Intervista da "Sobrevivir al Descalabro" -- Madrid, Novembre 2022
DI UGO BARDI
https://cassandralegacy.blogspot.com/2019/10/the-art-of-war-according-to-science-of.html
Quindi, in tutte le tue battaglie combattere e conquistare non è la suprema eccellenza; l’eccellenza suprema consiste nello spezzare la resistenza del nemico senza combattere. (Sun Tzu, L’arte della guerra)
L’idea che il collasso possa essere uno strumento utilizzabile in guerra potrebbe risalire allo storico e teorico militare cinese Sun Tzu, che nel suo “L’arte della guerra” (5° secolo a.C.), enfatizza il concetto di vincere le battaglie sfruttando la debolezza del nemico piuttosto che la forza bruta.
È normale che in guerra il conflitto si concluda con il crollo di una delle due parti ma, in alcuni casi, il collasso avviene senza grossi combattimenti o addirittura nessuno. Un esempio particolarmente rappresentativo è quello del crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, arrivato dopo diversi decenni di “Guerra Fredda” che non era mai sfociata in un conflitto aperto. Come aveva già notato Sun Tzu, la capacità di innescare il collasso della struttura militare o socio-economica del nemico è probabilmente la strategia di risoluzione dei conflitti più efficace. Ma come raggiungere questo risultato? La moderna scienza dei sistemi complessi può dirci molte cose sui fattori coinvolti nel collasso di tali sistemi, sebbene non possa fornire ricette valide per tutte le situazioni.
Il collasso è una caratteristica dei sistemi caratterizzati da una rete di relazioni interne che comportano un feedback: società, economie, gruppi, aziende, eserciti ed altro ancora, sistemi che definiamo appunto “complessi.” Il feedback può smorzare o esaltare l’effetto delle perturbazioni sui vari elementi del sistema e può arrivare a generare un tipo di collasso chiamato “Collasso di Seneca” o “Scogliera di Seneca.” Questo collasso si verifica quando i diversi elementi del sistema agiscono in sinergia, intensificando gli effetti di una perturbazione che, alla fine, fa crollare l’intero sistema.
Dopotutto, la guerra è principalmente un problema di feedback tra entità combattenti. Gli eserciti manovrano, si scontrano tra loro, si ritirano o avanzano, ma il risultato finale è sempre lo stesso: la lotta termina quando i feedback si accumulano in modo tale che una delle due parti collassa. A quel punto, la battaglia è finita.
Possiamo considerare gli eserciti come reti di soldati, ognuno connesso ai soldati vicini. In uno scontro militare, la perdita di un singolo nodo, cioè di un singolo soldato, ha di per sé un effetto limitato sulle prestazioni del sistema. Ma può essere devastante se entra in azione il mortale meccanismo del feedback. Un soldato scappa, un altro soldato lo vede correre e fa lo stesso. Altri seguono l’esempio. Questo potrebbe causare la dissoluzione dell’intero esercito, un tipico esempio di collasso generato dal feedback e anche l’incubo dei comandanti militari di tutta la storia. Certo, negli eserciti reali le cose non sono così semplici, ma è anche vero che gli eserciti dell’antichità avevano spesso una catena di comando mal definita e questo li rendeva particolarmente esposti al crollo repentino. Ad esempio, nella battaglia di Manzikert, nel 1071 d.C., i Bizantini erano stati sconfitti dai Turchi perché, tra gli altri fattori, alcuni settori dell’esercito erano stati presi dal panico e si erano dati alla fuga.
Una volta che iniziamo a considerare la guerra in termini di sistemi complessi che interagiscono tra loro, possiamo capire come la selezione naturale sul campo di battaglia abbia portato gli eserciti ad evolversi in strutture più resistenti al collasso. Nel 1800, i Prussiani avevano sviluppato un esercito in cui ogni soldato avrebbe dovuto continuare a ricaricare e a sparare, indifferente a tutto ciò che accadeva intorno a lui. Idealmente, avrebbe dovuto continuare a sparare anche se fosse stato l’ultimo a rimanere in piedi. In pratica, i Prussiani avevano interrotto le connessioni orizzontali della rete dell’esercito, lasciando solo quelle “verticali” che collegavano i soldati ai loro ufficiali. Era il concetto, attribuito a Federico il Grande, che i soldati comuni avrebbero dovuto temere i propri ufficiali più del nemico. Questo aveva reso la rete resiliente al collasso: perdere un nodo non avrebbe comportato una valanga di perdite di nodi a causa del feedback.
