martedì 22 maggio 2018

Rifiuti ed economia circolare: la prima conferenza a Firenze per il Festival della sostenibilità





Oggi la prima conferenza a Firenze per il Festival, questa dedicata tutta ai rifiuti. Organizzata da Sara Falsini, la conferenza ha coinvolto 7 relatori, fra cui due rappresentanti delle municipalizzate Toscane, Alia e Revet. Sara Falsini ha parlato del suo progetto di gestione telematica dei rifiuti ("Ecomaps") mentre Francesco Capezzuoli e Elena Barthel hanno parlato di una società a rifiuti zero e delle possibilità di una gestione "sociale" dei rifiuti.

Ecco Sara Falsini impegnata con l'installazione di un'ecotappa a Firenze:


Invece, qui di seguito, un filmato presentato da Ugo Bardi che mostra i suoi studenti in visita all'impianto di riciclaggio di Revet. E' un'esperienza che impressiona molto i ragazzi e che li aiuta a rendersi conto che i rifiuti si riciclano veramente. Non è vera la leggenda che vengano rimischiati tutti insieme dopo che i cittadini li hanno laboriosamente differenziati.


 

giovedì 17 maggio 2018

Il peso dell'umanità sul pianeta

di Jacopo Simonetta

post già pubblicato su Apocalottimismo il 20/04/2018

L’impatto della nostra specie sul Pianeta non è certo un argomento nuovo, ma raramente viene trattato in maniera quantitativa per l’ottima ragione che disponiamo solo di stime e non di misure; spesso anche di stime molto approssimative.   Un fatto inevitabile, vista la materia in argomento.   Tuttavia, se confrontiamo valutazioni fatte con metodi diversi e con dati di base diversi, spesso arriviamo a cifre dello stesso ordine di grandezza.  E per l’appunto l’ordine di grandezza è quello che qui interessa.
Prima di andare avanti, precisiamo che userò alcuni termini in modo discorsivo e non rigorosamente scientifico, allo scopo di essere più comprensibile da chi non ha pratica con il gergo ecologico.  I puristi, spero, mi perdoneranno.

Biosfera selvatica.

Definizione scientificamente discutibile.  Qui la uso per indicare l’insieme di tutte le forme di vita non direttamente dipendenti dall'uomo, più i suoli terrestri di ambienti non drasticamente modificati dall'agricoltura o da altre attività umane. 
Sostanzialmente quindi, i suoli dei boschi spontanei (anche se sfruttati) e delle praterie naturali.

Dunque uno strato a cavallo fra atmosfera, litosfera e idrosfera in cui si trovano gli organismi viventi in ecosistemi semi-naturali (ecosistemi “naturali” in senso stretto non esistono praticamente più).  II suo spessore varia molto a seconda delle zone, ma considerando che almeno dei batteri sono presenti su tutta la superficie terrestre, in tutte le acque e nella troposfera, possiamo considerare che il suo spessore oscilli fa i 10 ed i 20 Km.

Tuttavia,  in terra ferma, la quasi totalità della massa vivente è spalmata su uno stato variabile da alcuni metri a pochi centimetri o anche meno, mentre nei mari è concentrata nei primi 2-300 m di  profondità.  Sopra e sotto,  la densità di organismi viventi cala precipitosamente.  Considerando che il raggio medio terrestre è di circa 6.370 chilometri, possiamo ben dire che la Biosfera è una sorta di “pelle” vivente della Terra: quella che rende il nostro pianeta completamente diverso da tutti gli altri conosciuti e che ci consente di esistere.

Se qualcuno vuole avere un’idea di come sarebbe il nostro Pianeta senza questa pelle, dia un’occhiata ai paesaggi di Marte, pensando di abitarci e di doverne cavare di che vivere.

Quanto pesa la parte selvatica della biosfera?  Nessuno lo sa, ci sono molti studi, ma nessuno veramente soddisfacente, tanto che la NASA ha in programma di mettere in orbita un satellite apposta per rispondere a questa domanda.

Confrontando le diverse ipotesi, si arriva a stimare l’insieme di tutte le forme di vita presenti sulla Terra, compresi i batteri, in circa 4 teratonnellate (4x1012 tonnellate, ossia quattromila miliardi di tonnellate) di carbonio organico che possiamo valutare, molto, molto approssimativamente in 12-15 teratonnellate (12-15x 1012  t) di organismi viventi (al carbonio è necessario aggiungere il peso degli altri gli altri elementi e dell’acqua).  Nota bene, si tratta della stima massima, quella minima è circa 1/4 di questo.

La quasi totalità di questa massa è composta dagli alberi, seguiti dai funghi e, a distanza, dai lombrichi e dagli insetti. Mammiferi, uccelli e tutto ciò che di solito osserviamo con grande interesse sono fondamentali per gli equilibri interni degli ecosistemi, ma sono quantitativamente insignificanti.

In mare, la quantità di vita è molto minore che sulla terra, meno del 5% del totale.  Si stima che tutti i pesci insieme siano meno di 2 miliardi di tonnellate, i cianobatteri un miliardo ed il krill un altro miliardo.  Al contrario che sulla terra, in acqua le piante costituiscono una massa molto minore di quella degli animali e l'equilibrio è mantenuto dall'elevatissimo tasso di accrescimento e riproduzione delle alghe.  Un fatto questo che rende gli ambienti acquatici complessivamente molto meno resilienti di quelli terrestri.

