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martedì 14 giugno 2022

Ciao ciao università! Come abbandonare la ricerca ed essere perfettamente felici



Immaginate un campus universitario visto dall'alto. Zoomate su uno degli edifici. Lì, immaginate una figura umana che ne esce, urlando mentre si tiene la testa con le mani. Immaginalo correre e correre, correre fuori dal cancello del campus e poi scomparire nella nebbia, correndo ancora a tutta velocità e urlando. Quello ero io, che lasciavo per sempre l'Università di Firenze.


Avevo ancora del tempo prima del pensionamento obbligatorio, ma non ce la facevo più. Le normative Covid sono state il colpo di grazia a un'istituzione che era già diventata una mostruosità. E ho lasciato la mia università a marzo, dopo 40 anni di lavoro.

Per spiegare perché ho lasciato il lavoro e sono scappato urlando, dovrei raccontare com'è lavorare in un'università di medio livello, come l'Università di Firenze. Naturalmente, la definizione di "livello medio" dipende dai parametri utilizzati, ma l'Università di Firenze è normalmente classificata tra le prime 500 università del mondo. Questo non è poi così male considerando che ci sono decine di migliaia di istituzioni nel mondo che si autodefiniscono come "università". Ma sicuramente non c'è niente di cui essere entusiasti.

È una brutta cosa lavorare in un'università di livello medio? Non necessariamente. Ho esperienza di lavoro in università di alto livello (solo per citarne una, sono stato post-doc a Berkeley) e so che in un'università di livello superiore avrei potuto avere uno stipendio più alto, più supporto e più possibilità di attrarre finanziamenti. Ma anche più stress, più pressione e più controllo.

Quindi, non invidio la vita dei colleghi che hanno fatto la corsa del topo. Il modo in cui la ricerca scientifica è organizzata oggigiorno implica scoraggiare la ricerca interdisciplinare e innovativa. In realtà, non solo scoraggiare: l'intero sistema mira a bombardare a tappeto con il napalm tutto e tutti coloro che cercano di fare qualcosa di nuovo. Ma in un'università di medio livello non sei così pesantemente sotto pressione e questo ti dà la possibilità di esplorare nuove idee e spostarti in nuovi campi.

Per essere chiari, questo non è un inno alla mediocrità. Essere in un'università di livello medio non significa non poter fare un lavoro di alto livello. Lo puoi fare e lo devi fare. È vero, non hai lo stesso tipo di sostegno finanziario che puoi avere nei migliori abbeveratoi scientifici, ma puoi compensare con creatività e flessibilità. Ad esempio, il Dipartimento di Chimica dell'Università di Firenze, dove lavoravo, si classifica costantemente come il miglior dipartimento di chimica in Italia, ed è ai massimi livelli a livello mondiale in diversi campi. Ha funzionato così bene, credo, perché i ricercatori sono stati lasciati per lo più liberi di organizzare il loro lavoro e di seguire le linee che ritenevano più gratificanti.

Allora, cosa mi ha portato a scappare urlando da una struttura che consideravo non così male? In una parola: burocrazia. È stata una tendenza lenta ma, anno dopo anno, i burocrati erano entrati sempre più nell'organizzazione della ricerca. Ci è stato chiesto di elencare i nostri "prodotti" (il nome che i burocrati danno alle pubblicazioni scientifiche) e di dichiarare i nostri indici bibliometrici. Inoltre, la burocrazia stava pesando sempre di più sul budget dell'università; il numero degli impiegati amministrativi continuava ad aumentare e lo stipendio di un burocrate di alto livello diventava superiore a quello di un membro senior di facoltà. Alla fine, il direttore amministrativo era arrivato a poter licenziare il rettore (è successo, anche se non ufficialmente). Tutto questo non è solo un problema con l'Università di Firenze, è lo stesso in tutte le università del mondo.

L'ultimo chiodo nella bara è stata la pandemia. Ha dato ai burocrati la possibilità di ottenere una vittoria epocale sui docenti. In verità, non è stata solo una vittoria, è stato il completo annientamento del nemico. Prima della pandemia, l'università era ancora un'istituzione relativamente aperta, dove ero libero di andare ovunque nel nostro campus e di ricevere chiunque nella mia stanza. Potevo invitare chiunque a tenere una conferenza o un seminario, dall'Italia o dall'estero. Potevo invitare ricercatori da qualsiasi luogo a lavorare nel mio gruppo. I miei studenti potevano venirmi a trovare in qualsiasi momento e la porta del mio ufficio era sempre aperta.

Tutto ciò è stato vaporizzato dai regolamenti: un giardino di delizie per burocrati. Le nuove regole in genere non erano basate su dati verificabili, ma erano sempre dure, rigide, e dettagliate. Distanziamento sociale, mascherine, igienizzazione di tutto (anche strumenti delicati e costosi che non hanno beneficiato dall'essere spruzzati con solventi). Se volevo ricevere qualcuno nel mio ufficio, dovevo chiedere il permesso al direttore del dipartimento con almeno 24 ore di anticipo, e spiegare chi era la persona che volevo incontrare, perché volevo incontrarlo e per quanto. Per entrare nel nostro dipartimento eravamo testati, igienizzati, mascherati, verdicertificati e la nostra temperatura corporea veniva misurata. E non si parli più di socializzare con i tuoi colleghi o gli studenti. Era severamente vietato mangiare o bere nei locali: anche le macchine da caffè nei corridoi erano scomparse. 

Ma non era niente in confronto a quanto è successo all'insegnamento. Per la maggior parte delle persone, una lezione di chimica è qualcosa di simile a una sessione con un dentista: vuoi che finisca il prima possibile. Eppure, prima della pandemia, le lezioni potevano essere interattive, vivaci e, per quanto possibile, interessanti. Insegnando in classe, hai a che fare con esseri umani seduti di fronte a te e puoi discutere di cose anche non strettamente legati all'argomento della tua classe. Ho fatto fare ai miei studenti esperimenti pratici, giocare con business games e una volta li ho fatti cantare un pezzo di musica polifonica. Forse non era chimica, ma si sono divertiti molto.

Tutto ciò è scomparso con il rumore di un recipiente che si svuota con la pandemia. Improvvisamente, gli studenti sono stati trasformati da esseri umani in immagini delle dimensioni di un francobollo su uno schermo. E fu allora che accettarono di mostrare i loro volti. A volte si rifiutavano. Non avevi idea se ti stessero ascoltando o giocando o guardando film sui loro schermi. Ancora peggio è stata la modalità "mista" apparsa nel 2021. Pochi studenti mascherati potevano riservare un posto in classe, ogni sedile occupato distanziato dal successivo da due non occupati (regola sicuramente basata su dati). La maggior parte rimanevano in modalità remota e tu avevi esattamente zero interazioni con loro - non avevi idea di chi ti stesse ascoltando, se qualcuno lo faceva.

La cosa più scioccante è il modo in cui i miei colleghi hanno affrontato questa tempesta burocratica. Nessuna protesta, nessuna domanda, nessuna discussione. Voglio dire, dovremmo essere scienziati: qualcuno potrebbe aver fatto domande sulle regole. Che prove abbiamo che lavarsi le mani con solventi ha qualche effetto utile? Su quali basi ci era stato proibito toccare un pezzo di carta precedentemente consegnato da uno studente? Che prove ci sono che stare a un metro l'uno dall'altro previene il contagio?

Ma nessuna regola è stata criticata, per quanto assurda. Gli amministratori, e anche molti docenti, erano entusiasti delle nuove regole. Come nell'esperimento di Milgram, è stata data loro la possibilità di maltrattare i loro colleghi assumendo ruoli formali o informali di guardiani del palazzo celeste, e l'hanno presa con gioia. Prima della pandemia, la signora della portineria era sempre sorridente e gentile. In seguito, è diventata una specie di guardia carceraria, anche se non indossava un'uniforme. Sono stato visiting researcher all'Accademia delle scienze di Mosca, poco dopo la caduta dell'Unione Sovietica, e posso dirvi che le guardie all'ingresso erano più amichevoli.

Non ricordo quale sia stata esattamente l'ultima goccia, ma a un certo punto mi sono ritrovato a fare i bagagli. Libri, articoli, immagini, attrezzature e roba varia accumulati in quarant'anni. Dei miei libri, ne ho donati circa 350 alla nostra biblioteca. I bibliotecari sono stati moderatamente felici di ricevere quel regalo, ma loro (e io) sono perfettamente consapevoli che i nostri studenti stanno diventando incapaci di capire l'inglese, quindi la maggior parte di questi libri raccoglierà polvere finché non saranno consumati in qualche incendio alla fine del la nostra civiltà. Ma così è la vita. 

