mercoledì 12 maggio 2021

Memi assassini: I Roghi delle Streghe e Altre Follie Popolari

 From "The Seneca effect - di Ugo Bardi


Una moderna interpretazione di Anna Göldi. giustiziata nel 1782 per stregoneria a Glarona, in Svizzera. Si dice che sia stata l'ultima strega giustiziata in Europa, almeno a seguito di un processo. La storia delle grandi cacce alle streghe del XVI e XVII secolo rimane per molti aspetti un mistero. Che cosa ha fatto sì che questa follia si impadronisse delle menti degli europei? Ancora più strano, cosa fece sparire quella follia? Il male sembra avere un ciclo naturale di crescita e declino. È possibile accelerare il declino di un meme assassino se le brave persone si uniscono per rifiutarlo.


Nel 1841, Charles MacKay pubblicò il suo libro, "Delusioni popolari straordinarie e la pazzia delle folle." Fu una pietra miliare: il primo studio del campo che oggi chiamiamo memetica, termine coniato da Richard Dawkins per indicare come le idee ("memi ") si diffondono nella coscienza umana collettiva.  MacKay fu forse il primo nella storia a dichiarare pubblicamente che le grandi cacce alle streghe della fine del XVI e dell'inizio del XVII secolo erano una forma di follia collettiva . Nemmeno Voltaire (1694 - 1778) aveva toccato quell'argomento, nonostante le sue critiche a tutti i tipi di superstizioni religiose

Fra i vari stermini di massa, la guerra alle streghe non è stata la peggiore mai registrata. In Europa, ha causato circa 50mila vittime, in circa un secolo. Ma fu estremamente scioccante e crudele, soprattutto per aver colpito per lo più donne che non avevano la possibilità di difendersi. Oggi, viene ricordata come una forma particolarmente virulenta di follia collettiva. L'espressione "caccia alle streghe" è rimasta addirittura proverbiale. 

Questa fase storica ha generato molti studi nei tempi moderni, per lo più concentrati sulla spiegazione del motivo per cui è iniziata la caccia alle streghe. Le spiegazioni sono molte ma, in generale, si concorda che fosse correlata allo stress generato dalla Riforma e dalle guerre associate. Apparentemente, torturare e uccidere donne era una forma di rilascio dello stress. La mente umana deve avere molti seri problemi, evidentemente, ma questo lo sappiamo già, e non solo a causa della caccia alle streghe.

In ogni caso, è successo quello che è successo e dovremmo essere contenti che non sia durato più di quanto sia durato. Ma questo genera un'altra domanda: cosa ha fatto cessare la caccia alle streghe? È un punto fondamentale: se potessimo capire cosa fa smettere le persone di credere nei memi assassini, potremmo fermarli prima. 

Ma pochi degli studi che esaminano la guerra alle streghe hanno fatto uno sforzo specifico per capire perché la persecuzione è cessata. L'idea generale sembra essere che quando le condizioni che hanno causato la caccia alle streghe sono scomparse, le cose sono tornate al loro stato normale. A volte, si propone anche che l'illuminismo abbia posto fine agli omicidi. Lesson e Ross  (1) hanno proposto nel 2018 che:

"Il diciassettesimo secolo, tuttavia, fu il periodo della rivoluzione scientifica, i cui effetti potrebbero aver alla fine eroso la credenza popolare nella stregoneria, erodendo la richiesta popolare di procedimenti penali per stregoneria insieme ad essa fino a quando i processi alle streghe potrebbero essere finalmente abbandonati facilmente dai produttori religiosi".

Non per screditare uno studio eccellente sotto molti aspetti, ma questa interpretazione mi sembra completamente sbagliata. La pena di morte per le persone riconosciute colpevoli di avvelenamento o danneggiamento di altri aveva l'aspetto di una risposta razionale della società a una minaccia che, all'epoca, sembrava reale e documentata. Durante il XVI e il XVII secolo, la scienza aveva poco o nulla da dire sulla possibilità o meno di avvelenare le persone usando miscele di erbe o altri metodi.

Come dice Chuck Pezeshky, "la verità è la rappresentazione affidabile e valida delle informazioni che consente il coordinamento condiviso dell'azione all'interno di un social network". In alcuni casi, questa rappresentazione sociale coincide con la visione scientifica, ma questa non è la regola e non è nemmeno una cosa comune.  

Scovare le streghe non era soltanto il lavoro degli inquisitori. Dal libro di Trevor-Roper "The European Witch-Craze" (1991) potete capire quanto l'idea della minaccia delle streghe fosse diffusa a tutti i livelli della società. E di quanto intensamente si credesse che eliminare le streghe fosse un dovere sociale, una cosa che tutti dovevano fare per il bene di tutti gli altri. Un leader che non si impegnava nella caccia alle streghe non era considerato un buon leader. In certe regioni, esprimere dubbi sulla bontà dell'idea di sterminare le streghe poteva essere pericoloso per chi lo faceva.

