli di biossido di carbonio attesi per la metà di questo secolo. “Probabilmente è la più significativa minaccia alla salute che sia stata documentata da parte del cambiamento climatico”, ha detto l'autore principale, il dottor Samuel Myers della Scuola di Salute Pubblica di Harvard. “Abbiamo scoperto riduzioni significative di ferro, zinco e proteine nel riso e nel grano ed abbiamo scoperto riduzioni significative di ferro e zinco nella soia e anche nei piselli”, ha detto.

     Scala degli impatti
     Livelli di CO2 di 546-568 ppm ridurrebbero i nutrienti nei cereali e nei legumi delle quantità seguenti:
  • Grano: zinco -9,3%; ferro -5,1%; proteine -6,3%
  • Riso: zinco -3,3%; ferro -5,2%; proteine -7,8%
  • Piselli: zinco -6.8%; ferro -4,1%; proteine -2,1%
  • Soia: zinco -5,1%; ferro -4,1%; proteine -4,6%
  • Nessuna riduzione significativa per mais e sorgo

I ricercatori stimano che queste riduzioni che raggiungono il 10% potrebbero avere grandi conseguenze per la salute di milioni di persone nel mondo. Circa un terzo della popolazione globale sta già soffrendo di carenze di ferro e zinco, che portano come conseguenza alla perdita di circa 63 milioni di anni di vita ogni anno. “Abbiamo scoperto che circa 2 miliardi di persone stanno assumendo almeno il 70% del loro ferro e zinco da questi cereali e legumi. Quindi le riduzioni in queste colture sono potenzialmente molto preoccupanti in termini di aumento di quelle deficienze”, ha detto il dottor Myers. Mangiare più cibo per compensare queste riduzioni dei nutrienti non sarebbe una buona soluzione, ha detto. “Il problema è che se si mangiano il 5-10% di calorie in più ogni giorno, sarebbe questione di mesi il fatto di diventare patologicamente obesi, incorrendo in problemi circa le malattie metaboliche”. 


Diverse varietà di riso hanno reagito diversamente al CO2, dando la speranza che si possano sviluppare nuove razze che non perdano i propri nutrienti

Gli scienziati non sono sicuri del meccanismo attraverso il quale i livelli di biossido di carbonio di circa 550 ppm limitino i nutrienti delle colture. Si pensa che le colture sostituiscano i nutrienti coi carboidrati nel momento in cui il gas aumenta. Ma la nuova ricerca è stata incoerente su questo punto. 

Difficoltà di riproduzione

Gli autori hanno scoperto che in alcune specie come il riso ci sono considerevoli differenze nella risposta al CO2 che fa loro sperare di superare queste riduzioni. “Ciò che ipotizziamo è che ciò potrebbe costituire una base per programmi di riproduzione per produrre riso che sia meno sensibile al CO2. Non stiamo dimostrando che questo sia possibile, ma stiamo solo dicendo che potrebbe esserci una base genetica per farlo”, ha detto il dottor Myers. “Questi programmi di riproduzione sono tutti buoni sulla carta, ma non si possono produrre dei cultivar che magari riduce il rendimento, o non ha un buon sapore. E' complicato”. L'impatto del carbonio sul livello dei nutrienti è un altro colpo alla produzione globale di cibo. Secondo l'IPCC, i rendimenti delle colture sono destinate anche a soffrire in conseguenza dell'aumento delle temperature. I loro recente riassunto sugli impatti del riscaldamento globale ha dichiarato che la produzione di mais, grano e riso diminuirà nel corso di questo secolo. 

sabato 3 maggio 2014

L'era glaciale che non fu

Da “Real Climate”. Traduzione di MR (h/t Dario Faccini/ASPO-Italia)

 
William Ruddiman è ben noto per la sua interpretazione del clima dell'Olocene. Secondo questa interpretazione, l'effetto serra causato dalle emissioni di metano da parte dell'agricoltura umana abbiano evitato una nuova era glaciale, una nuova manifestazione dei cicli glaciali/interglaciali particolarmente intensi dell'ultimo milione di anni l circa. L'idea di Ruddiman è stata variamente contestata e sembra oggi che non saremmo comunque ripiombati in un'era glaciale a breve scadenza (intesa come nell'arco di un migliaio di anni circa). Tuttavia, l'interpretazione di Ruddiman rimane interessante: è possibile che l'influenza umana sul clima sia stata intensa fin da epoche molto precedenti a quella dei combustibili fossili. L'articolo che segue è del 2011, ma è sempre valido per capire i concetti fondamentali delle idee di Ruddiman


Di William  Ruddiman

Più di 20 anni fa, le analisi delle concentrazioni di gas serra nelle carote di ghiaccio hanno mostrato che la tendenza al ribasso di CO2 e CH4 che è cominciata circa 10.000 anni fa ha successivamente invertito la direzione ed è aumentata stabilmente durante le ultime migliaia di anni. Le diverse spiegazioni di questi aumenti hanno invocato o i cambiamenti naturali o le emissioni antropogeniche. Sono state avanzate prove ragionevolmente convincenti pro e contro entrambe le cause e il dibattito è continuato per quasi un decennio. La Figura 1 riassume questi diversi punti di vista.



Un'edizione speciale di agosto della rivista The Holocene aiuterà a far fare un passo avanti a questa discussione. Tutti gli scienziati che hanno partecipato a questo dibattito durante l'ultimi decennio sono stati invitati a contribuire al volume. L'elenco degli invitati era ben equilibrato fra i due punti di vista, entrambi i quali sono ben rappresentati nell'edizione. I saggi hanno recentemente iniziato ad essere disponibili online, sfortunatamente a pagamento. Probabilmente, la nuova visione più significativa che emerge da questa pubblicazione proviene da diversi saggi che convergono su una visione dell'uso preindustriale del suolo che è molto diversa da quella che ha prevalso fino a poco tempo fa. Gran parte delle simulazioni dei modelli precedenti si affidavano sull'assunto semplificante che la deforestazione e la coltivazione fossero rimasti minimi e quasi costanti durante il tardo Olocene, ma i dati storici ed archeologici ora rivelano un uso del suolo precedente pro capite molto maggiore di quello usato in questi modelli. L'emergenza di questo punto di vista è stato riportato in diverse presentazioni alla Conferenza di Chapman nel marzo 2011 e ed ha attratto l'attenzione si di Nature sia di Science News. L'articolo che segue riassume questa nuova prova.

I dati storici sull'uso del suolo che risalgono circa fino a 2000 anni fa esistono per due regioni – Europa e Cina. In un saggio del 2009, Jed Kaplan e i suoi colleghi hanno riportato prove che mostrano una deforestazione quasi completa in Europa ad una gamma media di densità di popolazione, ma una deforestazione aggiuntiva molto limitata a densità di popolazione maggiori. Incorporato in questo rapporto storico c'era una tendenza da una deforestazione pro capite molto maggiore 2000 anni fa a valori molto minori nei secoli recenti. Analogamente, un'edizione speciale di Holocene di Ruddiman e colleghi ha indicato uno studio pionieristico dell'agricoltura delle origini in Cina pubblicato nel 1937 J. L. Buck. Accoppiato a stime di popolazione ragionevolmente ben limitate che risalgono alla dinastia Han di 200 anni fa, questi dati mostrano una diminuzione di quattro volte dell'area di suolo coltivata pro capite in Cina da quel tempo al 1800.

Queste due rivalutazioni dell'uso pro capite di suolo hanno implicazioni importanti per le emissioni globali di carbonio preindustriali. Un saggio in edizione speciale di Kaplan e colleghi ha usato i rapporti storici dall'Europa per stimare la deforestazione mondiale, con necessità pro capite di suolo inferiori nelle regioni tropicali a causa della più lunga stagione agricola che permette raccolti multipli su base annuale. Il loro modello ha simulato grandi abbattimenti di foresta migliaia di anni fa non solo in Europa e Cina, ma anche in India, Mezzaluna Fertile, Africa saheliana, Messico e Perù. Lo schema di deforestazione è mostrato bene in una sequenza temporale disponibile nell'articolo di Science News citato sopra. Kaplan e colleghi hanno stimato emissioni cumulative di carbonio di ~340 GtC (1 Gt = miliardi di tonnellate) prima che l'aumento del CO2 dell'era industriale iniziasse nel 1850. Questa stima è da 5 a 7 volte maggiore di quelle basate sull'assunto che i primi agricoltori abbattevano foreste e coltivavano il suolo in piccole quantità pro capite tipiche dei secoli recenti.