E adesso? Inizialmente avevo un po' di paura. Il pensionamento obbligatorio in Europa è un'esperienza terribile per le persone che sono costrette ad andare in pensione mentre sono ancora attive e perfettamente in grado di svolgere il proprio lavoro. Ma, nel mio caso, devo ringraziare la piccola creatura peduncoluta che mi ha fatto odiare il mio lavoro. Posso dire che non provo niente di simile allo "shock da pensione" che ha ucciso alcuni dei miei colleghi. Non scherzo: si sono ammalati e sono morti poco dopo essere andati in pensione. Prima erano in perfetta salute.

Quindi, in questo momento, sono in perfetta forma e perfettamente felice. È finita con dover maltrattare gli studenti, compilare moduli, partecipare a riunioni, appartenere a comitati, e altri modi inutili di sprecare il proprio tempo. Dio mi ama davvero!!! Posso passare tutto il mio tempo a fare le cose che amo fare. Come passare una quantità eccessiva di tempo a scrivere post sul blog " Seneca Effect". Ma non solo. La scienza può essere molto divertente quando non sei sotto pressione da comitati di revisione e agenzie di finanziamento (vedi sotto). E sto anche lavorando ad alcune cose strane di cui non vi dirò nulla.

Sembra che ci siano tempi duri in arrivo, ma dobbiamo accettare ciò che l'universo ha preparato per noi. E così, il futuro ci aspetta. Chissà cosa ci aspetta una volta che saremo lì?

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Divertirsi con la scienza


 Una volta, la scienza era qualcosa che si faceva solo per imparare cose nuove, e penso che si possa ancora fare con questo spirito, specialmente dopo essere scappati urlando dal tuo lavoro di ricerca. Consulta il nostro paper (con Ilaria Perissi ) sulla "6a legge della stupidità" e capirai cosa intendo. Naturalmente, i revisori erano inorriditi da un articolo che non era noioso. Ma, alla fine, abbiamo superato le loro critiche con buoni argomenti e perseveranza. Noi (con Ilaria e altri) abbiamo anche pubblicato un articolo sulla dragonologia (non proprio la scienza dei draghi, ma i draghi della scienza).

Un altro articolo scritto con Ilaria è stato ispirato dal romanzo "Moby Dick" di Herman Melville. Abbiamo descritto come il ciclo della caccia alle balene del 19° secolo sia un esempio di sfruttamento eccessivo delle risorse naturali. È un ciclo dinamico che abbiamo simulato utilizzando un gioco da tavolo per scopi didattici. Il documento è in fase di revisione, per il momento potete dare un'occhiata a una versione precedente chiamata "Oil Game".

Ora siamo (di nuovo, con Ilaria) esperti di fama mondiale sulle trappole per topi viste come modelli per le esplosioni nucleari (l'articolo è su Arxiv, abbiamo un articolo completo in revisione). Nella foto, vedete un topo che ho catturato di recente. Non preoccupatevi, il piccolino non è stato maltrattato. È stato rilasciato, vivo e vegeto, in un luogo dove sono sicuro che può trovare cibo.




Pensate che tutto questo non sia una scienza seria? Ebbene, se volete scienza seria, ecco della scienza seria, almeno in termini di parole belle roboanti: "Il ruolo del ritorno energetico sull'energia investita (EROI) in Complex Adaptive Systems" (Perissi, Lavacchi e Bardi). Roba bella pesante, ma è stato divertente studiare questo argomento, anche se abbiamo scritto l'articolo in una forma piuttosto noiosa, piena di formule matematiche.



A proposito, se vi dilettate con cose relative all'EROI, sapete che la "Curva di Hubbert" è il risultato del calo dell'EROI dell'estrazione di petrolio. E forse vi siete chiesti (ma non avete mai osato chiedere) qual è il valore dell'EROI al picco del petroli? Bene, non troverete quel dato da nessuna parte, ma noi (di nuovo, io e Ilaria) lo sappiamo! L'articolo è in preparazione e il mistero sarà presto svelato. E c'è altro in cantiere, incluso un lungo documento sul concetto di " olobionti sociali " -- sono a metà, proprio ora. Avanti, compagni olobionti!

sabato 14 giugno 2014

Il culto dello sportello - IV

Un contributo di Luca Mercalli per la serie di avventure che vanno sotto il titolo "Il Culto dello Sportello", ovvero come la burocrazia italiana ci sta distruggendo!




Vedi anche
Gli imperi muoiono di burocrazia
Il culto dello sportello-I
Il culto dello sportello-II
Il culto dello sportello -III



Patente di guida tipo B (per condurre nella burocrazia)

di Luca Mercalli

Maggio 2014. Devo rinnovare la patente. Sportello telefonico per la prenotazione disponibile un’ora e mezza alla settimana. Segno in agenda, metto allarme sul telefono e inizio a chiamare all’apertura della finestra temporale.

Occupato, come previsto. Occupato. Occupato…

Pochi minuti prima della chiusura finalmente libero. Ottengo risposta da un addetto, che mi spiega cosa devo fare, tre versamenti di tot euro su tre conti diversi, due foto tessere. Visita medica prenotata alle ore 09.05 del 10 giugno, ASL TO3, Collegno, periferia ovest di Torino.

Accidenti, non alle nove, ma alle nove-e-zero-cinque: con questa risoluzione temporale mi aspetto un sistema molto efficiente.

09 giugno 2014. Documenti tutti pronti, consulto la pagina web dell’ASLTO3 per verificare l’indirizzo, Viale Martiri del 30 Aprile, è il portale del monumentale ex Ospedale Psichiatrico già Certosa juvarriana. Uso Google Maps per arrivare a colpo sicuro, vedo perfino dove sono i parcheggi e pianifico tutto in dettaglio.

10 giugno 2014. Arrivo con giusto margine di 10 minuti al parcheggio previamente identificato, è quasi vuoto, prendo la cartellina dei documenti e mi avvio all’ingresso degli uffici sanitari.

Ma, prima sorpresa, l’ingresso monumentale è chiuso, sbarrato. Nessun cartello, nessuna indicazione, nessun campanello. Comincio a innervosirmi e mi guardo attorno. Incredibile, nessuna traccia dell’ingresso di una struttura così importante come gli uffici sanitari nazionali di un grande distretto urbano com’è l’area ovest di Torino.

Torno sui miei passi e trovo una piazzetta, unica indicazione “Museo della città e della Resistenza”, nessuna traccia dell’ASL. Individuo una persona con una cartellina di documenti medici, la seguo.
Entra sotto un arco laterale che adduce a un cortile. Nessuna insegna né campanello. Nel cortile sono parcheggiati automezzi marchiati ASLTO3, bene, pare la buona strada…

Raggiungo un chiostro settecentesco con un cantiere in attività: ora mi spiego (forse) la chiusura dell’ingresso principale! Ma ancora nessuna indicazione, freccia, accoglienza delle strutture sanitarie, nulla di nulla, potrei essere ovunque.

Mi aggiro scoraggiato tra ponteggi e secchi di calce, finché trovo “Ufficio protocollo”. Entro e chiedo di Medicina Legale-Rinnovo patenti.
  • Segua i portici, mi fa così e così a gesti un personaggio non certo amichevole, e lo trova.
Boh, ci vorrebbe un GPS dedicato ai percorsi interni degli uffici…

Finalmente una porta a vetri reca scritto “Medicina legale”. Non una parola sul rinnovo patenti, che pure dev’essere una visita ad alta frequentazione…

Entro in una sala d’aspetto che sembra il vestibolo di un commissariato di polizia degli anni Trenta. Sono le 09.07, ho due minuti di ritardo a causa del labirinto d’ingresso.

Chiedo ai presenti:

- E’ qui la visita per rinnovo patente?
- Non so.
- Non so.
- Boh…
- Può darsi…
- Ah sì, sono qui anch’io per questo, risponde finalmente un tizio.
- E se si ha già la prenotazione, cosa bisogna fare? chiedo, basta attendere, si viene chiamati o bisogna registrarsi?
- Non so, ma comunque la segretaria non c’è, dice qualcuno tra gli astanti.

Mi introduco in un corridoio dove c’è altra gente che aspetta, e trovo un tale nell’ufficio segreteria al quale chiedo la procedura da seguire.
  • Non so, io non c’entro, questa non è la mia mansione, la segretaria è fuori, deve aspettare.
Mi siedo deluso su una panca e osservo le finestre, alte finestre di secoli passati, con spifferi e vetri singoli, sotto c’è un radiatore: mi domando quanto spenderà di bolletta di riscaldamento quel complesso edilizio, sapendo che pagherò comunque io… Poi inizio a parlare con una signora vicina a me, confrontiamo le carte: sì, questo ce l’ho, questo no, ma a lei l’hanno chiesto? A me due copie, a lei una… mah, speriamo bene…

Intanto arriva la segretaria. In parecchi la assediano chiedendo cosa si debba fare. Ci sono i rinnovi patenti, le pratiche INPS, tutto mischiato insieme. Uno viene mandato via, la sua pratica oggi non si può esaminare, a noi “patentari” vengono invece messi in mano due moduli da compilare, di quelle fotocopie già rifatte mille volte che stenti a leggere. Ti metti i fogli sulle ginocchia e riscrivi le solite cose: Nome-cognome-nato a-data-residente-via-numero civico-Cap-firma.