Se la verità è un concetto sociale, allora dobbiamo comprendere la caccia alle streghe in un contesto sociale, nella forma delle entità che chiamiamo memi. Cosa fa vivere e morire i memi? Charles MacKay ci dà un suggerimento interessante quando dice: “Gli uomini, è stato detto, pensano in branchi; si vedrà che impazziscono in branchi, mentre recuperano i sensi solo lentamente, e uno per uno. "  

Come ho detto, MacKay è stato un grande innovatore e questa frase, di per sé, è un'affermazione corretta di come i meme si propagano. Si comportano esattamente come gli agenti patogeni fisici in un'epidemia: sei infettato dagli altri ma ti riprendi da solo. 

In effetti le infezioni memetiche possono essere descritte dalle stesse equazioni utilizzate in epidemiologia, come abbiamo mostrato in un articolo del 2018 insieme alle mie colleghe Ilaria Perissi e Sara Falsini. Le epidemie sono il risultato di feedback interni che, a loro volta, sono il risultato della struttura di rete del sistema. Questa struttura genera i tipici cicli "a campana". I processi di stregoneria sono probabilmente il primo caso storico di un ciclo memetico per il quale disponiamo di dati quantitativi (dati di Leeson e Ross, 2018 (1))). La curva a campana è chiaramente visibile.

Il modello ci dice che la diffusione di un'epidemia memetica è un fenomeno collettivo dovuto al fatto che le persone vengono infettate da altri. Al contrario, l'epidemia diminuisce perché le persone diventano individualmente "immuni" al meme. Il concetto di "immunità di gregge" vale non solo per le epidemie fisiche, ma anche per quelle virtuali. È ciò che alla fine rende la società resistente a questi memi assassini.

C'è un punto ancora più fondamentale sul declino dei meme killer, ben espresso da Trevor-Roper:

Intellettuali e funzionari di terzo grado hanno iniziato a dire che la mania era ingiusta e irrazionale. E quello che hanno detto è stato dato per scontato. Poi è arrivata l'intellighenzia, che ha mostrato che ciò che era stato detto per due secoli era sbagliato a causa di alcuni piccoli dettagli nell'interpretazione delle scritture. E quella fu la fine del processo.

Questa affermazione segna una differenza tra epidemie fisiche e memetiche. Un'epidemia fisica non si preoccupa troppo delle gerarchie umane. Un re può morire di peste proprio come qualsiasi cittadino comune. Ma, in un social network, la propagazione dei meme è influenzata dalla struttura gerarchica: le persone tendono a fidarsi delle autorità. Trevor-Roper ha identificato una verità profonda con la sua dichiarazione: la caccia alle streghe declinò perché la gente comune ("intellettuali e funzionari di terzo grado") iniziò a rendersi conto che il meme era malvagio e che loro (o le loro mogli, sorelle o madri) rischiavano di essere bruciate sul rogo. Quindi cessarono di dar retta ai loro leader e combatterono il meme.

Sembra che se vogliamo fermare i memi malefici, dobbiamo farlo partendo dal basso. Non possiamo riporre troppa speranza in leggi, tribunali, trattati e nobili principi: sono tutti sotto il controllo delle élite e possono essere piegati, trasmogrificati o ignorati. Ma la guerra memetica viene combattuta a tutti i livelli del social network. Le persone comuni possono rimanere stordite per un po' dal trattamento "Shock and Awe" che ricevono, ma a lungo andare capiscono. Non possiamo aspettarci di essere in grado di fermare il male rapidamente, ma un meme malvagio non può durare a lungo quando persone oneste si uniscono per combatterlo. Se la storia è una guida, il male è sorprendentemente fragile.


An meiner Wand hängt ein Japanisches Holzwerk
Maske eines bösen Dämons, bemalt mit Goldlack.
Mitfühlend sehe ich
Die geschwollenen Stirnadern, andeutend
Wie anstrengend es ist, böse zu sein.

Sulla mia parete è appesa una scultura giapponese,
La maschera di un demone malvagio, decorata con lacca dorata.
Con simpatia osservo
le vene gonfie della fronte, indicando
che fatica è essere malvagi.

 Bertolt Brecht 

 

lunedì 10 maggio 2021

Lunga vita per "Medioevo elettrico"


 

 

 Un post di Fabio Vomiero

 

Personalmente concordo molto con la raccomandazione fatta dal prof. Bardi ai lettori/commentatori del suo blog "Medioevo elettrico", un sito molto interessante e peraltro, proprio di recente, rinnovato nel titolo e nelle intenzioni.

E' abbastanza chiaro, infatti, come la collocazione di un blog come questo nel panorama informativo generale non passi soltanto dall'eventuale spessore culturale degli articoli proposti, ma anche, inevitabilmente, dalla qualità degli interventi e delle discussioni che seguono generalmente il post, i quali, più di ogni altra cosa, testimoniano in qualche modo il target di pubblico che l'articolo proposto è riuscito a intercettare.

Sì, perchè ogni tipo di comunicazione non dovrebbe mai essere fine a sè stessa, ma, se fatta consapevolmente, dovrebbe avere sempre lo scopo di raggiungere, nel miglior modo possibile, un certo destinatario, che in questo caso è rappresentato da una certa tipologia di pubblico. Ci si potrebbe per esempio anche rivolgere ad un illusorio "tutti", con il rischio però alla fine di non riuscire a raggiungere paradossalmente nessuno, oppure, come penso sia il caso di "Medioevo elettrico" si possa invece avere in testa veramente una progettualità consapevole, legata sia alla proposta, che al target di pubblico che si vorrebbe tentare di coinvolgere.