L’idea prussiana si era dimostrata vincente ed è ancora il modo in cui sono organizzati gli eserciti moderni. Ma, se ha reso più difficile il collasso “dal basso,” ha aumentato le possibilità di un collasso dall’alto verso il basso. Un esercito strutturato verticalmente è vulnerabile ad un “attacco di decapitazione,” un concetto già noto a quelli che, molto tempo fa, avevano inventato il gioco degli scacchi. Un caso moderno di questo tipo di collasso si era verificato in Italia nel settembre del 1943. Dopo l’improvvisa rimozione del carismatico leader italiano, Benito Mussolini, le forze armate italiane si erano praticamente disintegrate quando il re d’Italia era fuggito dalla capitale, Roma, lasciando l’esercito senza comando e senza chiare istruzioni. In questo modo, [il re, con la sua fuga] aveva traslato nella vita reale il concetto scacchistico dello “scaccomatto.” Altri esempi di crollo per decapitazione esistono nella storia, uno è stato il collasso delle forze albanesi durante invasione italiana del 1939. Sarebbe stata ogni caso una lotta senza speranza, ma la fuga del re d’Albania, Zog, aveva causato la scomparsa totale di ogni resistenza, un altro caso di scaccomatto nella vita reale.
Alcuni casi di attacchi di decapitazione falliti. Un esempio è il tentativo di alcuni ufficiali tedeschi di uccidere Adolf Hitler nel 1944. Non erano riusciti nel loro intento, quindi non sapremo mai che cosa sarebbe successo se Hitler fosse morto quel giorno. Un altro esempio è stato l’attacco contro l’Iraq nel 2003, che mirava ad uccidere la maggior parte dei membri del governo iracheno. Anche quel tentativo era fallito.
Il problema insito nell’idea di distruggere una struttura militare per decapitazione è duplice: il primo è che anche il nemico sa benissimo che i sui leader sono un obiettivo di valore e quindi fa di tutto per proteggerli il meglio possibile. Bisogna ricordare qui la figura del kagemusha, il “guerriero ombra” della storia militare giapponese, il cui compito era quello di impersonare un leader militare per indurre il nemico a concentrare i propri sforzi su di lui, piuttosto che sul vero bersaglio. E’ anche vero però che in tempi moderni gli eserciti hanno sviluppato una struttura meno rigida, in cui le piccole unità possono continuare a combattere anche se perdono il contatto con il loro centro di comando. È un modo di combattere che era stato introdotto da Edwin Rommel durante la Prima Guerra Mondiale ed ampiamente utilizzato da Heinz Guderian durante la Seconda.
Un altro esempio recente di resilienza in un conflitto armato è stato lo scontro del 2006 tra Israele ed Hezbollah, in Libano. L’apparato bellico di Hezbollah è ben lungi dall’essere un esercito tradizionale: è un sistema altamente resiliente basato su piccole unità con pochissimi collegamenti tra loro. Alla fine, [questo sistema] ha avuto la meglio contro un avversario teoricamente molto più potente. Dare un certo grado di libertà alle piccole unità è rischioso, poiché queste unità potrebbero non comportarsi secondo gli ordini del comando centrale. Ma sembra essere molto efficace nei tempi moderni, anche a causa dello sviluppo delle moderne tecniche di propaganda. Oggi, i soldati normalmente non combattono per denaro, sono fortemente condizionati dalla propaganda o dalle credenze religiose.
Alla fine, condurre una guerra è praticamente una questione di comando e controllo ed esistono molte possibili interpretazioni su come controllare un esercito in modo da renderlo resistente al collasso. Fino ad oggi, la propaganda rimane il principale strumento motivazionale per indurre i soldati a combattere ma, come ho affermato in un precedente post, la guerra moderna sembra affidarsi sempre più ad armi robotizzate, telecomandate o addirittura autonome.