Sia in acqua che sulla terra, i batteri sono la classe più importante in assoluto come numero di organismi, ma non in peso a causa delle loro minime dimensioni.
Tornando ai numeri, abbiamo detto che la Biosfera comprende anche i suoli: dunque quanto pesano i suoli selvatici?. Non conosco stime in proposito, ma un’idea ce la possiamo fare per differenza. (Zalasiewicz e altri 2017)  stimano la parte totalmente antropizzata della superficie terrestre in circa 82 milioni di Kmq, pari a poco più della metà della superficie delle terre emerse (vale a dire praticamente tutte le pianure e le colline); per una massa di circa 10 teratonnellate (v seguito). Se il loro calcolo è approssimativamente corretto, direi che possiamo prudenzialmente stimare la massa globale dei suoli naturali e semi-naturali superstiti in circa 12-15 teratonnellate.  Tenuto conto del fatto che i suoli naturali sono solitamente più profondi e ricchi di vita di quelli antropizzati, ma anche del fatto che quelli superstiti sono quasi esclusivamente in montagna, dove l'erosione è comunque forte.  Quindi, approssimando per eccesso per comprendere anche le poche vestigia di ambienti di acqua dolce, che contengono altissime concentrazioni di biomassa e di biodiversità, possiamo stimare la biosfera selvatica in circa 25-30  teratonnellate. (25-30 mila miliardi di tonnellate).

Un dato che non sappiamo quanto sia affidabile, ma che sappiamo per certo essere in rapido calo, specialmente a causa del disboscamento e dell’erosione; ma anche per  la pesca industriale.   Nel 2013, Vaclav Smil  (Harvesting Biosphere 2013) , confrontando vari autori, concluse che la biomassa terrestre sia diminuita del 30% circa durante gli ultimi 250 anni di forsennata crescita economica e demografica umana.

 Noi + i nostri simbionti.

Qui considereremo la massa totale di umani viventi, più l’insieme delle specie domestiche, animali e vegetali.  A rigore, bisognerebbe considerare anche lieviti e batteri nostri simbionti, ma non ho trovato dati in proposito.

Considerare noi stessi insieme alle altre specie che popolano le campagne è giustificato dal fatto che, senza queste piante e questi animali, non esisterebbero civiltà e l'uomo sarebbe rimasto un raro e strano scimmione.  D’altra parte, senza di noi, le razze domestiche non sarebbero mai esistite; tanto che si estinguono nonappena smettiamo di servircene.

Dunque, se la massa di materia vivente sta complessivamente diminuendo, non tutte le specie stanno facendo altrettanto.  In particolare, Homo sapiens è tuttora in una fase di crescita estremamente rapida.   Per essere chiari, nel 2000 Smil valutava la massa umana in 300 milioni di tonnellate; lo stesso calcolo fatto sui dati demografici del 2017 ci da poco meno di 400 milioni di tonnellate (4x108).  Dunque, se consideriamo solo i mammiferi, troviamo che noi umani da soli siamo circa il decuplo di tutti i mammiferi terrestri selvatici messi insieme, topi ed elefanti compresi.  Significa che circolano 10kg di carne umana ogni singolo chilo di carne mammaliana selvatica.

Ma, come abbiamo detto, alla massa di noi stessi dobbiamo aggiungere quella delle specie nostre simbionti: dunque vacche, pecore, cavalli, maiali, eccetera.  Una stima del 2015 valutava l’insieme del nostro bestiame in circa 1500 milioni di tonnellate (cioè altri 15x108 t).

Se confrontiamo questa cifra con la biomassa totale, troviamo che ne rappresenta solamente lo 0,0005 %, ma se consideriamo solo i mammiferi (sia noi che la quasi totalità del nostro bestiame siamo mammiferi) troviamo che, invece, rappresentiamo il 98% del totale .

Mille anni fa probabilmente le proporzioni erano inverse, con gli animali selvatici che erano l’80-90% dei mammiferi terrestri, mentre solo cinquanta anni fa erano ancora il 20% circa (Smil 2013).

Ma andiamo avanti: abbiamo detto che dobbiamo considerare anche i suoli e le piante agricole, senza i quali né noi, né il nostro bestiame esisteremmo.  Secondo i già citati autori (Zalasiewicz e altri 2017) questi assommano a circa 17,5 teratonnellate (17,5x 1012  t), cui dobbiamo aggiungere i 400 milioni di tonnellate di carne umana ed i 1500 milioni di tonnellate di bestiame per arrivare, come ordine di grandezza, intorno alle 18 teratollellate.
Ossia circa i 2/3 della biosfera selvatica!
Significa che per ogni 3 chili di vita selvatica ce ne sono 2 di vita domestica.

Non è facile capire le implicazioni di questa situazione, ma ancora non è tutto.

Tecnosfera.

Da un punto di vista ecologico, considerare l’uomo separatamente dai suoi manufatti non ha senso alcuno.  Sarebbe come considerare i gatti facendo astrazione dalle loro unghie e denti.  La tecnologia fa parte integrante di noi, fin dalla scoperta del fuoco, quando ancora la nostra specie non esisteva nemmeno.  Anzi, possiamo star certi che senza tecnologia la nostra specie non sarebbe neppure mai esistita.

Dunque per valutare quanto veramente pesiamo sul Pianeta non basta considerare i nostri corpi, il nostro bestiame ed i nostri campi.  Dobbiamo considerare anche l’insieme di tutti i manufatti che costituiscono l’infrastruttura ed i prodotti della nostra economia, senza i quali non saremmo quasi 400 milioni di tonnellate.  Cioè dobbiamo prendere in conto quella che viene definita Tecnosfera.

Sommando costruzioni di ogni genere, macchine, oggetti vari e discariche si arriva a qualcosa come 18 Teratonnellate (18x1012 t), vale a dire che ci sono oggi sulla terra più chili di costruzioni, macchine e discariche che chili di materia vivente (alberi, alghe, insetti e batteri compresi).
Per la precisione, si dovrebbero considerare come parte della tecnosfera anche le colture, i suoli agricoli eccetera, ma qui non li prendiamo in conto perché già valutati (v. sopra).