Ebbene, il prof. Bardi, nelle sue note, prova chiaramente a definire quale possa essere la linea editoriale del suo blog. Si vuole proporre un taglio che abbia certamente delle velleità di tipo scientifico, o tutt'al più filosofico-scientifico, visto che poi scienza e filosofia non sono per niente delle discipline così estranee tra di loro. E questo è perfettamente condivisibile in quanto la formazione e il background scientifico del prof. Bardi, nonchè le sue spiccate doti comunicative, conducono naturalmente a questo tipo di impostazione, immagino.

Pertanto, appare chiaro come una proposta di questo tipo miri prevalentemente ad un pubblico che, come minimo, nutra almeno un certo interesse e una certa simpatia nei confronti della scienza e soprattutto sposi e condivida, di conseguenza, un certo modo di pensare, di ragionare e di proporsi.

Purtroppo la situazione socio-culturale dominante in questo Paese non è esattamente questa, e credo sia giusto ribadirlo. Forse producono più click e visualizzazioni certi siti di fatto inutili, quando non addirittura dannosi, che parlano magari sfacciatamente di credenze comuni e di complotti, e che mirano a colpire quella parte animalesca di noi che reagisce d'istinto sentendosi minacciata da ogni sorta di presunta provocazione. Basti guardare ai contenuti di Facebook, per esempio, quel grande contenitore olistico dove, simultaneamente, può essere vero tutto ma pure il suo contrario, e dove se pubblichi un pseudoarticolo sulle scie chimiche ricevi centinaia di "mi piace", mentre se pubblichi un articolo raffinato di "Medioevo elettrico", non lo legge nessuno. Troppo serio, troppo impegnativo... Non ho voglia di pensare, non ho tempo di approfondire...

Quindi certo, il prof Bardi ha tutto il mio appoggio se intende sposare una linea editoriale di una certa qualità scientifica dove, per principio logico, non possa affatto essere vero tutto e pure il suo contrario e dove si cerchi veramente, con la saggia consapevolezza di chi non intende diffondere Verità Assolute, ma piuttosto prospettive di conoscenza, di raccontare fatti e non fattoidi, di cui siamo già abbondantemente circondati. Sarebbe bello che su "Medioevo elettrico" si aggiungessero anche altri commentatori esperti e competenti che apprezzino l'offerta e che abbiano voglia di cogliere gli assist intellettuali per contribuire a portare avanti delle discussioni serie di approfondimento, in cui tutti abbiano la possibilità di confrontarsi costruttivamente e di imparare sempre qualcosa di nuovo.

Guardate che non è facile trovare spazi di opportunità di questo tipo.

Ma la comunicazione scientifica, altrimenti chiamata anche e orribilmente "divulgazione", ha però, per sua natura, regole e identità ben precise, l'abbiamo accennato appena sopra. Una di queste riguarda proprio la discussione, a me piace chiamarla "Igiene della discussione". Se si parla di A, si discuta di A e magari della frontiera di A, probabilmente di Z e di B, ma non certo del numero 4, se non c'entra proprio niente.

Quindi, regola numero uno: pertinenza e rilevanza.

Penso che alla fine, escludendo il problema trasversale dell'educazione, che nemmeno voglio nominare, il prof. Bardi intendesse riferirsi proprio a questo.

 

sabato 8 maggio 2021

NOTA PER I COMMENTATORI DEL BLOG "MEDIOEVO ELETTRICO"

 


Una raccomandazione da UB

Lo spazio per i commenti di questo blog raggiunge mediamente poche centinaia di persone, ma è comunque uno spazio pubblico, accessibile a tutti quelli che passano da queste parti. E ho avuto commenti privati da parte di persone che mi dicevano che non è serio che un blog con qualche velleità scientifica accetti dei commenti come quelli che arrivano ogni tanto. Non mi è parso che avessero torto.

Non si pretende che i commenti siano tutti al livello degli articoli revisionati delle riviste scientifiche, ma un pochino di attenzione prima di sparare a caso senza pensarci troppo si potrebbe anche richiedere. Va bene nei social, dove la gente si sbraca come vuole a dire le peggio fesserie, ma a me piacerebbe che questo blog mantenesse uno standard un tantinello più elevato. 

Ci sono e continuano ad arrivare, per la verità, alcuni commenti interessanti e ragionati, ma nella media siamo messi maluccio. A parte quelli i razzisti e offensivi, ne ho cancellato non pochi che mi parevano semplicemente ripetitivi, inutili, non informati, e in generale poco interessanti. 

Vi dico onestamente che sono stato tentato dall'idea di chiudere semplicemente la sezione dei commenti del blog, ma per ora la lascio aperta. Se vi sembra di avere qualcosa da dire che è interessante anche per altre persone, mandatemelo in forma di un post da pubblicare. Non vi garantisco la pubblicazione, ma sicuramente di leggerlo criticamente e di pubblicarlo se lo merita. Altrimenti, per favore, non scrivete semplicemente quello che vi passa per la testa in quel momento. 

