domenica 29 marzo 2015

Il Tao della Liberazione



Il Tao va molto di moda in questi ultimi anni, e per delle buone ragioni. Tanto è vero che io stesso porto spesso con me, mentre viaggio in aereo, una copia del "Tao Te Ching" nella traduzione di Ursula Le Guin. E' un'ottima lettura per l'unico posto rimasto (per ora) libero da Internet: la cabina di un aereo in volo.

Quindi, mi sono avvicinato con un certo interesse a questo libro di Boff e Hathaway, senza spaventarmi troppo delle sue 686 pagine. Devo dire, ne valeva la pena. E' decisamente un bel libro, ben scritto e ben argomentato.

Gli autori del "Tao della Liberazione" si sono presi un bell'impegno a raccontare in un unico testo praticamente la "teoria del tutto" così come la vediamo in questi anni del secolo ventunesimo; passando dalla cosmologia alla teologia, comprendendo l'ecologia e la psicologia. Nessuno dei due è uno scienziato, ma quando hanno affrontato argomenti strettamente scientifici lo hanno fatto correttamente, senza sbavature e senza errori; senza cadere (non troppo, perlomeno) nelle chiacchere vaporose sulla scienza "olistica" e "post-einsteiniana" che fa spesso Fritjof Capra che (purtroppo) firma l'introduzione. Insomma, vale la pena di leggere questo libro per farsi un'idea di tutto quello che passa nella "mente collettiva" umana in questo difficile periodo.

Il problema con questo libro è che, come tanti libri di questo genere, è pieno di esortazioni a fare certe cose. Ma come passiamo dalla teoria alla pratica?

Al momento, intorno a noi, tutti sono pienamente convinti che i guai che stiamo passando siano dovuti agli immigrati e all'Euro  - ne consegue che buttando in mare gli immigrati e tornando alla vecchia lira, tutti i problemi si risolveranno per incanto e vivremo felici e contenti.

Come possiamo contestare un'opinione cosi largamente condivisa? Presentare nel dibattito il concetto di Tao della liberazione, oppure il microcosmo olistico, non è cosa facile, anche se uno ci volesse provare.

Dovremmo trovare il modo di passare dall'esortazione all'azione. Ma come? Qualcuno ha qualche idea?




(h/t Giorgio Mastrorocco)

 

Il culto dello sportello: l'università come il castello di Macbeth, quello dove non viene mai nessuno


Per la serie "Il culto dello sportello", ecco un altro post che descrive una storia veramente accaduta;  solo un tantino riarrangiata per non rendere il luogo e le persone troppo riconoscibili (Per altre storie di culto dello sportello, vedi  qui, e qui)


Da qualche tempo, è venuto fuori che i nostri  uffici amministrativi, all'università, sono aperti al pubblico soltanto dalle 11 alle 13. Il concetto è un po' strano, dato che, normalmente, il "pubblico" non ha ragione di accedere all'edificio che è frequentato soltanto dal personale universitario. Ma, per qualche ragione, da un certo punto in poi, tutti quelli che non hanno a che fare con l'amministrazione, che una volta erano considerati "colleghi," sono ora stati degradati alla condizione di "pubblico" e come tali non hanno la possibilità di parlare a quelli che un tempo ritenevano loro colleghi; se non ad orari ristretti.

Il risultato è che se vi capita di passare fuori orario per uno dei corridoi sui quali si affacciano gli uffici dell'amministrazione, le troverete tutte rigorosamente chiuse - anzi serrate - come è ben chiaro da un cartello che appare su ognuna: "aperto al pubblico solo dalle 11 alle 13". Questo da ai corridoi stessi un aspetto un po' spettrale; qualcosa tipo il castello di Macbeth, dove si sa che non veniva mai nessuno (e per delle buone ragioni).

Così, io e una collega ci avventuriamo un giorno in direzione una delle stanze del castello; per prima cosa assicurandoci di presentarci ben dopo che le 11 del mattino. Sono le 11 e un quarto e, in effetti, la porta fatidica non è sbarrata. Per la verità, non è nemmeno spalancata; è socchiusa.