Tiriamo le somme

A rigore, noi stessi, i nostri manufatti e gli ambienti totalmente artificiali in cui viviamo costituiamo un unico sistema altamente integrato.   Dunque,  riassumiamo:
Biomassa umana                  4x108 t
Bestiame                             15x108 t
Suoli e piante                    17,5x 1012  t
Manufatti e discariche          18x1012 t
Totale indicativo                36x1012 t

Significa che per far vivere qualcosa come 400 milioni di tonnellate di carne umana, sono necessarie quasi 40.000 miliardi di tonnellate di strutture di supporto (comprese piante ed animali domestici). Ossia qualcosa come 4.000 tonnellate di cemento, metallo, plastica, piante ed animali domestici per ognuno di noi (bambini compresi).  Molto indicativamente, si capisce.

Ma torniamo all'inizio e ricordiamoci che la Biosfera selvatica ammonta a forse 25-30 teratonnellate, secondo una stima ottimistica.   Vuol dire che noi soli occupiamo oggi  uno spazio ecologico maggiore di tutte le forme di vita e di tutti gli ecosistemi selvatici superstiti messi insieme.  Probabilmente il 20-30% di più di tutto il resto messo insieme.

Significa che ecosistemi propriamente "naturali" non esistono più, come non esistono più i biomi, cioè i grandi sistemi ecologici in cui si articolava la Biosfera.  Significa che tutti i cicli bio-geo-chimici sono stati pesantemente ed irreversibilmente alterati; cioè sono cambiati la struttura ed i flussi di materia ed energia che danno forma e sostanza alla "pelle vivente del pianeta" di cui si diceva all'inizio.

Continuare a pensare al nostro Pianeta come uno spazio naturale all'interno del quale si svolgono delle attività umane è come dire che il Generale Grievous è umano perché ha alcuni organi impiantati all'interno di una macchina.

Di fronte a dati di questo genere, molti parlano con orgoglio di un ‘era in cui le forze brute della natura sono state finalmente piegate alla volontà ed al genio di un'umanità lanciata verso sempre più grandi conquiste.  Alcuni vedono in questo addirittura il compimento della volontà divina espressa nella Genesi (testo parimenti fondativo per tutte le chiese e le sette ebraiche, cristiane e mussulmane).
Un sentimento molto radicato e diffuso, che traspare spessissimo anche quando viene abbigliato con discorsi apparentemente scientifici; oppure quando alcuni capi religiosi tentano in qualche modo di mitigarlo.

Io credo che una persona religiosa potrebbe invece considerare questo atteggiamento come il cacumine della Hybris.  Vale a dire un atto di superbia tale da scatenare l’ira di Dio (o degli Dei, a scelta).

Vedremo chi ha ragione, basta aspettare.


Per approfondire e divagare: Picco per Capre.

domenica 13 maggio 2018

Prodotti Sfusi: siamo sicuri che sia una buona idea? Ovvero: la maledizione del Colibrì colpisce ancora



Così, l'altro giorno mi sono fermato al supermercato per fare la spesa e ho trovato una sezione nuova nuova dove si potevano comprare le crocchette per cane sfuse. Bene, da buon ambientalista mi è parso il caso di provare e mi sono riempito un bel sacchetto di carta - molto ecologico - di crocchette e l'ho pesato. Lo vedete nella foto qui accanto. 5,09 euro per 1,72 kg di crocchette.

Poi, ho mosso il carrello di qualche metro e davanti a me ecco le crocchette per cani nel loro impacco tradizionale. Eccole qua:


E notate come, nel loro sacchettone-plasticone, le crocchette costano molto meno, poco più di 1 euro al kg, quasi un terzo di quelle sfuse. A un prezzo minore di quanto ho pagato per meno di due chili, me ne sarei potuti portare a casa quattro chili.

E allora? Come sta questa faccenda? Perché le crocchette sfuse costano così care? La prima impressione che ho avuto è di essere stato imbrogliato. Poi, però, ripensandoci, credo che la vicenda sia più complicata di così e che richieda un certo ragionamento.

Per prima cosa, non ho ragione di pensare che le crocchette sfuse siano vendute a un prezzo ingiustificatamente alto: più probabilmente, sono di qualità migliore. Come per tutti i prodotti, ci sono varie gradazioni di qualità sebbene, nel caso delle crocchette per cani, per noi umani è difficile giudicare. E' anche possibile che ci siano dei costi superiori per la gestione del complicato sistema di distribuzione ma, da quello che sono riuscito a trovare sul Web, non c'è evidenza che i prodotti sfusi debbano costare necessariamente di più di quelli impaccati in modo tradizionale.

Ne consegue che ci devono essere delle ragioni che hanno spinto i dirigenti della COOP a scegliere le crocchette - e un certo tipo di crocchette - come prodotto sfuso. Quali sono queste ragioni? Non ho trovato niente di scritto su questo argomento sui siti della COOP o altrove, a parte grandi lodi all'idea e discorsi su quanto sono bravi. Allora proviamo a usare la logica per cercare di capire come sta la faccenda.

Per prima cosa, perché i prodotti sfusi? Ci sono due ragioni: la prima è di evitare i contenitori, costosi e inquinanti, la seconda quella di permettere ai consumatori di calibrare i loro acquisti esattamente sulle loro necessità, evitando sprechi.

Tutte e due sono ragioni valide, ma valgono nel caso delle crocchette? In primo luogo, le crocchette vanno messe per forza dentro un sacchetto, sia che uno le compri sfuse oppure no. Le crocchette sfuse si mettono in un sacchetto di carta, quelle impacchettate arrivano in un sacchetto di plastica - ma nulla vieterebbe di confezionarle in un sacchetto di cartone. Se uno voleva semplicemente evitare un po' di plastica, c'erano modi più semplici di quello di creare tutto un ambaradan di tubi, bilance e sacchettini per l'operazione di fornitura, pesa e etichettatura.

Seconda cosa: evitare sprechi e consentire al consumatore di comprare esattamente quello che gli serve. Certamente questa è un'idea valida per alimenti deperibili, tipo per esempio il latte. Ma le crocchette per cane non sono certamente un prodotto deperibile. Vedo male una persona che va al supermercato apposta per comprare 50 centesimi di crocchette per la cena di Fido. Tanto vale che ne compri 4 kg - e non dimentichiamoci che ogni viaggio al supermercato ha un costo sia economico che ambientale.

