venerdì 20 aprile 2018

Chi è l’ambiente?

Un post di Natan Feltrin


Chi è l’ambiente?

We are Earthlings first, humans second” (Stan Rowe)

Noi sapiens, come abbiamo avuto piacere a definirci, siamo delle entità biologiche immerse in quella condizione d’esistenza denominata ambiente che è stata l’incubatrice della nostra storia filogenetica ancora prima di accoglierci in quanto “uomini”. Essa, difatti, fu per noi la madre che ci portò in grembo prima di esporci alla luce e poi allattarci.

Solo retroattivamente, dall’alto delle nostre categorie ermeneutiche, abbiamo definito questo essere circondati attivamente, questo essere-parte-di, ambiente, ovvero “intorno dinamico”.  Quando diciamo di avere un ambiente siamo vittime di un délire, in realtà dovremmo asserire di  essere ambiente poiché esso è il punto di congiunzione tra ogni soggettività ed il suo spazio di manifestazione, esso è l’indifferenziazione già plurima. Ognuno ha il proprio ambiente solo nella condizione che l’ambiente abbia ognuno, poiché pulsa attraverso i nostri battiti e si misura attraverso i nostri sensi. In quanto viviamo, esso vive e danza una primordiale danza di creazione e caducità. Esso è dinamico, sempre in moto, poiché noi tutti lo siamo nella nostra irrequietezza di esistenti effimeri.

Questa breve cornice teorica, comune ad ogni entità discreta della zoé, nella quale panteismo ed ecologia sembrano fondersi e confondersi, deve essere tenuta a mente ogniqualvolta si discute di crisi ambientale. Se con l’ambiente siamo davvero in aperto conflitto è perché la parola che usiamo si è fatta muta, poiché di questa architettura di cui ci costituiamo materia abbiamo perso il progetto. Diciamo ambiente, ma immaginiamo sfondi e paesaggi passivi, distanti, reificati… Così si fa strada il pensiero merologico,  il grande mercificatore di valori, l’attitudine mentale che ha venduto in saldo ogni stupore e ha è fatto il mondo “cosa”. Quando ci rappresentiamo l’environment, dall’etimo francese en viron (stare attorno), lo facciamo prendendo distanza da esso, facendolo cosa.

Questo è il passo che l’uomo moderno compie nel descrivere il paesaggio ecologico come il teatro in cui ne va della vita stessa rendendo, però, questa con-partecipazione una recita umana tra infiniti oggetti d’uso nella loro differente utilità.

L’Umwelt scade e diviene cornice di possibilità tutte umane, possibilità che l’uomo fa del mondo e non più con il mondo. La Natura, in ciò, diviene natura morta.

Non è colpa della scienza e nemmeno di una certa filosofia, ma di un intrecciarsi storico di memi se ora siamo convinti di abitare in quadro di still life dove i viv-enti e gli enti appiano come funzioni (anche quelle biologiche non divengono che “funzioni biologiche”). Ed in questo immenso apparato di “mezzi per” quando la smania di manipolazione porta ad un guasto del sistema-mondo esso, heideggerianaménte, si palesa nel suo non essere strumento.

In questa brevissima fenomenologia di come l’ambiente è stato cosificato, e di conseguenza strumentalizzato, risiede il senso profondo dell’Antropo-Eremocene: di quella danza originaria spietata e mirabile non è rimasto che il solo “uomo” e i suoi strumenti. Con gli strumenti, però, non si ha più dialogo, essi non rispondono, non con-vivono, non ricambiano il nostro sguardo, semplicemente fungono da ingranaggi della macchina capitalistica.

Se, in ultima istanza, non capiamo il valore dell’ambiente e lo figuriamo come distante dai nostri più diretti interessi è perché, in fondo, anche in tempi di crisi ecologica speriamo che qualcuno aggiusti la macchina prima che essa ci lasci a terra.

In un’epoca di crescita smodata di biomassa umana e di consumi, la sinfonia vitale del mondo è stata silenziata,  e quel che resta dell’ambiente non è che una macchina difettosa che, purtroppo, impone limiti all’economia e alla smania di accumulazione infinita di alcuni. Per questo dire Gaia non piace all’uomo-dio, poiché tale modo dell’Anthropos il mondo lo vorrebbe calcolare, manipolare ed emendare tramite il potere promesso della geoingegneria.


Aggiustare la macchina non ci aiuterà a curare la nostra ferita di specie, non ci ridarà quanto stiamo perdendo e non farà altro che renderci ancor più cosa tra le cose, merce tra le merci, sino a quando la nostra stella non smetterà di brillare.

Per muoversi fuori dalla palude di siffatto pensiero merologico, bisogna ricondurre la sensibilità verde, animalismo incluso, a interrogarsi profondamente non su cosa sia l’ambiente, ma su chi sia l’ambiente.

Al fondo di questa domanda troveremo innumerevoli ragioni per non smettere d lottare. 
                                                                                                                               (Natan Feltrin)