Ma lo Stato non sa già tutto di me? forse mi intercetta pure le telefonate, ma mi chiede di compilare altri due moduli in sala d’aspetto praticamente uguali. E poi lo spazio bianco per scrivere è troppo piccolo, non ci stanno le parole, il mio comune fa solo sei lettere, pensa però se sei nato a San Benedetto del Tronto... farai una nota a piè di pagina.

Se quei moduli fossero stati disponibili in pdf sul sito web, li avrei già scaricati e compilati a casa.

Intanto sono le 09,30 e la segretaria non riesce a iniziare la procedura perché continuamente assediata da nuovi arrivati che chiedono giustamente come si debbano comportare.

Quante migliaia di volte ripeterà nella sua vita:
  • Per la patente, se avete la prenotazione telefonica, dovete aspettare qui finché vi chiamo e poi andrete dal medico dalla porta a fianco quando vi chiama lui.
Accidenti, se avessi un foglio ci scriverei questo semplice messaggio e lo attaccherei sul muro! Sembra così semplice da fare… Se poi invece che scriverlo a pennarello fosse anche un cartello ufficiale, con scritto:

ISTRUZIONI PER VISITA MEDICA RINNOVO PATENTE (1)

Chi ha prenotato telefonicamente la visita è pregato:
  1. di attendere in sala d’aspetto
  2. verrà chiamato dall’addetta seguendo l’ordine di orario assegnato durante la prenotazione telefonica
  3. consegnerà i tre versamenti, la foto, la patente e il tesserino sanitario/codice fiscale
  4. aspetterà di essere chiamato dal medico per la visita (porta a sinistra)
  5. tornerà in segreteria (porta a destra) per ritirare il documento sostitutivo della patente
  6. la nuova patente verrà recapitata a casa entro 15 giorni

Ma questo cartello purtroppo non c’è e la sua mancanza crea un sacco di incertezze, timori e malumori tra i cittadini, e rallenta enormemente le operazioni dei funzionari.

Vengo chiamato, ed entro in segreteria. C’è una scrivania ingombra di carte dove appoggio anche le mie. Penso che o per distrazione o per dolo, sarebbe facilissimo venir via con un fascio di pratiche sottostanti i miei fogli… alla faccia della privacy!

La povera addetta è già fuori di sé ed ha appena iniziato la giornata.

Acquisisce i dati della mia patente, che fortunatamente vengono riconosciuti da un terminale informatico, preleva le attestazioni di versamento, ne taglia una parte e mi riconsegna il resto (e pensare che anche qui l’informatica aiuterebbe… da giorni quei soldi sono stati accreditati nei conti dei vari enti e potrebbero già comparire nella scheda personale), prende la mia foto tessera e la riscansiona sul suo computer, viene pure male, un po’ tagliata. Le dico che ho qui sulla chiavetta USB l’immagine digitale originale. Ignora la proposta. Capisco, dev’essere un casino copiare un file.jpg se non c’è la procedura già strutturata, mi rassegno dunque ad avere una brutta immagine sulla patente per i prossimi dieci anni. Infine controlla la carta d’identità e legge il codice fiscale sul mio tesserino sanitario con un lettore di codice a barre.

E’ una strana commistione di operazioni ultramoderne con altre ottocentesche.

Esco, cambio panca e attendo di fianco alla porta del medico.

Nel frattempo la segretaria mi raggiunge e mi domanda nuovamente il tesserino sanitario: la lettura automatica non è andata a buon fine, deve rifarla. Me lo riporta dopo qualche minuto.

Attendo quasi mezz’ora. Osservo davanti a me un’umanità stanca e rassegnata. Tutti in attesa indeterminata, frustrati, disillusi. Commento tipico: “Chevvuoi, siamo in Italia…”
Io almeno sto bene, comincio a incazzarmi, ma sto bene di salute, stringe invece il cuore vedere deboli anziani con bombola di ossigeno al seguito o in sedia a rotelle, accompagnati da un parente che magari ha preso permesso dal lavoro e sperava di cavarsela in fretta.

Quanto tempo e denaro buttati via, una macchina complicata, inefficiente, che dissipa risorse e crea frustrazione, sia negli utenti, sia negli addetti. Tutto viene codificato in procedure a tavolino ma sembra sfuggire alle logiche più semplici della vita pratica, del buon senso, che anche se si volesse, non può più essere applicato per arbitrio del singolo, in quanto ingabbiato in vincoli insuperabili. Credo di vivere nell’unico paese al mondo che ha bisogno di un Ministero per la Semplificazione e la pubblica amministrazione. Signor ministro, per capire cosa deve fare, vada ogni mattina a far coda in un diverso ufficio pubblico e prenda appunti su cosa si deve fare, non aggiunga altre regole, la prego, ma faccia funzionare ciò che c’è. Altrimenti emaneremo nuovi provvedimenti con nuovi moduli da compilare per autorizzare ai sensi dell’articolo tale e del comma talaltro l’eliminazione del documento precedente.

E’ un pericoloso processo che ci farà cadere in rovina, come il ghiaccio che si forma sulle ali di un aereo e lo fa precipitare (2).

Interrompo i cattivi pensieri perché si apre la porta del medico. Ma chiama un altro invece di me. La segretaria dall’altra stanza – bontà sua – ha udito ed esce fuori per dire al medico che dovrebbe avere prima la pratica delle 9,05, e che l’altra è successiva. Il medico non trova i miei documenti sulla sua scrivania. Saltano poi fuori ed entro in ambulatorio.
Visita consueta di una decina di minuti, e ritorno in segreteria.

Però a causa dei vari intoppi, è scaduto il tempo limite per il termine della procedura informatizzata, la videata si è chiusa, e quindi il medico non può convalidare la visita e dare l’avvio al rinnovo della patente.

Bisogna rifare tutto da capo, aprire una nuova pagina e reinserire i dati: codice fiscale, nome, cognome, documenti consegnati…

La coda fuori dell’ufficio si allunga, alcuni sorridono, altri hanno le mani nei capelli, nessuno si arrabbia, tutti tollerano e forse proprio questo è un male per la salute della democrazia.

La segretaria: - se diciamo qualcosa ai dirigenti ci rispondono che noi non capiamo niente e di rispettare le procedure.
Il medico: - è come andare in guerra con le scarpe di cartone.
Io: - l’abbiamo già fatto e sappiamo come è andata.

  1. per i dirigenti dell’ASTO3: il cartello da appendere in sala d’aspetto fortunatamente è semplicissimo da realizzare e forse sfugge ancora a qualche rigida procedura formalizzata. Il testo è gratuito e libero da diritti, collaudato dall’utente e non freddamente pensato in una struttura di outsurcing. Ve lo regalo volentieri nonostante il vostro lauto salario a cui contribuisco con le mie imposte. Potete copiarlo, incollarlo in un qualsiasi word processor e stamparlo, possibilmente in formato A3 corpo 50.
  1. Sul fatto che questi disservizi generino una cascata di conseguenze, aggiungiamo che il resto della mattina l’ho impiegato a scrivere questa inutile cronaca invece che terminare un forse più utile paper sulla fusione anticipata dell’innevamento alpino causato dal riscaldamento globale. Ma non si può sempre tacere, no.






domenica 8 giugno 2014

Università Italiana: l'effetto dei ritorni decrescenti della complessità



Immaginatevi un ministero della difesa impegnato a finanziare il terrorismo internazionale. Immaginatevi un ministero del turismo impegnato a far saltare in aria con la dinamite i monumenti nazionali. Immaginatevi un ministero della salute impegnato nello sviluppo di armi batteriologiche. Esagerazioni, ovviamente, ma il concetto di infliggere quanti più possibili danni all'entità che si dovrebbe salvaguardare è stato sviluppato con grande efficacia dai vari ministeri che hanno gestito la ricerca in Italia. Ci sono riusciti imponendo una serie di leggi e regole assurde che in questi ultimi tempi stanno finendo di distruggere il sistema di ricerca italiano, già in grave difficoltà per mancanza di fondi. Sembra che ci sia poco da fare contro i "ritorni decrescenti della complessità" descritti da Tainter.