Allora, grazie per l'attenzione e vediamo di continuare. 


UB

mercoledì 5 maggio 2021

Idrogeno: I Veicoli Elettrici Sono Molto più Efficienti


Vi passo qui di seguito (cortesia di Veronica Aneris) l' "Executive Summary" del recente rapporto di "Transport and Environment" a proposito dell'idrogeno come combustibile per veicoli stradali. La conclusione è ed era scontata: l'idrogeno semplicemente non è comparabile con le batterie, specialmente in vista della transizione verso le rinnovabili. Tuttavia, sembra che anche le cose scontate debbano essere spiegate ai nostri decisori politici. Quindi ecco il riassunto, per il rapporto completo, questo è il link. .




Executive Summary

Quale deve essere il ruolo dell’idrogeno nel futuro del trasporto su strada? Sempre più frequentemente ne sentiamo parlare come soluzione strategica per la decarbonizzazione del settore. L’attenzione al tema si è intensificata notevolmente negli ultimi mesi in seno al dibattito sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Tuttavia, malgrado la centralità che gli viene conferita, i limiti dell’utilizzo dell’idrogeno come soluzione per decarbonizzare il trasporto su strada sono molteplici e noti da tempo.

Primo fra tutti l’efficienza energetica, che nel caso dei veicoli a idrogeno a celle combustibili è meno della metà rispetto agli elettrici a batteria. L’idea di utilizzare l’idrogeno come vettore energetico non è nuova. L’enfasi nei confronti dell’“economia basata sull’idrogeno” risale all’ottimismo degli anni ‘50 quando l’energia nucleare aveva fatto nascere il sogno - mai divenuto realtà - di un'energia abbondante e a basso costo. Un secondo - temporaneo - picco di interesse nei confronti di questa tecnologia si è manifestato con l'avvento delle energie rinnovabili nei primi anni del 21esimo secolo. Quello che ha sempre tagliato le gambe all’idrogeno è stata la bassa efficienza associata al processo di produzione, distribuzione ed utilizzo.

Oggi la presa di coscienza politica nei confronti della crisi climatica in atto e la necessità di decarbonizzare l’economia in tempi brevi ha generato un nuovo ritorno di interesse nei confronti di questa tecnologia. Di fatto l’idrogeno verde, prodotto al 100% da fonti rinnovabili, può rappresentare una soluzione importante nel complesso puzzle delle differenti tecnologie che si renderanno necessarie per raggiungere l’obiettivo europeo di zero emissioni nette al 2050. Se da un lato il tallone d’Achille dell’idrogeno - la sua bassa efficienza - resta uno dei limiti principali al suo sviluppo, dall’altro l'imprescindibilità dell’obiettivo di decarbonizzazione potrebbe giustificarne l’utilizzo in quei settori dove non esistono alternative migliori, più efficienti e meno costose, come ad esempio i settori hard-to-abate o l’aviazione.

L’impellenza di effettuare rapidamente la transizione ad un’economia climaticamente neutrale ha però messo in campo una nuova sfida di portata considerevole: il dispiegamento in tempi brevi di grandi quantità di energia rinnovabile. Questo obiettivo è particolarmente sfidante per il nostro paese, per il quale la velocità di installazione di rinnovabili è largamente inferiore a quella necessaria per raggiungere gli obiettivi climatici 2030 e 2050. L’attuale frazione di energia rinnovabile prodotta è troppo piccola e troppo preziosa perché si possa pensare di sprecarne oltre la metà in processi inefficienti quando vi sono alternative migliori. Se l’impegno dei governi a raggiungere la neutralità climatica è serio, l’efficienza energetica non può certo essere un’opzione e va messa al primo posto. Il criterio alla base della scelta di qualsiasi percorso di decarbonizzazione deve essere quello di favorire - ove possibile - l’impiego di tecnologie a maggior rendimento, minimizzando la necessità di energie rinnovabili addizionali necessarie per raggiungere l’obiettivo di zero emissioni nette.

Per il trasporto su strada, che nel frattempo ha visto l’affermazione della mobilità elettrica, largamente più efficiente, meno costosa e già tecnologicamente matura per molti segmenti, l’utilizzo dell’idrogeno non è giustificabile, se non in applicazioni di nicchia, né lo è lo spazio che esso occupa nel dibattito politico attuale italiano sulla transizione energetica. Non a caso alcuni emeriti esponenti della comunità scientifica italiana hanno definito “follia energetica” l’attenzione dedicata all’idrogeno nella definizione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza per tutti quei settori che non siano specificatamente nautica, aeronautica e grandi produzioni industriali (Energia per l’Italia, 2021).

Molte sono inoltre le questioni che ruotano intorno al tipo di idrogeno utilizzato, i costi di produzione e trasporto, e la prontezza commerciale dei veicoli. Questo briefing ha l’obiettivo di fornire alcune informazioni di base rispetto all'attuale catena di produzione, trasporto e distribuzione dell'idrogeno, lo stato dell’arte del mercato e l’eventuale ruolo che può giocare nella decarbonizzazione del trasporto terrestre.