Un concetto legato alla nascita dei robot militari è quello del “Network Centered Warfare” chiamato anche, talvolta, “Effect based operations.” L’idea è di trasformare un esercito in una singola arma usando sofisticate tecniche di comunicazione. La domanda, quindi, è chi controllerebbe quell’arma? Se esiste un unico sistema di controllo centrale, l’intero sistema diventa nuovamente vulnerabile ad un attacco per decapitazione. Un attacco al centro operativo potrebbe renderlo inutile, proprio come i pezzi sulla scacchiera quando il re è sotto scacco.
Ma è anche perfettamente possibile organizzare i robot militari in unità piccole e relativamente indipendenti. Non cambia però la domanda principale: chi controllerà i robot militari? È una domanda che, finora, non ha trovato una risposta semplice. Ovviamente, i robot non sono sensibili alla propaganda, ma i loro controllori sono ancora esseri umani. La propaganda è uno strumento che era stato sviluppato per controllare i fanti schierati in tricea di fronte al nemico, ora abbiamo bisogno di strumenti per controllare i controllori dei robot, professionisti specializzati che operano in sicurezza da postazioni remote. Tecniche appropriate non sono ancora state sviluppate e non sappiamo quale forma potrebbero prendere e in che modo influenzerebbero il modo di condurre una guerra.
Quindi, è difficile prevedere quale sarà il futuro delle tecniche di guerra ma, chiaramente, nulla cambierà nelle sue caratteristiche di base: la guerra è una lotta che può essere combattuta nello spazio reale, nello spazio virtuale o in entrambi. Probabilmente vedremo un grosso passaggio alla guerra virtuale, ma quello che stiamo seguendo è un percorso tortuoso. Come sempre, il futuro sarà quello che doveva essere.
Tratto da “The Seneca Effect” (Springer 2017)
Fonte: cassandralegacy.blogspot.com
Link: https://cassandralegacy.blogspot.com/2019/10/the-art-of-war-according-to-science-of.html
https://cassandralegacy.blogspot.com/2019/10/the-art-of-war-according-to-science-of.html
Quindi, in tutte le tue battaglie combattere e conquistare non è la suprema eccellenza; l’eccellenza suprema consiste nello spezzare la resistenza del nemico senza combattere. (Sun Tzu, L’arte della guerra)
L’idea che il collasso possa essere uno strumento utilizzabile in guerra potrebbe risalire allo storico e teorico militare cinese Sun Tzu, che nel suo “L’arte della guerra” (5° secolo a.C.), enfatizza il concetto di vincere le battaglie sfruttando la debolezza del nemico piuttosto che la forza bruta.
È normale che in guerra il conflitto si concluda con il crollo di una delle due parti ma, in alcuni casi, il collasso avviene senza grossi combattimenti o addirittura nessuno. Un esempio particolarmente rappresentativo è quello del crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, arrivato dopo diversi decenni di “Guerra Fredda” che non era mai sfociata in un conflitto aperto. Come aveva già notato Sun Tzu, la capacità di innescare il collasso della struttura militare o socio-economica del nemico è probabilmente la strategia di risoluzione dei conflitti più efficace. Ma come raggiungere questo risultato? La moderna scienza dei sistemi complessi può dirci molte cose sui fattori coinvolti nel collasso di tali sistemi, sebbene non possa fornire ricette valide per tutte le situazioni.
Il collasso è una caratteristica dei sistemi caratterizzati da una rete di relazioni interne che comportano un feedback: società, economie, gruppi, aziende, eserciti ed altro ancora, sistemi che definiamo appunto “complessi.” Il feedback può smorzare o esaltare l’effetto delle perturbazioni sui vari elementi del sistema e può arrivare a generare un tipo di collasso chiamato “Collasso di Seneca” o “Scogliera di Seneca.” Questo collasso si verifica quando i diversi elementi del sistema agiscono in sinergia, intensificando gli effetti di una perturbazione che, alla fine, fa crollare l’intero sistema.