C'è un altro fattore che si menziona più raramente ma che potrebbe avere un certo peso: le crescenti ristrettezze economiche di una fascia della popolazione. Mi diceva un mio amico che lavora nella grande distribuzione che hanno notato come verso fine mese aumentino le vendite di latte in confezione da mezzo litro a scapito di quelle da un litro. Lui ritiene che sia dovuto al fatto che molti hanno difficoltà ad arrivare a fine mese con ancora qualche soldo in tasca e tirano a risparmiare al massimo mentre aspettano il 27. Non ho trovato conferma di questa storia sul Web, ma non vedo motivo di ritenerla falsa. Anche qui, comunque, l'idea di vendere crocchette sfuse non aiuta molto chi è rimasto senza soldi al 26 del mese se queste crocchette costano quasi tre volte di più di quelle normali.

E allora? Perché le crocchette sfuse? Perché le crocchette sfuse ad alto costo? Io credo che non sia una cosa casuale. E' il risultato di una specifica strategia commerciale che i dirigenti della COOP hanno seguito.

In primo luogo, il problema dell'iperimballaggio comincia ad apparire chiaro a una certa fascia di consumatori e, di conseguenza, ogni catena di supermercato cerca di fare il possibile per darsi un'immagine "verde". Da qui, la decisione di vendere perlomeno qualcosa come prodotto sfuso. Si tratta allora di identificare il prodotto e i consumatori più adatti all'operazione. Ora, i consumatori più sensibili alla questione ecologica sono quelli della fascia medio-alta. Sono quelli, per intendersi, che comprano i prodotti "biologici" anche se sono più cari di quelli normali. Questa fascia di consumatori è sensibile al discorso della distribuzione sfusa che percepisce come più "ecologica" di quella normale. Può anche permettersi - anzi, probabilmente cerca attivamente - cibo di alta qualità per i propri animali domestici. E quindi, ecco la logica dell'operazione vendere crocchette "ecologiche" a chi si può permettere di comprarle. Come sempre, si vende uno specifico prodotto a uno specifico target. E' una mia interpretazione, ma mi sembra sensata.

Diciamo che, in fin dei conti, la Coop non imbroglia nessuno ma fa semplicemente un'operazione commerciale compatibile con le condizioni del mercato attuale. Rimane però la questione se questo tipo di piroette dimostrative abbia un vero impatto nel quadro di una seria politica di riduzione degli imballaggi. Forse anche si, la storia delle crocchette potrebbe essere considerata un buon esempio da sviluppare per altri prodotti. Ma è anche vero che siamo lontani anni luce da un vero "supermercato senza plastica" di cui si parla parecchio ma che per ora non esiste e potrebbe non esistere mai a meno che non si cambi totalmente il sistema di distribuzione. Ma chi è che vuol cambiare qualcosa in questo paese in cui si cantava (e si continua a cantare) "finché la barca va..."?

Per concludere, sulla questione delle crocchette vorrei citare qualcosa che ho definito "La maledizione del colibrì" in un post precedente. Il fatto è che tutti ci sentiamo un po' colpevoli per i vari danni che stiamo facendo all'ecosistema e a noi stessi. E ci impegnamo in piccoli sacrifici rituali che consistono nel "fare qualcosa," seppur sapendo benissimo che quello che facciamo non è sufficiente. Il colibrì della storia porta una goccia d'acqua nel becco, pur sapendo che non servirà a spendere l'incendio della foresta. Allo stesso modo, c'è chi compra crocchette più care ma "sostenibili," sentendosi un bravo ecologista per poi tornarsene a casa con il suo SUV da tre tonnellate. E' l'essenza di quello che chiamiamo il "greenwashing"






martedì 8 maggio 2018

Ma quanta gente ci può stare su questo c***o di pianeta?

Immagine dal film "The Population Bomb" di Werner Boote. Forse il più brutto film mai fatto sulla questione della popolazione, tutto basato sull'idea che "più siamo, più siamo contenti."


Qual è la dimensione ottimale sostenibile della popolazione umana?


Da “The Overpopulation Project”. Traduzione di MR

Di Patrícia Dérer

E’ possibile stimare una dimensione ottimale della popolazione umana sulla base di diversi criteri ed ipotesi. Qui non ci occupiamo del limite inferiore della popolazione umana (la popolazione minima praticabile) in quanto ci troviamo sicuramente ben al di sopra di quel limite. Riguardo al limite superiore, dobbiamo considerare la capacità di carico della Terra per quanto riguarda l’Homo sapiens. La capacità di carico di qualsiasi specie è il numero massimo di individui che possono essere sostenuti a tempo indeterminato ad un dato livello di consumo per ogni dato ambiente. Per gli esseri umani, le stime differiscono in modo sostanziale, partendo da meno di un miliardo a più di 1.000 miliardi di persone, a seconda del consumo medio, della tecnologia e di altri fattori. Circa due terzi delle stime ricadono nella fascia da 4 a 16 miliardi di persone e il valore medio è di circa 10 miliardi 1,2 – la dimensione che si aspetta l’ONU per il 2055 nella sua variante di proiezione mediana.

Tuttavia, “minimo” non equivale ad “ottimale”. A parte le limitazioni dovute alla capacità di carico, dovrebbero essere considerati altri criteri. Possiamo definire la dimensione ottimale della popolazione come la dimensione che produce i risultati migliori secondo obbiettivi e traguardi espliciti. I traguardi scelti nel celebre studio di Daily et al. 3 includono ricchezza sufficiente, diritti umani universali, preservazione della biodiversità e della diversità culturale e sostegno alla creatività intellettuale, artistica e tecnologica. Per stimare la quantità di energia per soddisfare questi bisogni umani mentre si conservano ecosistemi e risorse intatti, hanno calcolato la dimensione ottimale della popolazione in prossimità dei 1,5-2 miliardi di persone.