La lettura dei documenti, dei progetti, delle esperienze e della letteratura tecnica e scientifica relativa alle applicazioni dell’idrogeno, quale vettore e stoccaggio energetico, nel settore dei trasporti terrestri, dimostra che non costituisce una strada percorribile e utile per la decarbonizzazione del settore. Anzi, nel caso di competizione tra risorse scarse, è di ostacolo ad altre alternative ambientalmente ed economicamente preferibili, come l’elettrificazione.

Per i veicoli leggeri la risposta alla decarbonizzazione è rappresentata dalla tecnologia elettrica a batteria e in questo senso il mercato ha già deciso. Per i veicoli pesanti, le economie di scala associate al rapido sviluppo del mercato delle auto elettriche amplificano il business case per i camion a batteria e sempre più numerosi sono gli annunci dei produttori di camion sulla messa in produzione di serie di autocarri elettrici, mentre i camion a idrogeno sono ancora in fase prototipale e bisognerà attendere almeno il 2026 per vederne la messa in produzione di serie in Europa.

Per il trasporto merci di lungo raggio (>500km) non è ancora chiaro se la mobilità elettrica sarà in grado di avere tutti i requisiti necessari per sopperire alle esigenze della logistica merci in termini di autonomia e tempi di ricarica. Ma il buon senso da un lato e lo stato dell’arte attuale della tecnologia e del mercato dall’altro indicano che il ruolo dell’idrogeno nella decarbonizzazione del trasporto su strada, se mai ne avrà uno, resterà limitato ad applicazioni di nicchia (decine di migliaia di mezzi, rispetto a milioni). Per queste ragioni è opportuno sviluppare ricerche e sperimentazioni, ma non accettabile lo sviluppo di progetti industriali, come per altro emerge con evidenza dai pochi progetti concreti tra le proposte del PNRR.


Rapporto completo

venerdì 30 aprile 2021

La bellezza salverà il mondo

 

Di Bruno Sebastiani

La frase di Dostoevskij “La bellezza salverà il mondo” (L’Idiota, parte III, capitolo V) è stata interpretata in un’infinità di modi e ha fornito spunto per un gran numero di dibattiti.

Diego Fusaro, nel corso di una conferenza tenutasi a San Pellegrino Terme nel 2015 (ora presente su Youtube), ha dissertato egregiamente su questa pluralità di impieghi che ne è stata fatta.

Io qui vorrei fornire la mia interpretazione personale, non necessariamente coincidente con quella del grande romanziere russo, sempre che Dostoevskij ne abbia avuta una e non abbia posto la locuzione in bocca ai suoi personaggi unicamente come “frase a effetto” (nel corso della narrazione l’argomento non viene approfondito).

In un recente post su Facebook ho scritto: “È tempo di utilizzare l’arte per divulgare la consapevolezza della nocività del genere umano per la Terra. Le idee faticano a farsi strada, e allora proviamo a dipingere, cantare, fotografare, declamare, scolpire, rappresentare in ogni modo questa nostra negatività per il pianeta, ciascuno con le proprie abilità.

Ecco questa per me è la “bellezza” che può, anzi deve, tentare di frenare la nostra folle corsa verso il baratro. Chiamiamola “bellezza”, “estetica” o “arte”, qualunque sia il suo nome fa riferimento a categorie del pensiero distinte e distanti da “ragione”, “logica” e “scienza”. E se queste ultime sono indubitabilmente le responsabili dell’estremo degrado ambientale in cui ci troviamo, perché non utilizzare nella nostra azione di contrasto le facoltà della mente non coinvolte nell’attuale ecocidio, quelle che nel corso della storia hanno invano tentato di arginare la crescente marea scientista?

Queste facoltà si esprimono con il linguaggio dell’arte: pittori e scultori hanno sempre tratto ispirazione dal mondo della natura, poeti e musicisti si sono sempre rivolti a quella “categoria dello spirito” che si chiama “sentimento”.

Nella mia raffigurazione della mente umana il sentimento non è altro che l’istinto sublimato dalla ragione, laddove per istinto intendo tutto ciò che ci deriva direttamente dalla natura, senza alcuna intermediazione di tipo “culturale” o “razionale”.

La ragione, sempre secondo la teoria che sostengo, è invece quel “surplus” di intelletto procuratoci da occasionali alterazioni geniche verificatesi nel corso dell’evoluzione, “surplus” da noi utilizzato per dar vita al mondo “artificiale” giustapposto a quello “naturale” (come la neocorteccia è sovrapposta al cervello limbico e a quello rettiliano …).

Se la ragione ha causato i guai che ben conosciamo, dalla sovrappopolazione all’esaurimento delle risorse (ecc. ecc.), è purtuttavia vero che solo la ragione può tentare di porre rimedio a tali guai, essendoci preclusa la via del ritorno allo stato di natura dalle troppe modifiche intervenute nel tempo ai danni del nostro organismo e dei nostri assetti sociali.

Ma ogni tentativo di riparazione prima di essere intrapreso deve essere desiderato.

Ed ecco il ruolo dell’arte: rappresentare la bellezza del mondo della natura e la mostruosità del mondo artificiale al punto da eccitare i sentimenti umani verso il desiderio della riparazione.