Dopotutto, la guerra è principalmente un problema di feedback tra entità combattenti. Gli eserciti manovrano, si scontrano tra loro, si ritirano o avanzano, ma il risultato finale è sempre lo stesso: la lotta termina quando i feedback si accumulano in modo tale che una delle due parti collassa. A quel punto, la battaglia è finita.
Possiamo considerare gli eserciti come reti di soldati, ognuno connesso ai soldati vicini. In uno scontro militare, la perdita di un singolo nodo, cioè di un singolo soldato, ha di per sé un effetto limitato sulle prestazioni del sistema. Ma può essere devastante se entra in azione il mortale meccanismo del feedback. Un soldato scappa, un altro soldato lo vede correre e fa lo stesso. Altri seguono l’esempio. Questo potrebbe causare la dissoluzione dell’intero esercito, un tipico esempio di collasso generato dal feedback e anche l’incubo dei comandanti militari di tutta la storia. Certo, negli eserciti reali le cose non sono così semplici, ma è anche vero che gli eserciti dell’antichità avevano spesso una catena di comando mal definita e questo li rendeva particolarmente esposti al crollo repentino. Ad esempio, nella battaglia di Manzikert, nel 1071 d.C., i Bizantini erano stati sconfitti dai Turchi perché, tra gli altri fattori, alcuni settori dell’esercito erano stati presi dal panico e si erano dati alla fuga.
Una volta che iniziamo a considerare la guerra in termini di sistemi complessi che interagiscono tra loro, possiamo capire come la selezione naturale sul campo di battaglia abbia portato gli eserciti ad evolversi in strutture più resistenti al collasso. Nel 1800, i Prussiani avevano sviluppato un esercito in cui ogni soldato avrebbe dovuto continuare a ricaricare e a sparare, indifferente a tutto ciò che accadeva intorno a lui. Idealmente, avrebbe dovuto continuare a sparare anche se fosse stato l’ultimo a rimanere in piedi. In pratica, i Prussiani avevano interrotto le connessioni orizzontali della rete dell’esercito, lasciando solo quelle “verticali” che collegavano i soldati ai loro ufficiali. Era il concetto, attribuito a Federico il Grande, che i soldati comuni avrebbero dovuto temere i propri ufficiali più del nemico. Questo aveva reso la rete resiliente al collasso: perdere un nodo non avrebbe comportato una valanga di perdite di nodi a causa del feedback.
L’idea prussiana si era dimostrata vincente ed è ancora il modo in cui sono organizzati gli eserciti moderni. Ma, se ha reso più difficile il collasso “dal basso,” ha aumentato le possibilità di un collasso dall’alto verso il basso. Un esercito strutturato verticalmente è vulnerabile ad un “attacco di decapitazione,” un concetto già noto a quelli che, molto tempo fa, avevano inventato il gioco degli scacchi. Un caso moderno di questo tipo di collasso si era verificato in Italia nel settembre del 1943. Dopo l’improvvisa rimozione del carismatico leader italiano, Benito Mussolini, le forze armate italiane si erano praticamente disintegrate quando il re d’Italia era fuggito dalla capitale, Roma, lasciando l’esercito senza comando e senza chiare istruzioni. In questo modo, [il re, con la sua fuga] aveva traslato nella vita reale il concetto scacchistico dello “scaccomatto.” Altri esempi di crollo per decapitazione esistono nella storia, uno è stato il collasso delle forze albanesi durante invasione italiana del 1939. Sarebbe stata ogni caso una lotta senza speranza, ma la fuga del re d’Albania, Zog, aveva causato la scomparsa totale di ogni resistenza, un altro caso di scaccomatto nella vita reale.
Alcuni casi di attacchi di decapitazione falliti. Un esempio è il tentativo di alcuni ufficiali tedeschi di uccidere Adolf Hitler nel 1944. Non erano riusciti nel loro intento, quindi non sapremo mai che cosa sarebbe successo se Hitler fosse morto quel giorno. Un altro esempio è stato l’attacco contro l’Iraq nel 2003, che mirava ad uccidere la maggior parte dei membri del governo iracheno. Anche quel tentativo era fallito.