Su scale temporali di millenni, circa l'85% delle emissioni di CO2 in atmosfera sono finite nella profondità degli oceani. Di conseguenza, le 340 Gt stimate da Kaplan delle antiche emissioni di carbonio antropogenico in atmosfera sarebbero risultate in un aumento totale di CO2 preindustriale di ~24 ppm (340 Gt diviso per 14.2 Gt per ppm). Riamane tuttavia un disallineamento nella tempistica fra il primo aumento della tendenza delle carote di ghiaccio e l'aumento successivo della stima delle emissioni di carbonio di Kaplan. Una possibilità che viene attualmente investigata da Kaplan e colleghi è una maggiore pratica pro capite dell'incendio di foreste da parte di primi agricoltori (e di quelle culture che erano ancora cacciatori-raccoglitori).


Una storia analoga di diminuzione dell'uso pro capite di suolo vale anche per la pratiche agricole che generano metano. Il saggio di Ruddiman e colleghi cita uno studio del 1977 di Ellis e Wang su Agricultura, Ecosistemi e Ambiente (61: 177-193) che riporta una diminuzione quadrupla dal 1000 al 1800 DC nella dimensione delle risaie pro capite nella bassa valle del fiume Yangtze. A causa della crescita della popolazione in corso e della mancanza di suolo coltivabile addizionale, gli agricoltori sono stati costretti a produrre riso in proprietà terriere sempre più piccole, che ha portato alla tipica agricoltura cinese “a giardino”. Per scale temporali più lunghe, un articolo in via di pubblicazione di Fuller e colleghi sul “Contributo della coltura del riso e dell'allevamento ai livelli di metano preistorici: una valutazione archeologica” ha assemblato prove archeologiche da centinaia di siti ben datati che mostra la diffusione dell'irrigazione del riso nell'Asia meridionale fra 5000 e 1000 anni fa . Sulla base di relazioni regionali moderne, hanno ipotizzato che la coltura del riso in ogni regione si è successivamente riempita col logaritmo della densità di popolazione. Combinando il primo arrivo del riso e il successivo riempimento, Fuller e colleghi hanno proiettato l'aumento progressivo dell'area totale dell'Asia meridionale dedicata al riso.

La loro stima ha mostrato una tendenza esponenziale all'aumento dell'area totale che ha raggiunto più del 35% dei valori moderni di 1000 anni fa, anche se la popolazione nelle aree che coltivavano riso a quel tempo era solo il 5-6% dei livelli moderni. Questo disallineamento indica ancora una volta un uso di suolo pro capite molto più grande all'inizio dell'era storica che nell'ultimo periodo preindustriale. Secondo questa analisi, l'aumento di emissioni di CH4 dall'irrigazione del riso può contare per gran parte dell'aumento di CH4 misurato nelle carote di ghiaccio fra 5000 e 1000 anni fa. Fuller e colleghi hanno anche mappato il primo arrivo di bestiame addomesticato in Asia e in Africa e hanno scoperto che è iniziata una grande espansione della pastorizia nelle aree umide con grandi capacità di carico 5000 anni fa. Hanno osservato che questa diffusione di bestiame avrebbe anche dato un grande contributo alle emissioni ed alle concentrazioni atmosferiche di metano antropogenico, ma non hanno provato a valutarne la quantità.

Le prove in tutti questi saggi recenti convergono verso la stessa conclusione: l'ipotesi semplicistica di un uso costante di suolo pro capite da parte di gran parte dei modelli di studio precedenti ha ignorato sia i dati storici sia la vasta gamma di prove contrarie assemblate dagli scienziati in archeologia e in discipline collegate che fanno il lavoro sporco sul campo necessario per svelare la vera storia degli effetti umani sul suolo. Questo punto di vista basato sul campo è stato sintetizzato molto tempo fa dal lavoro seminale di Ester Boserup dagli anni 60 agli anni 80. La Boserup ha concluso che la grande diminuzione dell'uso di suolo pro capite dal medio al tardo Olocene è avvenuto perché la crescita della popolazione e le usurpazioni dei vicini hanno costretto gli agricoltori a trovare nuovi metodi per produrre cibo per le proprie famiglie con sempre meno terra. Questi saggi nel numero speciale rendono chiaro che i tentativi futuri di modellare l'uso di suolo del passato dovrebbero evitare l'assunto di coltivazione e deforestazione pro capite costante e ridotto.

Questo punto di vista emergente porta una discussione attuale rispetto a se designare o no in intervallo di “Antropocene” (un tempo di grande influenza umana sul sistema terrestre) e, se sì, dove porre il suo inizio. Anche se l'opinione prevalente sembra a favore dell'uso dell'era industriale (gli ultimi due secoli o meno) come inizio, queste nuove prove offrono una prospettiva diversa. L'abbattimento di foreste per la coltivazione e il pascolo sono la più grande trasformazione della superficie della Terra che sia mai avvenuta finora. Se ben oltre metà di questa trasformazione chiave è avvenuta prima dell'era industriale, allora si può discutere per piazzare l'inizio dell'antropocene in un tempo precedente. Una possibile soluzione sarebbe designare due fasi: un “primo antropocene” (un tempo si trasformazioni lente ma crescenti che è cominciato 7000 anni fa per il CO2 e 5000 anni fa per il CH4) ed un “tardo antropocene” per segnare i molti cambiamenti accelerati dell'era industriale.

Altri saggi dell'edizione speciale puntano a loro volta ad una interpretazione rivista di un tipo di prova collegato che si dirige verso una antica deforestazione – le analisi meticolose della composizione degli isotopi di carbonio del CO2 nelle bolle d'aria delle carote di ghiaccio del gruppo di Berna. Elsig et al. in un articolo del 2009 su Nature hanno concluso che la piccola (~0.05o/oo) ampiezza della diminuzione di δ13CO2  durante gli ultimi 7000 anni limita le emissioni nette di carbonio terrestre a ~50 GtC (una Gt è un miliardo di tonnellate), se pienamente bilanciate con l'oceano profondo. Come parte dell'equilibrio da loro proposto di varie sorgenti e pozzi di carbonio, hanno stimato un contributo antropogenico di ~50 GtC alla tendenza del δ13CO2, equivalente ad un aumento di CO2 di 3,5 ppm.

Ma il calcolo dell'equilibrio della massa in Elsig et al. implicava l'ipotesi discutibile che solo 40 Gt di carbonio siano state sepolte nelle torbiere boreali durante gli ultimi 7000 anni, mentre questo valore si trova ben al di sotto di una stima molto rispettata di 300 GtC di  Eville Gorham (vedi, Applicazioni Ecologiche 1: 182-195, 1991; Gajewski et al., Cicli Biogeochimici Globali 15: 297-310; 2001). Una nuova analisi di Zicheng Yu nel numero speciale prende in considerazione sia il seppellimento iniziale della torba sia, per la prima volta in uno studio, la successiva decomposizione e il rilascio della torba dopo il seppellimento. Yu giunge ad una stima di un seppellimento di ~300 Gt di carbonio in torba durante gli ultimi 7000 anni. Questo valore molto più alto (~300 GtC contro 40 GtC) richiede emissioni di compensazione molto più grandi di carbonio terrestre per soddisfare il limite complessivo di δ13CO2, ma il carbonio aggiuntivo è improbabile che sia venuto da fonti naturali. Gli studi dei modelli hanno, in media, posto l'equilibrio netto del carbonio causato da cambiamenti naturali nella vegetazione monsonica e nella fertilizzazione del carbonio vicino alla dimensione di 30 Gt stimate da Elsig e colleghi. Questi cambiamenti non valgono per le emissioni necessarie per compensare la quantità molto più grande di carbonio sepolta sotto forma di torba.

