Se penso a tutto questo mi
sento responsabile. In questi venti anni ho fatto parte del sistema,
sono stato direttore di Dipartimento e membro del Senato accademico. Mi
rendo conto di non aver fatto abbastanza per contrastare questa
progressiva deriva burocratica che sta inesorabilmente distruggendo
l’Università e la ricerca nel nostro Paese. In questi venti anni si sono
succeduti al MIUR Ministri di destra e di sinistra, alcuni erano stati
Rettori, molti erano professori. Eppure nessuno ha arginato tutto
questo, nemmeno un po’. L’unico Ministro che ha fatto qualcosa di buono,
a mio parere, è stato ….
Ho letto e apprezzato il documento del Consiglio Universitario Nazionale denominato “Semplifica Università: per cominciare” a cui ho fornito anche un piccolo contributo attraverso i nostri rappresentanti. È solo l’inizio e seguiranno altre
richieste. Spero che le Istituzioni ascoltino il “grido di dolore”
dell’Università e che intervengano con fatti concreti. Ho scritto quanto segue nella speranza di contribuire un po’ a far capire l’urgenza e la gravità della situazione.
—
Venti anni fa completavo il mio
dottorato di ricerca e iniziavo la mia carriera accademica come
assistente alla cattedra di Geologia Applicata, svolgendo didattica
integrativa di supporto all’insegnamento di Geologia Applicata del Corso
di Laurea in Scienze geologiche.
Oggi sono professore ordinario del
settore concorsuale 04/A3 – settore scientifico disciplinare GEO/05 e
sono titolare di 9 CFU dell’insegnamento B015668 del Corso di laurea
triennale B035 nel primo semestre e di 6 CFU dell’insegnamento B016195
della magistrale B103 nel secondo semestre. Va già meglio, qualche anno
fa mi trovavo nella schizofrenica situazione di coprire in un anno 29
CFU di 5 insegnamenti diversi.
Codici, ordinamenti, regolamenti, aule e programmi cambiano praticamente tutti gli anni.
Sono le conseguenze, a lungo termine, della riforma Berlinguer varata con la legge 10 febbraio 2000 n. 30 “Legge Quadro in materia di Riordino dei Cicli dell’Istruzione” e della controriforma Moratti, ovvero dalla legge 28 marzo 2003 n. 53 “Delega
al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e
dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e
formazione professionale”.
Siamo proprio sicuri che di “riordino” e di “miglioramento delle prestazioni” si sia trattato?
—
Venti anni fa, quando entravo in aula un
custode mi salutava con “buongiorno professore” (e non ero professore) e
io lo ringraziavo per aver pulito la lavagna, aggiunto i gessi nuovi,
fotocopiato e distribuito le dispense agli studenti. Il corso durava un
anno e si teneva sempre nella stessa aula, equipaggiata con le
attrezzature necessarie.
Oggi entro in aula e chiedo agli
studenti: “Chi siete? Cosa vi devo insegnare?“ Mi rispondono con codici e
acronimi, ordinamenti e regolamenti. Per ogni aula mi devo procurare le
chiavi, le attrezzature didattiche, il computer portatile (sperando che
il videoproiettore funzioni) e i pennarelli per la lavagna (sperando di
trovare almeno la cimosa). I custodi non ci sono più: sorveglianza e
pulizie le fanno le cooperative del CONSIP: giovani, spesso laureati,
spesso sottopagati con contratto precario che cambiano continuamente e
seguono gli appalti. L’assistenza ai docenti ce la facciamo da soli.
Sono gli effetti, tra l’altro, della legge finanziaria per l’anno 2001 (legge 23 dicembre 2000 n. 388 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato”) che ha istituito il programma per la razionalizzazione degli acquisti della Pubblica Amministrazione, con “l’obiettivo
di razionalizzare la spesa di beni e servizi delle pubbliche
amministrazioni, migliorando la qualità degli acquisti e riducendo i
costi grazie all’aggregazione della domanda, e di semplificare e rendere
più rapide e trasparenti le procedure degli acquisti pubblici”.