La collega bussa piano, non risponde nessuno. Proviamo a spingere delicatamente la porta; si apre verso il misterioso antro che si cela dall'altra parte. Entriamo in punta di piedi, dicendo "E' permesso?"

All'altro capo della stanza, l'impiegato ci da le spalle seduto davanti allo schermo del suo PC. Via via che ci avviciniamo, non da segno di averci notati. Soltanto quando non ne può proprio più fare a meno, gira la testa nella nostra direzione, lasciando però le spalle rivolte allo schermo. Se mai c'è stato un linguaggio del corpo che indica "ho da fare, non mi disturbate" questa posizione lo esprime con una chiarezza quasi lancinante.

La collega è persona di grande cortesia e pazienza e si esprime in modo gentilissimo, "sa'... abbiamo questo problema.... è una piccola cosa... ma ci servirebbe questo documento dalla nostra amministrazione con una certa urgenza....."

La risposta non è propriamente scortese, ma sembra che arrivi da un'entità ultraterrena che occupa per puro caso il corpo del terrestre che abbiamo di fronte. "Non dipende da me. Non posso fare niente."

La collega insiste in modo sempre molto urbano. La risposta è sempre la stessa, "non è questo l'ufficio, dovete sentire un altro ufficio." Provo a intervenire io, sempre in modo il più possibile cortese. Dico, "Sa, quell'ufficio che lei menziona lo avevamo già contattato l'altro giorno. Ma ci avevano detto che prima dovevamo sentire lei...."

Scuote la testa, "non ci posso fare nulla, non dipende da me." La collega esprime ancora domande sempre più supplichevoli, ma l'impiegato sta lentamente riportando la direzione della sua testa verso lo schermo. Ancora un chiaro esempio di linguaggio del corpo: colloquio finito, arrivederci.

Usciamo dalla stanza, credo che anche la collega si sia domandata se non fosse il caso di farlo come si faceva con gli imperatori cinesi, ovvero camminando all'indietro. Forse avremmo anche dovuto inchinarci a toccare il pavimento con la testa. Niente da fare, quel documento non l'abbiamo avuto.

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Raccontando questa curiosa storia, mi viene in mente che, in tutta la mia carriera, mi ero fatto un punto d'onore di lasciare sempre aperta la porta del mio ufficio nel sulla base dell'idea che se un collega aveva bisogno di me, se c'ero, non dovevano nemmeno bussare. Evidentemente, sbagliavo qualcosa di fondamentale.

Quale mostruosa cosa è successa che ha trasformato i colleghi amministrativi in creature che devono difendersi dagli attacchi degli altri colleghi barricandosi dietro le loro porte? Quale ancestrale terrore affliggeva l'impiegato che ci ha lanciato messaggi del corpo così chiari quando abbiamo tentato di parlargli? Forse davvero, come nel castello di Macbeth, ogni tanto qualcuno sparisce anche qui da noi e non se ne trova più traccia? Mah?







sabato 28 marzo 2015

Il culto dello sportello secondo Eugenio Benettazzo

Il tema del "il culto dello sportello" è stato affrontato diverse volte in questo blog, (vedi, per esempio qui, e qui) sulla base del concetto  che non di solo esaurimento delle risorse muore la civiltà. Può morire, (come insegna Joseph Tainter) anche per i ritorni decrescenti della eccessiva burocrazia.  Ecco una interpretazione sul tema  dal blog di Eugenio Benettazzo.  E' discutibile il comportamento aggressivo di Benettazzo in questo frangente, come pure il fatto di considerare gli impiegati statali come "nemici del popolo", da controllare e, se necessario, da punire senza pietà. Ma è  una storia meritevole di essere letta.