La sola fonte rimasta è l'emissione antropogenica. La stima risultante di >300 GtC di emissioni antropogeniche preindustriali è della stessa quantità della stima di simulazione di uso di suolo di Kaplan e colleghi. Se le prime (Gorham) e le più recenti (Yu) stime del grande seppellimento di carbonio nella torba boreale sono corrette, la piccola tendenza negativa del  δ13CO2 durante gli ultimi 7000 anni non è un argomento contro la prima impotesi antropogenica, ma piuttosto un argomento in suo favore. Le due stime di un aumento del CO2 antropogenico preindustriale di 24 ppm sono molto più grandi delle stime precedenti di 3-5 ppm, ma ancora inferiori ai 40 ppm proposti nella prima ipotesi antropogenica. Tuttavia, un altro fattore che avrebbe contribuito al totale antropogenico preindustriale è stata la retroazione di CO2 da parte di un oceano mantenuto caldo dalle emissioni agricole di CO2 e CH4 nell'atmosfera. Un saggio di Kutzbach e colleghi nell'edizione speciale stima un contributo di 9 ppm da parte della ridotta solubilità del CO2 in un oceano riscaldato dalle prime emissioni antropogeniche di CO2 e Ch4 nell'atmosfera. Questa ed altre possibili retroazioni da parte dell'oceano, pongono l'effetto totale del CO2 preindustriale a >30 ppm, più prossimo ai 40 ppm dell'ipotesi originaria.

Diversi saggi dell'edizione speciale continuano a favorire una spiegazione naturale per le tendenze di CO2 e CH4 del terdo Olocene, quindi il dibattito non è concluso. Tuttavia, le nuove prove indicano la strada verso tre vie di esplorazione che promettono di darci una risoluzione di questo problema: (1) investigazione più accurata delle registrazioni storiche dell'uso del suolo preindustriale; (2) lavoro archeologico supplementare per riempire i vuoti nella copertura spazio/temporale della diffusione dell'agricoltura e (3) ulteriore lavoro di modellazione per trasformare i dati storici ed archeologici in stime quantitative degli effetti della prima agricoltura sulle concentrazioni atmosferiche di CO2 e CH4.

- Altro su: http://www.realclimate.org/index.php/archives/2011/04/an-emerging-view-on-early-land-use#sthash.ZPt1mSwl.dpuf 


sabato 12 aprile 2014

Chimica delle radici ed altre storie.




Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.


In un post recente avevo sottolineato l’importanza dei diversi meccanismi di retroazione nel controllo del clima; in particolare mi ero soffermato sul fatto che a diverse scale di tempo il loro ruolo può essere positivo o negativo, tendere cioè a destabilizzare o a stabilizzare la situazione esistente. Uno dei più importanti meccanismi di retroazione negativa sul lungo periodo è il cosiddetto “weathering dei silicati” ossia la dissoluzione, la erosione dei silicati ad opera dei vari meccanismi in azione in atmosfera e in biosfera (per esempio l’azione dell’acido carbonico ma anche degli acidi e delle sostanze con azione lisciviante e corrosiva  prodotti da organismi e microorganismi).
La degradazione dei silicati è un sistema complesso di reazioni che ha molteplici effetti fra i quali i più notevoli sono l’estrazione di alcuni ioni dalle rocce (il cosiddetto “meccanismo del caffè”) con la modifica della composizione delle acque superficiali, la formazione del terreno oppure la determinazione di colori dominanti del paesaggio tramite gli effetti delle reazioni che vi si verificano (vi siete mai chiesti per esempio perché i deserti abbiano una dominante rossa? Una risposta possibile è che abbiamo ad un certo punto subito un processo di lisciviazione della silice che lascia dietro di se maggiori quantità relative di ossidi di ferro, anche se credo che il meccanismo esatto possa essere più complesso).
fig7radici
uby.colorado.edu/~smyth/G1010/16Weathering.pdf
Dal punto di vista che mi interessa qui sottolineare il risultato complessivo di questi processi, che sono ripeto estremamente complessi ed affascinanti[si veda qui e qui], potrebbe essere descritto come l’assorbimento della CO2 atmosferica, qualcosa come**:
fig2radici
Una descrizione approfondita e per certi versi poetica di questa reazione e dei suoi effetti la potete trovare sul blog di un nostro collega di UniFi, Ugo Bardi, che penso sia conosciuto da molti di voi per i suoi libri sul petrolio e la ricerca minerale e per averci fatto conoscere il picco del petrolio e averci ricordato l’importanza di Limits to growth, (e non ultimo per aver fondato ASPO Italia); attualmente Ugo ha un blog molto bello che vi segnalo. Colgo anche l’occasione di ringraziarlo per quello che ho imparato da lui.
Ebbene in un lavoro recentissimo pubblicato su Geophysical Research Letters (Doughty, C. E., L. L. Taylor, C. A. J. Girardin, Y. Malhi, and D. J. Beerling (2014), Cenozoic global change possibly stabilized by montane forest root growth and soil organic layer depth, Geophys. Res. Lett., 41, doi:10.1002/ 2013GL058737.) che potete scaricare da http://www.yadvindermalhi.org/uploads/1/8/7/6/18767612/doughty_2014_montane_roots.pdf
Doughty e collaboratori hanno scoperto una cosa affascinante e che getta nuova luce sul ruolo delle foreste; avrete capito dai miei post che io sono affascinato dagli alberi come vi ho raccontato di recente (http://ilblogdellasci.wordpress.com/brevissime/grandi-alberi/), ma se mi seguirete fino alla fine ne sarete affascinati anche voi.

Dice Doughty:
Si crede che le radici degli alberi e I loro partners simbiotici fungini giochino un importante ruolo nella regolazione climatica a lungo termine, ma le retroazioni fra la temperatura globale e la erosione biotica non sono ancora state esplorate in dettaglio. Dati raccolti sul campo in una sezione di foresta che parte da 3000 m in Perù mostrano che la crescita delle radici più sottili diminuisce mentre lo spessore di frazione organica del suolo aumenta con la riduzione delle temperature che prevale a maggiore altezza. Noi facciamo l’ipotesi che questa osservazione possa suggerire una retroazione negativa: quando la temperatura globale aumenta lo strato più organico del suolo si contrae e un maggior numero di radici sottili aggrediscono lo strato minerale, accelerando così la erosione e riducendo la  CO2 atmosferica. Il nostro esame di questo fenomeno attraverso un modello di erosione biologica  mostra che questa retroazione negativa potrebbe aver contribuito a controllare il clima durante tutto il Cenozoico specie in occasione dei maggiori degassamenti vulcanici e degli eventi tettonici maggiori di emersione.

In pratica il meccanismo che viene illustrato dalla seguente immagine tratta dalla fig. 1  del lavoro di Doughty e collaboratori, potrebbe aver funzionato per tutto il Cenozoico, ossia per gli ultimi 65 milioni di anni, dopo la caduta del meteorite che distrusse il dominio dei dinosauri e aprì la strada a noi mammiferi, e ci avrebbe quindi accompagnato fin dalle nostre origini.
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In pratica le radici e le loro reazioni acide, tramite le quali esse aggrediscono la roccia e ne facilitano la trasformazione in suolo “organico” (ovviamente non in modo diretto ma facilitando attraverso la disgregazione della roccia un ambiente adatto alla esistenza di organismi e microorganismi) sarebbero parte di una sorta di gigantesco termostato planetario; pensate allora quale enorme danno abbiamo fatto al pianeta e alla biosfera tramite la indiscriminata distruzione della foresta attraverso secoli di sviluppo agricolo e industriale; abbiamo praticamente ridimensionato enormemente un meccanismo di controllo fondamentale senza sostituirlo con nient’altro.
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Se le cose stanno così la sostituzione del ciclo agricolo a quello della foresta ha certamente messo in crisi il termostato da almeno 8-10.000 anni e la cosa si è aggravata negli ultimi 250 anni; certo oggi ce ne siamo accorti, ma ancora non abbiamo trovato un utile sostituto; pensate voi che l’uso dei concimi sintetici con tutto il ciclo della loro produzione possa sostituire un meccanismo così finemente cesellato?
Il rapporto fra suolo organico ed inorganico disegnato da questo complesso meccanismo, il ruolo di mediazione delle ife fungine, la simbiosi vegetale che si determina, potrebbe mai confrontarsi con la produzione di concimi che ha come solo obiettivo la crescita indiscriminata e il profitto crescente e come conseguenza un enorme consumo di energia con conseguente inquinamento da gas serra e sottoprodotti di scarto? In pratica abbiamo distrutto un termostato planetario e l’abbiamo sostituito (dato il consumo energetico e la conseguente massa di gas serra prodotti) con una stufa planetaria anche un po’ sporca, con lo scopo di dare supporto alla crescita di una sola specie, la nostra? Voi che ne dite?