—
Venti anni fa facevo ricerca e
pubblicavo in modo normale. Gran parte del mio tempo era impiegato nello
studio e nella scrittura di articoli scientifici. Avevo il tempo di
leggere le pubblicazioni scientifiche dei colleghi e i colleghi avevano
il tempo di leggere le mie. Per ogni pubblicazione si consegnavano gli
estratti alla biblioteca, dove erano disponibili per gli studenti e per
tutti.
Oggi passo gran parte del mio tempo a
cercare di comprendere e a compilare bizzarri moduli e formulari, a
partecipare a commissioni di valutazione e a gruppi di lavoro, a
scrivere relazioni che giustificano le mie normali attività di
insegnante e di ricercatore.
Oggi è di gran moda la valutazione della
ricerca. Si combatte con un’astrusa e macchinosa piattaforma
informatica denominata U-GOV-Ricerca predisposta dal CINECA con criteri e
logiche obsolete. Si inseriscono le pubblicazioni, verificando
attentamente gli obblighi del copyright, si calcolano le
citazioni e gli indici H, si analizzano mediane realizzate con dati
sempre incompleti e mai verificabili. Abbiamo l’ANVUR, la VQR e l’ASN.
Giochiamo con i numeri e con la vita delle persone: perché tutto questo
serve a distribuire le risorse, sempre più esigue, e i posti, sempre più
scarsi e sempre più precari.
Sono gli effetti perversi, tra l’altro, della Legge del 24 novembre 2006 n. 286 “Conversione
in legge, con modificazioni, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262,
recante disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria“.
La valutazione delle Università in Italia nasce come provvedimento
urgente di natura fiscale e questo la dice lunga su come è poi stata
implementata.
—
Venti anni fa per ogni insegnamento si
scriveva un programma di un paio di pagine, si indicavano i libri di
testo, e lo si distribuiva agli studenti. Il corso era annuale e c’era
il tempo per pensare, studiare, discutere, insegnare e imparare. I
docenti facevano lezioni e trasmettevano conoscenze basate
sull’esperienza e sull’attività di ricerca. Alla fine dell’anno gli
studenti compilavano la scheda di valutazione del corso e la
consegnavano ai docenti in forma anonima. Con una breve lettura si era
subito in grado di capire cosa migliorare.
Oggi, all’inizio di ogni modulo
didattico, dobbiamo riempire un bizzarro formulario che, per ogni
codice/insegnamento, ci richiede: CFU erogati per tipologia di attività
formativa, contenuti, obiettivi formativi, conoscenze acquisite,
competenze acquisite, capacità acquisite, prerequisiti, modalità di
verifica dell’apprendimento. Ancora non ho capito, come molti colleghi,
la differenza tra conoscenze, competenze e capacità. Sono concetti che
sfuggono alla mia conoscenza o alla mia competenza o alla mia capacità,
chissà!
I docenti oggi non fanno più lezione,
bensì “erogano CFU”: si deve fare velocemente, in modo standardizzato,
si devono dare le dispense, non si studia più quasi sui libri, gli
studenti non sono più abituati a consultare in modo critico le
conoscenze a loro disposizione (non c’è tempo!), devono solo assimilare
un pacchetto preconfezionato di CFU.
La valutazione del corso si fa on line.
Gli studenti riempiono un questionario prima dell’esame, a volte a
distanza di mesi dalla frequenza delle lezioni. Il docente deve andare
su un sito web, ricercare il codice del suo insegnamento e cercare di capire qualcosa in una selva di indicatori di qualità e di performance.
Una quantità straordinaria di tempo è, e
sarà sempre di più, dedicata alla strana pratica dell’autovalutazione:
con i GAV, l’AVA, l’AQ, l’AP, la SUA, le CEV e il TECO. Si riempiono
formulari si incontrano certificatori della qualità, da poco usciti
dalle nostre stesse Università, che valutano i processi, come se fossimo
un’industria manifatturiera che produce pezzi meccanici. A nessuno
interessa cosa si insegna in aula, interessa solo la qualità del
processo formativo, il mezzo e non il fine.