Sullo sfascio dell'università italiana, il collega Nicola Casagli relaziona in questo post da "roars.it


Vent’anni dopo



Se penso a tutto questo mi sento responsabile. In questi venti anni ho fatto parte del sistema, sono stato direttore di Dipartimento e membro del Senato accademico. Mi rendo conto di non aver fatto abbastanza per contrastare questa progressiva deriva burocratica che sta inesorabilmente distruggendo l’Università e la ricerca nel nostro Paese. In questi venti anni si sono succeduti al MIUR Ministri di destra e di sinistra, alcuni erano stati Rettori, molti erano professori. Eppure nessuno ha arginato tutto questo, nemmeno un po’. L’unico Ministro che ha fatto qualcosa di buono, a mio parere, è stato ….

Ho letto e apprezzato il documento del Consiglio Universitario Nazionale denominato “Semplifica Università: per cominciare” a cui ho fornito anche un piccolo contributo attraverso i nostri rappresentanti. È solo l’inizio e seguiranno altre richieste. Spero che le Istituzioni ascoltino il “grido di dolore” dell’Università e che intervengano con fatti concreti. Ho scritto quanto segue nella speranza di contribuire un po’ a far capire l’urgenza e la gravità della situazione.
Venti anni fa completavo il mio dottorato di ricerca e iniziavo la mia carriera accademica come assistente alla cattedra di Geologia Applicata, svolgendo didattica integrativa di supporto all’insegnamento di Geologia Applicata del Corso di Laurea in Scienze geologiche.
Oggi sono professore ordinario del settore concorsuale 04/A3 – settore scientifico disciplinare GEO/05 e sono titolare di 9 CFU dell’insegnamento B015668 del Corso di laurea triennale B035 nel primo semestre e di 6 CFU dell’insegnamento B016195 della magistrale B103 nel secondo semestre. Va già meglio, qualche anno fa mi trovavo nella schizofrenica situazione di coprire in un anno 29 CFU di 5 insegnamenti diversi.

Codici, ordinamenti, regolamenti, aule e programmi cambiano praticamente tutti gli anni.
Sono le conseguenze, a lungo termine, della riforma Berlinguer varata con la legge 10 febbraio 2000 n. 30 “Legge Quadro in materia di Riordino dei Cicli dell’Istruzione” e della controriforma Moratti, ovvero dalla legge 28 marzo 2003 n. 53 “Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale”.

Siamo proprio sicuri che di “riordino” e di “miglioramento delle prestazioni” si sia trattato?
La disoccupazione per tutti i tipi di laurea è aumentata inesorabilmente e sta continuando a crescere raggiungendo, nel 2014, il 26,5% tra i laureati triennali e il 23% fra i giovani in possesso di una laurea magistrale.

Solo negli ultimi dieci anni le Università italiane hanno perso 78 mila immatricolazioni, pari al 23% del totale. Forse anche un po’ perché nessuno ci capisce più nulla?
Venti anni fa, quando entravo in aula un custode mi salutava con “buongiorno professore” (e non ero professore) e io lo ringraziavo per aver pulito la lavagna, aggiunto i gessi nuovi, fotocopiato e distribuito le dispense agli studenti. Il corso durava un anno e si teneva sempre nella stessa aula, equipaggiata con le attrezzature necessarie.

Oggi entro in aula e chiedo agli studenti: “Chi siete? Cosa vi devo insegnare?“ Mi rispondono con codici e acronimi, ordinamenti e regolamenti. Per ogni aula mi devo procurare le chiavi, le attrezzature didattiche, il computer portatile (sperando che il videoproiettore funzioni) e i pennarelli per la lavagna (sperando di trovare almeno la cimosa). I custodi non ci sono più: sorveglianza e pulizie le fanno le cooperative del CONSIP: giovani, spesso laureati, spesso sottopagati con contratto precario che cambiano continuamente e seguono gli appalti. L’assistenza ai docenti ce la facciamo da soli.

Sono gli effetti, tra l’altro, della legge finanziaria per l’anno 2001 (legge 23 dicembre 2000 n. 388 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato”) che ha istituito il programma per la razionalizzazione degli acquisti della Pubblica Amministrazione, con “l’obiettivo di razionalizzare la spesa di beni e servizi delle pubbliche amministrazioni, migliorando la qualità degli acquisti e riducendo i costi grazie all’aggregazione della domanda, e di semplificare e rendere più rapide e trasparenti le procedure degli acquisti pubblici”.

Nel frattempo la spesa pubblica italiana, al netto degli interessi sul debito, è aumentata di oltre il 69%.
Venti anni fa facevo ricerca e pubblicavo in modo normale. Gran parte del mio tempo era impiegato nello studio e nella scrittura di articoli scientifici. Avevo il tempo di leggere le pubblicazioni scientifiche dei colleghi e i colleghi avevano il tempo di leggere le mie. Per ogni pubblicazione si consegnavano gli estratti alla biblioteca, dove erano disponibili per gli studenti e per tutti.

Oggi passo gran parte del mio tempo a cercare di comprendere e a compilare bizzarri moduli e formulari, a partecipare a commissioni di valutazione e a gruppi di lavoro, a scrivere relazioni che giustificano le mie normali attività di insegnante e di ricercatore.

Oggi è di gran moda la valutazione della ricerca. Si combatte con un’astrusa e macchinosa piattaforma informatica denominata U-GOV-Ricerca predisposta dal CINECA con criteri e logiche obsolete. Si inseriscono le pubblicazioni, verificando attentamente gli obblighi del copyright, si calcolano le citazioni e gli indici H, si analizzano mediane realizzate con dati sempre incompleti e mai verificabili. Abbiamo l’ANVUR, la VQR e l’ASN. Giochiamo con i numeri e con la vita delle persone: perché tutto questo serve a distribuire le risorse, sempre più esigue, e i posti, sempre più scarsi e sempre più precari.

Sono gli effetti perversi, tra l’altro, della Legge del 24 novembre 2006 n. 286 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262, recante disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria“. La valutazione delle Università in Italia nasce come provvedimento urgente di natura fiscale e questo la dice lunga su come è poi stata implementata.

Venti anni fa per ogni insegnamento si scriveva un programma di un paio di pagine, si indicavano i libri di testo, e lo si distribuiva agli studenti. Il corso era annuale e c’era il tempo per pensare, studiare, discutere, insegnare e imparare. I docenti facevano lezioni e trasmettevano conoscenze basate sull’esperienza e sull’attività di ricerca. Alla fine dell’anno gli studenti compilavano la scheda di valutazione del corso e la consegnavano ai docenti in forma anonima. Con una breve lettura si era subito in grado di capire cosa migliorare.

Oggi, all’inizio di ogni modulo didattico, dobbiamo riempire un bizzarro formulario che, per ogni codice/insegnamento, ci richiede: CFU erogati per tipologia di attività formativa, contenuti, obiettivi formativi, conoscenze acquisite, competenze acquisite, capacità acquisite, prerequisiti, modalità di verifica dell’apprendimento. Ancora non ho capito, come molti colleghi, la differenza tra conoscenze, competenze e capacità. Sono concetti che sfuggono alla mia conoscenza o alla mia competenza o alla mia capacità, chissà!

I docenti oggi non fanno più lezione, bensì “erogano CFU”: si deve fare velocemente, in modo standardizzato, si devono dare le dispense, non si studia più quasi sui libri, gli studenti non sono più abituati a consultare in modo critico le conoscenze a loro disposizione (non c’è tempo!), devono solo assimilare un pacchetto preconfezionato di CFU.

La valutazione del corso si fa on line. Gli studenti riempiono un questionario prima dell’esame, a volte a distanza di mesi dalla frequenza delle lezioni. Il docente deve andare su un sito web, ricercare il codice del suo insegnamento e cercare di capire qualcosa in una selva di indicatori di qualità e di performance.

Una quantità straordinaria di tempo è, e sarà sempre di più, dedicata alla strana pratica dell’autovalutazione: con i GAV, l’AVA, l’AQ, l’AP, la SUA, le CEV e il TECO. Si riempiono formulari si incontrano certificatori della qualità, da poco usciti dalle nostre stesse Università, che valutano i processi, come se fossimo un’industria manifatturiera che produce pezzi meccanici. A nessuno interessa cosa si insegna in aula, interessa solo la qualità del processo formativo, il mezzo e non il fine.

Si tratta delle conseguenze a lungo termine della burocratica via italiana per l’implementazione del Processo di Bologna per la “costruzione dello spazio europeo dell’istruzione superiore e della ricerca”, e della strategia di Lisbona per “rafforzare l’occupazione, le riforme economiche e la coesione sociale nel contesto di un’economia fondata sulla conoscenza”.