Nota: dato che il metabolismo basale dell’uomo è di circa 100W, si può stimare che in un anno l’umanità dissipi a questo scopo almeno 2×1019J; il consumo energetico primario totale è dell’ordine di 50×1019J; da qui risulterebbe circa il 4% del totale dedicato al cibo, anzi considerando che una parte notevole viene direttamente dalla fotosintesi, la percentuale dovrebbe essere perfino di meno. Ma si stima che in realtà, in un paese avanzato come l’Italia,  circa il 15-18% dell’energia primaria sia devoluto a questo scopo, a causa dell’impatto dei metodi di produzione e conservazione, quindi molto di più; riflettiamoci. (http://www.fosan.it/articolo/108_lca_alimentazione_stima_del_consumo_energetico_la_produzione_il_trasporto_e_la_preparaz)

Dati analoghi potete trovare in questo grafico che dà alcuni confronti fra energia solare ed energia fossile immagazzinati in prodotti agricoli:
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Per confronto (ed anche un po’ per provocazione lo confesso) si calcola che il 97% della biomassa totale dei vertebrati sia costituita da uomini e dagli animali che essi direttamente usano a qualunque scopo, alimentare o di compagnia. (Anthropology and Contemporary Human Problems, p. 24  John H. Bodley, 6 ed Altamira Press 2012)
Per approfondire:


** è da sottolinare per evitare incomprensioni specie con persone di estrazione geologica o geochimica che la formula CaSiO3 non indica qui necessariamente la wollanstonite ma un generico silicato, mentre la reazione indicata è la conseguenza NETTA di due processi distinti, uno di dissoluzione dei silicati con assorbimento di due molecole di CO2 ed uno di liberazione di UNA sola molecola di CO2 con la conseguenza che il processo corrisponde al riassorbimento netto di una molecola di CO2; la sequenza di reazioni, che fa parte del ciclo del carbonio sul lungo termine è indicata per esempio qui:
fra gli altri (mi scuso per tutti quelli che non conosco) segnalo i magnifici appunti di geochimica applicata del collega Marini di UniGe.
o le slides che potete trovare su: http://fenzi.dssg.unifi.it/dip/materiali/3101/

Il blog di Ugo Bardi mostra una specifica conferenza tenuta dal nostro collega, ma contiene molti altri articoli interessanti: http://ugobardi.blogspot.it/2012/07/la-grande-reazione-chimica-vita-e-morte.html


giovedì 27 marzo 2014

La potenza è nulla senza controllo: come perdere un impero

Da “Extracted”. Traduzione di MR

Immagine da una campagna pubblicitaria per la Pirelli degli anni 90.

Gli imperi sembrano essere una struttura umana tipica che riappare in continuazione nel corso della storia. Il problema è che gli imperi sono spesso così efficienti che tendono a sfruttare eccessivamente e distruggere anche le risorse teoricamente rinnovabili. Il risultato finale è una cascate distruttiva di retroazioni: non solo l'impero finisce gradualmente le risorse, ma finisce anche la capacità di controllarle, coi due effetti che rinforzano a vicenda. La potenza è niente senza controllo. E, di solito, il controllo sembra finire prima della potenza.

In pratica, gli imperi in difficoltà tendono a frammentarsi in piccoli blocchi indipendenti o staterelli prima di scomparire realmente come sistemi economici. E' il risultato dell'aumento dei costi di controllo, che non corrispondono più al diminuito flusso di risorse. Abbiamo visto questo fenomeno in tempi recenti con la frammentazione e la scomparsa dell'Unione Sovietica. Potremmo vederlo oggi col moderno impero mondiale che chiamiamo “Globalizzazione”. Gli eventi recenti in Ucraina sembrano mostrare che il sistema, infatti, abbia dei problemi nel controllare la propria periferia e potrebbe presto frammentarsi in blocchi indipendenti.

Naturalmente, è ancora troppo presto per dire se ciò cui stiamo assistendo oggi in Ucraina sia solo un'asperità sulla strada o un sintomo di un collasso sistemico imminente. Come al solito, tuttavia, la storia potrebbe essere una guida per capire ciò che si trova davanti a noi. Nel seguente post, esamino il collasso dell'Impero Romano alla luce di considerazioni basate sul controllo e le risorse. Risulta che, anche per quanto riguarda gli antichi Romani, la potenza non fosse nulla senza controllo.


Picco dell'oro: Come i Romani hanno perso il loro impero

Di Ugo Bardi

Un “Aureus” Romano coniato dall'Imperatore Settimo Severo nel 193 DC. Del peso di circa 8 grammi, l'Aureus era davvero una moneta imperiale – la personificazione della ricchezza e della potenza di Roma. (immagine da Wikipedia).

In questo post, sostengo che la moneta in metallo prezioso era un fattore fondamentale che teneva insieme l'Impero Romano e dava ai Romani il loro potere militare. Ma le miniere Romane che producevano oro e argento raggiunsero il picco nel primo secolo DC. E i Romani persero gradualmente la capacità di controllare le proprie risorse. In un certo senso, furono condannati dal “picco dell'oro”. 

Quando ho sentito dire per la prima volta che l'Impero Romano è caduto a causa dell'esaurimento delle sue miniere di argento e oro ero scettico. In confronto alla nostra situazione, in cu affrontiamo l'esaurimento dei combustibili fossili, il caso Romano mi sembrava completamente diverso. Oro e argento non producono energia, non producono niente di utile. Perché quindi l'Impero Romano è caduto a causa di qualcosa che potremmo chiamare “picco dell'oro”?

Eppure, quando ho approfondito l'argomento, ho notato quanto fosse evidente la correlazione della disponibilità in declino di oro e argento col declino dell'Impero Romano. Abbiamo dati scarsi sulla produzione delle miniere Romane, dislocate principalmente in Spagna, ma comunemente si crede che la produzione raggiunse il picco ad un certo momento durante il primo secolo DC (o forse all'inizio del secondo secolo). In seguito, è rapidamente diminuito a quasi zero, anche se l'estrazione mineraria dell'oro non si è mai fermata completamente (1).

Come potete vedere nella figura, la perdita della produzione del prezioso metallo è riflessa nel contenuto di argento della moneta Romana. I Romani non avevano la tecnologia necessaria per stampare banconote, quindi hanno semplicemente deprezzato la loro moneta d'argento, il “denarius” aumentando il suo contenuto di rame. Per la metà del terzo secolo, il denarius era costituito quasi da puro rame: “denaro forzoso”, se ce ne è mai stato uno. Durante quel periodo, le monete d'oro non furono deprezzate, ma scomparirono di fatto dalla circolazione (grafico sopra di Joseph Tainter (2)).

Come ho sostenuto in un post precedente, la scarsità progressiva dei metalli preziosi si collega bene coi vari eventi che ebbero luogo durante la fase di declino dell'impero e con la sua scomparsa finale. Naturalmente, correlazione non significa causazione ma, qui, la correlazione è così forte non si può pensare che sia solo una questione di fortuna. Col tempo, mi è sembrato chiaro che ci fossero collegamenti chiari anche fra diversi fattori nel collasso dell'Impero. 