Si tratta delle conseguenze a lungo
termine della burocratica via italiana per l’implementazione del
Processo di Bologna per la “costruzione dello spazio europeo dell’istruzione superiore e della ricerca”, e della strategia di Lisbona per “rafforzare l’occupazione, le riforme economiche e la coesione sociale nel contesto di un’economia fondata sulla conoscenza”.
Il risultato è che lo “spazio europeo”
lo abbiamo costruito davvero con la fuga all’estero dei nostri
—
Venti anni fa se c’era da acquistare un
apparecchio di laboratorio riempivo un modulo con indicazione del
fornitore, del prodotto, del prezzo e del progetto su cui chiedevo di
imputare la spesa. Consegnavo il modulo in segreteria e dopo qualche
giorno ricevevo quanto ordinato.
Oggi se devo acquistare un apparecchio
da pochi euro per il mio laboratorio inizia l’incubo. Mi chiedono di
andare sul MEPA, su un sito dall’architettura informatica arcaica e
illogica. Se ho la “sfortuna” di trovare l’oggetto sul MEPA lo devo per
forza acquistare con questo strumento bizantino, a un prezzo fuori
mercato, con tempi di consegna intollerabili. Se invece sono
“fortunato”, e l’oggetto non è presente sul MEPA, devo riempire un
modulo per certificare che non c’è, e poi devo contattare cinque – dico
cinque – fornitori diversi per farmi fare delle offerte. Sono obbligato a
scegliere la più bassa senza guardare alla qualità. Alla fine la
pratica si compone di una trentina di moduli e di una quindicina di
firme. Per indicare su quale fondo imputare la spesa devo inserire un
codice incomprensibile, del tipo CSGPRN11 che codifica il progetto di
pertinenza.
A causare tutto questo sarebbero le
norme sui contratti pubblici che recepiscono in modo burocratico un paio
di direttive europee sulla trasparenza degli appalti. Leggo con
sconforto i 257 articoli, suddivisi in 42 fra titoli, capi e sezioni, e i
38 allegati, del decreto legislativo coordinato e aggiornato del 12
aprile 2006 n.163. “
Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE”.
Mi chiedo che cosa c’entra tutto questo con i laboratori universitari e
proprio non capisco perché nelle Università i piccoli acquisti non si
riescono più a fare in modo ragionevole, mentre nel nostro Paese i
grandi appalti continuano a non essere trasparenti e
la corruzione dilaga.
—
Venti anni fa, quando ci veniva
approvato un progetto, nell’attesa dello stanziamento dei fondi, si
poteva anticipare la spesa su un altro fondo e poi stornarla sul
progetto di pertinenza al momento dello stanziamento. Si poteva iniziare
a lavorare subito e raggiungere per tempo gli obiettivi richiesti.
Oggi questa cosa banale non si può più fare. È sopravvenuta la Legge del 13 agosto 2010 n.136 “Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia”, poi seguita dalla Legge del 17 dicembre 2010 n.217 “Conversione
in legge, con modificazioni, del decreto-legge n.187 del 12 novembre
2010 recante misure urgenti in materia di sicurezza”. Le relative
norme anti-riciclaggio impediscono gli storni di fondi fra progetti
diversi perché impongono un CUP per ciascun progetto e un CIG per
ciascuna acquisizione di beni o servizi.
Mi chiedo cosa c’entra l’antimafia con
la ricerca nell’Università? Mi chiedo se il legislatore ha pensato
all’impatto di questa burocratica norma sulle cose normali che si
facevano tutti i giorni? Adesso per fare una spesa su un progetto di
ricerca non basta più l’approvazione, bisogna attendere lo stanziamento.
