Visualizzazione post con etichetta culto dello sportello. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta culto dello sportello. Mostra tutti i post

sabato 28 marzo 2015

Il culto dello sportello secondo Eugenio Benettazzo

Il tema del "il culto dello sportello" è stato affrontato diverse volte in questo blog, (vedi, per esempio qui, e qui) sulla base del concetto  che non di solo esaurimento delle risorse muore la civiltà. Può morire, (come insegna Joseph Tainter) anche per i ritorni decrescenti della eccessiva burocrazia.  Ecco una interpretazione sul tema  dal blog di Eugenio Benettazzo.  E' discutibile il comportamento aggressivo di Benettazzo in questo frangente, come pure il fatto di considerare gli impiegati statali come "nemici del popolo", da controllare e, se necessario, da punire senza pietà. Ma è  una storia meritevole di essere letta.

YOU ARE FIRED

Di Eugenio Benettazzo - pubblicato in data 12 Marzo 1015

Tradotto dall’inglese il titolo di questo post significa “lei è licenziato”. Vi racconto un episodio che ho vissuto di recente. Mi sono recato presso un ente pubblico in una provincia del Veneto per richiedere un determinato certificato ai fini lavorativi per l’estero. Arriva il mio turno presso lo sportello preposto, mi consegnano i moduli da sottoscrivere per il rilascio di tale documentazione, dopo di che mi evidenziano che devo allegare anche marche da bollo per qualche dozzina di euro. Faccio presente che per i certificati sono esentati dall’imposta di bollo in quanto il soggetto richiedente è un altro stato comunitario ed inoltre la casistica per cui tale documentazione viene richiesta rientra in un caso di evidente esenzione. Ricordo inoltre al funzionario dello sportello che due anni fa feci la medesima richiesta e che lo sportello di allora evase il tutto senza applicazione di imposta di bollo. L’operatore preposto mi ribadisce che non può protocollare la richiesta di emissione del certificato senza le dovute (secondo lui) marche da bollo. Dopo insistenze varie da parte mia e tentativi di ragionamento inutili vista la chiusura mentale dell’operatore, alla fine proprio quest’ultimo mi indica di rivolgermi al dirigente di servizio al fine di avallare il deposito dell’istanza presso l’ente pubblico in assenza di imposta di bollo. Mi reco presso l’ufficio di questo dirigente, distante pochi metri dallo sportello aperto al pubblico, ed espongo la mia richiesta facendo notare che due anni prima era stata evasa senza tante difficoltà.

Risposta del dirigente: non è possibile accoglierla in quanto generica, deve indicare gli articoli di legge per cui le spetta l’esenzione. Esco dall’ufficio piuttosto infastidito, non tanto per il contenuto della risposta, quanto per il tono arrogante e indisponente di questo dirigente. In quel momento ho pensato: al diavolo questo ufficio, faccio la richiesta direttamente all’ambasciata tra qualche settimana che sono più cortesi e disponibili e so per certo che l’imposta di bollo non è dovuta. Tuttavia l’idea di avergliela lasciata vinta mi avrebbe rovinato la giornata, cosi sono ritornato allo sportello ed ho chiesto l’estratto della legge di riferimento da cui si evincono i casi di esenzione. Sempre con fare indisponente, l’operatore preposto mi fornisce una copia di tale provvedimento legislativo, sottolineando che loro non sono tenuti a fornire tale documentazione. Mi metto a leggere il tutto, non ricordandomi gli articoli del dispositivo ma i casi di esenzione e dopo quindici minuti finalmente individuo il mio caso specifico. A quel punto ricompilo il modulo di richiesta indicando la legge, l’articolo specifico e la finalità della richiesta. Mi rimetto in coda e quando arriva il mio turno consegno il tutto. L’operatore mi guarda con occhio indispettito e infastidito, mi dice che senza il benestare del suo dirigente la richiesta in ogni caso non può essere accolta e mi invita per questo a ritornare presso il suo ufficio. Nel frattempo avevo notato inconsciamente numerose lamentele anche di altri utenti per il modo di relazionarsi che aveva questo operatore di sportello.

Ritorno nell’ufficio del dirigente, presento il nuovo modulo con le indicazione specifiche di esenzione e faccio presente che allo sportello non sono disposti a protocollarlo. Risposta del dirigente: non basta l’indicazione che attesta l’esenzione, lei deve allegare anche la richiesta del soggetto che esige tale documentazione. Faccio presente che la eventuale richiesta che pretendete sarebbe scritta in inglese da un dipartimento ministeriale di un paese comunitario e che pertanto difficilmente sarebbe accettata in quanto non in lingua italiana. In ogni caso ribadisco che qualche minuto fa lei mi aveva richiesto solo di inserire gli articoli della tal legge dai quali si evince l’esenzione.

Risposta (gridando) del dirigente: adesso basta, non ho tempo da perdere con queste fesserie, vada fuori dai coglioni o chiamo la vigilanza. Il dirigente nell’esprimersi in questo modo si era anche alzato e mi aveva strappato di mano i moduli in questione, spingendomi verso la porta di uscita. Le grida hanno attirato l’attenzione di tutti i presenti, chi non aveva assistito al tutto immaginava una colluttazione o una rissa. Riprendo i miei moduli e ritorno allo sportello, non arrabbiato o adirato, ma ben motivato in quelle che sarebbero state le mie successive mosse. L’operatore, che nel frattempo aveva sentito la voce grossa di questo dirigente, mi ribadisce che non può ricevere i moduli di richiesta che voglio presentare. A quel punto chiedo a questo soggetto di fornire le sue generalità ovvero nome e cognome. Risposta evasiva di questa persona: non sono autorizzato a dirle come mi chiamo.

Il tutto aveva destato l’attenzione dei vari utenti presenti che erano allibiti per quanto stava succedendo. Ribadisco all’operatore che è tenuto a identificarsi, gli ricordo che sta aggravando la sua situazione e nel contempo richiedo il nome del direttore del personale. Spero mi crederete, la persona in questione si alza dalla sua postazione e va a nascondersi dietro agli armadi delle pratiche: gli altri utenti non credevano ai loro occhi. Dopo svariati richiami a uscire dal nascondiglio in cui tentava di celarsi, mi si avvicina una persona (che sembrava un altro utente) e mi dice che il dirigente delle risorse umane si chiama >>omissisis<< e che il suo ufficio è al terzo piano. Mi reco velocemente presso tale ufficio, busso, entro ed espongo quanto mi è appena accaduto.

Quest’altro dirigente mi risponde: io non ci posso fare niente. Lo invito a quel punto a scendere con me per avere un conforto anche dagli altri utenti che hanno assistito al tutto. Risposta: non mi posso muovere da questo ufficio se la deve vedere con i vari soggetti di persona; se ritiene di aver subito un torto scriva al Ministro. Aspettavo una risposta di questo tipo ed a quel punto ho calato l’asso. Faccio presente al dirigente in questione che questa conversazione è appena stata registrata, ed esibisco un registratore portatile dalla tasca. Provvederò ad inviare un esposto alla Procura della Repubblica per quanto subito e patito come utente di servizio pubblico e per la sua resistenza a verificare la gravità dei fatti esposti essendo il dirigente preposto alle risorse umane di tutto l’ente pubblico.