YOU ARE FIRED

Di Eugenio Benettazzo - pubblicato in data 12 Marzo 1015

Tradotto dall’inglese il titolo di questo post significa “lei è licenziato”. Vi racconto un episodio che ho vissuto di recente. Mi sono recato presso un ente pubblico in una provincia del Veneto per richiedere un determinato certificato ai fini lavorativi per l’estero. Arriva il mio turno presso lo sportello preposto, mi consegnano i moduli da sottoscrivere per il rilascio di tale documentazione, dopo di che mi evidenziano che devo allegare anche marche da bollo per qualche dozzina di euro. Faccio presente che per i certificati sono esentati dall’imposta di bollo in quanto il soggetto richiedente è un altro stato comunitario ed inoltre la casistica per cui tale documentazione viene richiesta rientra in un caso di evidente esenzione. Ricordo inoltre al funzionario dello sportello che due anni fa feci la medesima richiesta e che lo sportello di allora evase il tutto senza applicazione di imposta di bollo. L’operatore preposto mi ribadisce che non può protocollare la richiesta di emissione del certificato senza le dovute (secondo lui) marche da bollo. Dopo insistenze varie da parte mia e tentativi di ragionamento inutili vista la chiusura mentale dell’operatore, alla fine proprio quest’ultimo mi indica di rivolgermi al dirigente di servizio al fine di avallare il deposito dell’istanza presso l’ente pubblico in assenza di imposta di bollo. Mi reco presso l’ufficio di questo dirigente, distante pochi metri dallo sportello aperto al pubblico, ed espongo la mia richiesta facendo notare che due anni prima era stata evasa senza tante difficoltà.

Risposta del dirigente: non è possibile accoglierla in quanto generica, deve indicare gli articoli di legge per cui le spetta l’esenzione. Esco dall’ufficio piuttosto infastidito, non tanto per il contenuto della risposta, quanto per il tono arrogante e indisponente di questo dirigente. In quel momento ho pensato: al diavolo questo ufficio, faccio la richiesta direttamente all’ambasciata tra qualche settimana che sono più cortesi e disponibili e so per certo che l’imposta di bollo non è dovuta. Tuttavia l’idea di avergliela lasciata vinta mi avrebbe rovinato la giornata, cosi sono ritornato allo sportello ed ho chiesto l’estratto della legge di riferimento da cui si evincono i casi di esenzione. Sempre con fare indisponente, l’operatore preposto mi fornisce una copia di tale provvedimento legislativo, sottolineando che loro non sono tenuti a fornire tale documentazione. Mi metto a leggere il tutto, non ricordandomi gli articoli del dispositivo ma i casi di esenzione e dopo quindici minuti finalmente individuo il mio caso specifico. A quel punto ricompilo il modulo di richiesta indicando la legge, l’articolo specifico e la finalità della richiesta. Mi rimetto in coda e quando arriva il mio turno consegno il tutto. L’operatore mi guarda con occhio indispettito e infastidito, mi dice che senza il benestare del suo dirigente la richiesta in ogni caso non può essere accolta e mi invita per questo a ritornare presso il suo ufficio. Nel frattempo avevo notato inconsciamente numerose lamentele anche di altri utenti per il modo di relazionarsi che aveva questo operatore di sportello.

Ritorno nell’ufficio del dirigente, presento il nuovo modulo con le indicazione specifiche di esenzione e faccio presente che allo sportello non sono disposti a protocollarlo. Risposta del dirigente: non basta l’indicazione che attesta l’esenzione, lei deve allegare anche la richiesta del soggetto che esige tale documentazione. Faccio presente che la eventuale richiesta che pretendete sarebbe scritta in inglese da un dipartimento ministeriale di un paese comunitario e che pertanto difficilmente sarebbe accettata in quanto non in lingua italiana. In ogni caso ribadisco che qualche minuto fa lei mi aveva richiesto solo di inserire gli articoli della tal legge dai quali si evince l’esenzione.