E spesso questo avviene quando il progetto è già concluso. Nessuna
conseguenza però: perché nessuno controlla il buon esito del progetto di
ricerca, la qualità e la quantità dei risultati ottenuti. Basta solo
rendicontare correttamente le spese per l’audit, con il CUP e i CIG al posto giusto.
Questa è apparentemente l’unica cosa che
interessa allo Stato Italiano o, meglio, interessa solo il contenimento
della spesa. Il concetto di base è quello di rendere estremamente
complicato spendere soldi della Pubblica Amministrazione. Peccato che
nessuno abbia spiegato ai burocrati governativi che per i progetti di
ricerca i fondi non spesi non possono essere incamerati nel bilancio
delle Università o dello Stato. Se non spendo i fondi di un progetto
europeo il risultato è che la Commissione Europea trattiene i fondi
inutilizzati e poi
tutti si lamentano se il nostro Paese non è capace di utilizzare i finanziamenti europei che riceve.
—
Venti anni fa se un professore aveva
bisogno di un collaboratore faceva qualche colloquio e affidava un
incarico di collaborazione che poteva essere rinnovato a piacimento,
sulla base delle esigenze e dei risultati.
Oggi se ho bisogno di un collaboratore
devo preparare un bando pubblico, devo inviarlo alla Corte dei Conti per
un parere preventivo di legittimità che arriva in genere dopo un paio
di mesi, devo poi pubblicare il bando e seguire le procedure dei
concorsi pubblici (quelle pensate per le assunzioni a tempo
indeterminato). Devo riunire una commissione per tre/quattro sedute,
valutare titoli con burocratici punteggi, fare una prova orale con
domande scritte e sorteggiate, fare verbali in triplice copia originale
firmati da tutti i commissari su tutte le pagine. Ci vogliono otto mesi
di tempo per completare la procedura, al termine dei quali magari il
collaboratore non serve più o è scaduto il progetto per cui lo avevo
richiesto.
Se ho la fortuna di riuscire a farlo, il
contratto, e se alla fine del progetto ho ancora bisogno del
collaboratore, devo ricominciare tutto da capo. Proroghe e rinnovi si
fanno solo per casi eccezionali a fronte della presentazione di
un’incredibile mole di giustificazioni.
Apprendo che il presunto obbligo del controllo preventivo di legittimità della Corte dei Conti – definito dal CUN come “aberrante nuova lettura delle procedure di controllo negli Atenei” – è stato introdotto dalla Legge n.102 del 3 agosto 2009 “Conversione
in legge, con modificazioni, del decreto-legge n.78 del 1 luglio 2009
riguardante provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini e della
partecipazione italiana a missioni internazionali”. Apparentemente
per reperire fondi per rifinanziare le 18 missioni militari all’estero
del nostro Paese si è pensato bene di far controllare tutti i contratti
di collaborazione dalla Corte dei Conti, compresi quelli dei giovani
ricercatori universitari. Chiaro no?
—
Venti anni fa per ogni professore che
andava in pensione l’Università bandiva un posto di ricercatore. Il
risparmio per il bilancio degli Atenei era comunque garantito, stante la
differenza stipendiale, e un giovane collaboratore poteva avere una
prospettiva chiara di accesso alla carriera universitaria. Poteva fare
progetti, darsi obiettivi, costruirsi un’opportunità.
Oggi abbiamo le limitazioni sul turn-over
e il complicato sistema PROPER per la programmazione del personale,
paragonabile a uno dei peggiori prodotti della burocrazia sovietica. Le
persone sono diventate punti-organico o frazioni di questi. I
punti-organico vengono distribuiti agli Atenei e poi ai Dipartimenti con
modelli di ripartizione straordinariamente complicati e nessuno ci
capisce più niente.