L’atto estetico va poi razionalizzato e tradotto in pratica riparatoria. Ma, senza la scintilla per l’innesco del processo “revisionista”, nulla di veramente decisivo può prendere avvio.

Qualcuno osserverà che molti uomini di buona volontà e tanti potenti del mondo hanno già preso coscienza della necessità di modificare i nostri comportamenti nei confronti dell’ambiente, come dimostrano numerose iniziative individuali e svariati accordi internazionali.

C’è il dubbio che tali prese di coscienza nascondano talvolta altrettante operazioni di facciata, destinate a consentire la prosecuzione dell’attuale modus vivendi a cuor leggero, con la coscienza risciacquata nella tinozza della green economy.

Ma pur senza voler pensare male e dando credito alla buona volontà dei singoli e delle istituzioni, appare evidente come le iniziative sin qui intraprese siano del tutto insufficienti a riparare i danni causati all’ambiente. La prova più macroscopica è fornita dalle difficoltà incontrate a raggiungere gli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi del 2015, a proposito del quale è interessante notare come il maggior contributo alla riduzione delle emissioni dei gas serra è stato fornito non tanto dalle iniziative degli Stati firmatari quanto dallo stop alle attività produttive imposto dalla dilagante pandemia.

Comunque sia, lo stimolo che le opere d’arte possono offrire alle moltitudini e alle classi dirigenti è sempre della massima importanza, anche laddove la spinta al cambiamento appaia sinceramente avviata: essa infatti va convintamente sostenuta contro i rigurgiti egoistici di specie che non mancano mai di manifestarsi.

Al fine di dare il buon esempio, come promotore della teoria cancrista ho rivolto un appello agli amici artisti che condividono con me la convinzione della nostra nocività per la biosfera e ho creato un’apposita pagina del mio blog con alcuni contributi illustrativi al riguardo. Un primo manipolo di pittori, poeti e musicisti ha già risposto all’appello, e precisamente:

-        Mario Giammarinaro, pittore (con le sue maree nere ha denunciato i danni dell’inquinamento)

-        Massimo D’Arcangelo, ecopoeta (“Il cancro del Pianeta siamo noi / ma il messaggio è omesso / vietato, nascosto alle masse”)

-        Maicol MP, musicista (L’uomo come cancro del Mondo)

-        Andrea Rayquaza Di Sanzo, cantautore rap (Autodistruzione)

-        Marco Sclarandis, scrittore e poeta (Mai ci parlerà l’aragosta)

-        Mario Famularo, poeta (“quest’uomo senza pace / è il cancro della terra”)

-        Cristina De Biasio, pittrice (tra le sue opere: Nuovo mondo, dopo l’estinzione umana)

-        Gabriele Buratti (Buga), pittore, fotografo e scultore (“Dal linguaggio rupestre a quello freddo e inumano dei codici a barre, la semiologia ha fatto un salto che allontana sempre più l'uomo dal mistero del sacro impadronendosi del nostro immaginario collettivo attraverso il mondo dell'economia.”)

Sono consapevole che i pochi nomi citati siano quantitativamente un’inezia rispetto al gran numero di artisti che stanno tentando di raffigurare i danni da noi procurati alla natura.

Ma l’elemento che mi preme mettere in rilievo è l’importanza dell’unificazione degli sforzi in vista di un fine comune. Il singolo artista segue la sua ispirazione e, poiché ogni vero artista non può che essere in buona fede, certamente la sua rappresentazione del mondo rispecchia la drammatica situazione che stiamo vivendo.

Il rischio è che sia interpretata come la visione di un pittore, poeta o musicista isolato, come lo sfogo di una singola anima afflitta dal tormento per il brutto che avanza.

Il che non significa che ogni opera d’arte debba esprimere afflizione e sofferenza. Anzi. L’inno alla vita, la gioia per la natura che rifiorisce, l’esaltazione dell’amore per tutti gli esseri viventi sono altrettanti potenti eccitatori da contrapporre all’avidità del guadagno, al freddo calcolo della ricerca scientifica, alle brutalità compiute ai danni del mondo animale e vegetale.

Ma in un caso o nell’altro (esaltazione del bello o denigrazione del brutto) ciò che conta è l’obiettivo da raggiungere e cioè la graduale conversione dell’umanità a nuovi stili di vita.

Altre forze spingeranno nella medesima direzione e purtroppo saranno violente, come quelle che la natura offesa scatenerà sotto forma di tempeste, uragani, innalzamento dei mari e così via.

Anche per tentare di prevenire queste catastrofi è opportuno che il maggior numero possibile di persone si convinca quanto prima della necessità del cambiamento e, se gli argomenti razionali non sono in grado di generare questo convincimento, l’arte, o meglio, l’azione congiunta di tutti gli artisti, può forse ottenere risultati migliori, può forse “salvare il mondo”.

Mi faccio quindi interprete del pensiero (vero o presunto) di Fedor Dostoevskij e chiedo a tutti gli uomini che hanno orientato la loro attività in campo artistico (compresi gli autori teatrali e cinematografici, i fotografi, gli architetti, i romanzieri, i compositori musicali, i writers ecc.) di riconoscersi in questo comune sforzo di cambiamento globale.