Risposta (gridando) del dirigente: adesso basta, non ho tempo da perdere con queste fesserie, vada fuori dai coglioni o chiamo la vigilanza. Il dirigente nell’esprimersi in questo modo si era anche alzato e mi aveva strappato di mano i moduli in questione, spingendomi verso la porta di uscita. Le grida hanno attirato l’attenzione di tutti i presenti, chi non aveva assistito al tutto immaginava una colluttazione o una rissa. Riprendo i miei moduli e ritorno allo sportello, non arrabbiato o adirato, ma ben motivato in quelle che sarebbero state le mie successive mosse. L’operatore, che nel frattempo aveva sentito la voce grossa di questo dirigente, mi ribadisce che non può ricevere i moduli di richiesta che voglio presentare. A quel punto chiedo a questo soggetto di fornire le sue generalità ovvero nome e cognome. Risposta evasiva di questa persona: non sono autorizzato a dirle come mi chiamo.

Il tutto aveva destato l’attenzione dei vari utenti presenti che erano allibiti per quanto stava succedendo. Ribadisco all’operatore che è tenuto a identificarsi, gli ricordo che sta aggravando la sua situazione e nel contempo richiedo il nome del direttore del personale. Spero mi crederete, la persona in questione si alza dalla sua postazione e va a nascondersi dietro agli armadi delle pratiche: gli altri utenti non credevano ai loro occhi. Dopo svariati richiami a uscire dal nascondiglio in cui tentava di celarsi, mi si avvicina una persona (che sembrava un altro utente) e mi dice che il dirigente delle risorse umane si chiama >>omissisis<< e che il suo ufficio è al terzo piano. Mi reco velocemente presso tale ufficio, busso, entro ed espongo quanto mi è appena accaduto.

Quest’altro dirigente mi risponde: io non ci posso fare niente. Lo invito a quel punto a scendere con me per avere un conforto anche dagli altri utenti che hanno assistito al tutto. Risposta: non mi posso muovere da questo ufficio se la deve vedere con i vari soggetti di persona; se ritiene di aver subito un torto scriva al Ministro. Aspettavo una risposta di questo tipo ed a quel punto ho calato l’asso. Faccio presente al dirigente in questione che questa conversazione è appena stata registrata, ed esibisco un registratore portatile dalla tasca. Provvederò ad inviare un esposto alla Procura della Repubblica per quanto subito e patito come utente di servizio pubblico e per la sua resistenza a verificare la gravità dei fatti esposti essendo il dirigente preposto alle risorse umane di tutto l’ente pubblico.

A quel punto il dirigente in questione ha cambiato improvvisamente atteggiamento, scusandosi per quanto accaduto e che probabilmente vi era stata un incomprensione. Mi ha invitato ad aspettarlo fuori del suo ufficio e che nel giro di una manciata di minuti avrebbe risolto il tutto parlando al telefono con i vari soggetti preposti. Attendo sul corridoio, dopo di che esce dall’ufficio dicendomi che è tutto sistemato, il modulo di richiesta verrà accolto con gli estremi di esenzione indicati e che a nome di tutto l’ente pubblico si scusa per il disagio che ho dovuto subire. Scendo e mi reco allo sportello incriminato: l’operatore di prima mi riceve con un sorriso imbarazzante, si scusa per quanto accaduto e garantisce l’evasione della pratica in tempi inferiori rispetto alla prassi. Solo il dirigente che mi aveva trattato con frasi e tono poco edificanti non si è fatto vivo. La soddisfazione non è stato ottenere quello che ti aspettava, quanto aver ricevuto il sostegno degli altri utenti che avevano assistito al tutto. Se fossimo stati in UK o negli USA l’operatore di sportello ed il primo il dirigente sarebbero stati licenziati in tronco seduta stante, il primo per essersi rifiutato di farsi identificare ed il secondo per il linguaggio oltraggioso ed il danno d’immagine procurato al medesimo ente pubblico. Una delle riforme strutturali strategiche e prioritarie che necessita l’Italia è il licenziamento dei dipendenti pubblici a fronte di meccanismi di valutazione a feedback negativo da parte degli stessi utenti fruitori del servizio finale. Chi ha avuto modo di leggere il MEI troverà nel PIVADIP (pag. 5 del Manifesto) proprio questa tipologia di proposta ovvero l’istituzione di una piattaforma di valutazione dei dipendenti pubblici.