Quando va bene si ricevono 0,5
punti-organico e possiamo bandire un concorso di ricercatore per dare un
futuro a uno dei nostri giovani. Ma anche questo sarebbe stato troppo
semplice: i ricercatori a tempo indeterminato non esistono più, sono
stati aboliti dalla legge Gelmini. Possiamo bandire solo posti di RTD tipo A, contratti triennali rinnovabili una sola volta per ulteriori due anni, che eventualmente potranno diventare RTD tipo B triennali con pseudo-tenure-track
per la sospirata posizione a tempo indeterminato di professore
associato. Per ogni passaggio c’è un concorso pubblico o almeno una
procedura di valutazione. Si riuniscono commissioni, si valutano indici e
indicatori. E intanto i giovani più bravi scoraggiati da questo delirio
burocratico scappano all’estero, dove sono assunti nelle Università e
nei Centri di Ricerca inviando il curriculum per email e con un’intervista con skype.
Sono gli effetti dell’incredibile serie di provvedimenti sul
turn-over e sul reclutamento iniziati con la Legge 6 agosto 2008 n. 133 “
Conversione
in legge, con modificazioni, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112,
recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza
pubblica e la perequazione tributaria”. Il famigerato
decreto-Tremonti disponeva provvedimenti per ridurre del 20% in cinque
anni il finanziamento ordinario alle Università, con un taglio di 1,5
miliardi di euro. Curiosamente all’Art.14 lo stesso decreto autorizzava
spese per un importo corrispondente per finanziare l’Expo di Milano
2015. I risultati sono noti e sono notizia di cronaca di questi giorni:
sono state create enormi difficoltà alle Università italiane e sono
stati sprecati 1,5 miliardi con
l’Expo ancora in alto mare.
—
Venti anni fa potevamo invitare esperti e
conferenzieri per seminari e corsi brevi nel nostro Dipartimento.
Potevamo rimborsare loro le spese di viaggio, vitto e alloggio, magari,
aggiungendoci anche un piccolo compenso.
Oggi no. Non lo possiamo più fare. Se
invito un esperto straniero devo pubblicare un avviso preventivo. Devo
fare una relazione scritta che spieghi perché sto invitando proprio lui e
non un altro. Devo allegare il curriculum e procurargli un
codice fiscale italiano. Il rimborso spese è incomprensibilmente
assimilato a un reddito di lavoro autonomo e viene assoggettato alle
voraci aliquote del fisco italiano. Mi chiedo perché e non capisco.
Capisco solo che si tratta di norme anti-evasione fiscale. Ci vogliono 3
mesi nella mia Università per completare l’iter necessario per invitare un conferenziere. Il risultato è che non li invitiamo più.
La situazione paradossale è stata determinata da una scellerata
risoluzione dell’Agenzia delle Entrate del 21/03/2003 n. 69
in risposta a un interpello dell’Istituto Nazionale di Alta Matematica.
Ci hanno messo dieci anni per ammettere che avevano preso un abbaglio,
come dimostra la
risoluzione dell’11 luglio 2013 n.49
della stessa Agenzia in risposta all’Istituto Italiano di Tecnologia,
che ribalta completamente la precedente interpretazione, ristabilendo
almeno la logica. Peccato che per 10 anni tutte le Università e gli Enti
di ricerca siano stati lasciati nel caos e che tutti i conferenzieri
stranieri nel frattempo siano stati impropriamente tassati.
E intanto l’ultima stima sui capitali italiani esportati all’estero si attesta per difetto su 200 miliardi di euro,
pari al 10% del PIL. Se le misure anti-evasione sono queste, temo che il problema sia destinato a non essere risolto.
—
Venti anni fa frequentavano il nostro
Dipartimento studenti e ricercatori di varie nazionalità: albanesi,
etiopi, eritrei, somali, messicani. Studiavano e facevano ricerca a
Firenze, si specializzavano e poi tornavano nel loro Paese portando le
esperienze fatte. Rimanevamo in contatto e questo contribuiva a
internazionalizzare le nostre attività e anche a renderle utili da un
punto di vista sociale.
Oggi ospitare uno studente o un
ricercatore extra-comunitario è un’avventura tormentata. Nel frattempo è
infatti arrivata la legge del 30 luglio 2002 n.189 “Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo”, cosiddetta Bossi-Fini.