Oggi forse il ruolo dell’arte appare offuscato rispetto ai secoli passati, come se la sua voce fosse sovrastata dal frastuono del traffico metropolitano, cionondimeno mi auguro che pittori, poeti e musicisti prendano sempre più coscienza del loro ruolo di “grilli parlanti” capaci di smuovere la coscienza collettiva dell’umanità e che promuovano questo nuovo romanticismo all’insegna del motto “la bellezza salverà il mondo”.


lunedì 26 aprile 2021

"La Locomotiva." La Parabola della Sinistra Italiana

 

 Francesco Guccini "La Locomotiva" (1972)


Il recente "manifesto" a favore del ministro Roberto Speranza non meriterebbe grande attenzione, di per se. Ma merita qualche considerazione per il fatto che lo hanno firmato molti membri della sinistra storica italiana, incluso Francesco Guccini.

Guccini.... un eroe della sinistra che io e tanti altri ci ricordiamo soprattutto per la sua canzone "La Locomotiva" del 1972. E, ripensandoci sopra, come per tante cose che una volta ci sembravano belle e intelligenti, ahimé, si vede quanto sono terribilmente invecchiate.

"La Locomotiva," la storia di un anarchico, un eroe che Guccini si immagina "giovane e bello." Uno che si impadronisce di una locomotiva e si lancia "a bomba contro l'ingiustizia" contro un "treno pieno di signori" perché "trionfi la giustizia proletaria."
 
Risentita oggi, questa canzone di Guccini non è gran cosa dal punto di vista musicale. Ma il successo che ha avuto negli anni ha delle ragioni. La canzone ha una sua forza che sta soprattutto nell'immagine della vera protagonista: la locomotiva.
 
Sentendo la canzone ci sentiamo a bordo della creatura che "divora la pianura", "un giovane puledro"  che "morde la rotaia con muscoli d' acciaio." E poi, la storia dell'eroe si intreccia perfettamente con la furia crescente della locomotiva che va sempre più veloce verso il suo destino, finche, nella scena finale, il mostro si autodistrugge con "un grido di animale," "eruttando lapilli e lava". Dell'eroe, sappiamo che "lo raccolsero che ancora respirava."

Si capisce perché la canzone ha avuto tanto successo. C'era dentro tutto l'idealismo della sinistra italiana del tempo delle rivolte giovanili del '68. La libertà, la giustizia, il sacrificio personale, la voglia di cambiare la società. Tutte cose che affascinavano quelli che hanno vissuto quei giorni, quando sembrava davvero che si potesse cambiare qualcosa.
 
Purtroppo, l'idealismo è sempre a un passo di distanza dal fanatismo e, in fondo, la canzone della locomotiva di Guccini ci racconta la storia della sinistra italiana in modo curiosamente profetico. Proprio come la locomotiva, la sinistra era partita in una folle corsa alla ricerca della "giustizia proletaria" non importa in che modo e non importa con che mezzi. Il risultato è stato un periodo di vera violenza, gli "anni di piombo." 
 
Certamente, non tutto quello che è successo in quegli anni era da attribuire alla sinistra, e forse nemmeno la maggior parte di quei tragici eventi. Ma tutto era adombrato già nel messaggio della canzone, con l'eroe che voleva compiere una strage ammazzando persone che lui definiva "signori,"  ma che, ammesso che lo fossero, includevano i macchinisti e il personale del treno contro il quale si era lanciato, necessariamente suoi fratelli proletari. 
 
Oggi, quelli che si comportano in questo modo li chiamiamo giustamente terroristi. Il termine è abusato, certo, ma indica bene quelli che ammazzano la gente per imporre la loro ideologia, o religione, o che altro di bacato che hanno in testa. E' la base del totalitarismo, una cosa che non implica necessariamente la violenza, ma che è tipica della sinistra: l'incapacità di accettare il dissenso. Ovviamente, non è solo la sinistra ad essere totalitaria -- diciamo che ci tengono altrettanto (e forse un tantino di più) di altre forze politiche. 
 
Alla fine, in ogni caso, l'ondata della sinistra italiana si è esaurita senza gridi animaleschi, e senza eruttare lapilli e lava incandescente, ma sicuramente lungo un binario morto. La sinistra è invecchiata alla ricerca della sicurezza economica, del posto statale garantito, della pensione tranquilla, della "sicurezza," senza ricordarsi che era stato detto che "un popolo che rinuncia alla sua libertà in nome della sicurezza perde entrambe le cose". 
 
E si è visto bene come è invecchiata la sinistra con questo "manifesto" in favore di un burocrate politicizzato, Roberto Speranza, che ha fatto a pezzi la Costituzione in nome della sicurezza, senza nemmeno riuscire a ottenerla, ma in compenso distruggendo la vita e il benessere di tante persone. Perlomeno, l'eroe della canzone di Guccini metteva la propria vita in gioco, ma questo non è certo il caso di Speranza
 
Tutto invecchia, sia le idee che le persone. Non è detto che si debba per forza invecchiare male, ma peggio di così mi sembra difficile. 
 