Le cause profonde dei cambiamenti nei sistemi complessi

Dalla pagina FB di Bodhi Paul Chefurka. Traduzione di MR

In un post recente ho detto che la trappola nascosta della ricerca delle cause radicali dei cambiamenti nei sistemi complessi è che tendenzialmente non ce n'è nessuna. Al posto delle cause radicali di solito troviamo una matassa ingarbugliata di anelli di retroazione. La credenza di aver trovato le cause è semplicemente una credenza ed una credenza fragile. Di solito basta una ricerca molto breve con una mente aperta per scoprire altri fattori che contribuiscono. L'investigazione finisce per rimettere in discussione quanto “profonda” possa davvero essere qualsiasi causa.

Ho compreso questa trappola nell'ultimo anno durante le mie investigazioni della scienza dei sistemi complessi e della cibernetica. Il soddisfacente senso di vendetta nella scoperta di una causa profonda “Be', guarda, ECCO il tuo problema!”) si dissolve in una poltiglia man mano che le cause si rivelano essere anche degli effetti. La causa profonda candidata si rivela necessaria ma non sufficiente o mentre potrebbe essere esplicativa in alcune aree fallisce completamente nel fornire una lettura in altre.

Questa intuizione della possibile invalidità del “concetto di causa profonda” mi ha spinto a tornare sulle mie posizioni (tutte opportunamente registrate nel mio sito web) e a cominciare a scaricare in mare cause radicali come sacchi di patate andate a male. Le cause radicali candidate che ho scaricato nell'ultimo anno sono:

» Sovrappopolazione;
» Agricoltura;
» Combustibili Fossili;
» Tecnologia;
» Soldi;
» Urbanizzazione;
» Comportamento sociale;
» Capitalismo;
» Imperialismo;
» Comportamenti umani come visione a breve termine, avarizia, biasimo, competizione e politica; persino
» Termodinamica del non equilibrio

Ora, tutti questi fattori ovviamente giocano un ruolo nel Grande Casino Globale. La mia affermazione è che non possiamo indicare nessuno di questi e dire “Be', guarda, ECCO il tuo problema!”.

Sto per ripudiare ancora un'altra credenza che è stata alla base di gran parte del mio pensiero per gli ultimi sei anni. La credenza è l'idea che un qualche peculiare “senso della separazione” umano sia ciò che ci permette di vedere l'universo come un semplice sacco di risorse da usare a nostro piacimento per soddisfare i nostri bisogni percepiti. Ho scritto per la prima volta di questa credenza alla fine del 2008, nel saggio “Separazione, Risveglio e Rivoluzione”.

Mi sono gradualmente reso conto che di fatto TUTTI gli animali senzienti vedono l'universo in questo modo – o esplicitamente come fra i mammiferi come i coyote o gli esseri umani, o implicitamente come nel caso di insetti, serpenti o molluschi. La percezione del mondo come una serie di risorse esterne è alla base della rete alimentare in generale e del rapporto predatore-preda in particolare. Essere in grado di vedere “l'altro” come cibo per sé stessi rende possibile il comportamento “prendi ciò di cui hai bisogno” che è universale per gli organismi viventi.

L'Homo Sapiens si comporta esattamente come ogni altro animale in questo senso, ma con due aggiunte cruciali: la nostra capacità di formare pensieri complessi ed astratti e le nostre capacità di risoluzione dei problemi esageratamente buone.

La nostra natura animale fondamentale (insieme ai vari principi che governano la crescita, l'acquisizione e la competizione per le risorse) stabiliscono le direttive del nostro comportamento generale. La nostra capacità tipicamente umana di risolvere i problemi attraverso la logica e l'astrazione ci trasforma quindi negli esecutori mangia-mondo di quelle direttive.