Il risultato è che lo “spazio europeo” lo abbiamo costruito davvero con la fuga all’estero dei nostri 
laureati che sta raggiungendo proporzioni dilaganti: oltre 5 mila per anno. Il 7% dei laureati che trovano impiego a un anno dalla laurea, lo trova fuori dal Paese. L’“economia della conoscenza” poi pare essere rimasta nelle dichiarazioni, visto che l’Italia è l’ultimo dei 28 Paesi dell’Unione europea per giovani laureati in percentuale sulla popolazione e tra i primi per ragazzi che abbandonano precocemente gli studi.

Venti anni fa se c’era da acquistare un apparecchio di laboratorio riempivo un modulo con indicazione del fornitore, del prodotto, del prezzo e del progetto su cui chiedevo di imputare la spesa. Consegnavo il modulo in segreteria e dopo qualche giorno ricevevo quanto ordinato.

Oggi se devo acquistare un apparecchio da pochi euro per il mio laboratorio inizia l’incubo. Mi chiedono di andare sul MEPA, su un sito dall’architettura informatica arcaica e illogica. Se ho la “sfortuna” di trovare l’oggetto sul MEPA lo devo per forza acquistare con questo strumento bizantino, a un prezzo fuori mercato, con tempi di consegna intollerabili. Se invece sono “fortunato”, e l’oggetto non è presente sul MEPA, devo riempire un modulo per certificare che non c’è, e poi devo contattare cinque – dico cinque – fornitori diversi per farmi fare delle offerte. Sono obbligato a scegliere la più bassa senza guardare alla qualità. Alla fine la pratica si compone di una trentina di moduli e di una quindicina di firme. Per indicare su quale fondo imputare la spesa devo inserire un codice incomprensibile, del tipo CSGPRN11 che codifica il progetto di pertinenza.

A causare tutto questo sarebbero le norme sui contratti pubblici che recepiscono in modo burocratico un paio di direttive europee sulla trasparenza degli appalti. Leggo con sconforto i 257 articoli, suddivisi in 42 fra titoli, capi e sezioni, e i 38 allegati, del decreto legislativo coordinato e aggiornato del 12 aprile 2006 n.163. “Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE”. Mi chiedo che cosa c’entra tutto questo con i laboratori universitari e proprio non capisco perché nelle Università i piccoli acquisti non si riescono più a fare in modo ragionevole, mentre nel nostro Paese i grandi appalti continuano a non essere trasparenti e la corruzione dilaga.

Venti anni fa, quando ci veniva approvato un progetto, nell’attesa dello stanziamento dei fondi, si poteva anticipare la spesa su un altro fondo e poi stornarla sul progetto di pertinenza al momento dello stanziamento. Si poteva iniziare a lavorare subito e raggiungere per tempo gli obiettivi richiesti.
Oggi questa cosa banale non si può più fare. È sopravvenuta la Legge del 13 agosto 2010 n.136 “Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia”, poi seguita dalla Legge del 17 dicembre 2010 n.217 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge n.187 del 12 novembre 2010 recante misure urgenti in materia di sicurezza”. Le relative norme anti-riciclaggio impediscono gli storni di fondi fra progetti diversi perché impongono un CUP per ciascun progetto e un CIG per ciascuna acquisizione di beni o servizi.

Mi chiedo cosa c’entra l’antimafia con la ricerca nell’Università? Mi chiedo se il legislatore ha pensato all’impatto di questa burocratica norma sulle cose normali che si facevano tutti i giorni? Adesso per fare una spesa su un progetto di ricerca non basta più l’approvazione, bisogna attendere lo stanziamento. E spesso questo avviene quando il progetto è già concluso. Nessuna conseguenza però: perché nessuno controlla il buon esito del progetto di ricerca, la qualità e la quantità dei risultati ottenuti. Basta solo rendicontare correttamente le spese per l’audit, con il CUP e i CIG al posto giusto.

Questa è apparentemente l’unica cosa che interessa allo Stato Italiano o, meglio, interessa solo il contenimento della spesa. Il concetto di base è quello di rendere estremamente complicato spendere soldi della Pubblica Amministrazione. Peccato che nessuno abbia spiegato ai burocrati governativi che per i progetti di ricerca i fondi non spesi non possono essere incamerati nel bilancio delle Università o dello Stato. Se non spendo i fondi di un progetto europeo il risultato è che la Commissione Europea trattiene i fondi inutilizzati e poi tutti si lamentano se il nostro Paese non è capace di utilizzare i finanziamenti europei che riceve.
Venti anni fa se un professore aveva bisogno di un collaboratore faceva qualche colloquio e affidava un incarico di collaborazione che poteva essere rinnovato a piacimento, sulla base delle esigenze e dei risultati.

Oggi se ho bisogno di un collaboratore devo preparare un bando pubblico, devo inviarlo alla Corte dei Conti per un parere preventivo di legittimità che arriva in genere dopo un paio di mesi, devo poi pubblicare il bando e seguire le procedure dei concorsi pubblici (quelle pensate per le assunzioni a tempo indeterminato). Devo riunire una commissione per tre/quattro sedute, valutare titoli con burocratici punteggi, fare una prova orale con domande scritte e sorteggiate, fare verbali in triplice copia originale firmati da tutti i commissari su tutte le pagine. Ci vogliono otto mesi di tempo per completare la procedura, al termine dei quali magari il collaboratore non serve più o è scaduto il progetto per cui lo avevo richiesto.

Se ho la fortuna di riuscire a farlo, il contratto, e se alla fine del progetto ho ancora bisogno del collaboratore, devo ricominciare tutto da capo. Proroghe e rinnovi si fanno solo per casi eccezionali a fronte della presentazione di un’incredibile mole di giustificazioni.

Apprendo che il presunto obbligo del controllo preventivo di legittimità della Corte dei Conti – definito dal CUN come “aberrante nuova lettura delle procedure di controllo negli Atenei” – è stato introdotto dalla Legge n.102 del 3 agosto 2009 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge n.78 del 1 luglio 2009 riguardante provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini e della partecipazione italiana a missioni internazionali”. Apparentemente per reperire fondi per rifinanziare le 18 missioni militari all’estero del nostro Paese si è pensato bene di far controllare tutti i contratti di collaborazione dalla Corte dei Conti, compresi quelli dei giovani ricercatori universitari. Chiaro no?
Venti anni fa per ogni professore che andava in pensione l’Università bandiva un posto di ricercatore. Il risparmio per il bilancio degli Atenei era comunque garantito, stante la differenza stipendiale, e un giovane collaboratore poteva avere una prospettiva chiara di accesso alla carriera universitaria. Poteva fare progetti, darsi obiettivi, costruirsi un’opportunità.

Oggi abbiamo le limitazioni sul turn-over e il complicato sistema PROPER per la programmazione del personale, paragonabile a uno dei peggiori prodotti della burocrazia sovietica. Le persone sono diventate punti-organico o frazioni di questi. I punti-organico vengono distribuiti agli Atenei e poi ai Dipartimenti con modelli di ripartizione straordinariamente complicati e nessuno ci capisce più niente.

Quando va bene si ricevono 0,5 punti-organico e possiamo bandire un concorso di ricercatore per dare un futuro a uno dei nostri giovani. Ma anche questo sarebbe stato troppo semplice: i ricercatori a tempo indeterminato non esistono più, sono stati aboliti dalla legge Gelmini. Possiamo bandire solo posti di RTD tipo A, contratti triennali rinnovabili una sola volta per ulteriori due anni, che eventualmente potranno diventare RTD tipo B triennali con pseudo-tenure-track per la sospirata posizione a tempo indeterminato di professore associato. Per ogni passaggio c’è un concorso pubblico o almeno una procedura di valutazione. Si riuniscono commissioni, si valutano indici e indicatori. E intanto i giovani più bravi scoraggiati da questo delirio burocratico scappano all’estero, dove sono assunti nelle Università e nei Centri di Ricerca inviando il curriculum per email e con un’intervista con skype.

Sono gli effetti dell’incredibile serie di provvedimenti sul turn-over e sul reclutamento iniziati con la Legge 6 agosto 2008 n. 133 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”. Il famigerato decreto-Tremonti disponeva provvedimenti per ridurre del 20% in cinque anni il finanziamento ordinario alle Università, con un taglio di 1,5 miliardi di euro. Curiosamente all’Art.14 lo stesso decreto autorizzava spese per un importo corrispondente per finanziare l’Expo di Milano 2015. I risultati sono noti e sono notizia di cronaca di questi giorni: sono state create enormi difficoltà alle Università italiane e sono stati sprecati 1,5 miliardi con l’Expo ancora in alto mare.