A quel punto il dirigente in questione ha cambiato improvvisamente atteggiamento, scusandosi per quanto accaduto e che probabilmente vi era stata un incomprensione. Mi ha invitato ad aspettarlo fuori del suo ufficio e che nel giro di una manciata di minuti avrebbe risolto il tutto parlando al telefono con i vari soggetti preposti. Attendo sul corridoio, dopo di che esce dall’ufficio dicendomi che è tutto sistemato, il modulo di richiesta verrà accolto con gli estremi di esenzione indicati e che a nome di tutto l’ente pubblico si scusa per il disagio che ho dovuto subire. Scendo e mi reco allo sportello incriminato: l’operatore di prima mi riceve con un sorriso imbarazzante, si scusa per quanto accaduto e garantisce l’evasione della pratica in tempi inferiori rispetto alla prassi. Solo il dirigente che mi aveva trattato con frasi e tono poco edificanti non si è fatto vivo. La soddisfazione non è stato ottenere quello che ti aspettava, quanto aver ricevuto il sostegno degli altri utenti che avevano assistito al tutto. Se fossimo stati in UK o negli USA l’operatore di sportello ed il primo il dirigente sarebbero stati licenziati in tronco seduta stante, il primo per essersi rifiutato di farsi identificare ed il secondo per il linguaggio oltraggioso ed il danno d’immagine procurato al medesimo ente pubblico. Una delle riforme strutturali strategiche e prioritarie che necessita l’Italia è il licenziamento dei dipendenti pubblici a fronte di meccanismi di valutazione a feedback negativo da parte degli stessi utenti fruitori del servizio finale. Chi ha avuto modo di leggere il MEI troverà nel PIVADIP (pag. 5 del Manifesto) proprio questa tipologia di proposta ovvero l’istituzione di una piattaforma di valutazione dei dipendenti pubblici.


sabato 14 giugno 2014

Il culto dello sportello - IV

Un contributo di Luca Mercalli per la serie di avventure che vanno sotto il titolo "Il Culto dello Sportello", ovvero come la burocrazia italiana ci sta distruggendo!




Vedi anche
Gli imperi muoiono di burocrazia
Il culto dello sportello-I
Il culto dello sportello-II
Il culto dello sportello -III



Patente di guida tipo B (per condurre nella burocrazia)

di Luca Mercalli

Maggio 2014. Devo rinnovare la patente. Sportello telefonico per la prenotazione disponibile un’ora e mezza alla settimana. Segno in agenda, metto allarme sul telefono e inizio a chiamare all’apertura della finestra temporale.

Occupato, come previsto. Occupato. Occupato…

Pochi minuti prima della chiusura finalmente libero. Ottengo risposta da un addetto, che mi spiega cosa devo fare, tre versamenti di tot euro su tre conti diversi, due foto tessere. Visita medica prenotata alle ore 09.05 del 10 giugno, ASL TO3, Collegno, periferia ovest di Torino.

Accidenti, non alle nove, ma alle nove-e-zero-cinque: con questa risoluzione temporale mi aspetto un sistema molto efficiente.

09 giugno 2014. Documenti tutti pronti, consulto la pagina web dell’ASLTO3 per verificare l’indirizzo, Viale Martiri del 30 Aprile, è il portale del monumentale ex Ospedale Psichiatrico già Certosa juvarriana. Uso Google Maps per arrivare a colpo sicuro, vedo perfino dove sono i parcheggi e pianifico tutto in dettaglio.

10 giugno 2014. Arrivo con giusto margine di 10 minuti al parcheggio previamente identificato, è quasi vuoto, prendo la cartellina dei documenti e mi avvio all’ingresso degli uffici sanitari.

Ma, prima sorpresa, l’ingresso monumentale è chiuso, sbarrato. Nessun cartello, nessuna indicazione, nessun campanello. Comincio a innervosirmi e mi guardo attorno. Incredibile, nessuna traccia dell’ingresso di una struttura così importante come gli uffici sanitari nazionali di un grande distretto urbano com’è l’area ovest di Torino.

Torno sui miei passi e trovo una piazzetta, unica indicazione “Museo della città e della Resistenza”, nessuna traccia dell’ASL. Individuo una persona con una cartellina di documenti medici, la seguo.
Entra sotto un arco laterale che adduce a un cortile. Nessuna insegna né campanello. Nel cortile sono parcheggiati automezzi marchiati ASLTO3, bene, pare la buona strada…

Raggiungo un chiostro settecentesco con un cantiere in attività: ora mi spiego (forse) la chiusura dell’ingresso principale! Ma ancora nessuna indicazione, freccia, accoglienza delle strutture sanitarie, nulla di nulla, potrei essere ovunque.

Mi aggiro scoraggiato tra ponteggi e secchi di calce, finché trovo “Ufficio protocollo”. Entro e chiedo di Medicina Legale-Rinnovo patenti.
  • Segua i portici, mi fa così e così a gesti un personaggio non certo amichevole, e lo trova.
Boh, ci vorrebbe un GPS dedicato ai percorsi interni degli uffici…

Finalmente una porta a vetri reca scritto “Medicina legale”. Non una parola sul rinnovo patenti, che pure dev’essere una visita ad alta frequentazione…

Entro in una sala d’aspetto che sembra il vestibolo di un commissariato di polizia degli anni Trenta. Sono le 09.07, ho due minuti di ritardo a causa del labirinto d’ingresso.

Chiedo ai presenti:

- E’ qui la visita per rinnovo patente?
- Non so.
- Non so.
- Boh…
- Può darsi…
- Ah sì, sono qui anch’io per questo, risponde finalmente un tizio.
- E se si ha già la prenotazione, cosa bisogna fare? chiedo, basta attendere, si viene chiamati o bisogna registrarsi?
- Non so, ma comunque la segretaria non c’è, dice qualcuno tra gli astanti.

Mi introduco in un corridoio dove c’è altra gente che aspetta, e trovo un tale nell’ufficio segreteria al quale chiedo la procedura da seguire.
  • Non so, io non c’entro, questa non è la mia mansione, la segretaria è fuori, deve aspettare.
Mi siedo deluso su una panca e osservo le finestre, alte finestre di secoli passati, con spifferi e vetri singoli, sotto c’è un radiatore: mi domando quanto spenderà di bolletta di riscaldamento quel complesso edilizio, sapendo che pagherò comunque io… Poi inizio a parlare con una signora vicina a me, confrontiamo le carte: sì, questo ce l’ho, questo no, ma a lei l’hanno chiesto? A me due copie, a lei una… mah, speriamo bene…

Intanto arriva la segretaria. In parecchi la assediano chiedendo cosa si debba fare. Ci sono i rinnovi patenti, le pratiche INPS, tutto mischiato insieme. Uno viene mandato via, la sua pratica oggi non si può esaminare, a noi “patentari” vengono invece messi in mano due moduli da compilare, di quelle fotocopie già rifatte mille volte che stenti a leggere. Ti metti i fogli sulle ginocchia e riscrivi le solite cose: Nome-cognome-nato a-data-residente-via-numero civico-Cap-firma.

Ma lo Stato non sa già tutto di me? forse mi intercetta pure le telefonate, ma mi chiede di compilare altri due moduli in sala d’aspetto praticamente uguali. E poi lo spazio bianco per scrivere è troppo piccolo, non ci stanno le parole, il mio comune fa solo sei lettere, pensa però se sei nato a San Benedetto del Tronto... farai una nota a piè di pagina.