Una capacità che da un'enorme spinta alla nostra impresa di consumare il mondo è la nostra abilità di reinquadrare i nostri “desideri” come “bisogni”, dandoci così una giustificazione conveniente per la loro soddisfazione. L'abilità di ingannarci in questo modo sembra essere ancora un altro risultato della nostra abilità di creare astrazioni – stavolta dai concetti di “desiderio” e “bisogno”. L'astrazione ci aiuta a combinare le due cose mentre le analizziamo usando processi cognitivi di alto livello.

Sospetto che questo fondamento comportamentale sia piuttosto indipendente da fattori culturali. Diverse culture potrebbero avere modi molto diversi di eseguire le direttive di base, i programmi culturali che sono pesantemente influenzati dallo loro situazione locale particolare nel tempo e nello spazio. Tuttavia secondo me diverse culture NON eseguono diverse direttive di base – il programma fondamentale è coerente in tutti gli organismi (noi compresi), come espresso dalle loro interazioni coi loro ambienti locali.

Di fronte a questo, non c'è alcun bisogno di coinvolgere o dare la colpa alla cognizione, alla consapevolezza di sé o alla coscienza per lo scatenarsi del nostro processo di crescita collettiva. La consapevolezza di sé naturalmente gioca un ruolo nella nostra capacità di applicare l'astrazione e la logica alle nostre attività di risoluzione dei problemi. Ma finora non ho visto nessuna prova convincente del fatto che il sistema ha bisogno di noi per essere consapevole di sé per funzionare come funziona. E' probabilmente per questo il perché gli esseri umani possono far funzionare una civiltà con così poche prove di introspezione, obbiettività o consapevolezza di sé.

Come gli altri candidati che ho elencato sopra, la consapevolezza di sé probabilmente non è una causa profonda del “singhiozzo del mondo” - per la semplice ragione che non ce n'è una.


venerdì 27 marzo 2015

L'attuale modello di sviluppo economico è morto – dobbiamo abbandonarlo

DaThe Guardian”. Traduzione di MR

Di Andrew Simms

Un radicale cambiamento a favore dei più poveri è il solo modo per riconciliare le sfide gemelle di fermare il cambiamento climatico catastrofico e mettere fine alla povertà


La crescita della Cina guidata dalle esportazioni sta danneggiando l'ambiente e beneficiando i ricchi, non i poveri. Sopra, pedoni che indossano maschere per proteggersi dall'inquinamento dell'aria mentre attraversano una strada trafficata a Pechino. Foto: Ng Han Guan/AP



Cos'è lo sviluppo? Per troppi economisti convenzionali è stato la Cina, anche se non senza ironia. Il suo modello di sviluppo guidato dalle esportazioni e i relativi vantaggi in tutti i settori economici hanno creato il suo status di superpotenza ed ha generato globalmente la grande maggioranza di coloro che sono fuoriusciti dalla povertà. Ma c'è un problema col modello: “Pechino non è una città vivibile”, ha detto il sindaco della città Wang Anshun di recente. Il prezzo della rapida industrializzazione ed urbanizzazione è stato l'inquinamento: aria non più adatta da respirare e numero di visitatori in declino – una specie di anti-sviluppo. E' una crisi riecheggia in India, dove una ricerca recente ha stimato che l'inquinamento ha creato una perdita collettiva di 2,1 miliardi di anni di vita. Sapendo che questo è un problema, l'India ha annunciato un piano per raddoppiare le tasse sul carbone per pagare energie alternative pulite e rinnovabili. In Cina, il premier Li Keqiang ha annunciato un obbiettivo di crescita economica inferiore, una linea molto più dura sulla  salvaguardia ambientale ed una dipendenza ridotta dalla produzione energeticamente intensiva per l'esportazione. La Cina pianifica di ridurre l'uso di energia per unità di PIL del 3,1% nel 2015 ed ha un'ambizione più a lungo termine per la metà del secolo di limitare l'uso del carbone alla metà del consumo totale di energia.

giovedì 26 marzo 2015

CRESCITA, DEBITO E BANCA MONDIALE.