A un nostro dottorando cinese con borsa
triennale europea (Programma Marie Curie), per motivi a me ancora
incomprensibili, non è stato riconosciuto il permesso di soggiorno né
per motivi di lavoro subordinato né per finalità di studio o formazione.
Il dottorato di ricerca non è evidentemente contemplato dalla nostra
burocrazia anti-immigrazione. Il risultato è stato che per 4 anni il
nostro studente ha dovuto far richiesta di permessi semestrali di
soggiorno, con lunghe code in Questura. Ogni volta il permesso di
soggiorno non gli veniva rilasciato subito, bensì dopo qualche mese
dalla richiesta. In questi periodi di “attesa” secondo la legge egli
poteva stare in Italia ma non poteva viaggiare all’estero. Il suo
progetto europeo prevedeva però dei corsi di formazione in vari Paesi e
ben presto egli ha trovato da sé una soluzione nel caos burocratico
nazionale: sembra infatti che, viaggiando in aereo con biglietto
elettronico e check-in on line, nessuno controlli i documenti
in Italia e anche chi non è in possesso del permesso di soggiorno può
viaggiare dove e come gli pare. Anche questo andrebbe spiegato a chi ha
scritto la Bossi-Fini, che probabilmente pensava che gli extracomunitari
viaggiassero solo sui barconi!
—
Venti anni fa per svolgere attività di
ricerca fuori sede o per partecipare a un congresso scientifico, bastava
una domanda di autorizzazione preventiva e un modulo di richiesta di
rimborso spese. Se spendevo 20.000 Lire dopo un mese ricevevo un
rimborso di 20.000 Lire.
Oggi devo spiegare per scritto perché
sto facendo una missione, giustificare per scritto ogni scontrino,
riempire 4-5 pagine di moduli per ogni missione. Se spendo 20 Euro dopo 6
mesi ricevo un rimborso di 15 euro, chissà perché?: alcune spese
infatti sono inspiegabilmente equiparate a reddito e quindi tassate,
altre non vengono riconosciute perché gli scontrini non sono abbastanza
“parlanti”. Ora tutto mi aspettavo quando ho iniziato a fare questo
lavoro, tranne il fatto che il destino mi riservava anche di dover
“parlare” con gli scontrini. Capisco che anche qui si tratta del
combinato disposto delle norme sul contenimento della spesa pubblica e
sul contrasto all’evasione fiscale e quindi non mi stupisco che le stime
sull’entità di quest’ultima si attestino a oltre 180 miliardi di euro,
ponendoci
al primo posto in Europa.
—
Venti anni fa il personale
amministrativo delle Università era impiegato per fare un lavoro
normale, che richiedeva competenze normali per cui gli impiegati erano
preparati, avevano studiato ed erano stati selezionati nei concorsi: un
po’ di contabilità, partita doppia, gestione degli inventari, contratti
pubblici e poco altro.
Oggi il personale amministrativo è
obbligato a lavorare con norme astruse e sistemi informatici
cervellotici. Gli amministrativi devono fare i giuristi e gli
informatici per poter svolgere il loro lavoro. E per questo frequentano
continuamente corsi di formazione, dove vengono depressi dalle sempre
più illogiche innovazioni introdotte per le finalità più disparate, ma
mai per il miglioramento dell’amministrazione dell’Università. A causa
di ciò, essi hanno sviluppato uno strano linguaggio, comprensibile solo
fra di loro, dove i termini sono: U-GOV, DURC, DUVRI, CUP, CIG, MEPA,
CONSIP, PROPER, PERLAPA.
Quest’ultimo, PERLAPA, escogitato dal
Ministero della Funzione Pubblica per implementare il Piano Nazionale
Anticorruzione, merita il premio per l’“acronimo più originale”. Insieme
ad AVA, PERLAPA è la dimostrazione del carosello burocratico in cui ci
dibattiamo, utile solo a fare il “lavaggio del cervello che più bianco
non si può” a chi lavora nelle Università.