Se quei moduli fossero stati disponibili in pdf sul sito web, li avrei già scaricati e compilati a casa.

Intanto sono le 09,30 e la segretaria non riesce a iniziare la procedura perché continuamente assediata da nuovi arrivati che chiedono giustamente come si debbano comportare.

Quante migliaia di volte ripeterà nella sua vita:
  • Per la patente, se avete la prenotazione telefonica, dovete aspettare qui finché vi chiamo e poi andrete dal medico dalla porta a fianco quando vi chiama lui.
Accidenti, se avessi un foglio ci scriverei questo semplice messaggio e lo attaccherei sul muro! Sembra così semplice da fare… Se poi invece che scriverlo a pennarello fosse anche un cartello ufficiale, con scritto:

ISTRUZIONI PER VISITA MEDICA RINNOVO PATENTE (1)

Chi ha prenotato telefonicamente la visita è pregato:
  1. di attendere in sala d’aspetto
  2. verrà chiamato dall’addetta seguendo l’ordine di orario assegnato durante la prenotazione telefonica
  3. consegnerà i tre versamenti, la foto, la patente e il tesserino sanitario/codice fiscale
  4. aspetterà di essere chiamato dal medico per la visita (porta a sinistra)
  5. tornerà in segreteria (porta a destra) per ritirare il documento sostitutivo della patente
  6. la nuova patente verrà recapitata a casa entro 15 giorni

Ma questo cartello purtroppo non c’è e la sua mancanza crea un sacco di incertezze, timori e malumori tra i cittadini, e rallenta enormemente le operazioni dei funzionari.

Vengo chiamato, ed entro in segreteria. C’è una scrivania ingombra di carte dove appoggio anche le mie. Penso che o per distrazione o per dolo, sarebbe facilissimo venir via con un fascio di pratiche sottostanti i miei fogli… alla faccia della privacy!

La povera addetta è già fuori di sé ed ha appena iniziato la giornata.

Acquisisce i dati della mia patente, che fortunatamente vengono riconosciuti da un terminale informatico, preleva le attestazioni di versamento, ne taglia una parte e mi riconsegna il resto (e pensare che anche qui l’informatica aiuterebbe… da giorni quei soldi sono stati accreditati nei conti dei vari enti e potrebbero già comparire nella scheda personale), prende la mia foto tessera e la riscansiona sul suo computer, viene pure male, un po’ tagliata. Le dico che ho qui sulla chiavetta USB l’immagine digitale originale. Ignora la proposta. Capisco, dev’essere un casino copiare un file.jpg se non c’è la procedura già strutturata, mi rassegno dunque ad avere una brutta immagine sulla patente per i prossimi dieci anni. Infine controlla la carta d’identità e legge il codice fiscale sul mio tesserino sanitario con un lettore di codice a barre.

E’ una strana commistione di operazioni ultramoderne con altre ottocentesche.

Esco, cambio panca e attendo di fianco alla porta del medico.

Nel frattempo la segretaria mi raggiunge e mi domanda nuovamente il tesserino sanitario: la lettura automatica non è andata a buon fine, deve rifarla. Me lo riporta dopo qualche minuto.

Attendo quasi mezz’ora. Osservo davanti a me un’umanità stanca e rassegnata. Tutti in attesa indeterminata, frustrati, disillusi. Commento tipico: “Chevvuoi, siamo in Italia…”
Io almeno sto bene, comincio a incazzarmi, ma sto bene di salute, stringe invece il cuore vedere deboli anziani con bombola di ossigeno al seguito o in sedia a rotelle, accompagnati da un parente che magari ha preso permesso dal lavoro e sperava di cavarsela in fretta.

Quanto tempo e denaro buttati via, una macchina complicata, inefficiente, che dissipa risorse e crea frustrazione, sia negli utenti, sia negli addetti. Tutto viene codificato in procedure a tavolino ma sembra sfuggire alle logiche più semplici della vita pratica, del buon senso, che anche se si volesse, non può più essere applicato per arbitrio del singolo, in quanto ingabbiato in vincoli insuperabili. Credo di vivere nell’unico paese al mondo che ha bisogno di un Ministero per la Semplificazione e la pubblica amministrazione. Signor ministro, per capire cosa deve fare, vada ogni mattina a far coda in un diverso ufficio pubblico e prenda appunti su cosa si deve fare, non aggiunga altre regole, la prego, ma faccia funzionare ciò che c’è. Altrimenti emaneremo nuovi provvedimenti con nuovi moduli da compilare per autorizzare ai sensi dell’articolo tale e del comma talaltro l’eliminazione del documento precedente.

E’ un pericoloso processo che ci farà cadere in rovina, come il ghiaccio che si forma sulle ali di un aereo e lo fa precipitare (2).

Interrompo i cattivi pensieri perché si apre la porta del medico. Ma chiama un altro invece di me. La segretaria dall’altra stanza – bontà sua – ha udito ed esce fuori per dire al medico che dovrebbe avere prima la pratica delle 9,05, e che l’altra è successiva. Il medico non trova i miei documenti sulla sua scrivania. Saltano poi fuori ed entro in ambulatorio.
Visita consueta di una decina di minuti, e ritorno in segreteria.

Però a causa dei vari intoppi, è scaduto il tempo limite per il termine della procedura informatizzata, la videata si è chiusa, e quindi il medico non può convalidare la visita e dare l’avvio al rinnovo della patente.

Bisogna rifare tutto da capo, aprire una nuova pagina e reinserire i dati: codice fiscale, nome, cognome, documenti consegnati…

La coda fuori dell’ufficio si allunga, alcuni sorridono, altri hanno le mani nei capelli, nessuno si arrabbia, tutti tollerano e forse proprio questo è un male per la salute della democrazia.

La segretaria: - se diciamo qualcosa ai dirigenti ci rispondono che noi non capiamo niente e di rispettare le procedure.
Il medico: - è come andare in guerra con le scarpe di cartone.
Io: - l’abbiamo già fatto e sappiamo come è andata.

  1. per i dirigenti dell’ASTO3: il cartello da appendere in sala d’aspetto fortunatamente è semplicissimo da realizzare e forse sfugge ancora a qualche rigida procedura formalizzata. Il testo è gratuito e libero da diritti, collaudato dall’utente e non freddamente pensato in una struttura di outsurcing. Ve lo regalo volentieri nonostante il vostro lauto salario a cui contribuisco con le mie imposte. Potete copiarlo, incollarlo in un qualsiasi word processor e stamparlo, possibilmente in formato A3 corpo 50.
  1. Sul fatto che questi disservizi generino una cascata di conseguenze, aggiungiamo che il resto della mattina l’ho impiegato a scrivere questa inutile cronaca invece che terminare un forse più utile paper sulla fusione anticipata dell’innevamento alpino causato dal riscaldamento globale. Ma non si può sempre tacere, no.






domenica 8 giugno 2014

Università Italiana: l'effetto dei ritorni decrescenti della complessità



Immaginatevi un ministero della difesa impegnato a finanziare il terrorismo internazionale. Immaginatevi un ministero del turismo impegnato a far saltare in aria con la dinamite i monumenti nazionali. Immaginatevi un ministero della salute impegnato nello sviluppo di armi batteriologiche. Esagerazioni, ovviamente, ma il concetto di infliggere quanti più possibili danni all'entità che si dovrebbe salvaguardare è stato sviluppato con grande efficacia dai vari ministeri che hanno gestito la ricerca in Italia. Ci sono riusciti imponendo una serie di leggi e regole assurde che in questi ultimi tempi stanno finendo di distruggere il sistema di ricerca italiano, già in grave difficoltà per mancanza di fondi. Sembra che ci sia poco da fare contro i "ritorni decrescenti della complessità" descritti da Tainter.