Di Herman Daly
Traduzione e chiose di Jacopo Simonetta.


Si tratta di un articolo un po’ datato (15 agosto 2011), ma sempre attuale.   Lo propongo perché mi pare spieghi molto bene come funzionano gli istituti finanziari internazionali e come ragionano i loro dirigenti. 


Quando andavo alla scuola superiore di economia, nei primi anni ’60, pensavamo che il capitale fosse il fattore limitante della crescita e dello sviluppo.

  Pensavamo che bastasse iniettare capitale in un’economia e questa sarebbe cresciuta.   E man mano che l’economia cresce, è possibile reinvestire l’incremento del capitale generato dalla crescita e così crescere esponenzialmente.   Alla fine l’economia sarebbe stata ricca.   All'inizio, per avviare il processo, il capitale poteva provenire dal risparmio, da confische, da investimenti od aiuti internazionali, ma comunque la crescita avrebbe poi alimentato se stessa.   Il capitale incarnava la tecnologia, la fonte del suo potere.

  Il capitale era qualcosa di magico, ma era scarso.    Tutto ciò sembrava convincente allora.

(Un'opinione questa condivisa dagli economisti più illustri, si veda qui n.d.t)

mercoledì 25 marzo 2015

Cambiamento climatico e fame nel mondo: come ingigantire i problemi invece di risolverli

DaResource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi

Risultati di una ricerca del termined “fame nel mondo” (world hunger) usando Google Ngram Viewer. E' chiaro che la percezione della fame come un grande problema mondiale è relativamente recente: ha raggiunto il picco negli anni 80 ed è rimasta ben radicata nella consapevolezza collettiva di oggi. Il cambiamento climatico mostrerà la stessa traiettoria in futuro? Se lo farà, questo significa che il problema può essere risolto? O non renderemo i problemi più grandi nel tentativo di risolverli


Di certo, si sta accumulando uno slancio verso qualche tipo di azione nei riguardi del clima, anche se il negazionismo sta ancora opponendo una forte resistenza. Quindi, in un certo senso, le cose vanno bene, ma è abbastanza? Abbiamo ancora tempo per un'azione significativa contro il cambiamento climatico? E se ci impegneremo in tale azione, prenderemo le decisioni giuste?

Di solito, la chiave del futuro sta nel passato e possiamo esaminare la nostra attuale situazione del clima alla luce di un problema più vecchio: la fame nel mondo, che è passata attraverso un percorso di percezione ed azione che potrebbe andare in parallelo col problema climatico.

Le carestie hanno una storia lunga e, in tempi antichi, venivano spesso percepite come “atti di Dio”. L'idea che si potesse fare qualcosa contro la fame impiegava del tempo a penetrare la consapevolezza del genere umano e forse possiamo trovarne un primo assaggio nel saggio satirico intitolato “Una modesta proposta” scritto nel 1729 da Jonathan Swift (più famoso per i suoi “Viaggi di Gulliver”), dove proponeva che gli irlandesi poveri dovessero vendere i loro figli come cibo agli inglesi ricchi. Leggendolo, si percepisce la frustrazione che sentiva Swift per il modo in cui venivano percepiti i problemi dell'Irlanda ai suoi tempi e, chiaramente, la fame non era una preoccupazione per l'élite di quel tempo. Uno dei risultati è stata la risposta lenta ed inefficace del governo britannico alle carestie irlandesi che sono sopravvenute in seguito, in particolare la grande carestia del 1845 che ha ucciso milioni di persone.