Apprendo che il Piano Nazionale Anticorruzione è stato predisposto ai sensi della legge 6 novembre 2012 n. 190 “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”.
—
Venti anni fa i tecnici universitari si
occupavano dei laboratori e delle apparecchiature scientifiche. Facevano
funzionare gli strumenti per dare supporto alla ricerca e alla
formazione. Se portavano gli studenti a fare attività sul campo, bastava
riempire un modulo in segreteria per aver garantita la copertura
assicurativa.
Oggi i pochi tecnici rimasti si occupano
per lo più di norme di sicurezza, di codice degli appalti e di gestione
della qualità. Il loro linguaggio è fatto di DVR, DUVRI, DPI, RSPP,
RLS, AQ e ISO9000. L’importante è che tutto sia a norma e che risponda
ai burocratici requisiti imposti dalla legge. A nessuno invece interessa
se gli strumenti funzionano bene, se forniscono risultati interessanti,
se servono per fare ricerca e per insegnare qualcosa agli studenti.
Di nuovo si confonde il mezzo con il
fine. Per portare gli studenti in campagna o in laboratorio, oltre che
di moduli, dobbiamo dotarci di DPI, caschetti, occhiali, scarpe con
suola metallica (che regolarmente si stacca) e altri curiosi accessori
venduti a caro prezzo sul MEPA e sul CONSIP.
Tento di leggere il “
Testo Unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro”
(decreto legislativo 9 aprile 2008 n.81) scorrendo i suoi 306 articoli,
suddivisi in 13 titoli, e i 51 allegati, e non lo capisco. Mi chiedo se
l’introduzione di tutte queste regole abbia prodotto concreti benefici?
Se gli incidenti sono diminuiti? Poi leggo che l’Italia detiene il
record europeo di incidenti sul lavoro.
—
Venti anni fa si stava diffondendo l’uso
della posta elettronica e si apriva un mondo nuovo. Potevamo comunicare
attraverso il computer a costo zero risparmiando tempo, carta e
spostamenti. Immaginavamo un futuro più semplice e più intelligente,
come in effetti si è verificato in tanti altri Paesi.
Oggi in Italia, e solo in Italia, le
comunicazioni istituzionali avvengono mediante PEC. Un sistema
inutilizzabile con le normali applicazioni di gestione delle email, concepito in maniera burocratica e irrazionale, al di fuori di ogni standard internazionale.
L’obbligo della PEC è sancito dalla Legge del 28 gennaio 2009 n.2 “
Conversione
in legge, con modificazioni, del decreto-legge 29 novembre 2008, n.
185, recante misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro,
occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro
strategico nazionale”. Obiettivo raggiunto, non ci sono dubbi! E intanto siamo terzultimi in Europa, davanti a Grecia e Cipro,
per lo sviluppo della banda larga. Ma ci possiamo consolare con la PEC per l’uso della quale siamo primi e unici, in Europa e nel Mondo.
—
Venti anni fa quando si stipulava un
contratto di ricerca si riceveva dalla segreteria una copia del
contratto firmata dalle parti. C’era bisogno di una penna e di una
fotocopiatrice.
Oggi i contratti con la Pubblica
Amministrazione si siglano con firma digitale tramite l’uso di una
costosa macchinetta venduta dalle aziende del CONSIP e utilizzabile solo
dal direttore del Dipartimento. Non c’è verso di fare una copia
dell’atto finale firmato dalle parti. A breve avremo enormi problemi di
rendicontazione e si genererà contenzioso all’infinito. Questo è uno dei
tanti effetti della tanto decantata “digitalizzazione della P.A.”.
L’obbligo di firma digitale deriva dalla legge del 17 dicembre 2012 n.221 “Conversione
in legge, con modificazioni, del decreto-legge n. 179 del 18 ottobre
2012 recante ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese”. Evidentemente avevamo proprio bisogno di questo per rilanciare l’economia ormai in cronica recessione.