In generale, i sistemi complessi tendono a crollare in maniera complessa e l'Impero Romano non cadde semplicemente a causa della mancanza della sua fonte primaria di energia che, a quel tempo, era l'agricoltura. Energia (e potenza) sono inutili senza controllo e per i Romani controllare l'energia generata dall'agricoltura richiedeva investimenti di capitale per truppe e burocrazia. Entrambe furono colpite dal declino della produzione di metalli preziosi. Col tempo, la ridotta efficacia militare dell'impero ha distrutto la capacità di controllare il sistema agricolo. Ciò condannò l'Impero al collasso. 

Questa è una storia enormemente complessa che probabilmente non può risolversi in un mero post. Ciononostante, il problema è molto generale e può essere condensato in una singola frase: “La potenza è niente senza controllo”. Quindi, credo sia possibile esporre gli elementi principali dell'interazione fra oro, potenza militare e cibo ai tempi dei Romani in uno spazio relativamente ridotto. Fatemi provare.


I Romani e l'oro

In definitiva, ciò che crea e tiene insieme gli imperi è la forza militare. L'Impero Romano era così grande e di successo perché era, probabilmente, la più grande potenza militare dei tempi antichi. I Romani hanno avuto tanto successo in questo non a causa di particolari innovazioni militari. La ricetta del loro successo era semplice: pagavano i loro combattenti con moneta di metallo prezioso. La tecnologia combinata dell'estrazione dell'oro e del conio di monete aveva consentito ai Romani di creare uno dei primi eserciti regolari della storia. Ancora oggi, chiamiamo i nostri uomini arruolati “soldati”, un termine che deriva dalla parola Romana “Solidus”, il nome della moneta d'oro del tardo impero.

Non solo i soldi possono creare un esercito regolare, possono anche farlo crescere fino a grandi dimensioni. Arruolarsi nelle legioni – la spina dorsale dell'esercito – era privilegio dei cittadini Romani, ma chiunque poteva arruolarsi nelle “auxilia”, le truppe “ausiliarie”. Nella figura vedete “Auxilia” Romani (riconoscibili dagli scudi rotondi) che presentano le teste tagliate dei Daci all'Imperatore Traiano durante la campagna di Dacia del secondo secolo DC. Normalmente i Romani non potevano tagliare le teste ai loro nemici, era una cosa vista come incivile, ma gli “auxilia” erano notoriamente un po' indisciplinati (notate come l'Imperatore, sulla sinistra, li guardi perplesso). Ma, ai tempi delle guerre di Dacia, gli auxilia erano diventati una parte fondamentale dell'esercito Romano e sarebbero rimasti tali per il resto della vita dell'Impero. 

Oro e argento erano elementi essenziali per i Romani nel pagamento delle truppe e questo era particolarmente vero per quelle straniere. Mettetevi nei caligae (sandali) di un combattente germanico. Perché dovreste mettere la vostra framea (lancia) al servizio di Roma se non perché vi pagano? E voleva essere pagati in soldi veri; le monete di rame non venivano accettate. Si volevano le monete d'oro e d'argento che si sapeva potevano essere riscattate ovunque in Europa e in particolare in quel gigantesco emporio di ogni sorta di beni di lusso che era la città di Roma, la più grande del mondo antico. E, a proposito, da dove venivano quegli articoli di lusso? In gran parte erano importati. Seta, avorio, perle, spezie, incenso e molto altro provenivano da India e Cina. Importare quegli articoli non era solo un hobby stravagante per l'élite Romana, era una manifestazione tangibile della potenza e della ricchezza dell'impero, qualcosa che costituiva un fattore importante nel convincere la gente ad arruolarsi nelle auxilia. Ma i cinesi non avrebbero spedito a Roma la seta in cambio di monete di rame senza valore – volevano l'oro e lo ottennero. Poi, quell'oro è stato perso per sempre dall'Impero che, fondamentalmente, poteva produrre solo due cose: grano e truppe, nessuna delle quali poteva essere esportata a lunghe distanze. 

Questa situazione spiega il graduale declino militare dell'Impero Romano. Col declino delle miniere di metallo prezioso, divenne sempre più difficile per gli imperatori reclutare le truppe. La mancanza di un forte potere centrale portò l'Impero ad essere inghiottito in guerre civili; con l'esercito principalmente impegnato a combattere pezzi di sé stesso e l'Impero che si divise in due parti: l'Oriente e l'Occidente. Durante questa fase, il numero di truppe non era ridotto, ma la loro qualità era fortemente declinata. Dopo la riforma militare dell'Imperatore Diocleziano durante il terzo secolo DC, l'esercito Romano era formato principalmente di limitanei; non proprio un esercito ma una polizia di frontiera incapace di fermare qualsiasi tentativo serio da parte di stranieri di bucare i confini. Per mantenere insieme l'Impero, gli Imperatori si affidarono ai “comitatenses” (anche con altri nomi) truppe mobili scelte che avrebbero tappato (o cercato di tappare) i buchi nel confine appena si formavano. 

La combinazione di limitanei e comitatenses ha funzionato nel mantenere i barbari al di fuori dell'Impero per un po'. Ma l'emorragia di oro e argento continuava. Così, durante l'ultimo decennio dell'Impero, le paradigmatiche truppe Romane erano i “bucellarii”, un termine che significa “mangiatori di gallette”. Il nome si può interpretare come se implicasse che quelle truppe combattessero in cambio di cibo. Naturalmente questo poteva non essere sempre vero, ma è una chiara indicazione della scarsità di soldi del tempo. Ci sono anche rapporti di truppe pagate con ceramica e in qualche caso con della terra – la seconda pratica potrebbe essere stata un fattore nella creazione del sistema feudale che ha sostituito l'Impero Romano in Europa.  

In un certo senso, come vediamo, i Romani erano condannati dal loro “picco dell'oro” (ed anche dal “picco dell'argento”). A causa della perdita della fornitura del loro prezioso metallo, i Romani persero la loro capacità di controllare le proprie truppe e di conseguenza le loro risorse. E la potenza è niente senza controllo. 

Ma l'Impero Romano non cadde solo perché fu invaso da stranieri o perché si spaccò in molteplici settori. Sperimentò un collasso sistemico che non era solo un collasso militare, coinvolgeva l'intera economia e anche i sistemi sociale ed economico. Per capire le ragioni del collasso, dobbiamo andare più in profondità nel modo in cui funzionava il sistema economico Romano.  

I Romani e l'energia

L'energia dell'Impero Romano proveniva dall'agricoltura; principalmente sotto forma di grano. All'inizio della loro storia e per diversi secoli a seguire, sembra che i Romani avessero pochi problemi o nessuno nel produrre abbastanza cibo per la loro popolazione. Questo ha una certa logica, considerando che ai tempi dei Romani la popolazione europea era di meno di un decimo di quella di oggi e quindi c'era un sacco di spazio libero per le coltivazioni. Le notizie di problemi alimentari nell'Impero appaiono solo col primo secolo DC e carestie veramente disastrose appaiono solo col quinto secolo DC – quando l'Impero Romano d'Occidente era già nella sua fase terminale. Il “picco del cibo”, apparentemente, arrivò molto più tardi, circa 3-4 secoli dopo quello dell'oro. 

L'esistenza stessa di un “picco del cibo” per l'Impero Romano è qualcosa che lascia perplessi: l'agricoltura è, in linea di principio, una tecnologia rinnovabile che è stata in grado di alimentare la popolazione Romana per diversi secoli. Durante l'ultimo periodo dell'Impero, non ci sono prove di un aumento di popolazione; al contrario, è chiaro che questa era calata. Allora, perché l'agricoltura non poteva produrre abbastanza cibo?

Il problema è che produrre cibo non comporta solo arare qualche terreno e seminare colture. I rendimenti agricoli dipendono dai capricci del tempo e, ancora più importante, l'agricoltura ha la tendenza ad esaurire i terreni dal suolo fertile come conseguenza dell'erosione. Per evitare questo problema, gli antichi avevano una serie di strategie: una era il nomadismo. Dal “De Bello Gallico” di Cesare apprendiamo che, nel primo secolo AC, le popolazioni europee avevano ancora uno stile di vita nomade. Lo facevano per trovare nuova terra incontaminata e piantare colture nel suolo ricco che potevano produrre abbattendo e bruciando alberi. Questo era possibile perché l'Europa continentale, allora, era quasi vuota ed intere popolazioni potevano spostarsi senza impedimenti. 