Le percezioni sulla fame nel mondo sono cambiate a metà del XX secolo e l'interesse per il problema è cresciuto rapidamente ed ha raggiunto un picco negli anni 80.Da lì in poi è diminuito, ma è rimasto un problema chiaramente visibile, una cosa sulla quale siamo tutti d'accordo che bisogna agire. Possiamo sperare per un'evoluzione simile del concetto di cambiamento climatico? Se usiamo Google Ngram viewer, possiamo confrontare i termini “fame nel mondo” (world hunger) e “cambiamento climatico” (climate change) ed ecco il risultato:



Non dovremmo prestare troppa attenzione alla grandezza relativa delle curve. Ciò che conta è che la curva del “cambiamento climatico” non si è ancora saturata, ma l'uso del termine sta crescendo rapidamente. La curva potrebbe impiegare ancora del tempo prima di raggiungere il picco, ma potrebbe arrivare un momento in cui l'importanza del cambiamento climatico diventa ovvia e nessuno lo negherà più.

Sono buone notizie, ma c'è un problema. Supponiamo che arrivi il momento in cui tutti sono d'accordo che il cambiamento climatico è un grosso problema e che dobbiamo fare qualcosa per questo. Verrà fatto qualcosa? Verrà fatto qualcosa sufficientemente in fretta? E verranno fatte le cose giuste? Su questo punto, ho paura che ci saranno problemi. Grossi problemi.

Torniamo alla fame nel mondo: la maggior parte delle persone oggi sembra essere d'accordo sul fatto che sia una storia finita bene e che il problema sia stato risolto dalla cosiddetta “rivoluzione verde,” ovvero con un forte aumento della produzione di cibo il tutto il mondo. E' stato sicuramente un notevole successo tecnologico, ma ha risolto il problema? O non ha semplicemente creato una folle corsa fra produzione di cibo e popolazione? In questo caso, rendiamo soltanto il problema più grande, al posto di risolverlo (un caso della trappola del “cigno nero”). E la rivoluzione verde è tutta basata sull'idea di trasformare i combustibili fossili in cibo. Ma se la popolazione continua ad aumentare, mentre le riserve di combustibili fossili possono solo diminuire, avremo grossi problemi. In realtà, problemi enormi. Non risolveremo mai il problema della fame se non riusciamo a stabilizzare la popolazione umana.

La reazione della specie umana al cambiamento climatico potrebbe essere la stessa cosa. Una volta che riconosceremo finalmente che è un problema, potremmo cercare alcune soluzioni tecnologiche rapide per risolverlo e questo potrebbe soltanto rendere il problema più grande. Pensate alle varie proposte di ingegneria climatica che comportano la diffusione di sostanze riflettenti nell'alta atmosfera. Se qualcuna di queste proposte fosse messa in pratica, potremmo continuare ad emettere gas serra senza generare riscaldamento atmosferico, e probabilmente lo faremmo. Quindi, con le emissioni che aumentano, avremo bisogno di più schermatura dei raggi del Sole e, con più schermatura, continueremmo ad emettere sempre di più. Sarebbe un'altra folle corsa fra emissioni e schermatura. E se qualcosa andasse storto con la gestione della radiazione solare? Qualcosa che non abbiamo previsto e che non abbiamo capito? Ci troveremmo in grossissimi guai (qualcuno ha detto “cigno nero?”). Non risolveremo mai il problema climatico se non riusciamo a stabilizzare la concentrazione di gas serra nell'atmosfera.

A nessuno piace di giocare il ruolo del catastrofista ma qui è chiaro che abbiamo un problema gigantesco. Non è tanto un problema fisico o tecnologico, è che non abbiamo mai sviluppato metodi per risolvere problemi complessi mondiali, tendiamo più che altro a peggiorarli. Succede sempre (solo come un altro esempio, viene in mente la situazione politica in Nord Africa e in Medio Oriente). Ci sono stati diversi tentativi di sviluppare modi nuovi e più efficaci per affrontare grandi problemi, come concentrarsi sui punti di leva del sistema. Questi metodi fanno veramente una differenza, ma ci sarà mai qualche decisore politico che vi presterà attenzione?