—
Venti anni fa per dare il via libera al
pagamento di un bene acquistato, dopo averne verificato la corretta
rispondenza ai requisiti e il funzionamento, si apponeva un visto sulla
fattura.
Oggi sta per arrivare la fattura
elettronica per la Pubblica Amministrazione e non oso immaginare come
faremo a vistarla. Mi immagino dotazioni di apparecchietti, smart card e firme digitali, acquisiti a caro prezzo sul CONSIP.
Si tratta di un’eredità della legge finanziaria 2008 n. 244 del 24 dicembre 2007 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato”,
provvidenzialmente tenuta in sospeso fino al 2014. Adesso che la
fattura elettronica obbligatoria parte per davvero, aspettiamo con ansia
di constatarne i benefici in termini di risanamento del bilancio dello
Stato.
—
Venti anni fa mi ero appena sposato. Io e
mia moglie, entrambi precari, possedevamo due auto italiane, un
motorino italiano, un computer italiano, un costosissimo telefono
cellulare italiano, una TV italiana e un certo numero di
elettrodomestici italiani.
Oggi la mia famiglia possiede due auto giapponesi, uno scooter giapponese, quattro computer americani, tre smartphone americani, due tablet americani, due TV sud-coreane e un certo numero di elettrodomestici tedeschi.
La crisi dell’Università riflette la crisi del nostro Paese. Ne è la cartina di tornasole e l’inascoltato campanello di allarme.
—
Se penso a tutto questo mi sento
responsabile. In questi venti anni ho fatto parte del sistema, sono
stato direttore di Dipartimento e membro del Senato accademico. Mi rendo
conto di non aver fatto abbastanza per contrastare questa progressiva
deriva burocratica che sta inesorabilmente distruggendo l’Università e
la ricerca nel nostro Paese.
In questi venti anni si sono succeduti
al MIUR Ministri di destra e di sinistra, alcuni erano stati Rettori,
molti erano professori. Eppure nessuno ha arginato tutto questo, nemmeno
un po’. L’unico Ministro che ha fatto qualcosa
di buono, a mio parere, è stato il primo: Antonio Ruberti, già Rettore
della Sapienza e padre della legge sull’autonomia universitaria, la
n.168 del 9 maggio 1989 che all’art.6 comma 2 recita:
Nel rispetto dei principi di
autonomia stabiliti dall’articolo 33 della Costituzione e specificati
dalla legge, le università sono disciplinate, oltre che dai rispettivi
statuti e regolamenti, esclusivamente da norme legislative che vi
operino espresso riferimento.
Basterebbe applicare questo semplice
concetto, liberando le Università Italiane da norme vessatorie
sviluppate per altri contesti che con le Università proprio non
c’entrano niente. Si può infatti facilmente verificare
come le leggi che causano burocrazia non sono affatto “norme legislative
che operano espresso riferimento” all’Università e agli Enti di
Ricerca. Esse infatti disciplinano argomenti disparati ed eterogenei,
quali: revisione della spesa pubblica o spending review,
rafforzamento patrimoniale del settore bancario, contratti e appalti
pubblici, salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, normativa antimafia e
anticorruzione, sicurezza e ordine pubblico, provvedimenti anticrisi,
contrasto all’evasione fiscale, immigrazione, asilo politico, missioni
militari all’estero.
A volte penso che basterebbe una circolare del MIUR di poche righe per risolvere magicamente tutto:
Nel rispetto dei principi di
autonomia stabiliti dall’articolo 33 della Costituzione e specificati
dalla legge n.168 del 9 maggio 1989, non si applicano alle Università
tutte le norme genericamente riferite alla Pubblica Amministrazione che
non facciano espresso riferimento alle Università stesse.
Ma non sarebbe giusto. Anche il resto
della Pubblica Amministrazione avrebbe il diritto di essere liberato da
questo pesante fardello di assurdità.
Firenze, 30 maggio 2014