Sullo sfascio dell'università italiana, il collega Nicola Casagli relaziona in questo post da "roars.it


Vent’anni dopo



Se penso a tutto questo mi sento responsabile. In questi venti anni ho fatto parte del sistema, sono stato direttore di Dipartimento e membro del Senato accademico. Mi rendo conto di non aver fatto abbastanza per contrastare questa progressiva deriva burocratica che sta inesorabilmente distruggendo l’Università e la ricerca nel nostro Paese. In questi venti anni si sono succeduti al MIUR Ministri di destra e di sinistra, alcuni erano stati Rettori, molti erano professori. Eppure nessuno ha arginato tutto questo, nemmeno un po’. L’unico Ministro che ha fatto qualcosa di buono, a mio parere, è stato ….

Ho letto e apprezzato il documento del Consiglio Universitario Nazionale denominato “Semplifica Università: per cominciare” a cui ho fornito anche un piccolo contributo attraverso i nostri rappresentanti. È solo l’inizio e seguiranno altre richieste. Spero che le Istituzioni ascoltino il “grido di dolore” dell’Università e che intervengano con fatti concreti. Ho scritto quanto segue nella speranza di contribuire un po’ a far capire l’urgenza e la gravità della situazione.
Venti anni fa completavo il mio dottorato di ricerca e iniziavo la mia carriera accademica come assistente alla cattedra di Geologia Applicata, svolgendo didattica integrativa di supporto all’insegnamento di Geologia Applicata del Corso di Laurea in Scienze geologiche.
Oggi sono professore ordinario del settore concorsuale 04/A3 – settore scientifico disciplinare GEO/05 e sono titolare di 9 CFU dell’insegnamento B015668 del Corso di laurea triennale B035 nel primo semestre e di 6 CFU dell’insegnamento B016195 della magistrale B103 nel secondo semestre. Va già meglio, qualche anno fa mi trovavo nella schizofrenica situazione di coprire in un anno 29 CFU di 5 insegnamenti diversi.

Codici, ordinamenti, regolamenti, aule e programmi cambiano praticamente tutti gli anni.
Sono le conseguenze, a lungo termine, della riforma Berlinguer varata con la legge 10 febbraio 2000 n. 30 “Legge Quadro in materia di Riordino dei Cicli dell’Istruzione” e della controriforma Moratti, ovvero dalla legge 28 marzo 2003 n. 53 “Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale”.

Siamo proprio sicuri che di “riordino” e di “miglioramento delle prestazioni” si sia trattato?
La disoccupazione per tutti i tipi di laurea è aumentata inesorabilmente e sta continuando a crescere raggiungendo, nel 2014, il 26,5% tra i laureati triennali e il 23% fra i giovani in possesso di una laurea magistrale.

Solo negli ultimi dieci anni le Università italiane hanno perso 78 mila immatricolazioni, pari al 23% del totale. Forse anche un po’ perché nessuno ci capisce più nulla?
Venti anni fa, quando entravo in aula un custode mi salutava con “buongiorno professore” (e non ero professore) e io lo ringraziavo per aver pulito la lavagna, aggiunto i gessi nuovi, fotocopiato e distribuito le dispense agli studenti. Il corso durava un anno e si teneva sempre nella stessa aula, equipaggiata con le attrezzature necessarie.

Oggi entro in aula e chiedo agli studenti: “Chi siete? Cosa vi devo insegnare?“ Mi rispondono con codici e acronimi, ordinamenti e regolamenti. Per ogni aula mi devo procurare le chiavi, le attrezzature didattiche, il computer portatile (sperando che il videoproiettore funzioni) e i pennarelli per la lavagna (sperando di trovare almeno la cimosa). I custodi non ci sono più: sorveglianza e pulizie le fanno le cooperative del CONSIP: giovani, spesso laureati, spesso sottopagati con contratto precario che cambiano continuamente e seguono gli appalti. L’assistenza ai docenti ce la facciamo da soli.

Sono gli effetti, tra l’altro, della legge finanziaria per l’anno 2001 (legge 23 dicembre 2000 n. 388 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato”) che ha istituito il programma per la razionalizzazione degli acquisti della Pubblica Amministrazione, con “l’obiettivo di razionalizzare la spesa di beni e servizi delle pubbliche amministrazioni, migliorando la qualità degli acquisti e riducendo i costi grazie all’aggregazione della domanda, e di semplificare e rendere più rapide e trasparenti le procedure degli acquisti pubblici”.

Nel frattempo la spesa pubblica italiana, al netto degli interessi sul debito, è aumentata di oltre il 69%.
Venti anni fa facevo ricerca e pubblicavo in modo normale. Gran parte del mio tempo era impiegato nello studio e nella scrittura di articoli scientifici. Avevo il tempo di leggere le pubblicazioni scientifiche dei colleghi e i colleghi avevano il tempo di leggere le mie. Per ogni pubblicazione si consegnavano gli estratti alla biblioteca, dove erano disponibili per gli studenti e per tutti.

Oggi passo gran parte del mio tempo a cercare di comprendere e a compilare bizzarri moduli e formulari, a partecipare a commissioni di valutazione e a gruppi di lavoro, a scrivere relazioni che giustificano le mie normali attività di insegnante e di ricercatore.

Oggi è di gran moda la valutazione della ricerca. Si combatte con un’astrusa e macchinosa piattaforma informatica denominata U-GOV-Ricerca predisposta dal CINECA con criteri e logiche obsolete. Si inseriscono le pubblicazioni, verificando attentamente gli obblighi del copyright, si calcolano le citazioni e gli indici H, si analizzano mediane realizzate con dati sempre incompleti e mai verificabili. Abbiamo l’ANVUR, la VQR e l’ASN. Giochiamo con i numeri e con la vita delle persone: perché tutto questo serve a distribuire le risorse, sempre più esigue, e i posti, sempre più scarsi e sempre più precari.

Sono gli effetti perversi, tra l’altro, della Legge del 24 novembre 2006 n. 286 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262, recante disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria“. La valutazione delle Università in Italia nasce come provvedimento urgente di natura fiscale e questo la dice lunga su come è poi stata implementata.

Venti anni fa per ogni insegnamento si scriveva un programma di un paio di pagine, si indicavano i libri di testo, e lo si distribuiva agli studenti. Il corso era annuale e c’era il tempo per pensare, studiare, discutere, insegnare e imparare. I docenti facevano lezioni e trasmettevano conoscenze basate sull’esperienza e sull’attività di ricerca. Alla fine dell’anno gli studenti compilavano la scheda di valutazione del corso e la consegnavano ai docenti in forma anonima. Con una breve lettura si era subito in grado di capire cosa migliorare.

Oggi, all’inizio di ogni modulo didattico, dobbiamo riempire un bizzarro formulario che, per ogni codice/insegnamento, ci richiede: CFU erogati per tipologia di attività formativa, contenuti, obiettivi formativi, conoscenze acquisite, competenze acquisite, capacità acquisite, prerequisiti, modalità di verifica dell’apprendimento. Ancora non ho capito, come molti colleghi, la differenza tra conoscenze, competenze e capacità. Sono concetti che sfuggono alla mia conoscenza o alla mia competenza o alla mia capacità, chissà!