I Romani, invece, erano una popolazione stanziale e avevano il problema dell'esaurimento del suolo. Quando la popolazione crebbe, l'erosione divenne un problema, specialmente in regioni montagnose come l'Italia (3). In aggiunta, alcuni centri urbani – come Roma – divennero così grandi che erano impossibili da alimentare usando solo risorse locali. Col primo secolo AC, la situazione portò allo sviluppo di un sofisticato sistema logistico basato su navi che portavano il grano a Roma dalle provincie africane, principalmente da Libia ed Egitto. Era una grande impresa per la tecnologia del tempo assicurare che gli abitanti di Roma ricevessero abbastanza grano e proprio quando ne avevano bisogno. Richiese grandi navi, impianti di stoccaggio e, più di tutto, una burocrazia centralizzata che andò sotto il nome di “annona” (dalla parola latina “annum”, anno). Questo sistema era così importante che Annona fu trasformata in una Dea a pieno titolo dalla propaganda imperiale (potete vedere il suo nome nell'immagine sopra, sul retro di una moneta coniata ai tempi dell'Imperatore Nerone - da Wikipedia). Per noi, trasformare la burocrazia in una entità divina potrebbe sembrare un po' inverosimile ma, forse, non ci siamo tanto lontani. 

Nonostante la sua complessità, il sistema logistico Romano del grano ebbe successo nel sostituire l'insufficiente produzione italiana e permise di sfamare una città grande come Roma, la cui popolazione si avvicinava (e forse superava) un milione di abitanti durante i tempi d'oro dell'Impero. Ma non era solo Roma che beneficiava del sistema di trasporto del grano e il sistema poté creare una densità di popolazione relativamente alta, concentrata lungo le coste del Mar Mediterraneo. Era questa più alta densità di popolazione che diede ai Romani un vantaggio militare sui loro vicini settentrionali, i “barbari”, la cui popolazione era limitata dalla mancanza di un simile sistema logistico.  

Ma che cosa spostava il grano dalle coste dell'Africa a Roma? In parte, era il risultato del commercio. Per esempio, le compagnie che spedivano il grano erano in mani private e venivano pagate per il loro lavoro. Ma il grano in sé non si spostava a causa del commercio: le provincie inviavano grano a Roma perché erano costrette a farlo. Dovevano pagare tasse al governo centrale e potevano farlo o in moneta o in natura. Sembra che i produttori di grano pagassero normalmente in natura e Roma non spediva nulla in cambio (eccetto in termini di truppe e burocrati). Quindi, l'intera operazione era un cattivo affare per le provincie ma, come sempre negli Imperi, rinunciare al sistema non era permesso. Quando, nel 66 DC, gli Ebrei di Palestina decisero che non volevano pagare più le tasse a Roma, la loro ribellione fu schiacciata nel sangue e Gerusalemme fu saccheggiata. Alla fine, era la forza militare che teneva sotto controllo il sistema.  

Il sistema Romano dell'annona potrebbe non essere stato equo, ma funzionò bene e per lungo tempo: almeno per qualche secolo. Sembra che il sistema agricolo africano fosse gestito dai Romani con ragionevole cura e che fu possibile evitare l'erosione del suolo quasi fino alla fine stessa dell'Impero d'Occidente. Notate anche che il sistema dell'annona non sembra essere stato condizionato  - di per sé – dal deprezzamento del denarius d'argento. Questo è ragionevole: i produttori di grano non avevano scelta, non potevano esportare i loro prodotti a lunghe distanze e avevano soltanto un mercato: Roma e le altre grandi città dell'impero. 

Ma il sistema che alimentava la città di Roma sembra essere declinato, e alla fine collassato, durante il quinto secolo DC. Abbiamo alcune prove (3) che fu in questo periodo che l'erosione trasformò le coste nordafricane dalla “cintura del grano” dei Romani al deserto che vediamo oggigiorno. Probabilmente, il disastro era inevitabile, ma è anche vero che  la guerra fa un sacco di danni all'agricoltura e questo è certamente vero per la regione nordafricana, oggetto di estese guerre durante l'ultimo periodo dell'Impero Romano. Più in generale, la tensione del sistema economico generata dalla guerra continua potrebbe aver portato i produttori a sfruttare troppo le loro risorse, privilegiando i guadagni a breve termine alla stabilità a lungo termine. Se non fosse per questi eventi, è probabile che la produttività agricola della terra avrebbe potuto essere mantenuta per un tempo molto più lungo. Ma così non è stato. 

Con le terre nordafricane che si trasformavano rapidamente in un deserto, il Re Genserico dei Vandali (si può vedere il suo volto su una moneta “siliqua” nella figura), al governo della regione, interruppe l'invio di grano a Roma nel 455 DC, procedendo poi a saccheggiare la città lo stesso anno. Quella fu la vera fine di Roma, la cui popolazione si ridusse da almeno alcune centinaia di migliaia di persone a circa 50.000. Era la fine di un'era e le coste del Nord Africa non sarebbero mai più state esportatrici di cibo.

La caduta dell'Impero Romano

I sistemi complessi tendono a crollare in modo complesso e diversi fattori interconnessi giocarono un ruolo insieme, prima nel creare l'Impero Romano, poi nel distruggerlo. All'inizio, fu un'innovazione tecnologica, il conio di metalli preziosi, che portò i Romani a sviluppare una grandezza militare che permise loro di accedere a risorse che sarebbero state impossibili da sfruttare altrimenti: i terreni agricoli nordafricani. Ma, come succede spesso, il meccanismo di sfruttamento era così efficiente che alla fine ha distrutto sé stesso. La produttività calante delle miniere di metallo prezioso ridussero l'efficienza del sistema militare Romano e questo, a sua volta, portò alla frammentazione e a guerre estese. Le aumentate necessità di risorse per la guerra furono un fattore importante nella distruzione del sistema agricolo il cui collasso, a sua volta, mise fine all'Impero. 

L'interazione dinamica dei vari elementi coinvolti nella crescita e nel crollo dell'Impero possono essere visti nella figura sotto, da un mio precedente saggio. Nel diagramma, la fonte di energia è l'agricoltura, ma è solo un elemento di un sistema complesso in cui le varie entità si rinforzano o smorzano a vicenda. 


Il diagramma è modellato su quello originariamente creato da Magne Myrtveit per la nostra società nello studio del 1972 “I Limiti dello Sviluppo”. Questo, come altri studi dello stesso tipo, forniscono una bella visione d'insieme della traiettoria di un sistema economico che tende a sfruttare eccessivamente le risorse che usa. Come modelli, tuttavia, non sono completamente soddisfacenti, nel senso che non includono la questione del controllo. E' un costo che dev'essere pagato e il graduale declino del flusso di risorse lo rende difficile. Di conseguenza, gli Imperi raramente collassano dolcemente e tutti insieme, ma piuttosto tendono a frammentarsi e ad ingaggiare guerre intestine prima di scomparire veramente. Questo fu il destino dell'Impero Romano, che ha sperimentato la legge generale per cui la potenza è niente senza controllo. 

I Romani e noi

E' sempre stato affascinante vedere l'Impero Romano come uno specchio lontano della nostra civiltà. E, infatti, vediamo che i punti di contatto sono molti. Pensate solo al sofisticato sistema logistico Romano: le navis oneraria che trasportavano grano dall'Africa a Roma sono l'equivalente delle nostre super petroliere che trasportano petrolio greggio dal Medio oriente ai paesi Occidentali. E pensate come Cina ed India stiano giocando oggi lo stesso ruolo che giocavano nei remoti tempi dei Romani: sono centri di produzione che stanno gradualmente risucchiando la ricchezza dell'Impero che chiamiamo, oggi, “globalizzazione”. 

Detto questo, c'è anche un'ovvia differenza. Il sistema energetico Romano era basato sull'agricoltura e quindi era teoricamente rinnovabile, almeno finché i Romani non lo hanno sfruttato eccessivamente. Quindi, tendiamo ad essere più preoccupati dell'esaurimento delle nostre risorse energetiche piuttosto che di quelle di oro e argento che – sembrerebbe – abbiamo potuto rimuovere in sicurezza dal nostro sistema finanziario senza problemi evidenti. 