Un altro studio ha stimato la dimensione ottimale della popolazione sulla base della quantità minima di terreno necessario per la produzione di cibo (0,5 ettari a persona) e la conservazione del suolo – portando ad una dimensione della popolazione di 3 miliardi di persone 4. Naturalmente, questi risultati dipendono fortemente dal consumo pro capite ipotizzato per soddisfare i bisogni di ciascuno. In un terzo studio, Pimentel et al. Hanno considerato un consumo comodo sulla base dello standard di vita europeo ed un uso sostenibile delle risorse naturali, suggerendo solo 2 miliardi di persone come dimensione appropriata 5.

In un recente articolo, “Benessere sostenibile e dimensione ottimale della popolazione6, Lianos e Pseiridis cercano di stimare la dimensione ottimale della popolazione usando un criterio oggettivo pensato per assicurare che l’uso di risorse da parte degli esseri umani non esaurisca il capitale naturale della Terra. Si tratta del valore unitario del rapporto fra impronta ecologica e biocapacità (L). L’impronta ecologica misura la domanda costituita dal consumo umano sulla biosfera. La biocapacità rappresenta la capacità rigenerativa della biosfera; per esempio, misura la produttività di diversi ecosistemi. Fra il 1961 e il 2009, il loro rapporto L è aumentato drasticamente. All’inizio di questo periodo, il mondo aveva una consistente riserva ecologica. Questa è scomparsa dopo 10 anni e da allora abbiamo operato in deficit. Oggi la domanda di risorse supera la fornitura disponibile del 50% (L=1.5). (Fig.1)

Fig 1. Rapporto impronta ecologica/biocapacità dal 1960 al 2010, basato su due fonti. (Lianos e Pseiridis, 2016)

Gli autori calcolano il prodotto lordo mondiale massimo (PLM, il PIL di tutti i paesi del mondo), la produzione del quale lascerebbe il capitale naturale della Terra e le popolazioni di altre specie intatte (L01). Per non superare questo PLM massimo, ma mantenere un confortevole livello pro capite da media europea (11.000 dollari), dovremmo ridurre la popolazione a 3,1 miliardi. Se volessimo mantenere la popolazione a 7 miliardi, il prodotto pro capite deve essere ridotto drasticamente a 4.950 dollari, dagli attuali 16.100 7. Da ciò risulta chiaro che l’attuale situazione non può essere sostenuta sul lungo periodo e, in un modo o nell’altro, è necessario un ulteriore declino del rapporto impronta ecologica/biocapacità. (Fig. 2)

Fig 2. Il confine (linea rossa) che mostra le scelte che abbiamo se vogliamo preservare la natura – passando da ‘C’ a ‘B’ riducendo il consumo, o ad ‘A’ riducendo la popolazione. (Lianos e Pseiridis, 2016)


Gli autori stimano anche la dimensione massima sostenibile della popolazione dei 50 paesi più popolati, sulla base della capacità di ogni paese di alimentare la propria popolazione. Hanno scoperto che alcuni paesi sono sottopopolati sulla base di questo criterio (fra questi: Argentina, Canada e Russia) e molti sovrappopolati, fra questi: Repubblica di Corea, Giappone, Egitto, Bangladesh, Yemen, Colombia, Nepal, Regno Unito, Venezuela, Vietnam, Filippine e Pakistan. I paesi più pesantemente popolati in termini assoluti sono di gran lunga Cina ed India. Le loro terre coltivabili sono complessivamente solo il 19% del totale globale, tuttavia, ospitano il 37% della popolazione mondiale. Pertanto, gli autori suggeriscono che la popolazione di questi paesi deve diminuire di 1,9 miliardi. Gli autori credono che ciò sia raggiungibile con programmi di pianificazione famigliare efficaci, forti politiche etiche ed incentivi governativi.

The Overpopulation Project sostiene la fine della crescita della popolazione e crede che il declino delle popolazioni dei paesi possa essere vantaggioso per l’ambiente e le persone. Inoltre, come molti altri ricercatori, sosteniamo anche la riduzione del consumo pro capite in paesi con forti consumi , la riduzione del rapporto impronta ecologica/biocapacità e il raggiungimento di società sostenibili a livello ambientale.

Riferimenti:

  1. United Nations. Department of Economic and Social Affairs. Population Division. World population monitoring, 2001 : population, environment and development. (United Nations, 2001).
  2. Cohen, J. E. How many people can the earth support? (Norton, 1995).
  3. Daily, G. C., Ehrlich, A. H. & Ehrlich, P. R. Optimum human population size. Popul. Environ. A J. Interdiscip. Stud. 15, 469–475 (1994).
  4. Pimentel, D., Harman, R., Pacenza, M., Pecarsky, J. & Pimentel, M. Pimentel, David, Natural Resources and an Optimum Human Population. Popul. Environ. 15, 347–369 (1994).
  5. Pimentel, D. et al. Will Limited Land, Water, and Energy Control Human Population Numbers in the Future? Hum. Ecol. 38, 599–611 (2010).
  6. Lianos, T. P. & Pseiridis, A. Sustainable welfare and optimum population size. Environ. Dev. Sustain. 18, 1679–1699 (2016).
  7. United States. Central Intelligence Agency. The CIA world factbook 2014. (Skyhorse Publishing, Inc, 2013).

mercoledì 2 maggio 2018

Dall'Economia alla Resilienza (è troppo tardi per lo sviluppo sostenibile)

(Pubblicato anche sul blog Appello per la Resilienza)
Risultati immagini per sustainable development

Sono passati quasi cinquant’anni da quando è uscito il primo Rapporto sui Limiti dello sviluppo. Se si va a vedere che cosa da allora è stato fatto per invertire la nota rotta del Business As Usual (che secondo quel rapporto ci avrebbe portato sul baratro), che cosa si potrebbe dire?

Si potrebbe dire che la “consapevolezza” verso certi temi e problemi è aumentata. Per esempio oggi nei paesi ricchi c’è molta più attenzione sul tema dei rifiuti rispetto ad allora.