I docenti oggi non fanno più lezione, bensì “erogano CFU”: si deve fare velocemente, in modo standardizzato, si devono dare le dispense, non si studia più quasi sui libri, gli studenti non sono più abituati a consultare in modo critico le conoscenze a loro disposizione (non c’è tempo!), devono solo assimilare un pacchetto preconfezionato di CFU.

La valutazione del corso si fa on line. Gli studenti riempiono un questionario prima dell’esame, a volte a distanza di mesi dalla frequenza delle lezioni. Il docente deve andare su un sito web, ricercare il codice del suo insegnamento e cercare di capire qualcosa in una selva di indicatori di qualità e di performance.

Una quantità straordinaria di tempo è, e sarà sempre di più, dedicata alla strana pratica dell’autovalutazione: con i GAV, l’AVA, l’AQ, l’AP, la SUA, le CEV e il TECO. Si riempiono formulari si incontrano certificatori della qualità, da poco usciti dalle nostre stesse Università, che valutano i processi, come se fossimo un’industria manifatturiera che produce pezzi meccanici. A nessuno interessa cosa si insegna in aula, interessa solo la qualità del processo formativo, il mezzo e non il fine.

Si tratta delle conseguenze a lungo termine della burocratica via italiana per l’implementazione del Processo di Bologna per la “costruzione dello spazio europeo dell’istruzione superiore e della ricerca”, e della strategia di Lisbona per “rafforzare l’occupazione, le riforme economiche e la coesione sociale nel contesto di un’economia fondata sulla conoscenza”.

Il risultato è che lo “spazio europeo” lo abbiamo costruito davvero con la fuga all’estero dei nostri 
laureati che sta raggiungendo proporzioni dilaganti: oltre 5 mila per anno. Il 7% dei laureati che trovano impiego a un anno dalla laurea, lo trova fuori dal Paese. L’“economia della conoscenza” poi pare essere rimasta nelle dichiarazioni, visto che l’Italia è l’ultimo dei 28 Paesi dell’Unione europea per giovani laureati in percentuale sulla popolazione e tra i primi per ragazzi che abbandonano precocemente gli studi.

Venti anni fa se c’era da acquistare un apparecchio di laboratorio riempivo un modulo con indicazione del fornitore, del prodotto, del prezzo e del progetto su cui chiedevo di imputare la spesa. Consegnavo il modulo in segreteria e dopo qualche giorno ricevevo quanto ordinato.

Oggi se devo acquistare un apparecchio da pochi euro per il mio laboratorio inizia l’incubo. Mi chiedono di andare sul MEPA, su un sito dall’architettura informatica arcaica e illogica. Se ho la “sfortuna” di trovare l’oggetto sul MEPA lo devo per forza acquistare con questo strumento bizantino, a un prezzo fuori mercato, con tempi di consegna intollerabili. Se invece sono “fortunato”, e l’oggetto non è presente sul MEPA, devo riempire un modulo per certificare che non c’è, e poi devo contattare cinque – dico cinque – fornitori diversi per farmi fare delle offerte. Sono obbligato a scegliere la più bassa senza guardare alla qualità. Alla fine la pratica si compone di una trentina di moduli e di una quindicina di firme. Per indicare su quale fondo imputare la spesa devo inserire un codice incomprensibile, del tipo CSGPRN11 che codifica il progetto di pertinenza.

A causare tutto questo sarebbero le norme sui contratti pubblici che recepiscono in modo burocratico un paio di direttive europee sulla trasparenza degli appalti. Leggo con sconforto i 257 articoli, suddivisi in 42 fra titoli, capi e sezioni, e i 38 allegati, del decreto legislativo coordinato e aggiornato del 12 aprile 2006 n.163. “Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE”. Mi chiedo che cosa c’entra tutto questo con i laboratori universitari e proprio non capisco perché nelle Università i piccoli acquisti non si riescono più a fare in modo ragionevole, mentre nel nostro Paese i grandi appalti continuano a non essere trasparenti e la corruzione dilaga.

Venti anni fa, quando ci veniva approvato un progetto, nell’attesa dello stanziamento dei fondi, si poteva anticipare la spesa su un altro fondo e poi stornarla sul progetto di pertinenza al momento dello stanziamento. Si poteva iniziare a lavorare subito e raggiungere per tempo gli obiettivi richiesti.
Oggi questa cosa banale non si può più fare. È sopravvenuta la Legge del 13 agosto 2010 n.136 “Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia”, poi seguita dalla Legge del 17 dicembre 2010 n.217 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge n.187 del 12 novembre 2010 recante misure urgenti in materia di sicurezza”. Le relative norme anti-riciclaggio impediscono gli storni di fondi fra progetti diversi perché impongono un CUP per ciascun progetto e un CIG per ciascuna acquisizione di beni o servizi.

Mi chiedo cosa c’entra l’antimafia con la ricerca nell’Università? Mi chiedo se il legislatore ha pensato all’impatto di questa burocratica norma sulle cose normali che si facevano tutti i giorni? Adesso per fare una spesa su un progetto di ricerca non basta più l’approvazione, bisogna attendere lo stanziamento. E spesso questo avviene quando il progetto è già concluso. Nessuna conseguenza però: perché nessuno controlla il buon esito del progetto di ricerca, la qualità e la quantità dei risultati ottenuti. Basta solo rendicontare correttamente le spese per l’audit, con il CUP e i CIG al posto giusto.

Questa è apparentemente l’unica cosa che interessa allo Stato Italiano o, meglio, interessa solo il contenimento della spesa. Il concetto di base è quello di rendere estremamente complicato spendere soldi della Pubblica Amministrazione. Peccato che nessuno abbia spiegato ai burocrati governativi che per i progetti di ricerca i fondi non spesi non possono essere incamerati nel bilancio delle Università o dello Stato. Se non spendo i fondi di un progetto europeo il risultato è che la Commissione Europea trattiene i fondi inutilizzati e poi tutti si lamentano se il nostro Paese non è capace di utilizzare i finanziamenti europei che riceve.
Venti anni fa se un professore aveva bisogno di un collaboratore faceva qualche colloquio e affidava un incarico di collaborazione che poteva essere rinnovato a piacimento, sulla base delle esigenze e dei risultati.

Oggi se ho bisogno di un collaboratore devo preparare un bando pubblico, devo inviarlo alla Corte dei Conti per un parere preventivo di legittimità che arriva in genere dopo un paio di mesi, devo poi pubblicare il bando e seguire le procedure dei concorsi pubblici (quelle pensate per le assunzioni a tempo indeterminato). Devo riunire una commissione per tre/quattro sedute, valutare titoli con burocratici punteggi, fare una prova orale con domande scritte e sorteggiate, fare verbali in triplice copia originale firmati da tutti i commissari su tutte le pagine. Ci vogliono otto mesi di tempo per completare la procedura, al termine dei quali magari il collaboratore non serve più o è scaduto il progetto per cui lo avevo richiesto.

Se ho la fortuna di riuscire a farlo, il contratto, e se alla fine del progetto ho ancora bisogno del collaboratore, devo ricominciare tutto da capo. Proroghe e rinnovi si fanno solo per casi eccezionali a fronte della presentazione di un’incredibile mole di giustificazioni.