Tuttavia, rimane il problema fondamentale che la potenza è inutile senza controllo. Il sistema di controllo dell'Impero della globalizzazione funziona su principi simili a quelli del vecchio Impero Romano. E' basato su un sofisticato sistema finanziario che, alla fine, funziona perché è integrato col sistema militare. Nell'esercito globalizzato, i soldati, proprio come quelli Romani, vogliono essere pagati. E vogliono essere pagati con una moneta che possano riscattare con beni e servizi da qualche parte. Il dollaro ha, finora, giocato questo ruolo, ma lo può giocare per sempre?

Alla fine, tutto ciò che fanno gli esseri umani è basato su qualche forma di credenza di cosa abbia valore in questo mondo. I Romani vedevano l'oro e l'argento come magazzini di valore. Per noi, c'è la credenza che i bit generati dentro dei computer siano magazzini di valore – ma potremmo esserne delusi – non che ci sarà mai un “picco dei bit” finché ci sono computer in giro, ma di sicuro un grande collasso finanziario non ci impoverirebbe soltanto, ma più di tutto distruggerebbe la nostra capacità di controllare le risorse energetiche di cui abbiamo così disperatamente bisogno. 

Quindi, quando gli esperti di petrolio allineano le riserve di petrolio come se ogni barile fosse un soldato pronto per la battaglia, assumono tacitamente che queste riserve siano disponibili ad uso dell'Impero globale. Questo non è necessariamente vero. Dipende dal sistema finanziario che potrebbe ben risultare essere l'anello debole della catena. Senza controllo, la potenza è inutile. 
L'Impero Romano fu perduto quando il sistema finanziario cessò di essere in grado di controllare il sistema militare. Quando i Romani persero il loro oro, persero tutto. Nel nostro caso, potrebbe essere che perderemo la nostra capacità di controllare il sistema militare prima di perdere la capacità di produrre energia da combustibili fossili. Se il dollaro perdesse la sua predominanza nel sistema finanziario mondiale, allora i produttori potrebbero essere tentati di tenere le proprie riserve di petrolio per sé o, almeno, non essere più così entusiasti di permettere all'Impero di accedervi. Ciò che sta avvenendo oggi in Ucraina potrebbe essere un primo sintomo della perdita imminente di controllo globale.



1. “Estrazione mineraria nel Tardo Impero Romano”, J.C Edmondson, The Journal of Roman Studies, 79, 1989, 84, http://www.jstor.org/stable/301182 
2. Tainter, Joseph A (2003. Prima pubblicazione 1988), Il collasso delle società complesse, New York & Cambridge, UK: Cambridge University Press,  ISBN0-521-38673-X
3. “L'Impero Romano: Caduta dell'Occidente; Sopravvivenza dell'Oriente”, James F Morgan, Bloomington 2012




domenica 23 marzo 2014

2°C di riscaldamento:disastro incombente per l'agricoltura

Da “Climate Progress”. Traduzione di MR (non più online).


Mentre gli agricoltori seminano le colture di quest'anno potrebbero essere distratti dal fatto che dal 2030 – fra poco più di 15 anni – i rendimenti dei raccolti nelle regioni temperate e in quelle tropicali soffriranno in modo significativo a causa del cambiamento climatico. Pubblicato sabato sulla rivista Nature Climate Change, un si possono saggio ha scoperto che, senza adattamento, ci si possono aspettare perdite nella produzione di grano, riso e mais con soli 2°C di riscaldamento. Lo studio inasprirà le scoperte già allarmanti della sezione del Gruppo di Lavoro II del Quinto Rapporto di Valutazione del IPCC, che dev'essere pubblicato alla fine di marzo. Il Gruppo di Lavoro II si concentra sugli impatti ambientali, economici e sociali che il cambiamento climatico avrà e a quale livello di vulnerabilità i diversi settori ecologici e socio-economici saranno soggetti.

Il Quarto Rapporto di Valutazione, nel 2007, ha scoperto che le regioni dal clima temperato come Europa e Nord America avrebbero retto a un paio di gradi di riscaldamento senza un effetto rilevabile sui rendimenti dei raccolti. Alcuni studi pensavano persino che l'aumento delle temperature avrebbe aumentato la produzione. Tuttavia, il nuovo studio, che ha attinto dall'insieme di dati più completo ad oggi sulle risorse delle colture – più del doppio del numero disponibile nel 2007 – ha scoperto che le colture verrebbero influenzate negativamente dal cambiamento climatico molto prima di quanto ci si aspettasse.

“Mentre diventavano disponibili altri dati, abbiamo visto uno spostamento nel consenso che ci dice che gli impatti del cambiamento climatico nelle regioni temperate avverrà prima piuttosto che dopo”, ha detto in una dichiarazione il professor Andy Challinor della Scuola della Terra e dell'Ambiente dell'Università di Leeds e autore principale dello studio. “Inoltre, l'impatto del cambiamento climatico sui raccolti varierà sia di anno in anno sia di luogo in luogo – con la variabilità che diventa maggiore quando il meteo diventa sempre più imprevedibile. Il cambiamento climatico significa un raccolto meno prevedibile, con diversi paesi che vincono e perdono in anni diversi”. Secondo lo studio, a partire dal 2030 i rendimenti dei raccolti sperimenteranno un impatto sempre più negativo con diminuzioni di oltre il 25% che diventano più comuni dalla seconda metà del secolo. Il cambiamento climatico è già una grande preoccupazione per coloro che lavorano in agricoltura in quanto i cambiamenti meteo, della qualità del terreno e della disponibilità d'acqua si ripercuotono in tutto il settore.

I prezzi del cibo delle colture di base come il grano e il mais sono alti quest'anno, in quanto la produzione globale lotta per tenere il passo con l'aumento della domanda. I prezzi delle colture sono soggetti ad impatti molto localizzati e la crisi in Ucraina ha causato un'impennata dei prezzi del mais e del grano, visto che quel paese è uno dei 10 principali esportatori di entrambe le colture. Il cambiamento climatico agirà solo da amplificatore della natura precaria dell'industria. Un altro studio recente ha scoperto che l'effetto medio del cambiamento climatico sul prezzo dei raccolti per il 2050 sarà di un 20% in più, con alcuni prezzi che non cambiano affatto mentre altri aumentano di oltre il 60% a seconda della regione.

In California, dove una siccità record è un indicatore di una normalità più calda e più secca portata dal cambiamento climatico nella regione, quasi 500.000 acri di terra coltivabile – circa il 12% della disponibilità di terra coltivabile dello scorso anno – potrebbe essere esclusa quest'anno, causando miliardi di dollari di danno economico. I prezzi di verdure come carciofi, sedano, broccoli e cavolfiori potrebbe aumentare del 10%. La California produce circa l'80% delle mandorle del mondo, con una produzione che è più che raddoppiata dalle 912 milioni di libbre del 2006 alle 1,88 milioni di libbre dello scorso anno. Con una domanda globale di mandorle in pieno boom, specialmente in Asia, la siccità della California è probabile che abbia un impatto negativo sui prezzi delle mandorle nel mondo. Mentre i mandorli non sono l'ideale per il clima già secco della California e richiedono un'irrigazione significativa, l'industria ha messo radici e sarà costretta ad adattarsi a qualsiasi condizione di coltura ci sarà in futuro.

giovedì 6 marzo 2014

Picco del cibo: il drammatico declino dell'agricoltura industriale

Da “The Guardian”. Traduzione di MR

Gran parte dei modelli di predizione convenzionali non tengono conto della realtà, dicono alcuni ricercatori statunitensi.