Si potrebbe ricordare di battaglie che sono state vinte, come quella di impedire la diffusione di gas che minacciano di creare il buco nell’ozono.

Bisogna ricordare che nell'ultimo decennio sono decollati progetti e investimenti in energie rinnovabili.

Si potrebbero anche elencare tutte le buone pratiche che sono state attivate; tutte le associazioni, gli enti, le istituzioni che sono state create a tutela dell’ambiente e che quotidianamente fanno qualcosa di utile. 

Molto è stato fatto (e l'elenco è insufficiente), ma è abbastanza per "invertire il BAU"? Come mai la sensazione che non stia cambiando nulla in fondo? Si può avere l’impressione che l’umanità non riesca in fondo a compiere sforzi davvero “significativi” per cambiare i suoi comportamenti a livello globale.

Ma chiediamoci, cosa significa invertire la tendenza al BAU? Prima di tutto cambiare modo di fare business. In secondo luogo, secondo il pensiero dominante significa rendere sostenibile lo sviluppo (1). In altri termini, rendere pulita la crescita, renderla “green”.

Ma si può veramente? Non è lecito, arrivati a questo punto, porsi la questione se tutto ciò non sia stato un errore o un abbaglio?

Il punto è: si possono cambiare i connotati all'economia? Ricordiamo dapprima in che cosa consiste la crescita economica. E’ semplice: ogni anno il Prodotto Interno Lordo di un paese deve aumentare in maniera esponenziale (si cade facilmente nella trappola di immaginarsi una crescita lineare, perché la nostra mente ragiona più arcaicamente quando non è allenata o costretta).

Questo implica che due elementi devono crescere a loro volta: la produzione (offerta) e il consumo (domanda). 

 Risultati immagini per WORLD LIQUID PRODUCTION EIA

 E’ come la doppia elica del DNA che sale, infatti qujando le due linee cominciano a divergere iniziano i problemi (crisi, recessioni, depressioni, ecc).

Risultati immagini per DNA

In realtà è peggio ancora, perchè poi di fatto e per ragioni sistemiche vi sono molti altri fattori che crescono in correlazione.



Bene. C’è un modo di rendere sostenibile questo processo?

Vi è un filone del pensiero economico che sempre nei '70 si è sforzato in tal senso. I più famosi sono Georgescu-Roegen e poi Herman Daly. Avevano compreso che le componenti fisiche non potevano generare una crescita economica perpetua. Veniva ripresa l'idea dei neoclassici secondo cui il sistema avrebbe inevitabilmente raggiunto uno “stato stazionario” (Steady-State economy).

Ma la soluzione a questo punto, da buoni economisti, non poteva essere quella di rifiutare il concetto stesso di crescita – e dunque di economia! - bensì di “arrangiare” la crescita in qualche altro modo. 

Un'economia ecologica poteva fondarsi allora sulla crescita delle componenti non-fisiche, in quanto ritenute non soggette a vincoli materiali(1).

L’economia “ecologica” oggi ha preso il nome di economia circolare. La consapevolezza che non è possibile prendere dal mondo e poi gettare via in eterno i materiali ha creato il "mostro verde" di un’economia circolare in cui i rifiuti diventano risorse al fine di alimentare la crescita.

La sfida qui non si gioca solo dal lato del consumo (che il consumatore impari a riciclare meglio), ma nel migliorare a monte le catene di produzione. Così è possibile che gli infiniti oggetti e merci di cui è composta la nostra vita vengano creati già in modo che una volta consumati possano essere recuperati senza troppe perdite (2).

Ma come non vedere che il sistema economico è concepito per accelerare i tempi di consumo degli oggetti al fine di generare sempre nuovo valore (aumentare il PIL)? Come non vedere che affinché il sistema viva è necessario che gli oggetti muoiano e rinascano continuamente?(3) L’economia circolare si vuole fare furba nel cercare come di “ibernarli” e dargli nuova vita.

Risultati immagini per economia circolare

Stiamo mettendo la polvere sotto al tappeto. Una cosa sembra chiara: non è possibile uno sviluppo che sia sostenibile per il Pianeta (e per noi). Non c'è modo di generare una crescita del PIL senza scatenare processi distruttivi.

Ad essere più precisi bisognerebbe dire che non è possibile uno sviluppo economico sostenibile, perché forse è concepibile che una società possa svilupparsi in maniera etica e giusta in altri modi. La faccenda allora riguarderebbe l’inerzia e la poca creatività che ha l'umanità nel trovare soluzioni ai suoi problemi. 

---

Ugo ha scritto a settembre dopo l'incontro del Club di Roma che:

"[...] più si cerca di stare al di sopra del limite, più veloce e severo sarà il rientro. Quello che si deve fare è rendere più leggero il collasso, seguirlo, non cercare di fermarlo. Altrimenti sarà peggio"


Tutta questa retorica dello sviluppo sostenibile invece consiste nel crearci un “mito”, un'alibi che ce la faremo a mantenere questa stessa società ma più pulita, più green e forse anche più ricca. In fondo non siamo convinti che in un modo o nell'altro la svangheremo?


Che la società stia collassando significa che è anche e soprattutto il sistema economico che sta man mano cedendo e sostenere lo sviluppo sostenibile significa cercare di rallentarne l'inevitabile crollo - rendendolo così ancora peggiore! 

Questo non significa che bisogna rassegnarsi, ma che piuttosto bisogna rimboccarsi le maniche in direzioni nuove. Quali? Se l'economia non è concepita per durare (poiché l'obsolescenza programmata è la sua legge) dobbiamo puntare sul creare strutture capaci di durare e di sopravvivere, in altre parole reti e organizzazioni modulari e veramente resilienti (4). 

"E' troppo tardi per lo sviluppo sostenibile. Dobbiamo mettere più enfasi sulla resilienza del sistema" (Dennis Meadows a Pisa nel 2006)

Non bisogna chiedersi “Come possiamo tenere in piedi l'economia?” ma “Che cosa sopravviverà al crollo dell'economia?”: questa a me sembra la domanda e la sfida, entusiasmante e drammatica al tempo, che si dovrebbero porre oggi gli ambientalisti (5).