Apprendo che il presunto obbligo del controllo preventivo di legittimità della Corte dei Conti – definito dal CUN come “aberrante nuova lettura delle procedure di controllo negli Atenei” – è stato introdotto dalla Legge n.102 del 3 agosto 2009 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge n.78 del 1 luglio 2009 riguardante provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini e della partecipazione italiana a missioni internazionali”. Apparentemente per reperire fondi per rifinanziare le 18 missioni militari all’estero del nostro Paese si è pensato bene di far controllare tutti i contratti di collaborazione dalla Corte dei Conti, compresi quelli dei giovani ricercatori universitari. Chiaro no?
Venti anni fa per ogni professore che andava in pensione l’Università bandiva un posto di ricercatore. Il risparmio per il bilancio degli Atenei era comunque garantito, stante la differenza stipendiale, e un giovane collaboratore poteva avere una prospettiva chiara di accesso alla carriera universitaria. Poteva fare progetti, darsi obiettivi, costruirsi un’opportunità.

Oggi abbiamo le limitazioni sul turn-over e il complicato sistema PROPER per la programmazione del personale, paragonabile a uno dei peggiori prodotti della burocrazia sovietica. Le persone sono diventate punti-organico o frazioni di questi. I punti-organico vengono distribuiti agli Atenei e poi ai Dipartimenti con modelli di ripartizione straordinariamente complicati e nessuno ci capisce più niente.

Quando va bene si ricevono 0,5 punti-organico e possiamo bandire un concorso di ricercatore per dare un futuro a uno dei nostri giovani. Ma anche questo sarebbe stato troppo semplice: i ricercatori a tempo indeterminato non esistono più, sono stati aboliti dalla legge Gelmini. Possiamo bandire solo posti di RTD tipo A, contratti triennali rinnovabili una sola volta per ulteriori due anni, che eventualmente potranno diventare RTD tipo B triennali con pseudo-tenure-track per la sospirata posizione a tempo indeterminato di professore associato. Per ogni passaggio c’è un concorso pubblico o almeno una procedura di valutazione. Si riuniscono commissioni, si valutano indici e indicatori. E intanto i giovani più bravi scoraggiati da questo delirio burocratico scappano all’estero, dove sono assunti nelle Università e nei Centri di Ricerca inviando il curriculum per email e con un’intervista con skype.

Sono gli effetti dell’incredibile serie di provvedimenti sul turn-over e sul reclutamento iniziati con la Legge 6 agosto 2008 n. 133 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”. Il famigerato decreto-Tremonti disponeva provvedimenti per ridurre del 20% in cinque anni il finanziamento ordinario alle Università, con un taglio di 1,5 miliardi di euro. Curiosamente all’Art.14 lo stesso decreto autorizzava spese per un importo corrispondente per finanziare l’Expo di Milano 2015. I risultati sono noti e sono notizia di cronaca di questi giorni: sono state create enormi difficoltà alle Università italiane e sono stati sprecati 1,5 miliardi con l’Expo ancora in alto mare.

Venti anni fa potevamo invitare esperti e conferenzieri per seminari e corsi brevi nel nostro Dipartimento. Potevamo rimborsare loro le spese di viaggio, vitto e alloggio, magari, aggiungendoci anche un piccolo compenso.

Oggi no. Non lo possiamo più fare. Se invito un esperto straniero devo pubblicare un avviso preventivo. Devo fare una relazione scritta che spieghi perché sto invitando proprio lui e non un altro. Devo allegare il curriculum e procurargli un codice fiscale italiano. Il rimborso spese è incomprensibilmente assimilato a un reddito di lavoro autonomo e viene assoggettato alle voraci aliquote del fisco italiano. Mi chiedo perché e non capisco. Capisco solo che si tratta di norme anti-evasione fiscale. Ci vogliono 3 mesi nella mia Università per completare l’iter necessario per invitare un conferenziere. Il risultato è che non li invitiamo più.

La situazione paradossale è stata determinata da una scellerata risoluzione dell’Agenzia delle Entrate del 21/03/2003 n. 69 in risposta a un interpello dell’Istituto Nazionale di Alta Matematica. Ci hanno messo dieci anni per ammettere che avevano preso un abbaglio, come dimostra la risoluzione dell’11 luglio 2013 n.49 della stessa Agenzia in risposta all’Istituto Italiano di Tecnologia, che ribalta completamente la precedente interpretazione, ristabilendo almeno la logica. Peccato che per 10 anni tutte le Università e gli Enti di ricerca siano stati lasciati nel caos e che tutti i conferenzieri stranieri nel frattempo siano stati impropriamente tassati.

E intanto l’ultima stima sui capitali italiani esportati all’estero si attesta per difetto su 200 miliardi di euro, pari al 10% del PIL. Se le misure anti-evasione sono queste, temo che il problema sia destinato a non essere risolto.
Venti anni fa frequentavano il nostro Dipartimento studenti e ricercatori di varie nazionalità: albanesi, etiopi, eritrei, somali, messicani. Studiavano e facevano ricerca a Firenze, si specializzavano e poi tornavano nel loro Paese portando le esperienze fatte. Rimanevamo in contatto e questo contribuiva a internazionalizzare le nostre attività e anche a renderle utili da un punto di vista sociale.

Oggi ospitare uno studente o un ricercatore extra-comunitario è un’avventura tormentata. Nel frattempo è infatti arrivata la legge del 30 luglio 2002 n.189 “Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo”, cosiddetta Bossi-Fini.

A un nostro dottorando cinese con borsa triennale europea (Programma Marie Curie), per motivi a me ancora incomprensibili, non è stato riconosciuto il permesso di soggiorno né per motivi di lavoro subordinato né per finalità di studio o formazione. Il dottorato di ricerca non è evidentemente contemplato dalla nostra burocrazia anti-immigrazione. Il risultato è stato che per 4 anni il nostro studente ha dovuto far richiesta di permessi semestrali di soggiorno, con lunghe code in Questura. Ogni volta il permesso di soggiorno non gli veniva rilasciato subito, bensì dopo qualche mese dalla richiesta. In questi periodi di “attesa” secondo la legge egli poteva stare in Italia ma non poteva viaggiare all’estero. Il suo progetto europeo prevedeva però dei corsi di formazione in vari Paesi e ben presto egli ha trovato da sé una soluzione nel caos burocratico nazionale: sembra infatti che, viaggiando in aereo con biglietto elettronico e check-in on line, nessuno controlli i documenti in Italia e anche chi non è in possesso del permesso di soggiorno può viaggiare dove e come gli pare. Anche questo andrebbe spiegato a chi ha scritto la Bossi-Fini, che probabilmente pensava che gli extracomunitari viaggiassero solo sui barconi!
Venti anni fa per svolgere attività di ricerca fuori sede o per partecipare a un congresso scientifico, bastava una domanda di autorizzazione preventiva e un modulo di richiesta di rimborso spese. Se spendevo 20.000 Lire dopo un mese ricevevo un rimborso di 20.000 Lire.