Il problema insito nell’idea di distruggere una struttura militare per decapitazione è duplice: il primo è che anche il nemico sa benissimo che i sui leader sono un obiettivo di valore e quindi fa di tutto per proteggerli il meglio possibile. Bisogna ricordare qui la figura del kagemusha, il “guerriero ombra” della storia militare giapponese, il cui compito era quello di impersonare un leader militare per indurre il nemico a concentrare i propri sforzi su di lui, piuttosto che sul vero bersaglio. E’ anche vero però che in tempi moderni gli eserciti hanno sviluppato una struttura meno rigida, in cui le piccole unità possono continuare a combattere anche se perdono il contatto con il loro centro di comando. È un modo di combattere che era stato introdotto da Edwin Rommel durante la Prima Guerra Mondiale ed ampiamente utilizzato da Heinz Guderian durante la Seconda.
Un altro esempio recente di resilienza in un conflitto armato è stato lo scontro del 2006 tra Israele ed Hezbollah, in Libano. L’apparato bellico di Hezbollah è ben lungi dall’essere un esercito tradizionale: è un sistema altamente resiliente basato su piccole unità con pochissimi collegamenti tra loro. Alla fine, [questo sistema] ha avuto la meglio contro un avversario teoricamente molto più potente. Dare un certo grado di libertà alle piccole unità è rischioso, poiché queste unità potrebbero non comportarsi secondo gli ordini del comando centrale. Ma sembra essere molto efficace nei tempi moderni, anche a causa dello sviluppo delle moderne tecniche di propaganda. Oggi, i soldati normalmente non combattono per denaro, sono fortemente condizionati dalla propaganda o dalle credenze religiose.
Alla fine, condurre una guerra è praticamente una questione di comando e controllo ed esistono molte possibili interpretazioni su come controllare un esercito in modo da renderlo resistente al collasso. Fino ad oggi, la propaganda rimane il principale strumento motivazionale per indurre i soldati a combattere ma, come ho affermato in un precedente post, la guerra moderna sembra affidarsi sempre più ad armi robotizzate, telecomandate o addirittura autonome.
Un concetto legato alla nascita dei robot militari è quello del “Network Centered Warfare” chiamato anche, talvolta, “Effect based operations.” L’idea è di trasformare un esercito in una singola arma usando sofisticate tecniche di comunicazione. La domanda, quindi, è chi controllerebbe quell’arma? Se esiste un unico sistema di controllo centrale, l’intero sistema diventa nuovamente vulnerabile ad un attacco per decapitazione. Un attacco al centro operativo potrebbe renderlo inutile, proprio come i pezzi sulla scacchiera quando il re è sotto scacco.
Ma è anche perfettamente possibile organizzare i robot militari in unità piccole e relativamente indipendenti. Non cambia però la domanda principale: chi controllerà i robot militari? È una domanda che, finora, non ha trovato una risposta semplice. Ovviamente, i robot non sono sensibili alla propaganda, ma i loro controllori sono ancora esseri umani. La propaganda è uno strumento che era stato sviluppato per controllare i fanti schierati in tricea di fronte al nemico, ora abbiamo bisogno di strumenti per controllare i controllori dei robot, professionisti specializzati che operano in sicurezza da postazioni remote. Tecniche appropriate non sono ancora state sviluppate e non sappiamo quale forma potrebbero prendere e in che modo influenzerebbero il modo di condurre una guerra.
Quindi, è difficile prevedere quale sarà il futuro delle tecniche di guerra ma, chiaramente, nulla cambierà nelle sue caratteristiche di base: la guerra è una lotta che può essere combattuta nello spazio reale, nello spazio virtuale o in entrambi. Probabilmente vedremo un grosso passaggio alla guerra virtuale, ma quello che stiamo seguendo è un percorso tortuoso. Come sempre, il futuro sarà quello che doveva essere.
Tratto da “The Seneca Effect” (Springer 2017)
Fonte: cassandralegacy.blogspot.com
Link: https://cassandralegacy.blogspot.com/2019/10/the-art-of-war-according-to-science-of.html