NOTE
(1) Era in quel periodo che cominciava l'era dei computer e la finanziarizzazione dell'economiache l'ha accompagnata. La “conoscenza”(nel senso del Terziario) diveniva quel serbatoio che avrebbe fatto decollare ancora l'economia e così è stato. Tuttavia la conoscenza era ed è ben lungi dall'essere svincolata dal legame con la Terra poichè è pur sempre una forma di “lavoro” e dunque richiede energia. La comunità scientifica tarda ad ammettere che il sistema economico richiede in primo luogo energia per essere mantenuto e crescere implica un ammontare esponenziale di energia
(2) Emanuele Bompan ha scritto un libretto semplice in cui spiega “che cos'è l'economia circolare?”.
(3) Jean Baudrillard aveva scritto di questo in particolare nel suo straordinario libro La società dei consumi.
(4)Penso in particolare ai tre lavori di Pablo Servigne e Raphael Stevens: Comment tout peut s'effondrer?; Nurrir l'Europe en temps de crises; Petit manual de resilience local
(5) Anche senza essere magari al corrente del tema del picco del petrolio, molti Comuni italiani, soprattutto al Sud, si stanno organizzando in “comunità di Autoproduzione” dell'energia elettrica rinnovabile in sistemi, mi par di capire, anche off-grid; fonte: Legambiente, comunirinnovabili.it

martedì 24 aprile 2018

Cos'è L' "Effetto Seneca" e Perché è Importante


Questo Post è apparso su "GreenReport" il 10 Aprile 2018

Sostenibilità e “Effetto Seneca”: un antico paradigma che vale anche per i nostri tempi

 O del perché l'ecosistema in cui viviamo non è un supermercato dal quale possiamo prendere quello che ci serve, senza nemmeno dover pagare

di Ugo Bardi

Circa 2.000 anni fa, il filosofo romano Lucio Anneo Seneca scrisse al suo amico Licilio notando che “la crescita è lenta, ma la rovina è rapida”. Era un’osservazione soltanto apparentemente ovvia. Per esempio, vi ricordate della mela di Newton? Tutti sanno che le mele cadono dagli alberi, ma ci è voluto Newton per tirar fuori da questa cosa ben nota una cosa che non era affatto ovvia: la legge della gravitazione universale.

È la stessa cosa per l’osservazione di Seneca che “la rovina è rapida”, che si rivela la chiave di volta per capire gli sviluppi di quello che oggi chiamiamo la “scienza della complessità.” Nell’arco di alcuni decenni, a partire dagli anni ’60 del XX secolo, lo sviluppo del calcolo digitale ha permesso di affrontare problemi che, ai tempi di Newton (per non dire di quelli di Seneca) non si potevano studiare se non in modo molto approssimato.

E così questa nuova scienza ci ha permesso di addentrarci in un mondo che in un certo senso ci era familiare: il mondo delle cose reali che nascono, crescono, e alle volte collassano in modo rovinoso. Ma era anche un mondo che gli scienziati di una volta, abituati a descrivere tutto con delle equazioni, trovavano difficile da capire e che – in pratica – ignoravano. Ma non ci sono equazioni per certi fenomeni naturali come i terremoti, gli uragani, le eruzioni vulcaniche e nemmeno per cose apparentemente semplici come lo scoppio di un palloncino. Nemmeno ci sono equazioni per fenomeni più virtuali, come il collasso degli imperi, i crolli del mercato azionario, la sparizione dei partiti politici, e tante altre cose.

Tutte queste cose, e molte di più, le ho messe insieme nel mio libro che ho intitolato “L’Effetto Seneca” in onore dell’antico filosofo romano. È una storia che racconto a partire da un esempio classico che, nel libro, ho chiamato “la madre di tutti i collassi,” quella dell’Impero Romano. Ma nel libro si parla di tantissime cose: la rottura di oggetti, il crollo degli edifici, la frequenza dei terremoti, la guerra, i mercati finanziari, le estinzioni di massa e tante altre cose. La tesi di fondo è che tutti questi fenomeni hanno molto in comune: il meccanismo del collasso avviene per quello che in inglese chiamiamo “feedback” e che in italiano definiamo come “retroazione”. Più figurativamente, potremmo chiamarlo “effetto valanga” (o anche, ovviamente, “effetto Seneca”).

Ovvero, i sistemi collassano quando uno degli elementi che li compongono cede, ma non soltanto: causa il cedimento degli elementi che lo circondano. Questi, a loro volta, causano il cedimento di altre cose e il crollo si propaga – spesso molto rapidamente: come diceva Seneca, “La rovina è rapida”. È una caratteristica dei sistemi che chiamiamo “network”, che hanno conosciuto uno sviluppo rapidissimo degli studi in proposito.

Ma tutto questo serve per prevedere il futuro? È la domanda che mi viene posta spesso a proposito di questo libro. La risposta è, per dirla con Mark Twain, che le previsioni sono sempre difficili, specialmente quando hanno a che vedere con il futuro. Ma, del resto, che cos’è il futuro se non un fascio di possibilità che noi stessi decidiamo se trasformare in realtà o no? Il futuro non si può prevedere, si può soltanto essere preparati per il futuro.

Seneca stesso sarebbe probabilmente stato d’accordo con questo concetto: era profondamente ingranato nella filosofia stoica (di cui Seneca era un esponente) che dobbiamo sempre essere preparati per il futuro, ben sapendo che la rovina ci può arrivare addosso in qualsiasi momento. Questo vale sia per gli individui come per un’intera società.