Oggi devo spiegare per scritto perché sto facendo una missione, giustificare per scritto ogni scontrino, riempire 4-5 pagine di moduli per ogni missione. Se spendo 20 Euro dopo 6 mesi ricevo un rimborso di 15 euro, chissà perché?: alcune spese infatti sono inspiegabilmente equiparate a reddito e quindi tassate, altre non vengono riconosciute perché gli scontrini non sono abbastanza “parlanti”. Ora tutto mi aspettavo quando ho iniziato a fare questo lavoro, tranne il fatto che il destino mi riservava anche di dover “parlare” con gli scontrini. Capisco che anche qui si tratta del combinato disposto delle norme sul contenimento della spesa pubblica e sul contrasto all’evasione fiscale e quindi non mi stupisco che le stime sull’entità di quest’ultima si attestino a oltre 180 miliardi di euro, ponendoci al primo posto in Europa.
Venti anni fa il personale amministrativo delle Università era impiegato per fare un lavoro normale, che richiedeva competenze normali per cui gli impiegati erano preparati, avevano studiato ed erano stati selezionati nei concorsi: un po’ di contabilità, partita doppia, gestione degli inventari, contratti pubblici e poco altro.

Oggi il personale amministrativo è obbligato a lavorare con norme astruse e sistemi informatici cervellotici. Gli amministrativi devono fare i giuristi e gli informatici per poter svolgere il loro lavoro. E per questo frequentano continuamente corsi di formazione, dove vengono depressi dalle sempre più illogiche innovazioni introdotte per le finalità più disparate, ma mai per il miglioramento dell’amministrazione dell’Università. A causa di ciò, essi hanno sviluppato uno strano linguaggio, comprensibile solo fra di loro, dove i termini sono: U-GOV, DURC, DUVRI, CUP, CIG, MEPA, CONSIP, PROPER, PERLAPA.

Quest’ultimo, PERLAPA, escogitato dal Ministero della Funzione Pubblica per implementare il Piano Nazionale Anticorruzione, merita il premio per l’“acronimo più originale”. Insieme ad AVA, PERLAPA è la dimostrazione del carosello burocratico in cui ci dibattiamo, utile solo a fare il “lavaggio del cervello che più bianco non si può” a chi lavora nelle Università.

Apprendo che il Piano Nazionale Anticorruzione è stato predisposto ai sensi della legge 6 novembre 2012 n. 190 “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”.

Cerco di capire qualcosa fra gli 83 commi che formano l’articolo 1 e capisco solo perché l’Italia genera la metà del giro d’affari della corruzione in Europa, con un costo per la collettività di 60 miliardi di euro per anno.
Venti anni fa i tecnici universitari si occupavano dei laboratori e delle apparecchiature scientifiche. Facevano funzionare gli strumenti per dare supporto alla ricerca e alla formazione. Se portavano gli studenti a fare attività sul campo, bastava riempire un modulo in segreteria per aver garantita la copertura assicurativa.

Oggi i pochi tecnici rimasti si occupano per lo più di norme di sicurezza, di codice degli appalti e di gestione della qualità. Il loro linguaggio è fatto di DVR, DUVRI, DPI, RSPP, RLS, AQ e ISO9000. L’importante è che tutto sia a norma e che risponda ai burocratici requisiti imposti dalla legge. A nessuno invece interessa se gli strumenti funzionano bene, se forniscono risultati interessanti, se servono per fare ricerca e per insegnare qualcosa agli studenti.

Di nuovo si confonde il mezzo con il fine. Per portare gli studenti in campagna o in laboratorio, oltre che di moduli, dobbiamo dotarci di DPI, caschetti, occhiali, scarpe con suola metallica (che regolarmente si stacca) e altri curiosi accessori venduti a caro prezzo sul MEPA e sul CONSIP.
Tento di leggere il “Testo Unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro” (decreto legislativo 9 aprile 2008 n.81) scorrendo i suoi 306 articoli, suddivisi in 13 titoli, e i 51 allegati, e non lo capisco. Mi chiedo se l’introduzione di tutte queste regole abbia prodotto concreti benefici? Se gli incidenti sono diminuiti? Poi leggo che l’Italia detiene il record europeo di incidenti sul lavoro.
Venti anni fa si stava diffondendo l’uso della posta elettronica e si apriva un mondo nuovo. Potevamo comunicare attraverso il computer a costo zero risparmiando tempo, carta e spostamenti. Immaginavamo un futuro più semplice e più intelligente, come in effetti si è verificato in tanti altri Paesi.

Oggi in Italia, e solo in Italia, le comunicazioni istituzionali avvengono mediante PEC. Un sistema inutilizzabile con le normali applicazioni di gestione delle email, concepito in maniera burocratica e irrazionale, al di fuori di ogni standard internazionale.

L’obbligo della PEC è sancito dalla Legge del 28 gennaio 2009 n.2 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, recante misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale”. Obiettivo raggiunto, non ci sono dubbi! E intanto siamo terzultimi in Europa, davanti a Grecia e Cipro, per lo sviluppo della banda larga. Ma ci possiamo consolare con la PEC per l’uso della quale siamo primi e unici, in Europa e nel Mondo.

Venti anni fa quando si stipulava un contratto di ricerca si riceveva dalla segreteria una copia del contratto firmata dalle parti. C’era bisogno di una penna e di una fotocopiatrice.

Oggi i contratti con la Pubblica Amministrazione si siglano con firma digitale tramite l’uso di una costosa macchinetta venduta dalle aziende del CONSIP e utilizzabile solo dal direttore del Dipartimento. Non c’è verso di fare una copia dell’atto finale firmato dalle parti. A breve avremo enormi problemi di rendicontazione e si genererà contenzioso all’infinito. Questo è uno dei tanti effetti della tanto decantata “digitalizzazione della P.A.”.

L’obbligo di firma digitale deriva dalla legge del 17 dicembre 2012 n.221 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge n. 179 del 18 ottobre 2012 recante ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese”. Evidentemente avevamo proprio bisogno di questo per rilanciare l’economia ormai in cronica recessione.

Venti anni fa per dare il via libera al pagamento di un bene acquistato, dopo averne verificato la corretta rispondenza ai requisiti e il funzionamento, si apponeva un visto sulla fattura.

Oggi sta per arrivare la fattura elettronica per la Pubblica Amministrazione e non oso immaginare come faremo a vistarla. Mi immagino dotazioni di apparecchietti, smart card e firme digitali, acquisiti a caro prezzo sul CONSIP.

Si tratta di un’eredità della legge finanziaria 2008 n. 244 del 24 dicembre 2007 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato”, provvidenzialmente tenuta in sospeso fino al 2014. Adesso che la fattura elettronica obbligatoria parte per davvero, aspettiamo con ansia di constatarne i benefici in termini di risanamento del bilancio dello Stato.

Venti anni fa mi ero appena sposato. Io e mia moglie, entrambi precari, possedevamo due auto italiane, un motorino italiano, un computer italiano, un costosissimo telefono cellulare italiano, una TV italiana e un certo numero di elettrodomestici italiani.

Oggi la mia famiglia possiede due auto giapponesi, uno scooter giapponese, quattro computer americani, tre smartphone americani, due tablet americani, due TV sud-coreane e un certo numero di elettrodomestici tedeschi.

La crisi dell’Università riflette la crisi del nostro Paese. Ne è la cartina di tornasole e l’inascoltato campanello di allarme.

Se penso a tutto questo mi sento responsabile. In questi venti anni ho fatto parte del sistema, sono stato direttore di Dipartimento e membro del Senato accademico. Mi rendo conto di non aver fatto abbastanza per contrastare questa progressiva deriva burocratica che sta inesorabilmente distruggendo l’Università e la ricerca nel nostro Paese.