Venti anni fa potevamo invitare esperti e conferenzieri per seminari e corsi brevi nel nostro Dipartimento. Potevamo rimborsare loro le spese di viaggio, vitto e alloggio, magari, aggiungendoci anche un piccolo compenso.

Oggi no. Non lo possiamo più fare. Se invito un esperto straniero devo pubblicare un avviso preventivo. Devo fare una relazione scritta che spieghi perché sto invitando proprio lui e non un altro. Devo allegare il curriculum e procurargli un codice fiscale italiano. Il rimborso spese è incomprensibilmente assimilato a un reddito di lavoro autonomo e viene assoggettato alle voraci aliquote del fisco italiano. Mi chiedo perché e non capisco. Capisco solo che si tratta di norme anti-evasione fiscale. Ci vogliono 3 mesi nella mia Università per completare l’iter necessario per invitare un conferenziere. Il risultato è che non li invitiamo più.

La situazione paradossale è stata determinata da una scellerata risoluzione dell’Agenzia delle Entrate del 21/03/2003 n. 69 in risposta a un interpello dell’Istituto Nazionale di Alta Matematica. Ci hanno messo dieci anni per ammettere che avevano preso un abbaglio, come dimostra la risoluzione dell’11 luglio 2013 n.49 della stessa Agenzia in risposta all’Istituto Italiano di Tecnologia, che ribalta completamente la precedente interpretazione, ristabilendo almeno la logica. Peccato che per 10 anni tutte le Università e gli Enti di ricerca siano stati lasciati nel caos e che tutti i conferenzieri stranieri nel frattempo siano stati impropriamente tassati.

E intanto l’ultima stima sui capitali italiani esportati all’estero si attesta per difetto su 200 miliardi di euro, pari al 10% del PIL. Se le misure anti-evasione sono queste, temo che il problema sia destinato a non essere risolto.
Venti anni fa frequentavano il nostro Dipartimento studenti e ricercatori di varie nazionalità: albanesi, etiopi, eritrei, somali, messicani. Studiavano e facevano ricerca a Firenze, si specializzavano e poi tornavano nel loro Paese portando le esperienze fatte. Rimanevamo in contatto e questo contribuiva a internazionalizzare le nostre attività e anche a renderle utili da un punto di vista sociale.

Oggi ospitare uno studente o un ricercatore extra-comunitario è un’avventura tormentata. Nel frattempo è infatti arrivata la legge del 30 luglio 2002 n.189 “Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo”, cosiddetta Bossi-Fini.

A un nostro dottorando cinese con borsa triennale europea (Programma Marie Curie), per motivi a me ancora incomprensibili, non è stato riconosciuto il permesso di soggiorno né per motivi di lavoro subordinato né per finalità di studio o formazione. Il dottorato di ricerca non è evidentemente contemplato dalla nostra burocrazia anti-immigrazione. Il risultato è stato che per 4 anni il nostro studente ha dovuto far richiesta di permessi semestrali di soggiorno, con lunghe code in Questura. Ogni volta il permesso di soggiorno non gli veniva rilasciato subito, bensì dopo qualche mese dalla richiesta. In questi periodi di “attesa” secondo la legge egli poteva stare in Italia ma non poteva viaggiare all’estero. Il suo progetto europeo prevedeva però dei corsi di formazione in vari Paesi e ben presto egli ha trovato da sé una soluzione nel caos burocratico nazionale: sembra infatti che, viaggiando in aereo con biglietto elettronico e check-in on line, nessuno controlli i documenti in Italia e anche chi non è in possesso del permesso di soggiorno può viaggiare dove e come gli pare. Anche questo andrebbe spiegato a chi ha scritto la Bossi-Fini, che probabilmente pensava che gli extracomunitari viaggiassero solo sui barconi!
Venti anni fa per svolgere attività di ricerca fuori sede o per partecipare a un congresso scientifico, bastava una domanda di autorizzazione preventiva e un modulo di richiesta di rimborso spese. Se spendevo 20.000 Lire dopo un mese ricevevo un rimborso di 20.000 Lire.

Oggi devo spiegare per scritto perché sto facendo una missione, giustificare per scritto ogni scontrino, riempire 4-5 pagine di moduli per ogni missione. Se spendo 20 Euro dopo 6 mesi ricevo un rimborso di 15 euro, chissà perché?: alcune spese infatti sono inspiegabilmente equiparate a reddito e quindi tassate, altre non vengono riconosciute perché gli scontrini non sono abbastanza “parlanti”. Ora tutto mi aspettavo quando ho iniziato a fare questo lavoro, tranne il fatto che il destino mi riservava anche di dover “parlare” con gli scontrini. Capisco che anche qui si tratta del combinato disposto delle norme sul contenimento della spesa pubblica e sul contrasto all’evasione fiscale e quindi non mi stupisco che le stime sull’entità di quest’ultima si attestino a oltre 180 miliardi di euro, ponendoci al primo posto in Europa.
Venti anni fa il personale amministrativo delle Università era impiegato per fare un lavoro normale, che richiedeva competenze normali per cui gli impiegati erano preparati, avevano studiato ed erano stati selezionati nei concorsi: un po’ di contabilità, partita doppia, gestione degli inventari, contratti pubblici e poco altro.

Oggi il personale amministrativo è obbligato a lavorare con norme astruse e sistemi informatici cervellotici. Gli amministrativi devono fare i giuristi e gli informatici per poter svolgere il loro lavoro. E per questo frequentano continuamente corsi di formazione, dove vengono depressi dalle sempre più illogiche innovazioni introdotte per le finalità più disparate, ma mai per il miglioramento dell’amministrazione dell’Università. A causa di ciò, essi hanno sviluppato uno strano linguaggio, comprensibile solo fra di loro, dove i termini sono: U-GOV, DURC, DUVRI, CUP, CIG, MEPA, CONSIP, PROPER, PERLAPA.

Quest’ultimo, PERLAPA, escogitato dal Ministero della Funzione Pubblica per implementare il Piano Nazionale Anticorruzione, merita il premio per l’“acronimo più originale”. Insieme ad AVA, PERLAPA è la dimostrazione del carosello burocratico in cui ci dibattiamo, utile solo a fare il “lavaggio del cervello che più bianco non si può” a chi lavora nelle Università.

Apprendo che il Piano Nazionale Anticorruzione è stato predisposto ai sensi della legge 6 novembre 2012 n. 190 “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”.

Cerco di capire qualcosa fra gli 83 commi che formano l’articolo 1 e capisco solo perché l’Italia genera la metà del giro d’affari della corruzione in Europa, con un costo per la collettività di 60 miliardi di euro per anno.
Venti anni fa i tecnici universitari si occupavano dei laboratori e delle apparecchiature scientifiche. Facevano funzionare gli strumenti per dare supporto alla ricerca e alla formazione. Se portavano gli studenti a fare attività sul campo, bastava riempire un modulo in segreteria per aver garantita la copertura assicurativa.

Oggi i pochi tecnici rimasti si occupano per lo più di norme di sicurezza, di codice degli appalti e di gestione della qualità. Il loro linguaggio è fatto di DVR, DUVRI, DPI, RSPP, RLS, AQ e ISO9000. L’importante è che tutto sia a norma e che risponda ai burocratici requisiti imposti dalla legge. A nessuno invece interessa se gli strumenti funzionano bene, se forniscono risultati interessanti, se servono per fare ricerca e per insegnare qualcosa agli studenti.

Di nuovo si confonde il mezzo con il fine. Per portare gli studenti in campagna o in laboratorio, oltre che di moduli, dobbiamo dotarci di DPI, caschetti, occhiali, scarpe con suola metallica (che regolarmente si stacca) e altri curiosi accessori venduti a caro prezzo sul MEPA e sul CONSIP.
Tento di leggere il “Testo Unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro” (decreto legislativo 9 aprile 2008 n.81) scorrendo i suoi 306 articoli, suddivisi in 13 titoli, e i 51 allegati, e non lo capisco. Mi chiedo se l’introduzione di tutte queste regole abbia prodotto concreti benefici? Se gli incidenti sono diminuiti? Poi leggo che l’Italia detiene il record europeo di incidenti sul lavoro.
Venti anni fa si stava diffondendo l’uso della posta elettronica e si apriva un mondo nuovo. Potevamo comunicare attraverso il computer a costo zero risparmiando tempo, carta e spostamenti. Immaginavamo un futuro più semplice e più intelligente, come in effetti si è verificato in tanti altri Paesi.

Oggi in Italia, e solo in Italia, le comunicazioni istituzionali avvengono mediante PEC. Un sistema inutilizzabile con le normali applicazioni di gestione delle email, concepito in maniera burocratica e irrazionale, al di fuori di ogni standard internazionale.