Così, i modelli matematici che descrivono “l’Effetto Seneca” sono una quantificazione di un’antica saggezza. Ci possono essere utili per tante cose, forse la principale per renderci conto che l’ecosistema in cui viviamo non è un supermercato dal quale possiamo prendere quello che ci serve – e senza nemmeno dover pagare. È un sistema complesso soggetto al collasso di Seneca. E siccome anche noi facciamo parte dell’ecosistema, il collasso ci può fare grossi danni, per esempio nella forma di cambiamento climatico con tutti gli annessi uragani, siccità, ondate di calore eccetera. Anche uno stoico come Seneca avrebbe detto che se si può cercare di evitare il collasso climatico e altri collassi ambientali, bisogna provarci. Proviamoci.



“The Seneca Effect” è edito in inglese da Springer, e in tedesco da Oekom Verlag. Per il momento non c’è una versione italiana. Ci stiamo lavorando sopra.

“The Seneca Effect” è un rapporto commissionato dal Club di Roma, il quarantaduesimo dopo il celebre rapporto sui limiti dello sviluppo (“The Limits to Growth”) commissionato al Massachussets Institute of Technology e pubblicato nel 1972. È stato presentato nei giorni scorsi nell’Aula magna dell’Università di Firenze.

venerdì 20 aprile 2018

Chi è l’ambiente?

Un post di Natan Feltrin


Chi è l’ambiente?

We are Earthlings first, humans second” (Stan Rowe)

Noi sapiens, come abbiamo avuto piacere a definirci, siamo delle entità biologiche immerse in quella condizione d’esistenza denominata ambiente che è stata l’incubatrice della nostra storia filogenetica ancora prima di accoglierci in quanto “uomini”. Essa, difatti, fu per noi la madre che ci portò in grembo prima di esporci alla luce e poi allattarci.

Solo retroattivamente, dall’alto delle nostre categorie ermeneutiche, abbiamo definito questo essere circondati attivamente, questo essere-parte-di, ambiente, ovvero “intorno dinamico”.  Quando diciamo di avere un ambiente siamo vittime di un délire, in realtà dovremmo asserire di  essere ambiente poiché esso è il punto di congiunzione tra ogni soggettività ed il suo spazio di manifestazione, esso è l’indifferenziazione già plurima. Ognuno ha il proprio ambiente solo nella condizione che l’ambiente abbia ognuno, poiché pulsa attraverso i nostri battiti e si misura attraverso i nostri sensi. In quanto viviamo, esso vive e danza una primordiale danza di creazione e caducità. Esso è dinamico, sempre in moto, poiché noi tutti lo siamo nella nostra irrequietezza di esistenti effimeri.

Questa breve cornice teorica, comune ad ogni entità discreta della zoé, nella quale panteismo ed ecologia sembrano fondersi e confondersi, deve essere tenuta a mente ogniqualvolta si discute di crisi ambientale. Se con l’ambiente siamo davvero in aperto conflitto è perché la parola che usiamo si è fatta muta, poiché di questa architettura di cui ci costituiamo materia abbiamo perso il progetto. Diciamo ambiente, ma immaginiamo sfondi e paesaggi passivi, distanti, reificati… Così si fa strada il pensiero merologico,  il grande mercificatore di valori, l’attitudine mentale che ha venduto in saldo ogni stupore e ha è fatto il mondo “cosa”. Quando ci rappresentiamo l’environment, dall’etimo francese en viron (stare attorno), lo facciamo prendendo distanza da esso, facendolo cosa.

Questo è il passo che l’uomo moderno compie nel descrivere il paesaggio ecologico come il teatro in cui ne va della vita stessa rendendo, però, questa con-partecipazione una recita umana tra infiniti oggetti d’uso nella loro differente utilità.

L’Umwelt scade e diviene cornice di possibilità tutte umane, possibilità che l’uomo fa del mondo e non più con il mondo. La Natura, in ciò, diviene natura morta.

Non è colpa della scienza e nemmeno di una certa filosofia, ma di un intrecciarsi storico di memi se ora siamo convinti di abitare in quadro di still life dove i viv-enti e gli enti appiano come funzioni (anche quelle biologiche non divengono che “funzioni biologiche”). Ed in questo immenso apparato di “mezzi per” quando la smania di manipolazione porta ad un guasto del sistema-mondo esso, heideggerianaménte, si palesa nel suo non essere strumento.

In questa brevissima fenomenologia di come l’ambiente è stato cosificato, e di conseguenza strumentalizzato, risiede il senso profondo dell’Antropo-Eremocene: di quella danza originaria spietata e mirabile non è rimasto che il solo “uomo” e i suoi strumenti. Con gli strumenti, però, non si ha più dialogo, essi non rispondono, non con-vivono, non ricambiano il nostro sguardo, semplicemente fungono da ingranaggi della macchina capitalistica.

Se, in ultima istanza, non capiamo il valore dell’ambiente e lo figuriamo come distante dai nostri più diretti interessi è perché, in fondo, anche in tempi di crisi ecologica speriamo che qualcuno aggiusti la macchina prima che essa ci lasci a terra.

In un’epoca di crescita smodata di biomassa umana e di consumi, la sinfonia vitale del mondo è stata silenziata,  e quel che resta dell’ambiente non è che una macchina difettosa che, purtroppo, impone limiti all’economia e alla smania di accumulazione infinita di alcuni. Per questo dire Gaia non piace all’uomo-dio, poiché tale modo dell’Anthropos il mondo lo vorrebbe calcolare, manipolare ed emendare tramite il potere promesso della geoingegneria.


Aggiustare la macchina non ci aiuterà a curare la nostra ferita di specie, non ci ridarà quanto stiamo perdendo e non farà altro che renderci ancor più cosa tra le cose, merce tra le merci, sino a quando la nostra stella non smetterà di brillare.

Per muoversi fuori dalla palude di siffatto pensiero merologico, bisogna ricondurre la sensibilità verde, animalismo incluso, a interrogarsi profondamente non su cosa sia l’ambiente, ma su chi sia l’ambiente.

Al fondo di questa domanda troveremo innumerevoli ragioni per non smettere d lottare. 
                                                                                                                               (Natan Feltrin)