In questi venti anni si sono succeduti al MIUR Ministri di destra e di sinistra, alcuni erano stati Rettori, molti erano professori. Eppure nessuno ha arginato tutto questo, nemmeno un po’. L’unico Ministro che ha fatto qualcosa di buono, a mio parere, è stato il primo: Antonio Ruberti, già Rettore della Sapienza e padre della legge sull’autonomia universitaria, la n.168 del 9 maggio 1989 che all’art.6 comma 2 recita: 

Nel rispetto dei principi di autonomia stabiliti dall’articolo 33 della Costituzione e specificati dalla legge, le università sono disciplinate, oltre che dai rispettivi statuti e regolamenti, esclusivamente da norme legislative che vi operino espresso riferimento.

Basterebbe applicare questo semplice concetto, liberando le Università Italiane da norme vessatorie sviluppate per altri contesti che con le Università proprio non c’entrano niente. Si può infatti facilmente verificare come le leggi che causano burocrazia non sono affatto “norme legislative che operano espresso riferimento” all’Università e agli Enti di Ricerca. Esse infatti disciplinano argomenti disparati ed eterogenei, quali: revisione della spesa pubblica o spending review, rafforzamento patrimoniale del settore bancario, contratti e appalti pubblici, salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, normativa antimafia e anticorruzione, sicurezza e ordine pubblico, provvedimenti anticrisi, contrasto all’evasione fiscale, immigrazione, asilo politico, missioni militari all’estero.

A volte penso che basterebbe una circolare del MIUR di poche righe per risolvere magicamente tutto:
Nel rispetto dei principi di autonomia stabiliti dall’articolo 33 della Costituzione e specificati dalla legge n.168 del 9 maggio 1989, non si applicano alle Università tutte le norme genericamente riferite alla Pubblica Amministrazione che non facciano espresso riferimento alle Università stesse.
Ma non sarebbe giusto. Anche il resto della Pubblica Amministrazione avrebbe il diritto di essere liberato da questo pesante fardello di assurdità.

Firenze, 30 maggio 2014

venerdì 2 maggio 2014

Il Culto dello Sportello - III: Miracolo alla ASL



Terzo post della serie "il culto dello sportello" (qui il primo e qui il secondo). Vi racconto di un'avventura fra lo studio del dottore e la sede della ASL. (immagine da "haisentito.com")




La mattinata comincia subito male quando mi  presento nella sala d'aspetto del dottore all'ora di apertura e trovo che ci sono già 11 vecchietti ad aspettare, chissà da quanto tempo. Provo flebilmente a descrivere il mio caso "sapete, il dottore mi ha detto che è una cosa abbastanza urgente per mio padre che ha 92 anni, devo fare una richiesta alla ASL e qui mi bastano dieci secondi per farmi dare un foglio che mi ha preparato....."

I vecchietti sono abbastanza gentili, ma mi fanno anche notare che hanno i loro problemi e molti di loro dicono che faranno alla svelta anche loro. E comunque, il dottore non c'è. Mi metto a sedere ad aspettare: sono le 10 del mattino e devo far lezione alle 12. Mah?

Il dottore arriva alle 10:45. I vecchietti non fanno cenno alla mia richiesta di priorità e si mettono subito in fila davanti alla porta. Sembra che non ci sia  proprio modo che ce la faccia per la lezione di mezzogiorno. Fortunatamente, il dottore mi ha notato quando è arrivato e esce lui stesso dal suo ambulatorio passandomi il foglietto che devo portare alla ASL. Primo miracolo della mattina. Sono le 11:10.

Mi fiondo alla ASL col motorino (anche questo un piccolo miracolo di trazione elettrica). Arrivo all'ufficio informazioni col foglino in mano e la signora allo sportello mi dice: Oggi non si può fare - il CUP ha chiuso alle 10. Si può fare per domani? No, domani non prendiamo questo tipo di richieste. Dopodomani? No, è il primo Maggio. Venerdì? No, non prendiamo questo tipo di richieste. Ritorni la prossima settimana.

Provo a insistere gentilmente, sa, dico, il dottore si è raccomandato per questo letto ortopedico. Mio padre ha 92 anni ed è bloccato nel suo letto, che non è adatto. Così, per avere un letto ortopedico ci vuole tempo.......... Mi guarda con aria annoiata e mi dice, "non si può fare questa settimana." Sono le 11:30 e la mia lezione comincia alle 12

Provo a telefonare al dottore per sentire se c'è qualche altro modo. Mi dice che, mah..., forse...., boh....  Mentre mi aggiro con aria spettrale per i corridoi vuoti della ASL col telefonino all'orecchio , mi capita di incrociare una signora che riconosco essere l'impiegata che ho visto altre volte dietro lo sportello del CUP. Provo a raccontarle il mio problema.

E qui avviene il secondo miracolo della mattinata. La signora annuisce e mi dice, "Capisco benissimo. Venga con me che le apro il terminale" Giuro che per un attimo ho sentito i cori angelici e ho visto una specie di luminosità dorata intorno alla testa di questa signora - qualcosa tipo i santi dei mosaici di Ravenna.

In cinque minuti e qualche firma la richiesta è fatta. Ringrazio profusamente la signora che mi dice, "Sa, io faccio il possibile per essere d'aiuto quando posso. Però certe volte è veramente difficile. Tempo fa ho cercato di spiegare a un signore che la cosa che mi chiedeva non la potevo proprio fare. Lo sa cosa mi ha detto? Non solo che era colpa mia perchè sono un'incompetente ma mi ha anche augurato che mi venga un tumore al seno!"

Ringrazio ulteriormente per la resistenza all'altrui maleducazione. Sono circa le 11:45 e ce la faccio (ancora un piccolo miracolo del motorino elettrico) ad arrivare in aula per la mia lezione entro il quarto d'ora accademico.


Allora, Questa storia e quelle precedenti mi hanno insegnato un paio di cose, ovvero:

1. L'immagine dell'impiegato statale fannullone e incompetente è spesso falsa e esagerata. Nelle mie vicissitudini ai vari sportelli mi sono spesso trovato di fronte a persone gentilissime che fanno tutto il possibile per aiutarti. Anche loro, però, si trovano di fronte a una burocrazia fatta apposta per renderti le cose difficili, come pure a utenti maleducati e antipatici che se la rifanno con loro a furia di insulti e accidenti. Non c'è da stupirsi se alcuni di loro poi diventano altrettanto maleducati e antipatici. Insomma, l'antipatia è come il morbillo: è contagiosa.

2. Il danno economico che fa il culto dello sportello al "sistema italia" è qualcosa che non so quantificare ma che mi sembra comunque spaventevole. Pensate che in questa vicenda il sistema sanitario mi ha chiesto di fare da fattorino per trasportare un foglio da un ufficio a un'altro. Oltre alla mattinata quasi intera che ho perso io (e mi è andata di lusso, senza i miracoli ce ne avrei perse due o tre), c'è da mettere in conto il che hanno perso altre persone (dottore, impiegata, ecc.). A questo punto, ragionate che la stessa cosa la poteva fare il dottore spedendo direttamente la richiesta all'ufficio competente. Era questione di un microsecondo e costo zero.

Arriveremo mai a una burocrazia efficiente? Chissà, forse piano piano riusciremo a eliminare questo assurdo culto dello sportello, ma sono sicuro che si inventeranno qualche altra cosa per far perdere tempo agli utenti - magari anche peggio.