L’obbligo della PEC è sancito dalla Legge del 28 gennaio 2009 n.2 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, recante misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale”. Obiettivo raggiunto, non ci sono dubbi! E intanto siamo terzultimi in Europa, davanti a Grecia e Cipro, per lo sviluppo della banda larga. Ma ci possiamo consolare con la PEC per l’uso della quale siamo primi e unici, in Europa e nel Mondo.

Venti anni fa quando si stipulava un contratto di ricerca si riceveva dalla segreteria una copia del contratto firmata dalle parti. C’era bisogno di una penna e di una fotocopiatrice.

Oggi i contratti con la Pubblica Amministrazione si siglano con firma digitale tramite l’uso di una costosa macchinetta venduta dalle aziende del CONSIP e utilizzabile solo dal direttore del Dipartimento. Non c’è verso di fare una copia dell’atto finale firmato dalle parti. A breve avremo enormi problemi di rendicontazione e si genererà contenzioso all’infinito. Questo è uno dei tanti effetti della tanto decantata “digitalizzazione della P.A.”.

L’obbligo di firma digitale deriva dalla legge del 17 dicembre 2012 n.221 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge n. 179 del 18 ottobre 2012 recante ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese”. Evidentemente avevamo proprio bisogno di questo per rilanciare l’economia ormai in cronica recessione.

Venti anni fa per dare il via libera al pagamento di un bene acquistato, dopo averne verificato la corretta rispondenza ai requisiti e il funzionamento, si apponeva un visto sulla fattura.

Oggi sta per arrivare la fattura elettronica per la Pubblica Amministrazione e non oso immaginare come faremo a vistarla. Mi immagino dotazioni di apparecchietti, smart card e firme digitali, acquisiti a caro prezzo sul CONSIP.

Si tratta di un’eredità della legge finanziaria 2008 n. 244 del 24 dicembre 2007 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato”, provvidenzialmente tenuta in sospeso fino al 2014. Adesso che la fattura elettronica obbligatoria parte per davvero, aspettiamo con ansia di constatarne i benefici in termini di risanamento del bilancio dello Stato.

Venti anni fa mi ero appena sposato. Io e mia moglie, entrambi precari, possedevamo due auto italiane, un motorino italiano, un computer italiano, un costosissimo telefono cellulare italiano, una TV italiana e un certo numero di elettrodomestici italiani.

Oggi la mia famiglia possiede due auto giapponesi, uno scooter giapponese, quattro computer americani, tre smartphone americani, due tablet americani, due TV sud-coreane e un certo numero di elettrodomestici tedeschi.

La crisi dell’Università riflette la crisi del nostro Paese. Ne è la cartina di tornasole e l’inascoltato campanello di allarme.

Se penso a tutto questo mi sento responsabile. In questi venti anni ho fatto parte del sistema, sono stato direttore di Dipartimento e membro del Senato accademico. Mi rendo conto di non aver fatto abbastanza per contrastare questa progressiva deriva burocratica che sta inesorabilmente distruggendo l’Università e la ricerca nel nostro Paese.

In questi venti anni si sono succeduti al MIUR Ministri di destra e di sinistra, alcuni erano stati Rettori, molti erano professori. Eppure nessuno ha arginato tutto questo, nemmeno un po’. L’unico Ministro che ha fatto qualcosa di buono, a mio parere, è stato il primo: Antonio Ruberti, già Rettore della Sapienza e padre della legge sull’autonomia universitaria, la n.168 del 9 maggio 1989 che all’art.6 comma 2 recita: 

Nel rispetto dei principi di autonomia stabiliti dall’articolo 33 della Costituzione e specificati dalla legge, le università sono disciplinate, oltre che dai rispettivi statuti e regolamenti, esclusivamente da norme legislative che vi operino espresso riferimento.

Basterebbe applicare questo semplice concetto, liberando le Università Italiane da norme vessatorie sviluppate per altri contesti che con le Università proprio non c’entrano niente. Si può infatti facilmente verificare come le leggi che causano burocrazia non sono affatto “norme legislative che operano espresso riferimento” all’Università e agli Enti di Ricerca. Esse infatti disciplinano argomenti disparati ed eterogenei, quali: revisione della spesa pubblica o spending review, rafforzamento patrimoniale del settore bancario, contratti e appalti pubblici, salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, normativa antimafia e anticorruzione, sicurezza e ordine pubblico, provvedimenti anticrisi, contrasto all’evasione fiscale, immigrazione, asilo politico, missioni militari all’estero.

A volte penso che basterebbe una circolare del MIUR di poche righe per risolvere magicamente tutto:
Nel rispetto dei principi di autonomia stabiliti dall’articolo 33 della Costituzione e specificati dalla legge n.168 del 9 maggio 1989, non si applicano alle Università tutte le norme genericamente riferite alla Pubblica Amministrazione che non facciano espresso riferimento alle Università stesse.
Ma non sarebbe giusto. Anche il resto della Pubblica Amministrazione avrebbe il diritto di essere liberato da questo pesante fardello di assurdità.

Firenze, 30 maggio 2014

venerdì 2 maggio 2014

Il Culto dello Sportello - III: Miracolo alla ASL



Terzo post della serie "il culto dello sportello" (qui il primo e qui il secondo). Vi racconto di un'avventura fra lo studio del dottore e la sede della ASL. (immagine da "haisentito.com")




La mattinata comincia subito male quando mi  presento nella sala d'aspetto del dottore all'ora di apertura e trovo che ci sono già 11 vecchietti ad aspettare, chissà da quanto tempo. Provo flebilmente a descrivere il mio caso "sapete, il dottore mi ha detto che è una cosa abbastanza urgente per mio padre che ha 92 anni, devo fare una richiesta alla ASL e qui mi bastano dieci secondi per farmi dare un foglio che mi ha preparato....."

I vecchietti sono abbastanza gentili, ma mi fanno anche notare che hanno i loro problemi e molti di loro dicono che faranno alla svelta anche loro. E comunque, il dottore non c'è. Mi metto a sedere ad aspettare: sono le 10 del mattino e devo far lezione alle 12. Mah?

Il dottore arriva alle 10:45. I vecchietti non fanno cenno alla mia richiesta di priorità e si mettono subito in fila davanti alla porta. Sembra che non ci sia  proprio modo che ce la faccia per la lezione di mezzogiorno. Fortunatamente, il dottore mi ha notato quando è arrivato e esce lui stesso dal suo ambulatorio passandomi il foglietto che devo portare alla ASL. Primo miracolo della mattina. Sono le 11:10.

Mi fiondo alla ASL col motorino (anche questo un piccolo miracolo di trazione elettrica). Arrivo all'ufficio informazioni col foglino in mano e la signora allo sportello mi dice: Oggi non si può fare - il CUP ha chiuso alle 10. Si può fare per domani? No, domani non prendiamo questo tipo di richieste. Dopodomani? No, è il primo Maggio. Venerdì? No, non prendiamo questo tipo di richieste. Ritorni la prossima settimana.

Provo a insistere gentilmente, sa, dico, il dottore si è raccomandato per questo letto ortopedico. Mio padre ha 92 anni ed è bloccato nel suo letto, che non è adatto. Così, per avere un letto ortopedico ci vuole tempo.......... Mi guarda con aria annoiata e mi dice, "non si può fare questa settimana." Sono le 11:30 e la mia lezione comincia alle 12

Provo a telefonare al dottore per sentire se c'è qualche altro modo. Mi dice che, mah..., forse...., boh....  Mentre mi aggiro con aria spettrale per i corridoi vuoti della ASL col telefonino all'orecchio , mi capita di incrociare una signora che riconosco essere l'impiegata che ho visto altre volte dietro lo sportello del CUP. Provo a raccontarle il mio problema.

E qui avviene il secondo miracolo della mattinata. La signora annuisce e mi dice, "Capisco benissimo. Venga con me che le apro il terminale" Giuro che per un attimo ho sentito i cori angelici e ho visto una specie di luminosità dorata intorno alla testa di questa signora - qualcosa tipo i santi dei mosaici di Ravenna.

In cinque minuti e qualche firma la richiesta è fatta. Ringrazio profusamente la signora che mi dice, "Sa, io faccio il possibile per essere d'aiuto quando posso. Però certe volte è veramente difficile. Tempo fa ho cercato di spiegare a un signore che la cosa che mi chiedeva non la potevo proprio fare. Lo sa cosa mi ha detto? Non solo che era colpa mia perchè sono un'incompetente ma mi ha anche augurato che mi venga un tumore al seno!"

Ringrazio ulteriormente per la resistenza all'altrui maleducazione. Sono circa le 11:45 e ce la faccio (ancora un piccolo miracolo del motorino elettrico) ad arrivare in aula per la mia lezione entro il quarto d'ora accademico.