I cereali di prima necessità come il riso affrontano un declino senza precedenti. Foto: George Osodi


L'agricoltura  industriale potrebbe aver raggiunto dei limiti di fondo nella sua capacità di produrre raccolti sufficienti a sfamare una popolazione globale in espansione, secondo una nuova ricerca  pubblicata su Nature Communications. Lo studio di alcuni scienziati dell'Università del Nebraska-Lincoln sostiene che ci sono stati declini improvvisi o plateau nel tasso di produzione dei principali cerreali che minano le proiezioni ottimistiche di rendimenti dei raccolti in continuo aumento. Il “31% del totale globale della produzione riso, grano e mais” ha visto “un livellamento del rendimento o delle diminuzioni improvvise del miglioramento del rendimento, compreso il riso nell'Asia orientale e il grano nell'Europa nordoccidentale”. I declini e i plateau della produzione sono diventati prevalenti nonostante gli aumentati investimenti in agricoltura, il che potrebbe significare che i rendimenti massimi potenziali del modello industriali di agricoltura commerciale sono già superati. "I rendimenti dei raccolti nelle maggiori regioni produttrici di cereali non sono aumentati per lunghi periodi di tempo a seguito di un periodo precedente di costante crescita lineare”.

Il saggio è una lettura inquietante. I livelli di produzione si sono già livellati con “nessuna possibilità di tornare alla precedente tendenza alla crescita” per le regioni chiave che ammontano al “33% della produzione di riso globale e il 27% del grano”. I ricercatori statunitensi hanno concluso che questi plateau del rendimento potrebbero essere spiegati dalla deduzione secondo la quale “i rendimenti medi agricoli si avvicinano ad un tetto di rendimento biofisico per le colture in questione, il che è determinato dal loro potenziale di rendimento nelle regioni dove la coltura è prodotta”. Scrivono:

“... abbiamo trovato una diffusa decelerazione nel tasso relativo di aumento dei rendimenti medi delle maggiori colture di cereali durante il periodo 1990-2010 in paesi con la più grande produzione di queste colture e prove solide di plateau di rendimento o un improvviso calo nel tasso di aumento del rendimento nel 44% dei casi che, insieme, assommano al 31% della produzione totale globale di riso, grano e mais”. 

Le tendenze passate degli ultimi 5 decenni di aumento continuo dei rendimenti delle colture erano “guidate dalla rapida adozione delle tecnologie della rivoluzione verde che erano in gran parte innovazioni del passato” e che non possono essere ripetute. Queste comprendono le grandi innovazioni industriali come “lo sviluppo delle specie di grano e riso semi nane, il primo uso diffuso di fertilizzanti commerciali e pesticidi e grandi investimenti per espandere le infrastrutture di irrigazione”.

Anche se l'investimento in agricoltura in Cina è aumentato del triplo dal 1981 al 2000, i tassi di aumento dei rendimenti del grano sono rimasti costanti, diminuiti del 64% per il mai e sono trascurabili per il riso. Analogamente, il tasso di rendimento del mais è rimasto ampiamente piatto nonostante un 58% di aumento dell'investimento nello stesso periodo. Lo studio avverte:

“Una preoccupazione è che nonostante l'aumento dell'investimento in ricerca e sviluppo agricolo ed educazione durante questo periodo, il relativo tasso di guadagno del rendimento nelle maggiori colture alimentari  è diminuito nel tempo insieme con l'evidenza di plateau di rendimento in alcuni dei domini più produttivi”.

Lo studio critica prevalentemente altri modelli di proiezione dei rendimenti che prevedono aumenti in proporzione geometrica o esponenziale nei prossimi anni e decenni, anche se questi “non avvengono nel mondo reale”. Lo studio nota che “tali tassi di crescita non sono sostenibili sul lungo termine perché i rendimenti agricoli medi alla fine si avvicineranno ad un tetto potenziale di rendimento determinato da limiti biofisici ai tassi di crescita ed ai rendimenti delle colture”. I fattori che contribuiscono ai declini o ai plateau della produzione di cibo comprendono il degrado delle terre e dei suoli, il cambiamento climatico e dei modelli ciclici meteorologici, l'uso di fertilizzanti e pesticidi e l'inadeguato o inappropriato investimento.

La nuova ricerca solleva domande cruciali sulla capacità dei metodi dell'agricoltura industriale tradizionale di sostenere la produzione globale di cibo per una popolazione in crescita. La produzione di cibo dovrà aumentare di circa il 60% per il 2050 per soddisfare la domanda. Un rapporto uscito questo mese da parte della banca olandese Rabobank raccomanda di tagliare gli sprechi di cibo del 10%, in quanto oltre un miliardo di tonnellate – metà delle quali collegate all'agricoltura – finisce per essere sprecato. Un uso dell'acqua più efficiente è necessario, dice il rapporto, come la micro irrigazione, per affrontare un potenziale deficit di disponibilità di acqua del 40% per il 2030. Attualmente, l'agricoltura utilizza il 70% della domanda globale d' acqua. Il rapporto invita anche a ridurre la dipendenza dai fertilizzanti usando metodi di “ottimizzazione degli input” progettati per ridurre la quantità di energia ea acqua necessarie. Visto che il 53% dei nutrienti dei fertilizzanti rimangono nel terreno dopo il raccolto, i fertilizzanti contribuiscono al degrado del suolo nel tempo a causa della contaminazione delle acqua di falda, alla lisciviazione, all'erosione e al riscaldamento globale.

L'ossessione di Rabobank col focus sul miglioramento degli attuali metodi industriali – senza proprio afferrare la scala dei problemi che affronta l'agricoltura industriale – è, tuttavia, una deficienza grave. Due anni fa, un rapporto di riferimento del Relatore Speciale dell'ONU sul Diritto al Cibo dimostrava che l'agroecologia basata su metodi biologici sostenibili e su piccola scala potrebbero potenzialmente raddoppiare la produzione di cibo di intere regioni che affrontano la fame persistente nell'arco di 5-10 anni.






domenica 9 gennaio 2011

La crisi alimentare: un effetto del cambiamento climatico?


Grafico da "Early Warning" di Stuart Staniford. Gli indici dei prezzi mondiali dei principali generi alimentari secondo la FAO.


La recente rivolta in Algeria è un sintomo che la situazione alimentare mondiale sta peggiorando. I prezzi dei generi alimentari sono in aumento ovunque e questo ha un effetto pesante sui paesi più poveri. In Algeria, evidentemente, hanno ancora le forze per mettere in scena delle proteste. Ci possiamo solo immaginare che cosa stia succedendo nei paesi veramente molto poveri, più poveri anche dell'Algeria.

Dare tutta la colpa della crisi planetaria al cambiamento climatico sarebbe decisamente troppo. Ci sono molti fattori che agiscono tutti nella stessa direzione, ovvero quella di ridurre le capacità produttive dell'agricoltura mondiale. Per esempio, i concimi chimici costano sempre più cari a causa del graduale esaurimento del petrolio. Allo stesso tempo, lo sforzo di produrre biocombustibili sta avendo un effetto sulla disponibilità di terreni adatti per la produzione alimentare. E, ovviamente, il fatto che la popolazione continui ad aumentare non aiuta di certo.

Tuttavia, è chiaro che il cambiamento climatico è un fattore importante - se non l'unico. Basta solo pensare ai danni all'agricoltura che hanno fatto le recenti alluvioni in Australia. Ma non è soltanto un problema di eventi catastrofici singoli. E' tutto un sistema agricolo che sta andando in crisi.

Fino ad oggi, ci siamo basati quasi completamente sull'effetto dei concimi chimici e dei pesticidi per rimediare ai danni fatti al suolo. Per l'irrigazione, abbiamo usato acqua "fossile" (non rinnovabile), tirata fuori da antichissimi aquiferi. Adesso, tutti i problemi stanno venendo fuori aggravati dalla siccità - alle volte dalle eccessive piogge che dilavano il suolo e, più che altro, dalla desertificazione in atto un po' ovunque. Tutti fenomeni causati o aggravati dal cambiamento climatico.

Insomma, è un generale problema di sostenibilità che sta venendo fuori e che non si risolve invocando miracoli tecnologici, tipo gli organismi geneticamente modificati. Non ci sono soluzioni per i problemi di sostenibilità che non siano curarsi di fare le cose in modo sostenibile. Questo vale per l'agricoltura, per il cambiamento climatico e per tutto il resto

Vedi anche questo post sul blog di ASPO-Italia.