 
 
 

martedì 20 aprile 2021

Il Medioevo Illuminato: Prepariamoci a un Nuovo Modo di Gestire la Società

 

Il concetto di "ritorno al Medio Evo" si sta facendo sempre più diffuso. Non per niente, da il titolo a questo blog: dobbiamo cominciare a pensare seriamente non tanto a un "ritorno" al Medio Evo ma a un "Nuovo Medio Evo" che prenda dal vecchio le sue caratteristiche migliori, in particolare la gestione della società basata sulla giustizia e non sulla violenza, la decentralizzazione delle strutture di governance, l'economia basata su risorse locali, e la stabilità economica. Qui, ne parla Luisella Chiavenuto in un post apparso su "Umanesimo e Scienza"

Di Luisella Chiavenuto


Nonostante il suo successo e potere, la credibilità e la dignità della Scienza sono ai minimi storici.

Non si tratta più di opporsi solamente ad una gestione della crisi covid, ma anche - e nel contempo - opporsi ad una tecnocrazia scientista e disumanizzante che in assenza di opposizione non farà passi indietro - a prescindere da covid e varianti.

In un quadro di evaporazione dei posti di lavoro, l'assetto sociale si baserà molto probabilmente su un reddito di cittadinanza esteso - e subordinato a determinati comportamenti sociali.

Questo per mantenere livelli minimi di consumo e consenso - e unito ad un ulteriore sviluppo e aggiornamento del modello economico attuale - che sta distruggendo ovunque la rete della vita.



PROSPETTIVE FUTURE : MEDIOEVO ILLUMINATO ?

La prospettiva è quindi di lungo respiro: resistenza ed elaborazione di nuovi modelli di pensiero e di organizzazione sociale, volti alla riscoperta delle radici culturali del passato, e nel contempo orientati verso un futuro dal volto umano - in cui saperi teorici e pratici si intreccino ed evolvano liberamente, senza preconcetti spazio-temporali.

E' anche importante sostenere la trasversalità politica di intenti, che in piccola o grande misura già esiste nelle persone, all'interno di ogni organizzazione. Questo per rallentare i crolli sistemici, dando così tempo all'emergere di organizzazioni radicalmente diverse da quelle attuali. E ricordando che questa trasversalità esiste soprattutto fuori dai partiti e dalle istituzioni - nella maggioranza dei "politicamente disperati".

Per consentire una massima flessibilità - e fiducia "ontologica" - nel rispondere ai crolli sistemici in atto, si può forse pensare ad una sorta di "medioevo illuminato" in cui - per citare A.Langer e prima di lui altri - si ricerca tutto ciò che è "lento, dolce e profondo" - in un quadro di povertà materiale che sarà per molti condizione obbligata e dolorosa, ma insieme opportunità di rinascita diversa.



SCONTRO TRA PARADIGMI CULTURALI E SCIENTIFICI DIVERSI

In sintesi, si potrebbe parlare di resistenza contro una Tecnoscienza votata alla riprogrammazione bio.informatica e bio.ingegneristica della natura, e della vita, in ogni sua forma - una tecnoscenza in preda a un delirio di onnipotenza ed esaltazione, nel suo fondo oscura e disperata, perchè volta alla distruzione della nostra stessa natura umana.

A questa Tecnoscienza Riduttivista, si può opporre un nuovo Umanesimo della Complessità, che includa anche il meglio del pensiero Scientifico - ma su un piano di pari dignità culturale e politica.

E con la consapevolezza sia della grandezza, sia del lato oscuro, e dei crimini, di cui sono intessuti tutte le culture e tutte le correnti culturali - comprese ovviamente tutte quelle contemporanee.

Un Umanesimo della Complessità, dunque, basato su una Saggezza che si può definire non-duale, in quanto orientata alla ricomposizione delle fratture che attraversano e frammentano la nostra vita, la nostra psiche, la realtà in tutti i suoi livelli interconnessi.



INCONTRO TRA BIO-DIVERSITA' COLLABORANTI

Quindi lo scontro tra paradigmi culturali opposti deve essere, nel contempo, anche incontro umano e intellettuale tra le persone là dove possibile - e oltre l'impossibile - per superare e ricomporre le lacerazioni.

Questo significa anche sostenere sia la libertà di spostamento di tutti in ogni luogo, sia la libertà di rimanere nella propria terra e cultura di origine.

In definitiva, significa tendere a superare radicalmente la dicotomia amico/nemico, e avere il coraggio di parlare di empatia e fraternità universale, come ideale etico e politico - in un orizzonte di bio-diversità collaboranti.

Ideale etico, ma anche acquisizione intellettuale, unificante e non ingenua - in grado di tentare risposte globali e locali, a problemi che sono affrontabili solo su entrambi i versanti interconnessi.

Siamo all'altezza di questi compiti? Ovviamente no, nessuno lo è, inutile insistere.... e allora possiamo essere - e fare - quello che riusciamo e possiamo, accettando i nostri limiti.

Ma considerando anche che siamo un mistero a noi stessi, e che quindi le nostre risorse individuali e collettive sono in definitiva insondabili, come la vita stessa.

Luisella Chiavenuto aprile 2021