Allora, Questa storia e quelle precedenti mi hanno insegnato un paio di cose, ovvero:

1. L'immagine dell'impiegato statale fannullone e incompetente è spesso falsa e esagerata. Nelle mie vicissitudini ai vari sportelli mi sono spesso trovato di fronte a persone gentilissime che fanno tutto il possibile per aiutarti. Anche loro, però, si trovano di fronte a una burocrazia fatta apposta per renderti le cose difficili, come pure a utenti maleducati e antipatici che se la rifanno con loro a furia di insulti e accidenti. Non c'è da stupirsi se alcuni di loro poi diventano altrettanto maleducati e antipatici. Insomma, l'antipatia è come il morbillo: è contagiosa.

2. Il danno economico che fa il culto dello sportello al "sistema italia" è qualcosa che non so quantificare ma che mi sembra comunque spaventevole. Pensate che in questa vicenda il sistema sanitario mi ha chiesto di fare da fattorino per trasportare un foglio da un ufficio a un'altro. Oltre alla mattinata quasi intera che ho perso io (e mi è andata di lusso, senza i miracoli ce ne avrei perse due o tre), c'è da mettere in conto il che hanno perso altre persone (dottore, impiegata, ecc.). A questo punto, ragionate che la stessa cosa la poteva fare il dottore spedendo direttamente la richiesta all'ufficio competente. Era questione di un microsecondo e costo zero.

Arriveremo mai a una burocrazia efficiente? Chissà, forse piano piano riusciremo a eliminare questo assurdo culto dello sportello, ma sono sicuro che si inventeranno qualche altra cosa per far perdere tempo agli utenti - magari anche peggio.







sabato 12 aprile 2014

Il culto dello sportello - II



Il nostro presidente del consiglio, Matteo Renzi, dice che si impegnerà in una lotta "violenta" contro la burocrazia. Non sarà una cosa facile come racconto in questo post (vedi anche il primo "Il culto dello sportello")


Mi arriva una lettera dall'INPS dove mi dicono che, in quanto invalido, mio padre (92 anni) ha diritto a certi benefici economici di legge. Già ottenere questa dichiarazione ha richiesto notevoli peripezie burocratiche e un'attesa di quasi un anno dalla richiesta. Ma, perlomeno, sembra che ci siamo arrivati. Ora si tratta di capire come si ottengono questi benefici in pratica. Nella lettera, c'è scritto che devo entrare nel loro sito internet e riempire certe sezioni di un modulo.

Entrare nel sito internet dell'INPS è una cosa che ricorda un po' Dante che si aggira sperduto nelle bolge infernali. Prima di tutto, devi farti dare un "PIN" che si ottiene con una barocca procedura per la quale mezzo PIN ti viene mandato via mail e l'altro mezzo sul tuo cellulare - devi poi laboriosamente combinare i due numeri per ottenere un numero provvisorio che poi verrà trasformato nel tuo PIN definitivo. Il perché di questa manovra è misterioso: sembra di accedere a un sito del Pentagono. Non è che te lo fanno apposta per scoraggiarti? Boh? Ma, insomma, bene o male ci si arriva. 

Si tratta poi di trovare il modulo da riempire nel sito. E qui ti scontri subito con il problema che sulla lettera che ti è arrivata ti dicono quali sezioni riempire ma non di quale modulo (non te lo fanno apposta.... no....). Nel sito ci sono centinaia di moduli da aprire, dove diavolo trovi il tuo? Non c'è nulla che abbia un titolo comprensibile, tipo "benefici per invalidità civile" - eh, no, ci mancherebbe! Vi posso dire che ci ho lavorato sopra non poco. A un certo punto mi ero dato per vinto, finché non mi è venuto in mente di aprire il numero 17 di una lista di 26 moduli - uno con il titolo "fase erogatoria" - che viene fuori che era quello giusto. Fatto apposta? Bah....

Dopodiché ti metti a riempire questo modulo. Non che sia per niente user-friendly ma, insomma, siccome ci sono dei campi da riempire, in un modo o nell'altro ci riesci. Arrivato a un certo punto, ti esce fuori un riquadro dove ti chiede "vuoi salvare?" Beh, dico, meglio salvare intanto, poi vediamo. Clicco sul bottone "salva" e il sito ci pensa un po' e poi mi dice. "Hai salvato in modo definitivo - non si possono più fare modifiche." (ed è già tanto se non aggiunge "bravo imbecille!").  Ma porca miseria, lo potevi dire prima - no? E non è per scoraggiarti, no, certamente....

Era completo il modulo? Ho fatto errori? Va bene così? Cosa succede ora? Boh? Sembra che non ci sia nessun controllo automatico sul fatto che tu abbia riempito bene il modulo oppure no. Non si degnano di dirti assolutamente niente. Dalle istruzioni, tuttavia, mi sembra di aver salvato troppo presto. Sembrerebbe che avrei dovuto inviare un altro modulo con la firma di mio padre, anche se non si capisce come fare. In ogni caso, ogni tentativo di riaprire il modulo fallisce. Quel salvataggio era veramente definitivo. Ma non è che te lo fanno apposta per scoraggiarti....? Macché.

Provo a telefonare al numero verde dell'INPS. Chiedo, ma cosa succede se ho sbagliato qualcosa nella richiesta?  Me lo faranno sapere. Ma quando? Quando avranno completato la valutazione della mia domanda. Quanto tempo ci vuole? Non si può sapere - dipende. Ma che succede se voglio completare o modificare il modulo che ho mandato? Non posso riaprirlo sul sito? No - non è possibile. Mi dicono che devo mandare la nuova versione per raccomandata con ricevuta di ritorno alla sede centrale dell'INPS a Roma. Sicuro! Con mio padre che ha 92 anni, non c'è problema ad aspettare che si decidano.

A questo punto, non mi resta che andare fisicamente allo sportello dell'INPS - cosa che sembra fosse lo scopo supremo di tutto l'esercizio. Ovviamente è aperto solo la mattina dalle 8:30 alle 12:30, il che ti costringe ad acrobazie non male per rendere la tua visita compatibile con gli altri impegni che hai. La beffa aggiuntiva, poi, è che il sito di INPS mi diceva che dovevo andare in una certa sede, ma dopo che ho fatto la coda, l'impiegata mi dice che non era lì che dovevo andare ma a un'altra sede. Dico "ma sul sito internet c'era scritto di venire qui." - lei mi risponde "si, è vero, c'è scritto così, ma non è qui che facciamo queste pratiche". Bene, nuova fila in un altra sede e finalmente trovo un'impiegata gentilissima che mi riguarda tutta la pratica, mi fa firmare qualcosa e mi dice che tutto va bene.

Fine dell'Odissea. Tutto sommato, me la sono cavata con una mattinata persa in coda e qualche pomeriggio di moccoli e accidenti davanti allo schermo del computer. Poteva andare peggio: per lo meno non mi hanno preso a legnate.

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La lezione di questa piccola storia è che il "culto dello sportello" è pesantemente ingranato in tutta l'organizzazione della burocrazia italiana. L'apparizione di internet non ha cambiato la mentalità di chi gestisce i vari enti statali. Non so dire se esista una volontà precisa di boicottare le procedure on-line o se esempi disastrosi come quello che vi ho raccontato siano dovuti più che altro a incompetenza. Resta il fatto che tutto il sistema è focalizzato sul costringerti a far la fila da qualche parte (*). Questo richiede tutta una struttura di uffici, edifici, portieri, uscieri, impiegati, dirigenti eccetera, per non parlare poi della struttura parallela privata dei patronati e sindacati che si occupano di riempire i moduli per te. Quanto tutto questo costi al "sistema italia" non mi so capacitare e preferisco non pensarci nemmeno.

In sostanza, come tutti i sistemi complessi, anche il sistema burocratico esiste principalmente per perpetuare se stesso. E' tutta una conferma di quello che Joseph Tainter chiama "i rendimenti decrescenti della complessità" che alla fine genera il collasso delle società umane. Se è così, è un'ulteriore indicazione di come ci stiamo distruggendo con le nostre stesse mani.

Riuscirà il nostro coraggioso presidente del consiglio a sconfiggere il mostro della burocrazia? Tanti auguri.......


(*) Altro esempio. Il medico prescrive delle analisi per mio padre. Mi scrive tutto su un foglio che io poi devo fisicamente portare alla ASL, fare la coda, per poi presentarmi davanti a un'impiegata che digita nel computer i dati del foglio. Non era possibile che il dottore lo compilasse sul computer e poi lo mandasse direttamente alla ASL per via telematica? O che lo mandassi io via internet, perlomeno come opzione? No.....